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Periodi di riposo al padre lavoratore dipendente Sono riconosciuti i periodi di riposo, ai sensi degli artt. 39 e 40 del D.Lgs. 151/2001, al padre lavoratore dipendente (del minore di anni uno) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. Plen., 28 dicembre 2022, n. 17.  

I Giudici ricordano che: “I periodi di riposo di cui all’art. 39 del D.Lgs. 151/2001 rientrano nel novero dei diritti riconosciuti in attuazione del valore costituzionale tutelato dalla funzione genitoriale, cui si riconnettono: 

  •  sia le responsabilità di entrambi i genitori nei confronti del figlio (naturale o adottivo), e dunque il diritto dei medesimi ad ottenere dall’ordinamento il riconoscimento delle migliori condizioni possibili onde assolvere ad una funzione non solo individuale, ma anche socialmente fondamentale;
  • sia, specularmente, il diritto del figlio ad ottenere, per il tramite dell’assistenza dei genitori, ottimali condizioni di crescita e di sviluppo della sua età evolutiva”.

Ed invero, l’esercizio della funzione genitoriale tende sia alla piena realizzazione dei diritti del bambino ad ottenere la migliore assistenza da parte dei genitori sia a costituire espressione del diritto “proprio” di ciascuno dei genitori, quale espressione della loro personalità, ad accompagnare la crescita del figlio.

Occorre, dunque, prendere le mosse dell’art. 40 del D.Lgs. 151/2001, che prevede la fruizione dei riposi orari del padre lavoratore nei casi: a) in cui i figli siano affidati al solo padre; b) in cui la madre lavoratrice non se ne avvalga; c) in cui la madre non sia lavoratrice dipendente; d) di morte o di grave infermità della madre.

La giurisprudenza si è interrogata se il diritto ai riposi orari spettasse anche nel caso in cui la madre fosse una casalinga; dunque, se potesse rientrare nel novero di “madre non lavoratrice dipendente”.

Sul punto vi sono stati diversi indirizzi interpretativi.

Secondo un primo indirizzo positivo, con “madre lavoratrice dipendente” si ricomprendono tutte le ipotesi in cui non esiste un rapporto di lavoro dipendente, dunque sia il caso della lavoratrice autonoma sia il caso della donna che non svolga alcun lavoro nonché il caso della donna che svolga un’attività non retribuita (come appunto la casalinga).

Orbene, la ratio della disposizione si individuava nel principio della paritetica partecipazione di entrambi i genitori alla cura e all’educazione della prole, così come enunciato nei precetti costituzionali contenuti negli artt. 3, 29, 30 e 31.

Per quanto attiene all’orientamento negativo, il principio di alternatività nella cura del minore andrebbe escluso in termini assoluti e non sarebbe possibile ricondurre la casalinga alla condizione di non lavoratrice dipendente. Interpretazione che si fonda sulla ricerca del necessario equilibrio tra il diritto-dovere di entrambi i coniugi di assistere i figli e le specifiche esigenze del datore di lavoro.

Si è poi affermato un indirizzo intermedio, secondo il quale il padre ha diritto ai permessi solo nel caso in cui dimostri che la moglie casalinga è impossibilitata ad assicurare le necessarie cure al bambino.

Tale contrasto interpretativo induceva la Seconda Sezione del Consiglio di Stato a deferire la questione all’Adunanza Plenaria, che osservava come: “i periodi di riposo di cui all’art. 39 rientrano nel novero dei diritti riconosciuti in attuazione del valore costituzionalmente tutelato della funzione genitoriale”.

Escludere il diritto del padre alla fruizione dei riposi in caso di presenza nel nucleo familiare della madre casalinga, comporterebbe un’irragionevole privazione del diritto del padre lavoratore dipendente, non giustificata dal testo della norma che nella sua chiarezza non consente interpretazioni riduttive.

Da quanto sin qui esposto, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha enunciato il principio di diritto secondo cui: «L’art. 40, comma 1, lett. c), D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità), laddove prevede che i periodi di riposo di cui al precedente art. 39 sono riconosciuti al padre lavoratore dipendente del minore di anni uno, “nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”, intende riferirsi a qualsiasi categoria di lavoratrici non dipendenti; e quindi anche alla donna che svolge attività lavorativa in ambito familiare, senza che sia necessario, a tal fine, che ella sia impegnata in attività che la distolgano dalla cura del neonato, ovvero sia affetta da infermità».

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. civ., sez. lav., 28 novembre 2019, n. 31137;
Cons. Stato, sez. III, 10 settembre 2014, n. 4618;
Cass., civ., sez. III, 20 luglio 2010, n. 16896; Id., 24 agosto 2007, n. 17977;
Id., 20 ottobre 2005, n. 20324
Difformi:      Cons. Stato, sez. II, 4 marzo 2021, n. 1851;
Cons. Stato, sez. IV, 30 ottobre 2017, n. 499;
Cons. Stato, sez. I, 22 ottobre 2009, n. 2732
monte orario tariffe avvocato

Avvocato: senza accordo sul monte orario si ricorre alle tariffe La mancata dimostrazione del monte orario per lo svolgimento dell’incarico professionale non impedisce al giudice di ricorrere alle tariffe per la determinazione del compenso

Monte orario in mancanza di patto

Il contenzioso sul quale la Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi, con ordinanza n. 3492-2024, ha avuto ad oggetto, in mancanza di un accordo sul del monte orario, la determinazione del compenso professionale spettante ad un’associazione di avvocati nei confronti dell’attività dalla stessa svolta in favore del proprio cliente.

Avverso la decisione adottata dalla Corte di Appello di Milano, con cui l’associazione di professionisti era stata condannata alla restituzione di quanto versato dal proprio cliente, la parte soccombente aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di cassazione, contestando il fatto che i giudici del merito avessero ritenuto, rispetto al caso di specie, di non poter dare applicazione alle tariffe professionali ai fini della quantificazione del compenso.

Sul punto, la ricorrente ha in particolare affermato che il giudice è “tenuto a determinare il compenso con criterio equitativo, indipendentemente dalla specifica richiesta del professionista e dalla carenza delle risultanze processuali sul quantum”.

Criterio pattizio: mero criterio di quantificazione del compenso

La Suprema Corte, con la sopracitata sentenza, ha accolto il ricorso proposto dall’associazione, ritenendolo fondato.

La Corte ha motivato la propria decisione facendo riferimento alla recente giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto, secondo cui, in tema di compensi professionali, la norma architrave, data dall’art. 2233 cod. civ “a tenore della quale il compenso dovuto per la prestazione d’opera intellettuale, se non è convenuto dalle parti e se non può essere stabilito secondo le tariffe o gli usi, è determinato dal giudice, sentito il parere dell’associazione professionale a cui il professionista appartiene, pone una gerarchia di carattere preferenziale tra i vari criteri di determinazione del compenso”. Medesimi criteri valgono per il caso in cui il professionista svolga attività stragiudiziale.

Sulla scorta di quanto sopra riferito, ha evidenziato la Corte “la mancata dimostrazione del monte orario occorso per lo svolgimento dell’incarico impedisce esclusivamente l’applicazione del parametro pattizio, il quale costituisce mero criterio di quantificazione del compenso non incidente sull’an del credito, ma non inibisce al giudice il potere di ricorrere al criterio residuale delle tariffe”.

Ne consegue, a giudizio della Suprema Corte, che i giudici del merito hanno errato nel ritenere che il compenso del professionista potesse essere quantificato esclusivamente facendo ricorso alle tariffe orarie, omettendo di liquidare gli onorari spettanti in ragione della mancata dimostrazione di tale presupposto.

Sulla scorta di tali argomentazioni, il Giudice di legittimità ha pertanto ritenuto fondato il motivo posto a fondamento del ricorso e ha cassato la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Milano.

Allegati

inammissibilità ricorso Cassazione

Inammissibilità ricorso Cassazione Il ricorso in Cassazione è inammissibile per diverse cause, alcune sancite dalla legge, altre dalla giurisprudenza

Definizione di inammissibilità

L’inammissibilità del ricorso in Cassazione richiede un chiarimento preventivo. Nel diritto processuale un atto è inammissibile quando non presenta i requisiti richiesti dalla legge. Tale vizio è considerato così grave da impedire al giudice di prendere in esame la richiesta avanzata dalla parte. Traslando questo concetto al ricorso in Cassazione, esaminiamo le ipotesi più emblematiche in cui la legge e la giurisprudenza sanciscono l’inammissibilità del ricorso in Cassazione.

Inammissibilità del ricorso in Cassazione: art. 360 bis c.p.c.

La prima norma che si occupa della inammissibilità del ricorso in Cassazione è l’articolo 360 bis c.p.c. Esso dispone, nello specifico, che il ricorso in Cassazione è inammissibile in due distinte ipotesi:

  • quando il provvedimento che viene impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo del tutto conforme all’indirizzo giurisprudenziale della Corte di Cassazione e dall’esame dei motivi non emergono elementi che possano condurre alla conferma o al mutamento di detto orientamento;
  • quando la censura sollevata dal ricorrente relativa alla violazione dei principi che regolano il giusto processo risulta manifestamente infondata.

La norma, introdotta nel 2009, consente di effettuare una selezione rigorosa dei ricorsi con lo scopo di ridurre il carico di lavoro della Corte di Cassazione.

Sottoscrizione del difensore e procura speciale

Un’altra causa di inammissibilità del ricorso in Cassazione è contemplata espressamente dall’art. 365 c.p.c La norma richiede infatti che il ricorso diretto alla Corte di Cassazione sia sottoscritto, a pena di inammissibilità, da un difensore iscritto nell’apposito albo degli avvocati Cassazionisti e che lo stesso sia munito di procura speciale che può avere la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata (art. 83 c.p.c).

Inammissibilità del ricorso per ragioni di contenuto

Un’altra causa di inammissibilità del ricorso in Cassazione è contemplata dall’art. 366 c.p.c che si occupa del contenuto di questo atto. La norma dispone infatti che il ricorso, a pena di inammissibilità, debba contenere i seguenti dati:

  • l’indicazione delle parti della controversia;
  • l’indicazione della sentenza oggetto del ricorso in Cassazione;
  • l’esposizione chiara dei fatti di causa che risultano essenziali per l’illustrazione dei motivi del ricorso;
  • l’esposizione chiara e sintetica dei motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza e l’indicazione delle norme sulle quali detti motivi si fondano;
  • l’indicazione della procura, se la stessa è stata conferita con un atto separato e del decreto con cui il ricorrente è stato ammesso al patrocinio gratuito;
  • l’indicazione specifica, per ogni motivo, degli atti del processo, dei documenti e dei contratti collettivi sui quali il motivo sollevato si fonda e l’illustrazione del contenuto rilevante di questi atti, documenti e contratti.

La necessità di produrre i documenti indicati dall’art. 366 c.p.c (anche in un momento successivo rispetto al ricorso) a pena di inammissibilità, è ribadita dall’art. 372 c.p.c. Questa norma precisa infatti che: “1. Non è ammesso il deposito di atti e documenti non prodotti nei precedenti gradi del processo, tranne di quelli che riguardano la nullità della sentenza impugnata e l’ammissibilità del ricorso e del controricorso. 2. Il deposito dei documenti relativi all’ammissibilità può avvenire indipendentemente da quello del ricorso e del controricorso, fino a quindici giorni prima dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio”. 

Cause giurisprudenziali di inammissibilità del ricorso in Cassazione

A queste cause di inammissibilità del ricorso in Cassazione se ne aggiungono di ulteriori, alcune delle quali precisate direttamente dalla Corte Suprema di legittimità. Vediamone alcune tra le più recenti.

Cassazione n. 3018/2024

L’inammissibilità del ricorso, spedito per la notificazione a mezzo posta, senza che risulti versato in atti l’avviso di ricevimento del piego raccomandato. Costituisce, invero, principio consolidato che << la produzione dell’avviso di ricevimento del piego raccomandato contenente la copia del ricorso per cassazione spedito per la notificazione a mezzo del servizio postale è richiesta dalla legge in funzione della prova dell’avvenuto perfezionamento del procedimento notificatorio e, dunque, dell’avvenuta instaurazione del contraddittorio. In caso di mancata produzione dell’avviso di ricevimento ed in assenza di attività difensiva dell’intimato, il ricorso per cassazione è inammissibile, non essendo consentita la concessione di un termine per il deposito (v. tra le altre, Cass. n.18361 del 2018).

Cassazione n. 3403/2024

E’ inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici o delle risultanze istruttorie operata dal giudice di merito (Cass. Sez. U. n. Corte di Cassazione – copia non ufficiale 10 di 13 34476/2019; Cass. n. 29404/2017; Cass. n. 19547/2017; Cass. n.8758/2017; Cass. n. 16056/2016; Cass. n. 5987/2021).

Cassazione n. 4300/2023

Il ricorso è palesemente inammissibile per violazione dell’art. 366, cod. proc. civ., sotto il duplice profilo della mancanza di una sintetica esposizione del fatto processuale  (…)  la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali è, per un verso, del tutto superflua, non essendo richiesto che si dia meticoloso conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale si è articolata; e per altro verso inidonea a soddisfare la necessità della sintetica esposizione dei fatti, in quanto equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto ovvero anche quello di cui non occorre sia informata, la scelta di quanto effettivamente rileva in ordine ai motivi di ricorso.

condominio parziale

Condominio parziale e lesioni: chi paga? La Cassazione chiarisce che le spese di ricostruzione di un solo corpo di fabbrica sono a carico dei condomini cui il bene comune serve

Condominio parziale e riparto delle spese: i fatti

Al fine di analizzare l’interessante arresto giurisprudenziale cui giunge la II sezione della Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 13229 del 16 maggio 2019 in tema di condominio parziale, è opportuno prendere le mosse dal dato normativo. Premesso il disposto di cui all’art. 1117 c.c. che elenca, salvo titolo contrario, le parti comuni dell’edificio, la norma-cardine in tema di condominio parziale è l’art. 1123 c.c. 3 comma.

Tale norma, pur intitolata alla  “ripartizione delle spese” stabilisce espressamente:

“Qualora un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell’intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condomini che ne trae utilità”.

Quindi, il presupposto per l’attribuzione in proprietà comune a tutti i condomini viene meno se le cose, gli impianti e i servizi di uso comune, per oggettivi caratteri strutturali e funzionali, siano necessari per l’esistenza o per l’uso (ovvero siano destinati all’uso o al servizio) di alcuni soltanto dei condomini (cfr. Trib. Salerno sent. 1517/2015; Cass. civ. II, n. 1680/2015).

Le conseguenze di ciò si riverberano anche nella gestione del fabbricato, nella ripartizione delle spese e consistono nel fatto che ogni atto ed ogni attività di amministrazione e/o di utilizzazione devono essere compiuti all’interno del condominio parziale, escludendo dai partecipanti quelli che sono proprietari di immobili che non godono di quel servizio o impianto, non ricevendo dallo stesso alcuna utilità.

A conferma di quanto sopra anche l’art. 1136 c.c. (“costituzione dell’assemblea e validità delle deliberazioni”), che al penultimo comma, stabilisce: “l’assemblea non può deliberare se non consta che tutti gli aventi diritto sono stati regolarmente convocati”. Mentre, antecedentemente alla Riforma, si faceva riferimento ai “condomini”, oggi attraverso la dicitura degli “aventi diritto” il legislatore ha adeguato l’impianto finendo così per riconoscere anche legittimità delle assemblee del  “condominio parziale”.

L’art. 1117 c.c. e il suo coordinamento con l’art. 1123, 3 comma, c.c.

In primo luogo si deve constatare che la legge si riferisce esplicitamente a beni comuni a tutti i condomini «se il contrario non risulta dal titolo» ex articolo 1117 c.c. Ciò vuol dire che esiste una sola eccezione per la quale i beni non sono comuni a tutti i condomini: la volontà contraria contenuta nel titolo di acquisto. Questa osservazione potrebbe sembrare sterile se il suo carattere formalistico non fosse convalidato da un ulteriore rilievo pratico e sostanziale: il motivo per cui i beni sono comuni anche a quei condomini che non li utilizzano risiede nel fatto che quei beni partecipano di un edificio unico che è, appunto, il condominio.

Il destino comune dei beni viene supportato dall’unità dell’edificio cui partecipano tutti i proprietari in virtù della loro ulteriore qualifica di condomini. In questa prospettiva il criterio di utilizzabilità non viene affatto preso in considerazione dalla legge per determinare la contitolarità dei beni di cui all’articolo 1117 c.c., per cui, se ci fermassimo nella nostra analisi, tali beni sarebbero comuni a tutti a prescindere dal loro utilizzo ed anche nel caso vi fosse un utilizzo solo da parte di alcuni.

In realtà è vero che il citato articolo 1117 c.c. non consente esplicitamente che la proprietà dei beni sia comune solo ad alcuni condomini però, a ben guardare, nemmeno lo vieta espressamente; tale possibilità è ammessa sulla base di una convenzione ma non si può escludere che il criterio dell’utilizzabilità (e quello correlato dell’utilità) non sia richiamato dall’articolo 1117 c.c. (in quanto sottinteso da quella normativa).

Il legislatore, allora, non ha esplicitamente dichiarato che il condominio riguarda solo coloro ai quali i beni servono perché tale stato di fatto rappresenta una condizione necessariamente preesistente all’operatività della norma, cioè essa è presupposta sulla base della logica determinazione dei fatti e dei conseguenti effetti che si verificano in questi casi.

Questo sembra essere il ragionamento che sta alla base dell’opinione per cui: «I presupposti per l’attribuzione della proprietà comune a vantaggio di tutti i partecipanti vengono meno se le cose, i servizi e gli impianti di uso comune, per oggettivi caratteri materiali e funzionali, sono necessari per l’esistenza o per l’uso, ovvero sono destinati all’uso o al servizio, non di tutto l’edificio, ma di una sola parte (o di alcune parti) di esso. Pertanto, del diritto soggettivo di condominio formano oggetto soltanto i servizi e gli impianti effettivamente legati alle unità abitative dal collegamento strumentale; vale a dire le sole parti di uso comune che siano necessarie per l’esistenza, ovvero siano destinate all’uso o al servizio di determinati piani o porzioni di piano».

La Cassazione (sent. n. 7885/1994)  determina anche il motivo specifico di tale conclusione: «La disposizione da cui risulta con certezza che le cose, i servizi e gli impianti di uso comune dell’edificio non appartengono necessariamente a tutti i partecipanti, si rinviene nell’art. 1123, comma terzo, c.c. Secondo questa norma, l’obbligazione di concorrere nelle spese per la conservazione grava soltanto sui condomini, ai quali appartiene la proprietà comune».

In realtà se si legge il comma in questione[1]  non si evince affatto quanto affermato dalla Cassazione, poiché viene disciplinato il criterio di spesa in base al criterio di utilità, per cui ad un primo esame, sembrerebbe che questa norma non disciplini affatto la parzialità della titolarità. Infatti, ben potrebbe intendersi nel senso che le spese sono sopportate dai condomini che ne traggono utilità ma la proprietà resta comunque in capo a tutti i condomini, anche a quelli che non usano i beni in oggetto, così come stabilito dal principio generale di sui all’articolo 1117 c.c.

È la stessa Cassazione che risponde al quesito sottolineando come il terzo comma dell’art. 1123 «non recepisce il criterio, che si assume valido in generale per la ripartizione delle spese per le parti comuni, secondo cui i contributi si suddividono tra i condomini in ragione dell’utilità. Se così fosse, il precetto sarebbe del tutto superfluo, perché ripeterebbe quello dettato dal capoverso precedente» tanto è vero che: «Posto che l’art. 1123 comma terzo ripartisce il concorso nelle spese per le parti comuni, destinate a servire le unità immobiliari in misura diversa, in proporzione all’uso che ciascuno può farne, dal contributo implicitamente esonera coloro i quali, per ragioni obbiettive afferenti alla struttura o alla destinazione, non utilizzano le parti, che non sono necessarie per l’esistenza o per l’uso, ovvero non sono destinate all’uso o al servizio dei loro piani o porzioni di piano. Se i proprietari delle unità immobiliari, non collegate con determinate parti comuni, fossero esonerati dal concorso nelle spese in virtù del criterio dell’utilità statuito dall’art. 1123 comma secondo c.c., il disposto dell’art. 1123 comma terzo sarebbe del tutto identico a quello fissato nel comma precedente e configurerebbe un duplicato inutile».

È questa un’interpretazione che collega funzionalmente le diverse parti di una norma in maniera esemplare per arrivare ad identificare una eadem ratio che sottende l’intero dettato normativo ed il ragionamento viene spiegato in questo modo: « In realtà, l’art. 1123 c.c. nei distinti capoversi contempla ipotesi differenti. Mentre al comma due regola solo ed esclusivamente la ripartizione delle spese per l’uso, al comma tre disciplina la suddivisione delle spese per la conservazione. La ragione della previsione espressa è che le cose, i servizi e gli impianti, essendo collegati materialmente e per la destinazione soltanto con alcune unità immobiliari, appartengono in comune solamente ai proprietari di queste. La disposizione, cioè, contempla l’ipotesi di condominio parziale».

Come si vede la Cassazione fa discendere esplicitamente dall’articolo 1123 c.c. III comma,  la previsione legislativa del condominio parziale il quale deve essere ammesso, non solo in base ai ragionamenti effettuati dalla Suprema Corte, ma anche in base al dato incontestabile che dalla legge non risulta alcun esplicito divieto di costituzione del condominio parziale e che il condominio parziale risulta essere una fattispecie che realizza interessi meritevoli di tutela alla stregua dei principi del nostro ordinamento giuridico.

Il caso affrontato dalla Cassazione

La fattispecie oggetto di analisi da parte della Suprema Corte attiene al riparto delle spese di risanamento di alcuni pilastri di un complesso immobiliare costituito da tre corpi di fabbrica separati da giunti tecnici. Siamo, quindi, in presenza di tre fabbricati distinti tra di loro per tipologia costruttiva e che a loro volta danno luogo a tre distinti condomini. Invero, il nesso di condominialità di cui all’art. 1117 c.c., è ravvisabile in svariate tipologie costruttive sia estese in verticale, sia costituite da corpi di fabbrica adiacenti orizzontalmente (cd. “condominio orizzontale”).

Ora, con riferimento al caso in commento, veniva impugnata una delibera assembleare che approvava la ripartizione delle spese – effettuata in base ai millesimi di proprietà generale dell’intero complesso edilizio – per il risanamento di alcuni pilastri posti al di sotto di in solo corpo di fabbrica.

La Cassazione, dopo aver delineato caratteri, presupposti, contenuto e limiti dell’istituto del condominio parziale, conferma la validità, per questo singolo caso concreto, della ripartizione effettuata per tabella generale di proprietà relativa a tutte e tre i fabbricati.

Ed infatti, seguendo gli accertamenti cui si era pervenuti in sede dei giudizi di merito, a dare prova della corretta ripartizione era proprio la circostanza che i pilastri pur risultando strutturalmente portanti per un solo corpo di fabbrica essi sostenevano non solo l’edificio sovrastante ma anche altri elementi comuni a tutti gli altri edifici (nel caso de quo un camminamento su porticato esterno condominiale). Diversamente, ove detti pilastri avessero avuto la funzione di servire solo il relativo corpo di fabbrica, il riparto delle spese per gli interventi di consolidamento avrebbe dovuto essere improntato al differente criterio di cui al terzo comma dell’art. 1123 c.c. 3° comma. Ciò in ossequio al principio di cui all’istituto del condominio parziale.

Riflessi in tema di gestione e amministrazione

La disciplina del condominio parziario si riflette anche nella validità delle convocazioni assembleari che devono avere come destinatari i soli condomini interessati;  nella costituzione della stessa assemblea che deve riportare i millesimi di comproprietà dei singoli condomini riferiti al condominio parziale e conseguentemente per lo stesso motivo anche alla fase della deliberazione.

Ora, tutti questi potrebbero apparire, a prima vista, vizi di mera annullabilità. Invero, la giurisprudenza ha più volte sancito, soprattutto negli ultimi tempi, che l’erronea determinazione dei soggetti che debbono partecipare alla decisione comporta il vizio di incompetenza dell’assemblea stessa con conseguente nullità assoluta e non mera annullabilità della decisione.

Tale più grave forma di invalidità può essere rilevata da ciascun condomino in ogni tempo. Si immagini per esempio che al posto di convocare i condomini interessati ai lavori straordinari di una scala o di un impianto a servizio di un’unica verticale si convocassero i condomini di altra scala o di altra verticale. Oppure, ancora, si faccia l’esempio dell’erroneità del riparto delle spese per i casi come quello appena descritto: si avrebbe una violazione in astratto dei criteri legali con conseguente nullità della delibera perché approvata in assenza di accordo unanime di tutti i partecipanti al condominio parziale.

Profili processuali del Condominio parziario

L’azione di accertamento negativo

Il condomino che in sede di riparto delle spese fatte dall’amministratore ritenga che esse non lo riguardino in quanto egli non è proprietario del bene per cui si è proceduto alla manutenzione, potrà chiedere al giudice, con una azione di accertamento ex art. 1123 c.c., che venga dichiarata la mancanza dell’obbligo al pagamento delle stesse in qualsiasi momento e ciò anche in sede di opposizione a decreto ingiuntivo (cfr. Cass. VI/II, ord. n. 33039/2018).

La legittimazione dell’amministratore

Ulteriori profili processuali di interesse per la figura del Condominio parziale attengono alla legittimazione dell’amministratore che è da ritenersi esclusiva anche se si controverte in materia di danni arrecati a terzi cagionati dalla cattiva custodia e manutenzione di un bene “che non appartiene a tutti i condomini”.

In presenza di condominio parziale, infatti, la legittimazione processuale spetta in ogni caso all’amministratore né il condominio parziale ha legittimità a nominare altro e diverso rappresentante in giudizio (Cass. 1264/2016, Cass. 651/2000, Trib. Salerno sent. n. 1517/2015)

Il riparto delle spese

E’ proprio dalla sentenza in esame che può trarsi il seguente principio: nei giudizi di risarcimento del danno per la cattiva manutenzione di un bene comune solo ad alcuni degli immobili in condominio, pur essendo la sentenza di condanna diretta al Condominio generalmente inteso, è poi onere dell’amministratore, in sede di riparto interno, fare buon governo dei principi di cui all’artt. 1123 c.c. 3 comma (Cass. civ. II, nn. 4436/2017 e 2363/2012).

 

[1] L’articolo 1123  III comma c.c. testualmente recita: «Qualora un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell’intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condomini che ne trae utilità».

convocazione assemblea condominio

Convocazione assemblea: l’amministratore non è obbligato ad allegare i bilanci La Cassazione chiarisce che non si configura un obbligo per l’amministratore di allegare all’avviso di convocazione anche i documenti giustificativi o i bilanci da approvare, è sufficiente l'ordine del giorno

Rendiconto e convocazione assemblea: i fatti

Un condomino impugnava la delibera assembleare per mancata allegazione del rendiconto all’avviso di convocazione contenente l’ordine del giorno. Il Giudice di prime cure respingeva la domanda attorea rilevando che il bilancio era stato allegato alla delibera di approvazione comunicata al condomino il quale non aveva, nelle more, richiesto di visionare e/o ricevere il predetto documento.

L’esito del processo di primo grado veniva ribaltato in Appello, in quanto la Corte riteneva che il bilancio dovesse essere comunicato preventivamente al condomino, essendo altrimenti leso “il diritto all’informativa generica con riferimento a quanto oggetto di assemblea”, non potendo a tal fine sopperire il successivo invio dell’atto, unitamente alla delibera di approvazione, dovendosi osservare l’obbligo di informazione in via preventiva e non successiva.

Allegazione rendiconto alla convocazione non necessaria

La Seconda Sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21271/2020 accoglie il ricorso del Condominio ritenendo come non necessaria l’allegazione del rendiconto in sede di convocazione. Ed infatti, a parere della Corte, l’obbligo di preventiva informazione dei condomini in ordine al contenuto degli argomenti posti all’ordine del giorno dell’assemblea risponde alla finalità di far conoscere ai convocati, sia pure in termini non analitici e minuziosi, l’oggetto essenziale dei temi da esaminare, in modo da consentire una partecipazione consapevole alla discussione ed alla relativa deliberazione (conformi Cass. civ. II sent. n. 21966/2017; Cass. civ. II sent. n. 25693/2018; Cass. civ. VI/II ord. n. 15587/2018).

Obbligo rispettato con l’invio dell’ordine del giorno

In altri termini, non si configura un obbligo per l’amministratore di allegare all’avviso di convocazione anche i documenti giustificativi o i bilanci da approvare, non venendo pregiudicato il diritto alla preventiva informazione sui temi in discussione, fermo restando che a ciascun condomino è riconosciuta la facoltà di richiedere, anticipatamente e senza interferire sull’attività condominiale, le copie dei documenti oggetto di eventuale approvazione.

Ove tale richiesta non sia stata avanzata, il singolo condomino non può poi invocare l’illegittimità della successiva delibera di approvazione per l’omessa allegazione dei documenti contabili all’avviso di convocazione dell’assemblea, ma può impugnarla per motivi che attengono esclusivamente alla modalità di approvazione o al contenuto delle decisioni assunte.

Conclusioni

La soluzione proposta dalla Cassazione appare improntata ad equità soprattutto se si tiene conto che la Riforma ha onerato l’amministratore alla tenuta di una ricca mole di documentazione contabile (si vedano gli elementi di cui deve comporsi obbligatoriamente il rendiconto, passati in rassegna in apertura del presente commento). Se ciò è vero, altro è affermare che tutti i predetti documenti devono essere spediti in sede di convocazione assembleare per l’approvazione dei rendiconti, con oneri cospicui a carico di tutto il Condominio. La trasparenza, a dire della Corte, è comunque rispettata stante lo strumento di richiesta di accesso alla documentazione presso lo studio dell’amministratore, da effettuarsi comunque senza sfociare in “mere esplorazioni”.

Il provvedimento in commento aderisce, dunque, ad un orientamento che sembra guadagnare consensi nel panorama giurisprudenziale di legittimità e di merito (Cass. civ. II sent. n. 21966/2017; Cass. civ. II sent. n. 25693/2018; Cass. civ. VI/II ord. n. 15587/2018)

Non si può non dare atto, tuttavia, del differente indirizzo interpretativo (ex multis Cass. civ. VI/II n. 33038/2018) maggiormente rigoroso e formalista, prevalente fino agli inizi dello scorso decennio, (contraria solo Corte Appello Roma, sent. 21 dicembre 1995), alla stregua del quale la mancata allegazione degli elementi del rendiconto all’avviso di convocazione produrrebbe comunque l’invalidità della delibera. La forma di tale invalidità viene comunque individuata nell’annullabilità, e pertanto la delibera viziata sarebbe comunque sanabile in mancanza di impugnativa nel termine di trenta giorni dalla delibera (per i condomini presenti, dissenzienti o astenuti) o dalla ricezione del verbale (per gli assenti).

ricorso per ottemperanza

Ricorso per ottemperanza Il ricorso per ottemperanza consente di dare esecuzione alle sentenze emanate dai giudici  amministrativi, qualora la P.A. non adempia in modo spontaneo

Ricorso per ottemperanza: definizione

Il ricorso per ottemperanza è l’atto con cui si chiede che venga data attuazione a diversi provvedimenti del giudice amministrativo. Dal punto di vista disciplinare il giudizio di ottemperanza è regolato dagli articoli 112, 113 e 114 del decreto legislativo n. 104/2010, che ha dato attuazione all’articolo 44 della legge n. 69/2009, contenente la delega al Governo per riordinare il processo amministrativo.

Quando si deve proporre l’azione di ottemperanza

Il citato art. 112 del dlgs. n. 104/2010 contiene le disposizioni generali sul giudizio di ottemperanza. Il primo comma dispone che i provvedimenti emessi dal giudice amministrativo debbano essere poi eseguiti dalla pubblica amministrazione e dalle parti.

Per ottenere questo risultato è necessario proporre l’azione di ottemperanza. Essa consente nello specifico di conseguire l’attuazione di questi provvedimenti:

  1. le sentenze del giudice amministrativo che sono già passate in giudicato;
  2. le sentenze e i provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo;
  3. le sentenze e i provvedimenti equiparati, passati in giudicato, del giudice ordinario per fare in modo che la pubblica amministrazione si conformi al giudicato del caso specifico deciso;
  4. le sentenze passate in giudicato e i provvedimenti equiparati per le quali non è previsto il giudizio di ottemperanza, affinché la pubblica amministrazione si conformi alla decisione;
  5. i lodi arbitrali esecutivi che non sono impugnabili, per ottenere che la pubblica amministrazione si conformi al giudicato del caso specifico.

Il terzo comma dell’art. 112, modificato dal decreto legislativo n. 195/2011, prevede poi che davanti al giudice dell’ottemperanza si possa anche proporre, in un unico grado:

  • l’azione per la condanna al pagamento di somme dovute a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza;
  • l’azione per il risarcimento dei danni collegati all’impossibilità o alla mancata esecuzione in forma specifica, sia essa totale o parziale, del giudicato, alla sua elusione o alla sua violazione.

L’ultimo comma della norma stabilisce infine che il ricorso si possa proporre anche per avere chiarimenti sulle modalità dell’ottemperanza.

Competenza del giudice nel giudizio di ottemperanza

L’articolo 113 contiene le regole sulla competenza del giudizio di ottemperanza.

Il primo comma prevede infatti che il ricorso per il giudizio di ottemperanza nei casi sopra indicati dalle lettere a e b, debba essere proposto allo stesso giudice che ha emanato il provvedimento da ottemperare.

Il TAR è competente anche quando i suoi provvedimenti vengono confermati in appello nel caso in cui la motivazione abbia lo stesso contenuto conformativo e dispositivo dei provvedimenti emanati in primo grado.

Nei casi descritti dalle lettere c), d), ed e) dell’articolo 112 il ricorso per ottemperanza si deve proporre al TAR nella cui circoscrizione si trova il giudice che ha emanato la sentenza che deve essere ottemperata.

Il procedimento del giudizio di ottemperanza

L’articolo 114 della legge n. 104/2010 disciplina infine  le varie fasi del giudizio di ottemperanza.

Occorre però precisare che l’azione è soggetta al termine di prescrizione di 10 anni, che decorrono dal passaggio in giudicato della sentenza.

Ricorso: deposito e notifica

Per avviare il giudizio di ottemperanza il ricorso deve essere notificato sia alla pubblica amministrazione che a tutte le parti del giudizio che è stato definito con la sentenza o con il lodo che si vuole vengano ottemperati. Insieme al ricorso deve essere depositato, in copia autentica, il provvedimento che si desidera venga ottemperato e la prova eventuale del suo passaggio in giudicato.

Il giudice, al termine del procedimento, decide con sentenza in forma semplificata.

Accoglimento del ricorso

Qualora il ricorso venga accolto, il giudice ordina che la sentenza o il provvedimento venga ottemperato, dando le opportune indicazioni sulle modalità dell’ottemperanza. Il giudice può anche determinare il contenuto del provvedimento amministrativo che dovrebbe emanare la pubblica amministrazione o emanarlo al suo posto. Può inoltre dichiarare nulli eventuali atti che hanno violato il giudicato.

Qualora l’ottemperanza riguardi sentenze non ancora passate in giudicato o altri provvedimenti allora il giudice determina le modalità in cui devono avere esecuzione, considerando inefficaci gli atti che sono stati emessi violando o eludendo le disposizioni e provvede senza trascurare gli effetti che ne conseguono.

Il giudice, su richiesta di parte, può anche stabilire a carico del resistente una somma di denaro determinata per ogni violazione, inosservanza o ritardo nel dare esecuzione al giudicato. Questa decisione però può essere assunta dal giudice solo se non risulti manifestamente iniqua o non rilevi ostacoli.

In caso di necessità nomina poi un commissario ad acta e in questo caso il giudice conosce tutte le questioni che riguardano l’ottemperanza comprese le questioni relative agli atti del commissario.

Se poi il ricorso è stato proposto per avere chiarimenti sulle modalità dell’ottemperanza, allora il giudice fornisce questi chiarimenti, anche se richiesti dal commissario ad acta.

Le regole sul procedimento di ottemperanza si applicano anche quando i provvedimenti giuridici che vengono adottati dal giudice dell’ottemperanza vengono impugnati.

doppia conforme

Doppia conforme e limiti al ricorso in Cassazione  Si ha doppia conforme quando la sentenza di secondo grado conferma per intero quella di primo grado, comportando limiti al ricorso per Cassazione

Doppia conforme: definizione

Il termine doppia conforme descrive l’ipotesi in cui le sentenze di primo e di secondo grado contengano in sostanza le stesse valutazioni dei fatti. La doppia conforme assume un rilievo particolare quando si vuole presentare un ricorso in sede di legittimità. Vediamo di comprenderne le ragioni.

Eliminato il filtro in appello

Dal punto di vista disciplinare la riforma Cartabia, eliminato il filtro di inammissibilità in sede di appello previsto dall’abrogato art. 348 ter c.p.c, ha però conservato le disposizioni contenute negli ultimi due commi di questa norma, spostandone il contenuto all’interno dell’art. 360 c.p.c, che precisa quali sono le sentenze e i motivi per i quali le stesse sono impugnabili in Cassazione.

Post riforma la norma di riferimento che si occupa della doppia conforme è pertanto l’art. 360 c.p.c.

Doppia conforme e motivi di impugnazione

Della doppia conforme in caso di ricorso in Cassazione si occupa, nello specifico, il comma 4 del suddetto articolo 360 c.p.c.

La disposizione, nello specifico, dispone che: “Quando la pronuncia di appello conferma la decisione di primo grado per le stesse ragioni, inerenti ai medesimi fatti, poste a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui al primo comma, numeri 1), 2), 3) e 4). Tale disposizione non si applica relativamente alle cause di cui all’articolo 70, primo comma”.

Dalla lettera della norma emerge che, se la sentenza di appello che la parte decide di impugnare in sede di Cassazione conferma la sentenza di primo grado per ragioni che si riferiscono agli stessi fatti (doppia conforme), l’impugnazione di legittimità può riguardare solo i seguenti motivi (1,2,3,e 4 comma 1 art. 360 c.p.c), fatta accezione per le cause in cui è obbligatoria la presenza del Pubblico Ministero:

  1. motivi di giurisdizione;
  2. violazione di norme sulla competenza quando non è prescritto il regolamento di competenza;
  3. violazione o falsa applicazione di norme di diritto, di contratti e di accordi collettivi nazionali di lavoro;
  4. nullità della sentenza o del procedimento.

Nel comma 5 appena analizzato il legislatore della riforma ha voluto specificare il riferimento alle “medesime ragioni inerenti i medesimi fatti” per descrivere in dettaglio le caratteristiche della “doppia conforme”, limitando i casi di inammissibilità del ricorso proposto al motivo indicato al n. 5) ai soli casi in cui la sentenza di secondo grado confermi per intero la pronuncia del grado di giudizio precedente.

L’esclusione del motivo di impugnazione in Cassazione indicato al n. 5, che riguarda “l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” è evidente. In presenza di una doppia conforme, ossia di due pronunce emesse in due diversi gradi di giudizio che concordano pienamente sull’analisi e sulla valutazione degli elementi probatori” la Cassazione non può, proprio perché giudice delle leggi, invalidarne le conclusioni fornendo prospettive nuove e alternative rispetto a quelle dei giudici di merito.

appropriazione indebita leasing

Appropriazione indebita leasing L’appropriazione indebita nel contratto di leasing si realizza quando chi utilizza il bene, pur non pagando il canone, lo trattiene, anche se il concedente ne chiede la restituzione

Appropriazione indebita in relazione al contratto di leasing

Il reato di appropriazione indebita commesso in relazione al contratto di leasing è oggetto di numerose pronunce giurisprudenziali, che hanno chiarito i dettagli di questo illecito penale.

Per comprendere alcune delle più recenti e interessanti pronunce che si sono occupate di questo reato è necessario analizzare separatamente e brevemente il reato di appropriazione indebita e il contratto di leasing per individuare al meglio le caratteristiche di questo reato.

Il reato di appropriazione indebita

L’appropriazione indebita è un illecito penale punito dall’articolo 646 del codice penale.

La norma punisce nello specifico chi, per procurare a se stesso a ad altri soggetti un profitto ingiusto, si appropri di denaro o di cose mobili di altri soggetti che ne abbiano il possesso a qualsiasi titolo.

Questo illecito è punito a condizione che la persona offesa presenti querela. Le pene previste sono la reclusione da due a cinque anni e la multa da 1000 a 3000 euro.

Se il fatto viene commesso su cose che sono possedute a titolo di deposito necessario, la pena è aumentata.

Il contratto di leasing

Il contratto di leasing, noto anche come locazione finanziaria, è un accordo che coinvolge tre soggetti diversi: l’utilizzatore, il concedente e il produttore o fornitore

Il concedente è il soggetto che, su specifica indicazione dell’utilizzatore, ordina la produzione di un bene o lo acquista direttamente dal produttore, pagandone il prezzo. Il bene viene quindi viene messo a disposizione dal concedente all’utilizzatore per un periodo di tempo determinato. Per l’uso di questo bene l’utilizzatore è tenuto a pagare al concedente un canone periodico. Quando l’accordo giunge a scadenza, in base a quanto concordato tra le parti, l’utilizzatore può acquistare il bene pagando il prezzo residuo. I canoni già pagati infatti vengono scomputati dal prezzo complessivo del bene. L’utilizzatore decide invece di non acquistare il bene deve restituirlo al concedente.

Cassazione: appropriazione indebita leasing

Una prima precisazione sulla configurabilità del reato di appropriazione indebita in relazione al contratto di leasing la fornisce la Corte di Cassazione nella sentenza n. 34911/2023.

La pronuncia chiarisce che in presenza di un contratto di leasing, affinché si configuri il reato di appropriazione indebita, devono sussistere le seguenti condizioni:

  • chi utilizza il bene non paga i canoni concordati;
  • il contratto contempla la risoluzione dell’accordo;
  • il debitore deve conoscere la volontà del concedente di rientrare nel possesso del bene che a tal fine deve intimarne la restituzione;
  • l’utilizzatore deve comportarsi come uti dominus, non restituendo il bene senza giustificazione.

Per quanto riguarda il momento consumativo del reato di appropriazione indebita del bene di cui l’utilizzatore ha la materiale disponibilità in virtù del contratto di leasing, la Cassazione nella sentenza n. 3100/2023 chiarisce che: “il reato di appropriazione indebita di un bene in “leasing” è integrato dalla mera interversione del possesso, che si manifesta quando l’autore si comporta “uti dominus” non restituendolo senza giustificazione, così da evidenziare in maniera incontrovertibile anche l’elemento soggettivo del reato, e non da quando il contratto deve intendersi risolto a.causa dell’inadempimento nel pagamento dei canoni. L’applicazione del sopra esposto principio al caso in esame comporta proprio affermare la fondatezza del motivo poiché, avendo l’imputato ricevuto la risoluzione del contratto e la richiesta della restituzione del bene il 12 agosto 2005, è da tale data che deve ritenersi consumato il fatto di appropriazione indebita; con la conseguenza che il termine prorogato di anni 7 e mesi 6 decorreva il 12 febbraio 2013 e quindi antecedentemente la pronuncia di appello”. 

Dalle due pronunce analizzate emerge che, per integrare il reato di appropriazione, è necessaria l’interversione del possesso, che si realizza quando l’autore del reato del reato si comporti uti dominus, non provvedendo a restituire il bene senza giustificazione alcuna, così da concretizzare l’elemento soggettivo del reato. Nella sentenza n. 39791/2021 la Cassazione si è soffermata su quest’ultimo aspetto precisando che l’interversione del possesso “sussiste anche nel caso di una detenzione qualificata, conseguente all’esercizio di un potere di fatto sulla cosa, al di fuori della sfera di sorveglianza del titolare. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ravvisato la condotta appropriativa nella ritenzione di un autoveicolo, utilizzato “uti dominus” nonostante la risoluzione del contratto di “leasing” e la richiesta di restituzione del bene)”. 

reclamo Fornero

Reclamo Fornero: disciplina e svolgimento del giudizio d’appello Il reclamo Fornero si traduce nell’impugnazione davanti alla Corte di Appello della sentenza emessa al termine del primo grado del rito Fornero

Reclamo Fornero: riferimento normativo

Il reclamo Fornero è previsto e disciplinato dalla legge n. 92/2012, contenente le “Disposizioni in materia di riforma del mercato del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”.

La legge Fornero n. 92/2012 disciplina infatti anche un rito particolare, previsto per impugnare i licenziamenti dei lavoratori che vengono disposti nelle ipotesi regolate dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, legge n. 300 del 20 maggio 1970.

Del reclamo, che rappresenta una parte eventuale del rito Fornero, si occupano nello specifico i commi 58, 59 e 60 e 61 dell’articolo 1 della legge 92/2012.

L’analisi del reclamo Fornero si rende necessaria anche se la riforma Cartabia ha abrogato l’intero rito. La procedura infatti è rimasta vigente, in via transitoria, per tutte le cause che sono state introdotte fino al 28 febbraio 2023, purché rientranti ovviamente nella casistica di questo rito particolare, nato per rendere più rapidi i procedimenti giudiziari in materia di licenziamento.

Come si presenta il reclamo alla Corte di Appello

Inquadrato normativamente il reclamo Fornero occorre comprendere come si presenta e come si svolge l’intero giudizio di impugnazione.

Per farlo occorre partire dal comma 58 dell’art. 1 della legge n. 92/2012, il quale dispone che, contro la sentenza che ha deciso sul ricorso con cui è stato impugnato il licenziamento, è possibile proporre reclamo davanti alla Corte di Appello.

Dal punto di vista formale e procedurale il reclamo deve essere proposto con ricorso, da depositare a pena di decadenza nel termine di 30 giorni dalla comunicazione o, se anteriore, dalla notificazione del provvedimento.

In questa fase non è possibile chiedere che vengano ammessi nuovi mezzi di prova o che vengano prodotti nuovi documenti. Ci sono però due casi in cui questa regola subisce eccezioni:

  • se il collegio ritiene che le nuove prove siano indispensabili per la decisione finale;
  • se la parte che ne richiede l’ammissione dimostri di non averli prodotti per colpa a lui non imputabile.

Svolgimento del giudizio di reclamo

Depositato il ricorso, l’autorità giudiziale deve provvedere a fissare l’udienza di discussione nei 60 giorni e assegnare all’opposto il termine per costituirsi fino a 10 giorni prima dell’udienza.

Il ricorso e il decreto di fissazione dell’udienza devono essere comunicati dall’apponente all’opposto almeno 30 giorni prima del termine fissato per la sua costituzione.

L’opposto si deve costituire in cancelleria depositando una memoria difensiva e se vuole chiamare un terzo in causa lo deve dichiarare in questo atto a pena di decadenza.

Nel corso della prima udienza il giudice, in presenza di gravi motivi, può sospendere l’efficacia della sentenza impugnata. In questa sede inoltre, sentite le parti, procede all’istruzione senza formalità e decide con sentenza, con cui può accogliere o rigettare il reclamo Fornero.

La sentenza motivata viene quindi depositata in cancelleria nel termine di 10 giorni dall’udienza di discussione. Se la sentenza non viene comunicata o notificata si applica l’art. 327 c.p.c il quale sancisce che “indipendentemente dalla notificazione, l’appello, il ricorso per cassazione e la revocazione per i motivi indicati nei numeri 4 e 5 dell’art. 395 non possono proporsi decorsi sei mesi dalla pubblicazione della sentenza.”

La sentenza emessa al termine del reclamo può essere impugnata in sede di Cassazione nel termine di 60 giorni dalla comunicazione della stessa o dalla sua notificazione, se anteriore.

La Corte di Appello resta competente per la richiesta di sospensione dell’efficacia della sentenza impugnata, che vi provvede come in sede di reclamo.

omessa denuncia di armi

Omessa denuncia di armi L’omessa denuncia di armi è un reato contravvenzionale previsto dall’articolo 697 del codice penale per tutelare la sicurezza pubblica

Omessa denuncia di armi: reato art. 697 c.p.

L’omessa denuncia di armi è un reato contravvenzionale contemplato dall’articolo 697 del codice penale, intitolato “Detenzione abusiva di armi”. La norma punisce nello specifico due condotte diverse.

  1. Il primo comma punisce chiunque detenga armi o caricatori per i quali la legge richiede la denuncia ai sensi dell’articolo 38 del TU della pubblica sicurezza, oppure munizioni senza averne fatto denuncia all’Autorità, quando questa formalità è necessaria.
  2. Il comma 2 invece sanziona chi, avendo notizia che in luogo da lui abitato si trovino armi o munizioni, ometta di farne denuncia alle autorità.

Arresto e ammenda per i trasgressori

L’illecito penale previsto dal primo comma dell’art. 697 c.p è punto con l’arresto da tre a dodici mesi e con l’ammenda fino a 371 euro.

La violazione di quanto previsto dal comma 2 invece è punita con la pena dell’arresto fino a due mesi e con l’ammenda fino a 258 euro.

Denuncia art. 38 TU pubblica sicurezza

Il presupposto di questo reato, come emerge dalla norma, è l’obbligo di denunciare il possesso delle armi e di quanto occorre al loro utilizzo presso le autorità di pubblica sicurezza competenti, come previsto dall’art. 38 del Tu di pubblica sicurezza, da ultimo riformato ad opera del decreto legislativo n. 104/2018.

La versione attuale della norma dispone infatti che chi detiene armi o parti di esse (art. 1 bis comma 1 lette b) del dlgs n. 527/1992) così come munizioni finite o materie esplodenti di qualsiasi genere, deve denunciarle a mezzo pec entro 72 ore da quando ne abbia acquisito la materiale disponibilità presso l’ufficio locale di pubblica sicurezza.

In alternativa, se questo ufficio manca, è possibile fare denuncia presso il comando locale dei carabinieri o presso la questura competente.

La denuncia è necessaria anche se la detenzione riguarda caricatori in grado di contenere più di 10 colpi per le armi lunghe e più di 20 per le armi corte.

La denuncia di detenzione deve essere presentata nuovamente ogni volta che il possessore trasferisca l’arma in un luogo diverso rispetto a quello che aveva indicato nella precedente denuncia. Chi ha la sola detenzione dell’arma deve assicurare che il luogo in cui è custodita presenti adeguate garanzie di sicurezza.

Soggetti esonerati dall’obbligo di denuncia

L’omessa denuncia di armi non è reato per determinate categorie di soggetti, che sono esonerati da questo obbligo. Si tratta in particolare di quei soggetti che, per motivi di lavoro, devono detenere e usare le armi e gli accessori necessari al loro funzionamento. Si tratta in particolare dei seguenti soggetti:

  • gli appartenenti alle forze armate;
  • le società di tiro a segno;
  • le istituzioni autorizzate in relazione alla detenzione degli oggetti destinati nei luoghi deputati allo scopo;
  • i soggetti che possiedono raccolte autorizzate di armi antiche, rare e di valore artistico;
  • le persone che, per una loro qualità permanente, hanno diritto di circolare armate nei limiti di quanto loro consentito.

Obbligo della certificazione medica

La detenzione di armi da parte di soggetti che non sono esonerati dall’obbligo di denunciare le armi in loro possesso e da parte di coloro che sono autorizzati a detenerle senza licenza, richiede, oltre all’obbligo di denuncia, anche quello di presentare specifica certificazione medica ogni 5 anni. Detto temine, se il detentore ha la licenza scaduta, decorre dalla data della scadenza, a meno che non l’abbia rinnovata.

Al  soggetto obbligato alla presentazione della certificazione medica, che trasgredisce, il prefetto può vietare di detenere le armi denunciate.