reato di sfregio

Reato di sfregio Reato di sfregio: cos’è, l’art. 583 quinquies c.p, caratteristiche del delitto, deformazione e sfregio, la sentenza della  Consulta n.83/2025

Reato di sfregio: cos’è

Il reato di sfregio o più tecnicamente “Deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso” è un reato previsto dall’art. 583 quinques c.p. Questo illecito penale è stato inserito nel codice penale dall’articolo 12 della legge n. 69/2019, meglio nota come “Codice Rosso”.

Si tratta di un reato che è stato introdotto con lo scopo primario tutelare soprattutto le vittime di violenza domestica e di genere. La fattispecie però non si limita a questi soggetti ma protegge chiunque sia vittima di un comportamento così vile.

L’articolo 583 quinques c.p. 

L’articolo 583 quinques c.p che punisce il reato di sfregio  al primo comma dispone che chiunque provochi a un’altra persona lesioni che causano una deformazione permanente o uno sfregio permanente al viso venga punito con la reclusione da otto a quattordici anni.

Il comma 2 della norma prevede ulteriori conseguenze negative per il responsabile di questo reato. Se infatti una persona viene condannata per questo reato (o patteggia la pena secondo l’articolo 444 del Codice di Procedura Penale), subisce automaticamente anche l’interdizione perpetua da qualsiasi incarico legato alla tutela, alla curatela e all’amministrazione di sostegno. In pratica, non potrà mai più ricoprire ruoli che implicano la gestione e la protezione degli interessi di persone vulnerabili.

Caratteristiche del reato di sfregio

Dalla lettura della norma emerge che si tratta di un reato comune, che chiunque cioè può commettere. La fattispecie punisce la condotta di chi causa lesioni che si traducono in una deformazione o in uno sfregio permanente del viso della vittima.

Dal punto di vista dell’elemento soggettivo il reato richiede il dolo, cioè la volontà di recare lesioni al volto in grado di deformarlo o sfiguralo.

La pena per il reato è la reclusione da un minimo di otto anni fino a un massimo di 14 anni e in caso di condanna o patteggiamento l’interdizione perpetua dalla possibile di svolgere funzioni di curate, tutela e amministrazione di sostegno.

Deformazione e sfregio del volto: definizioni e differenze

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 35795/2023 è intervenuta per chiarire la differenza tra le le due tipologie di lesione contemplate dall’articolo 583 quinquies c.p.

Gli Ermellini hanno infatti previsto che quando si parla del reato di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso,  è fondamentale distinguere tra “deformazione” e “sfregio permanente”.

La deformazione o il deformismo implicano un’alterazione anatomica del viso di grave entità. Si tratta di un danno che ne modifica profondamente la simmetria e l’armonia complessiva, causando un vero e proprio sfiguramento. È una lesione che colpisce in modo irreversibile l’identità estetica del viso, rendendola irriconoscibile o gravemente compromessa. Lo sfregio permanente rappresenta invece un danno meno grave rispetto alla deformazione, ma comunque significativo e irreversibile. Non porta a uno sfiguramento completo, ma causa un turbamento irreversibile dell’armonia e dell’euritmia del viso. Un esempio classico è rappresentato una cicatrice permanente sul volto che, pur non stravolgendo i tratti somatici, altera in modo percettibile e duraturo l’estetica del viso.

Corte Costituzionale: pene troppo severe per casi meno gravi

Di recente la Corte Costituzionale è intervenuta su questo reato con la sentenza n. 83/2023 depositata il 20 giugno 2025.

Con questa decisione la Consulta ha dichiarato illegittimo il comma 1 dell’art. 583 quinques c.p. La pena (reclusione da 8 a 14 anni) potrà infatti essere ridotta fino a un terzo se il fatto, per circostanze o per la lieve entità del danno, risulta di minore gravità. L’assenza di un’attenuante per i fatti di lieve entità, a fronte di una pena minima molto elevata e di diverse possibili condotte punibili, rischiava di portare a condanne eccessive, rendendo la pena inefficace per la risocializzazione del condannato, non tenendo conto della sua personalità.

Illegittimo e quindi modificato anche il comma 2. L’interdizione da ruoli di tutela e curatela, prima automatica e perpetua, non è più obbligatoria. Il giudice potrà applicarla facoltativamente, basandosi su criteri discrezionali e con una durata massima di dieci anni. L’ampia descrizione del reato nel secondo comma permetteva di includere anche condotte meno gravi. Per queste, l’applicazione automatica e perpetua dell’interdizione da ruoli di tutela risultava ingiustificata, rendendo necessaria l’eliminazione dell’obbligatorietà e della perpetuità di tale pena accessoria.

 

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Imbrattamento di cose altrui: resta reato La Corte costituzionale ha ritenuto legittima la configurazione del reato di imbrattamento ex art. 639 c.p., anche nella forma più lieve, respingendo i dubbi di incostituzionalità

Reato di imbrattamento di cose altrui

Con la sentenza n. 105 del 2025, depositata il 7 luglio, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate sull’art. 639 del codice penale, nella parte in cui configura come reato l’imbrattamento di cose altrui anche nella sua forma base, cioè senza particolari aggravanti o gravi conseguenze.

Le questioni sollevate dal Tribunale di Firenze

Il caso nasce da un giudizio pendente presso il Tribunale di Firenze, dove un imputato era accusato di aver imbrattato con materiale organico la porta e le pareti esterne di un immobile condominiale. Il giudice ha sollevato dubbi in riferimento agli articoli 3 e 27, comma 3, della Costituzione, ritenendo sproporzionata la sanzione penale rispetto alla gravità della condotta, anche considerando l’abrogazione del reato di danneggiamento semplice, ora trasformato in illecito civile.

L’orientamento della Corte: interesse collettivo al decoro urbano

La Corte ha chiarito che l’imbrattamento mantiene rilevanza penale per scelta consapevole del legislatore, volta a contrastare fenomeni di degrado urbano sempre più diffusi. Il danno non è solo al singolo proprietario ma colpisce un interesse collettivo, come il decoro dello spazio urbano, meritevole di una tutela penale autonoma.

L’introduzione del nuovo reato di deturpamento

A rafforzare tale orientamento è la recente introduzione, con il d.l. n. 48/2025 (convertito nella legge n. 80/2025), di una nuova figura di reato di deturpamento, che riorganizza e inasprisce il trattamento sanzionatorio dell’art. 639 c.p., configurando l’imbrattamento come condotta penalmente autonoma e non più meramente sussidiaria rispetto al danneggiamento.

Inammissibilità censure e limiti giudizio di costituzionalità

Secondo la Corte, intervenire su questa materia richiederebbe un riassetto complessivo della disciplina sanzionatoria, operazione non consentita al giudice delle leggi. La norma oggi tipizza un reato unitario, che tutela più beni giuridici (non solo patrimoniali), e il controllo di costituzionalità non può isolare singoli aspetti della condotta sanzionata.

certificato di malattia

Il certificato di malattia è gratis: se il medico chiede soldi commette reato Il certificato di malattia per l’astensione dal lavoro è gratuito, commette istigazione reato il medico che chiede denaro per rilasciarlo

Denaro per certificato di malattia è istigazione alla corruzione

Il certificato di malattia non è a pagamento. Il medico che chiede denaro per il suo rilascio commette quindi reato. Ai fini della configurazione dell’illecito l’importo modesto delle richieste e il tono scherzoso con cui vengono formulate non rilevano. Lo ha precisato la Corte di Cassazione nella sentenza n. 19409/2025.

Certificato di malattia a pagamento? E’ istigazione alla corruzione

Il giudice dell’appello conferma la condanna di un medico di base convenzionato con il Servizio Sanitario Nazionale, per il reato di istigazione alla corruzione, riqualificato ai sensi dell’art. 322, comma 3, c.p. La condotta oggetto di contestazione riguarda la richiesta di somme di denaro per il rilascio dei certificati medici di astensione dal lavoro. Le richieste sono avvenute in due occasioni per un importo di 30 euro e, in altre, senza richiesta di una cifra precisa.

Richieste di denaro “per scherzo”: punibilità ingiustificata

Il medico ricorre in Cassazione sollevando due motivi di doglianza. Con il primo motivo lamenta la logica della motivazione e l’erronea applicazione dell’art. 322, comma 3, c.p. Le sue sollecitazioni ai pazienti non erano idonee o serie, ma fatte con tono scherzoso o amichevole. La difesa evidenzia vari elementi a sostegno della non serietà delle richieste:

  • alcuni testimoni le hanno qualificate infatti come battute;
  • altri non hanno ricordato l’episodio o non ne hanno percepito la gravità;
  • nessuno dei pazienti ha cambiato medico;
  • l’importo richiesto era modesto;
  • le richieste non sono state ripetute dopo il rifiuto.

Con il secondo motivo invece contesta il diniego dell’applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis c.p. Il medico sostiene che la Corte d’Appello abbia illegittimamente applicato retroattivamente la modifica legislativa introdotta nel 2022, dopo i fatti oggetto del processo. Inoltre, ritiene illogiche le motivazioni addotte per negare la tenuità del fatto, tra cui la gravità del contesto medico, la non esiguità del danno e la presunta reiterazione della condotta, che non corrisponde ad abitualità. La difesa sottolinea anche che le richieste erano rivolte solo a pochi pazienti rispetto al numero complessivo degli assistiti, il che dimostrerebbe l’assenza di sistematicità del comportamento.

Certificato medico di malattia sempre gratuito

La Corte di Cassazione nel rigettare il ricorso del medico imputato dichiara il primo motivo inammissibile. Secondo i giudici, la censura proposta si limita a offrire un’interpretazione alternativa dei fatti senza confrontarsi in modo critico con la motivazione della sentenza impugnata. La richiesta di denaro in cambio del certificato medico di malattia, anche se formulata con tono scherzoso, è stata considerata idonea e univoca alla corruzione, basandosi sia su messaggi acquisiti che sulle testimonianze dei pazienti. Un solo teste ha parlato di tono scherzoso. In base alla giurisprudenza consolidata, l’idoneità dell’offerta corruttiva va valutata ex ante. Non rileva pertanto la modesta entità della somma richiesta, se non è del tutto irrisoria.

Infondato invece il secondo motivo. La sentenza del giudice di secondo grado non ha applicato retroattivamente la norma modificata dell’art. 131-bis c.p., si è limitata a citarla per mettere in evidenza la sua entrata in vigore posteriore ai fatti. Il rigetto della richiesta di non punibilità si fonda soprattutto sulla ritenuta abitualità della condotta, che è stata desunta dalla reiterazione delle condotte e dalla frequenza delle richieste, indicativa di una tendenza a violare i doveri del proprio ruolo. In merito alla nozione di “abitualità”, la Corte richiama la giurisprudenza delle Sezioni Unite, secondo cui essa può emergere anche dalla commissione di più reati della stessa indole, non necessariamente accertati con sentenza definitiva. È sufficiente che più illeciti siano oggetto dello stesso procedimento, permettendo al giudice di valutarli in modo unitario.

La tenuità del fatto non può essere riconosciuta in presenza di una pluralità di condotte aventi caratteri comuni, indicative di un’inclinazione criminale. La nozione di “reati della stessa indole” si fonda su un doppio criterio: oggettivo (la natura dei fatti) e soggettivo (i motivi che li hanno determinati). Essa ha un raggio d’azione più ampio rispetto al concetto di “reato continuato”, che richiede un medesimo disegno criminoso. Pertanto, anche se astrattamente compatibile con il reato continuato, l’art. 131-bis non può essere applicato quando, come in questo caso, le condotte indicano una costante violazione delle regole.

 

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femminicidio

Femminicidio: reato autonomo Approvato all’unanimità dalla Commissione Giustizia del Senato il ddl che introduce il delitto di femminicidio, contrasta la  violenza nei confronti delle donne e tutela le vittime

Il delitto di femminicidio

Il femminicidio diventa reato autonomo. Prosegue l’iter del disegno di legge n. 1433 approvato il 7 marzo 2025 dal Consiglio dei Ministri, che introduce nel codice penale il delitto di femminicidio e dispone altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime.

La Commissione giustizia del Senato in data 9 luglio 2025 ha infatti approvato il testo all’unanimità. Il ddl, modificato rispetto alla versione originaria del CdM, deve ricevere ora il voto del Senato e in seguito quello della Camera, prima di diventare legge.

Cosa prevede il testo

Il testo appronta un intervento ampio e sistematico per rispondere alle esigenze di tutela contro il fenomeno di drammatica attualità delle condotte e manifestazioni di prevaricazione e violenza commesse nei confronti delle donne.

Nuova fattispecie penale di femminicidio

Cambia la formulazione della fattispecie penale di femminicidio”, rispetto a quella prevista inizialmente e che, per l’estrema urgenza criminologica del fenomeno e per la particolare struttura del reato, viene sanzionata con la pena dell’ergastolo.

In particolare, si prevede che sia punito con tale pena “chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di odio o di discriminazione o di prevaricazione o come atto di controllo o possesso o dominio in quanto donna, o in relazione al rifiuto della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo o come atto di limitazione delle sue libertà individuali.”

Negli altri casi il reato resta quello di omicidio.

In linea con tale intervento, le stesse circostanze di commissione del reato sono introdotte quali aggravanti per i delitti più tipici di codice rosso, con la previsione di un aumento variabile delle pene previste, a seconda del delitto.

Le altre novità

Il testo inoltre, tenendo conto anche delle modifiche apportate:

  • prevede laudizione obbligatoria della persona offesa da parte del pubblico ministero che conduce le indagini, non delegabile alla polizia giudiziaria, nei casi di codice rosso;
  • introduce specifici obblighi informativi in favore dei prossimi congiunti della vittima di femminicidio, come quello previsto in caso di revoca o attenuazione del divieto di avvicinamento;
  • dispone che il Tribunale di Sorveglianza debba valutare con molta più attenzione la possibilità di concedere permessi all’indagato o al condannato. In ogni caso non potrà concederli nelle vicinanze in cui si trovano i congiunti della vittima;
  • non assoggetta al limite temporale di 45 giorni previsto per le intercettazioni i reati previsti dal codice rosso ( revenge porn, stalking, violenza sessuale, maltrattamenti, ecc…);
  • non contempla più il parere non vincolante della vittima sulla congruità della pena in caso di patteggiamento per i reati da codice rosso e connessi e l’onere motivazionale del giudice in caso di disaccordo con le indicazione della persona offesa;
  • rafforza gli obblighi formativi dei magistrati, previsti dall’ 6, comma 2, della legge n. 168 del 2023;
  • prevede semplificazioni per accertare violenze sessuali facilitate da sostanze psicotrope. Sarà infatti più facile identificare e provare l’assunzione di tali sostanze da parte della vittima. Questo sarà possibile grazie a un Tavolo tecnico al Ministero della Salute che definirà protocolli uniformi a livello nazionale per il prelievo, l’analisi e la conservazione dei campioni. Le Regioni promuoveranno inoltre campagne di sensibilizzazione sui pericoli delle droghe che favoriscono le violenze sessuali;
  • potenzia il braccialetto elettronico prevedendone l’attivazione a 1 km di distanza in sostituzione dei 500 metri previsti fino ad oggi;

Convenzione di Istanbul

L’intervento si inserisce anche nel quadro degli obblighi assunti dall’Italia con la ratifica della Convenzione di Istanbul e nel solco delle linee operative disegnate dalla nuova direttiva (UE) 1385/2024 in materia di violenza contro le donne, nonché delle direttive in materia di tutela delle vittime di reato.

cani legati

Cani legati sull’asfalto rovente: è reato anche senza lesioni Il Tribunale di Pescara riconosce la detenzione in condizioni incompatibili con la natura animale come reato, anche in assenza di ferite visibili

Maltrattamento animale: reato anche senza lesioni evidenti

Cani legati sull’asfalto rovente è reato anche senza lesioni. Con la sentenza n. 213/2025, il Tribunale di Pescara ha stabilito che lasciare animali domestici legati su asfalto rovente, sotto il sole, costituisce reato di detenzione incompatibile con la loro natura ai sensi dell’art. 727 c.p., anche in assenza di lesioni fisiche visibili.

Secondo il Giudice, la nozione di “sofferenza” comprende anche disagio psicofisico, stress, angoscia, dolore emotivo, nervosismo, agitazione e affaticamento. Non serve, quindi, che l’animale mostri ferite per configurare l’illecito.

Il caso concreto

Il procedimento è scaturito da segnalazioni di cittadini che avevano notato, nelle vie del centro di Pescara, un uomo senza fissa dimora accompagnato da un cane meticcio e da un coniglio, entrambi esposti al caldo estremo.

Il cane era legato alla bicicletta del proprietario, costretto a rimanere fermo sull’asfalto bollente, spesso con cappellini o occhiali da sole, utilizzati come attrattiva durante l’accattonaggio.
Il coniglio, legato per una zampa con un guinzaglio, mostrava una vistosa ferita per l’assenza di protezione e libertà di movimento.

Una testimone ha affermato che l’uomo, probabilmente affetto da dipendenza alcolica, non comprendeva la gravità del trattamento riservato agli animali.

Le sofferenze ambientali equivalgono a sevizie

Il Tribunale ha sottolineato che il benessere animale non si misura solo attraverso le condizioni fisiche, ma anche attraverso l’idoneità dell’ambiente in cui l’animale è detenuto.

Anche in assenza di lesioni, un contesto di immobilità forzata, esposizione a calore e mancanza d’acqua può generare gravi sofferenze, qualificabili come sevizie.
La norma di riferimento, l’art. 727 c.p., punisce proprio la detenzione in condizioni incompatibili con la natura dell’animale, senza richiedere la presenza del dolo specifico previsto invece per il reato di maltrattamenti (art. 544-ter c.p.).

L’intento non rileva: il reato è punibile anche a titolo di colpa

Secondo il Giudice, il fatto che l’imputato non avesse intenzione di maltrattare gli animali non esclude il reato, poiché l’articolo 727 c.p. prevede una responsabilità colposa, fondata sull’omissione di comportamenti dovuti.

Inoltre, lo status di persona senza fissa dimora non rappresenta una causa di esclusione della punibilità. Il soggetto, pur in difficoltà, è comunque tenuto a rispettare il benessere animale.

Tenuità del fatto: assoluzione per proporzionalità

Nonostante il riconoscimento della condotta illecita, il Tribunale ha valutato le circostanze concrete e ha ritenuto applicabile l’art. 131-bis c.p., per particolare tenuità del fatto.

Considerando la durata limitata della condotta, le condizioni personali dell’imputato e la mancanza di crudeltà intenzionale, il giudice ha concluso che una pena detentiva sarebbe stata eccessiva e controproducente, tanto sul piano retributivo quanto su quello preventivo.

L’imputato è stato quindi assolto, pur restando fermo il principio giuridico: detenere animali in condizioni disumane è reato, anche se non vi sono ferite visibili.

Il benessere animale va oltre le ferite

La sentenza del Tribunale di Pescara rappresenta un precedente rilevante nella tutela degli animali: afferma che la sofferenza può essere invisibile ma giuridicamente rilevante.
Anche in assenza di crudeltà manifesta, ambienti ostili e condizioni innaturali possono costituire maltrattamento.

È un richiamo chiaro alla responsabilità di ogni detentore di animali, chiamato a garantire benessere reale, non solo sopravvivenza.

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calunnia

Calunnia: guida al reato Calunnia: definizione, caratteristiche, natura, manifestazione, elemento soggettivo, punibilità, consumazione, sanzioni e Cassazione recente

Cos’è la calunnia?

La calunnia è un reato disciplinato dall’art. 368 c.p. Si tratta nello specifico di un delitto, che rientra nella categoria dei reati contro l’amministrazione della giustizia. La funzione di questo reato è duplice: mira a prevenire l’instaurazione di procedimenti penali infondati contro persone innocenti e tutela l’onore e la libertà personale degli individui ingiustamente accusati. Per questa ragione, la calunnia è considerata un reato “plurioffensivo”.

L’articolo 368 c.p. 

” 1. Chiunque, con denuncia, querela, richiesta o istanza, anche se anonima o sotto falso nome, diretta all’Autorità giudiziaria o ad un’altra Autorità che a quella abbia obbligo di riferirne o alla Corte penale internazionale, incolpa di un reato taluno che egli sa innocente, ovvero simula a carico di lui le tracce di un reato, è punito con la  reclusione da due a sei anni. 

2. La pena è aumentata se s’incolpa taluno di un reato per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a dieci anni, o un’altra pena più grave.

3. La reclusione è da quattro a dodici anni, se dal fatto deriva una condanna alla reclusione superiore a cinque anni; è da sei a venti anni, se dal fatto deriva una condanna all’ergastolo.”

Caratteristiche del reato di calunnia

Il reato di calunnia presenta le seguenti caratteristiche:

1) Natura del reato di calunnia

È un reato di pericolo, questo significa che non è necessario che l’accusa falsa porti effettivamente a una condanna o all’avvio di un processo penale; è sufficiente che esista la mera possibilità che l’autorità giudiziaria agisca in base alla falsa incolpazione.

2) Modalità di manifestazione 

La calunnia può manifestarsi in due forme principali:

  • Calunnia formale (o diretta): si verifica quando un’accusa di reato, consapevole di essere falsa e rivolta a una persona che si sa innocente, viene presentata attraverso atti formali come denunce, querele, richieste o istanze. Queste devono essere indirizzate all’Autorità Giudiziaria o a un’altra autorità che ha l’obbligo di riferire a quest’ultima. Rientrano in questa categoria anche le denunce anonime o sotto falso nome.
  • Calunnia materiale (o indiretta): consiste nella simulazione di tracce di un reato. In questo caso, il colpevole crea prove materiali o indizi falsi che tendono ad implicare erroneamente un individuo innocente in un crimine che non è mai avvenuto. Le tracce simulate devono essere tali da indicare inequivocabilmente il soggetto incolpato come autore del fatto.

3) Elemento soggettivo

Per la configurazione del reato è richiesto il “dolo” specifico, ovvero la piena consapevolezza e volontà di accusare falsamente una persona che si sa essere innocente. Non è sufficiente il dolo eventuale. Come chiarito dalla Cassazione n. 27098/2024 “perché sia integrato il dolo del delitto di calunnia occorre che colui che formula la falsa accusa abbia la certezza della innocenza dell’incolpato.”

4) Condizioni di punibilità 

L’azione non è punibile se il fatto denunciato o simulato non costituisce un reato (manca di tipicità legale) o se esiste una causa di giustificazione o un’esclusione della punibilità.

Il reato tuttavia può configurarsi anche se l’autorità giudiziaria deve svolgere un’indagine minima per accertare i fatti.

5) Consumazione

Il reato si consuma quando l’autorità riceve la falsa informazione (calunnia formale) o acquisisce le tracce simulate (calunnia materiale).

Come viene punito il reato di calunnia

Le pene previste per la calunnia dipendono dalla gravità della falsa accusa e dalle sue conseguenze:

La pena base è rappresentata dalla reclusione da due a sei anni.Sono previsti degli aumenti di pena nei seguenti casi:

  • l’accusato è incolpato di un reato per il quale la legge prevede una pena massima di reclusione superiore a dieci anni o una pena più grave;
  • la falsa accusa porta a una condanna alla reclusione superiore a cinque anni, la pena in questo caso è la reclusione da quattro a dodici anni.
  • la falsa accusa comporta una condanna all’ergastolo, la reclusione in questa ipotesi varia da sei a venti anni (storicamente, se derivava una condanna a morte, si applicava l’ergastolo a seguito dell’abrogazione della pena capitale).

Giurisprudenza

Cassazione n. 16651/2025: si configura il reato di calunnia e sussiste il dolo, in quanto provato dal fatto che il denunciante ha riportato solo fatti parziali. Questa condotta evidenzia la consapevolezza di accusare la persona offesa di un’inesistente tentata estorsione, pur sapendo della sua innocenza.

Cassazione n. 27098/2024: il giudizio per calunnia è autonomo rispetto a quello che riguarda il reato ascritto al calunniato. Anche una sentenza di proscioglimento definitiva a favore dell’incolpato non preclude al giudice del processo per calunnia di rivalutare i fatti. Il giudice può quindi accertare autonomamente la falsità della denuncia del calunniatore, riesaminando gli stessi fatti già oggetto del precedente giudizio.

Cassazione n. 21632/2022: la calunnia è un reato di pericolo che si perfeziona con una condotta (falsa denuncia o simulazione di tracce di reato) idonea a generare il concreto rischio di un’indagine penale contro un innocente. Non è necessario l’effettivo avvio del procedimento, ma la falsa accusa deve contenere gli elementi sufficienti per l’azione penale e non essere manifestamente inverosimile. L’elemento soggettivo richiede la consapevolezza da parte del calunniatore di incolpare una persona innocente, esponendola al rischio di un processo. Questa consapevolezza si desume dalle circostanze concrete dell’azione.

 

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giurista risponde

Delitto di rapina e configurabilità dell’attenuante (art. 62, co. 1, n. 4, c.p.) In relazione al delitto di rapina, ai fini della configurabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 62, comma 1, n. 4, c.p. qual è il momento in cui deve prendersi in considerazione l’entità del danno?

Quesito con risposta a cura di Sara Frattura, Raffaella Lofrano e Maria Lavinia Violo

 

Ai fini della configurabilità della circostanza attenuante in esame, il momento in cui deve prendersi in considerazione l’entità del danno è quello della consumazione del reato, in quanto il danno non può divenire di speciale tenuità in conseguenza di eventi successivi (Cass., Sez. Un., 15 novembre 2024, n. 42124 – Delitto di rapina e configurabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 62, comma 1, n. 4, c.p.).

Nel caso di specie, la Corte di Appello di L’Aquila confermava la condanna alla pena irrogata dal Tribunale di Pescara con sentenza del 6 luglio 2022 per i reati di rapina aggravata e lesioni, unificati

dal vincolo della continuazione e previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulla recidiva contestata.

Il ricorso è stato assegnato alla Seconda sezione, che, con ordinanza del 5 aprile 2024, n. 16364, ne disponeva la rimessione alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 618, comma 1, c.p.p., rilevando l’esistenza di contrasti interpretativi sia in ordine alla determinazione del termine a comparire nel giudizio di appello a far data dal 30 dicembre 2022 (che un orientamento individua in giorni venti ed un altro in giorni quaranta), sia all’individuazione – in presenza di un fenomeno di successione di leggi (l’art. 601 c.p.p., che disciplina gli atti preliminari al giudizio di appello, è stato in parte qua novellato dall’art. 34 D.Lgs. 150/2022) – dell’atto da valorizzare in concreto ai fini dell’applicazione del principio tempus regit actum.

Per quanto di interesse, la Corte di Appello avrebbe disatteso la richiesta di riconoscere all’imputato la circostanza attenuante di cui all’art. 62, comma 1, n. 4, c.p., osservando genericamente che il profitto del reato consistette sia in un telefono cellulare che in una catenina di argento, oggetti il cui valore sommato supera i limiti entro i quali può essere riconosciuta tale attenuante.

La motivazione fornita sul punto dalla sentenza impugnata è inficiata da un errore di diritto, pur non determinante annullamento, che va, ai sensi dell’art. 619 c.p.p., corretto.

Invero, va ribadito il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale, ai fini della configurabilità, in relazione al delitto di rapina della circostanza attenuante del danno di speciale tenuità di cui all’art. 62, comma 1, n. 4, c.p., non è sufficiente che il bene mobile sottratto sia di modestissimo valore economico, occorrendo valutare anche gli effetti dannosi connessi alla lesione della persona contro la quale è stata esercitata la violenza o la minaccia. Il delitto di rapina, ancorché incluso nel Titolo XIII del Libro II del codice penale, relativo ai delitti contro il patrimonio, ha in genere natura pluri-offensiva, in quanto il danno che ne deriva non incide soltanto sulla sfera patrimoniale, ma comprende anche gli aspetti lesivi della libertà fisica o psichica della persona offesa aggredita per la realizzazione del profitto.

Ne discende che, ai fini della configurabilità della circostanza attenuante in esame, non può aversi riguardo unicamente al fatto che il bene materiale sottratto sia di modestissimo valore economico, ma occorre valutare anche gli effetti dannosi connessi al bene personale dell’integrità fisica e/o psichica della parte offesa contro la quale l’agente ha indirizzato l’attività violenta o minacciosa al fine di impossessarsi della cosa. La predetta circostanza potrà essere ritenuta sussistente, sulla base di un apprezzamento riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità, se immune da vizi logico-giuridici, soltanto nel caso in cui la valutazione complessiva dei pregiudizi arrecati ai beni tutelati risulti di speciale tenuità.

Deve, per completezza, evidenziarsi che il riferimento all’intervenuta restituzione del telefono cellulare è, comunque, privo di rilievo.

La giurisprudenza ha, infatti, già chiarito che, ai fini del riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 62, comma 1, n. 4, c.p., il momento in cui deve prendersi in considerazione l’entità del danno è quello della consumazione del reato, in quanto il danno non può divenire di speciale tenuità in conseguenza di eventi successivi.

 

 

(*Contributo in tema di “Delitto di rapina e configurabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 62, comma 1, n. 4, c.p. ”, a cura di Sara Frattura, Raffaella Lofrano e Maria Lavinia Violo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

spaccio di lieve entità

Spaccio di lieve entità: sì alla messa alla prova La Corte costituzionale dichiara illegittima l’esclusione del reato di spaccio di lieve entità dalla sospensione con messa alla prova

Spaccio di lieve entità e messa alla prova

Spaccio di lieve entità e messa alla prova: la Corte costituzionale, con sentenza n. 90 del 2025, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 168-bis del codice penale nella parte in cui non consente la sospensione del procedimento con messa alla prova per il reato di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti di lieve entità, previsto dall’articolo 73, comma 5, del Testo unico stupefacenti (D.P.R. n. 309/1990).

Le questioni di legittimità sollevate

Le questioni di costituzionalità erano state sollevate dai Tribunali di Padova e Bolzano, i quali hanno censurato, in combinato disposto, l’articolo 168-bis, primo comma, c.p., l’articolo 550, secondo comma, c.p.p. e l’articolo 73, comma 5, del Testo unico stupefacenti, come modificato dal decreto-legge n. 123 del 2023.

Quest’ultimo intervento normativo aveva innalzato la pena detentiva massima per il piccolo spaccio, portandola da quattro a cinque anni di reclusione. Di conseguenza, il reato risultava escluso dall’ambito applicativo della messa alla prova, che prevede un limite massimo edittale inferiore.

Il confronto con l’istigazione all’uso di stupefacenti

Secondo i giudici rimettenti, tale preclusione si traduceva in una violazione del principio di ragionevolezza e del finalismo rieducativo della pena, non consentendo all’imputato di accedere a un programma personalizzato di riparazione e reinserimento sociale.

Inoltre, era evidenziata una disparità di trattamento rispetto al reato di istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti, sanzionato con pene più elevate ma comunque compatibile, in astratto, con la sospensione del procedimento e la messa alla prova.

La decisione della Corte costituzionale

La Corte costituzionale ha accolto la questione di legittimità, richiamando l’articolo 3 della Costituzione. È stato ritenuto irragionevole che il reato di lieve entità, meno grave rispetto all’istigazione, fosse escluso dall’istituto che coniuga finalità deflattive e rieducative.

Secondo la Consulta, la preclusione automatica dell’accesso alla messa alla prova determinava un’inversione della scala di gravità dei reati in materia di stupefacenti e ostacolava la possibilità per l’imputato di intraprendere percorsi risocializzanti.

giurista risponde

Turbativa ed estorsione Colui che allontani l’offerente da una gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private ricorrendo alla violenza o alla minaccia integra solo il reato di turbata libertà agli incanti ex art. 353 c.p. o una pluralità di fattispecie di reato?

Quesito con risposta a cura di Sara Frattura, Raffaella Lofrano e Maria Lavinia Violo

 

La condotta di chi, con violenza o minaccia, allontani l’offerente da una gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private, oltre ad integrare il reato di cui all’art. 353 c.p., può integrare altresì quello di cui all’art. 629 c.p. ove abbia causato un danno patrimoniale derivante dalla perdita di una seria e consistente possibilità di ottenere un risultato utile per effetto della partecipazione alla predetta gara. Nella nozione di danno patrimoniale rilevante ai fini della configurabilità del delitto di estorsione rientra anche la perdita della seria e consistente possibilità di conseguire un bene o un risultato economicamente valutabile, la cui sussistenza deve essere provata sulla base della nozione di causalità propria del diritto penale (Cass., Sez. Un., 22 luglio 2024, n. 30016 – Turbativa ed estorsione).

Il reato di turbata libertà degli incanti, previsto dall’art. 353 c.p., punisce colui che con una condotta vincolata, ovvero con violenza o minaccia, impedisce o turba la gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private oppure ne allontana gli offerenti.

La questione sottoposta all’attenzione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione riguarda la possibilità che il medesimo fatto possa configurare un concorso formale con il reato di estorsione nel caso in cui oltre all’allontanamento dalla gara, o ad altra turbativa, venga prodotto un altro evento dannoso che non è previsto dall’art. 353 c.p.: l’ingiusto profitto o l’altrui danno.

Il reato di turbata libertà degli incanti è infatti un reato comune di condotta a dolo generico poiché prescinde dal realizzarsi dell’ingiusto profitto o dall’altrui danno.

Anche il bene giuridico protetto dalla fattispecie cambia in questo caso: nel reato previsto dall’art. 353 c.p. si tutela la libertà di scelta del contraente; nel reato di estorsione il bene tutelato è il patrimonio del soggetto passivo.

Le due fattispecie di reato si pongono in rapporto di specialità reciproca perché sono caratterizzate da elementi costitutivi differenziati, ed è per questo che si è posta dinnanzi alle Sezioni Unite la questione relativa alla possibilità di riconoscere il concorso formale con il reato di estorsione quando viene anche cagionato un danno o conseguito un ingiusto profitto.

In particolare, la questione riguarda la possibilità di ravvisare il concorso formale con il reato di estorsione quando il danno corrisponda a una perdita di chance. Le Sezioni Unite risolvono positivamente la questione, affermando che rientra nella nozione di danno di cui all’art. 629 c.p. anche la perdita della seria e consistente possibilità di conseguire un risultato utile di cui sia provata la sussistenza sulla base di una nozione di causalità propria del diritto penale.

La causalità nel diritto penale è determinata sulla base del criterio di “oltre ogni ragionevole dubbio”, mentre la perdita di chance è una nozione civilistica, in cui la causalità è determinata in base alla regola del “più probabile che non”, quindi potrebbe risultare arduo applicare il criterio penalistico per accertare tale elemento costitutivo.

Un primo e più risalente orientamento riteneva sussistente solo un concorso apparente di norme tra i due reati poiché la fattispecie di turbata libertà agli incanti assorbirebbe in sé l’intero disvalore del fatto criminoso in base al presupposto per cui il danno dell’estorsione coinciderebbe con la lesione della libertà di partecipare o meno ad una gara e influenzarne l’esito, danno già punito alla luce dell’art. 353 c.p.

Un secondo orientamento riteneva invece configurabile il concorso formale tra le due fattispecie criminose evidenziando i differenti elementi costitutivi di entrambe: nell’estorsione l’elemento fondamentale è la coartazione della volontà altrui al fine specifico di conseguire un ingiusto profitto con altrui danno; il reato di turbata libertà degli incanti invece è integrato nel caso di cosciente e volontario impedimento o turbativa di una gara o dall’allontanamento degli offerenti, senza che sia necessario il verificarsi di un ulteriore danno o il conseguimento di un profitto ingiusto.

A questo secondo orientamento aderiscono le Sezioni Unite affermando che nel reato di estorsione l’elemento centrale è costituito dal danno, che deve essere verificato secondo i canoni previsti dal diritto penale, ovvero la regola che impone un accertamento “oltre ogni ragionevole dubbio”, e che il danno può essere costituito da qualsiasi parte del patrimonio della vittima, compresi i beni immobili e le aspettative di diritto perché il patrimonio non è costituito solo da beni materiali, ma da rapporti giuridici attivi e passivi aventi contenuto economico unificati dalla legge in considerazione dell’appartenenza al medesimo soggetto, così da ricomprendere nel concetto di danno di cui all’art. 629 c.p. qualunque situazione idonea ad incidere negativamente sull’assetto economico dell’individuo, compresa la delusione delle aspettative e le chance future di arricchimento o di consolidamento dei propri interessi.

Alla luce di queste premesse, le Sezioni Unite concludono affermando che la perdita dell’aspettativa di conseguire un vantaggio economico, ovvero la chance, può essere ricondotta nell’ambito di operatività del danno patrimoniale quale elemento costitutivo del reato di estorsione ex art. 629 c.p.

Infine, si precisa che il rapporto di causalità tra la condotta e l’evento dannoso corrispondente alla perdita della possibilità di conseguire il risultato favorevole deve essere provato mediante l’utilizzo degli strumenti di cui il giudice penale dispone per effettuare le valutazioni probatorie e si considera sussistente quando, considerate tutte le circostanze del caso concreto, possano escludersi processi causali alternativi e si possa affermare in termini di certezza processuale, ovvero di alta credibilità razionale o probabilità logica, che sia stata proprio quella condotta a determinare l’evento dannoso.

 

(*Contributo in tema di “Turbativa ed estorsione”, a cura di Sara Frattura, Raffaella Lofrano e Maria Lavinia Violo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

abrogazione abuso d'ufficio

Abrogazione abuso d’ufficio legittima: le motivazioni della Consulta La Corte costituzionale ha depositato le motivazioni della sentenza con cui ha dichiarato legittima l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, escludendo contrasti con la Convenzione di Mérida e i principi costituzionali

Legittima l’abrogazione dell’abuso d’ufficio

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 95 del 2025 depositata il 3 luglio, già anticipata l’8 maggio scorso, ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate contro l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio prevista dalla legge n. 114 del 2024. L’iniziativa giudiziaria era stata promossa da quattordici giudici, tra cui la Corte di cassazione, che avevano censurato la scelta legislativa sotto diversi profili costituzionali e internazionali.

Nessun obbligo internazionale di mantenere il reato

La Corte ha riconosciuto l’ammissibilità delle questioni prospettate in relazione all’articolo 117, primo comma, della Costituzione, il quale impone il rispetto degli obblighi derivanti dalle convenzioni internazionali. In particolare, si è esaminato se la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, nota come Convenzione di Mérida, imponesse l’obbligo di sanzionare penalmente l’abuso d’ufficio.

Dopo un’analisi dettagliata delle disposizioni convenzionali, la Consulta ha escluso che l’Italia fosse vincolata a mantenere nel proprio ordinamento una specifica fattispecie incriminatrice corrispondente all’abuso d’ufficio, evidenziando che la tipologia di condotte considerate non è prevista in modo uniforme in tutti gli Stati firmatari.

La discrezionalità del legislatore in materia penale

La sentenza sottolinea che la Corte costituzionale non può sostituire la propria valutazione di opportunità a quella del legislatore circa l’efficacia complessiva del sistema di prevenzione e contrasto degli illeciti commessi dai pubblici funzionari. Eventuali vuoti di tutela penale conseguenti all’abrogazione costituiscono una scelta politica che ricade nella responsabilità esclusiva del Parlamento.

Le censure basate sugli articoli 3 e 97 della Costituzione

I giudici rimettenti avevano anche prospettato un contrasto con l’articolo 3 della Costituzione, per asserita disparità di trattamento tra condotte meno gravi che continuano a essere punite e comportamenti più gravi ora privi di sanzione.

Inoltre, si lamentava un vuoto di tutela rispetto ai principi di buon andamento e imparzialità amministrativa sanciti dall’articolo 97. Tuttavia, la Corte ha dichiarato queste censure inammissibili, rilevando che il loro eventuale accoglimento avrebbe comportato un effetto “in malam partem”, cioè un ampliamento della punibilità, ipotesi preclusa al giudizio di legittimità costituzionale.

La conclusione della Corte costituzionale

In definitiva, la Consulta ha affermato che la scelta di abrogare il reato di abuso d’ufficio, pur producendo indubbi effetti sul piano della tutela penale, è una decisione politica non sindacabile in sede costituzionale. L’eventuale bilanciamento tra i vuoti di tutela e i benefici che il legislatore si è prefisso di conseguire appartiene al piano della responsabilità politica e non può essere oggetto di censura alla luce dei parametri costituzionali e internazionali esaminati.