notifica regolare

Notifica regolare non garantisce conoscenza effettiva del processo Notifica regolare e processo ignoto: la Cassazione chiarisce i limiti della conoscenza effettiva

Notifica regolare e processo ignoto

Notifica regolare e processo ignoto: con la sentenza n. 16899/2025, la sesta sezione penale della Cassazione è tornata a esaminare il delicato rapporto tra regolarità formale della notifica dell’atto di citazione a giudizio e la conoscenza effettiva del processo da parte dell’imputato, ribadendo un principio cardine in materia di diritto alla difesa: “La regolarità della notifica dell’atto di citazione in giudizio non implica necessariamente la conoscenza effettiva del processo da parte dell’imputato”.

Il caso esaminato

Nel caso specifico, l’imputato era stato giudicato in contumacia a seguito della notifica, formalmente regolare, dell’atto di citazione in giudizio presso il domicilio eletto. Tuttavia, lo stesso imputato aveva successivamente dedotto di non aver mai avuto conoscenza effettiva del procedimento e di non aver potuto esercitare il proprio diritto di difesa.

La Corte di merito aveva ritenuto sufficiente, ai fini della validità del processo, la sola regolarità formale della notifica, rigettando la richiesta di restituzione nel termine per proporre impugnazione.

La decisione della Cassazione

La Sesta Sezione, accogliendo il ricorso dell’imputato, ha censurato la decisione del giudice di merito, ricordando che il diritto alla difesa, sancito dall’art. 24 Cost. e dagli articoli 6 e 14 della Convenzione EDU, non può essere ridotto al rispetto formale delle regole procedurali, ma impone che l’imputato sia posto concretamente in condizione di conoscere e partecipare al processo.

Secondo la Corte, la notifica “regolare” non garantisce automaticamente la conoscenza effettiva del processo da parte del destinatario. È necessario verificare in concreto se l’imputato abbia avuto effettiva consapevolezza dell’instaurazione del procedimento, specie nei casi di elezione di domicilio risalente o presso terzi, situazioni che possono determinare un’informazione solo apparente.

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tribunale per i minorenni

Tribunale per i minorenni: 8 euro per ogni e-mail con copie digitali Il Ministero della giustizia chiarisce i costi per il rilascio di copie digitali nei procedimenti minorili: 8 euro per ogni email inviata, 25 euro per copie audio-video

Costi copie digitali nei procedimenti minorili

Con provvedimento del 10 giugno 2025, la Direzione generale degli affari interni del Dipartimento per gli affari di giustizia, tramite il canale Filo Diretto, ha fornito risposta a un quesito sollevato dal Presidente del Tribunale per i minorenni di Bari in merito all’applicazione dei diritti di copia nei procedimenti penali minorili.

Assenza del fascicolo informatico e problematiche

Il Tribunale per i minorenni di Bari ha evidenziato come, in assenza del fascicolo penale informatico e del relativo applicativo gestionale (TIAP), la trasmissione telematica degli atti richieda una preventiva scansione manuale dei documenti. Questa attività, particolarmente onerosa in termini di tempo e risorse umane, non è attualmente valorizzata nei diritti forfettari previsti per la copia degli atti.

Applicazione dell’art. 269-bis del Dpr n. 115/2002

La Direzione generale ha chiarito che trova piena applicazione l’articolo 269-bis del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, come modificato dalla legge 30 dicembre 2024, n. 207 (legge di Bilancio 2025), anche in assenza del fascicolo informatico.

In particolare, è stato stabilito che:

  • Per ogni richiesta di rilascio e invio per via telematica (email o PEC) di copie digitali di atti e documenti relativi a procedimenti penali minorili, si applica un diritto forfettario di 8 euro per ogni singolo invio, indipendentemente dal numero di pagine trasmesse.

  • Tale importo è previsto dalla tabella allegato n. 8 del d.P.R. n. 115/2002.

Copie di file audio e video: il diritto forfettario

Sebbene non oggetto diretto del quesito, la Direzione ha confermato che anche per la riproduzione di file audio o video su supporti informatici (come chiavette USB, CD o DVD), si applica un diritto di copia forfettario pari a 25 euro.

Possibilità di rilascio cartaceo

Resta salva, come già ricordato nel provvedimento del 5 marzo 2025, la possibilità per l’utente di richiedere copie cartacee, per le quali continua ad applicarsi il tradizionale sistema di calcolo dei diritti di copia, commisurati al numero di pagine richieste.

tutela animali

Tutela degli animali: pene più severe per legge In Gazzetta Ufficiale e in vigore dal 1° luglio la legge in materia di tutela degli animali. Ecco cosa prevede

Tutela degli animali: legge in vigore dal 1° luglio

Dopo l’approvazione definitiva del 29 maggio scorso da parte del Senato, la nuova legge n. 82/2025 che mira a a rafforzare la tutela degli animali, in linea con la riforma dell’articolo 9 della Costituzione, che riconosce la protezione degli animali come valore fondamentale, è approdata in Gazzetta Ufficiale per entrare in vigore dal 1° luglio 2025.

Il testo introduce numerose modifiche al codice penale, intensificando le sanzioni per i reati contro gli animali e prevedendo nuove misure di prevenzione e contrasto.

Queste modifiche rappresentano un passo avanti nella tutela giuridica degli animali, con pene più severe, nuove aggravanti e misure preventive. Le legge sottolinea il riconoscimento degli animali come esseri senzienti e introduce strumenti concreti per combattere la crudeltà e promuovere il loro benessere.

Sanzioni penali più elevate a tutela degli animali

L’articolo 1 modifica il Titolo IX-bis del Libro II del codice penale, riformulando il titolo in “Dei delitti contro gli animali”. Questo cambiamento elimina il riferimento al “sentimento per gli animali”, concentrandosi sulla tutela diretta degli animali come esseri senzienti. Ecco un riepilogo delle principali modifiche introdotte:

Organizzazione di spettacoli con sevizie (art. 544-quater)

La pena pecuniaria passa da 3.000-15.000 euro a 15.000-30.000 euro. Verrà inoltre punito anche chi, al di fuori dei casi di concorso, si limita a partecipare a questi spettacoli e manifestazioni.

Combattimenti tra animali (art. 544-quinquies)

La reclusione per questo reato aumenta da 1-3 anni a 2-4 anni. La pena per i partecipanti, in precedenza limitata ai proprietari degli animali, si estende a chiunque partecipi ai combattimenti (reclusione 3 mesi-2 anni e multa 5.000-30.000 euro).

Uccisione di animali (art. 544-bis)

La reclusione sale da 4 mesi-2 anni a 6 mesi-3 anni, con l’aggiunta di una multa di 5.000-30.000 euro.

Aggravante: sevizie o sofferenze prolungate sono punite con reclusione da 1 a 4 anni e una multa 10.000-60.000 euro.

Maltrattamento di animali (art. 544-ter)

La reclusione passa da 3-18 mesi a 6 mesi-2 anni, la multa (5.000-30.000 euro) diventa obbligatoria e si estende l’aggravante in caso di somministrazione di sostanze dannose agli animali.

Uccisione o danneggiamento di animali altrui (art. 638)

Chi, senza necessità, uccide o rende inservibili o comunque deteriora tre o più animali raccolti in gregge o in mandria, ovvero compie il fatto su animali bovini o equini, anche non raccolti in mandria, verrà punito con la pena della reclusione minima di un anno e massima di 4 anni.

Abbandono di animali (art. 727)

La multa minima passa da 1.000 a 5.000 euro. L’ammenda resta invece fissata nella misura massima di 10.000 euro.

Protezione della fauna selvatica (art. 727-bis)

Per l’uccisione, la cattura e la detenzione di esemplari di specie animali selvatiche protette la reclusione aumenta da 1-6 mesi a 3 mesi-1 anno. La multa invece passa da 4.000 a 8.000 euro.

Distruzione di habitat protetti (art. 733-bis)

Per chi distrugge o deteriora un habitat all’interno di un sito protetto la reclusione passa da un massimo di 18 mesi a 3 mesi-2 anni, mentre la multa minima diventa 6.000 euro.

Aggravante comune (art. 544-septies)

Viene introdotta un’aggravante a effetto comune per i reati di cui agli articoli 544 bis c.p, 544 ter c.p, 544 quater c.p, 544 quinquies c.p e 638 c.p, commessi in presenza di minori, nei confronti di più animali, o con diffusione attraverso strumenti telematici.

Misure preventive e procedurali a tutela degli animali

La legge tutela la salute psico fisica-degli animali, introducendo   importanti novità anche sotto il profilo procedurale.

Sequestro e confisca di animali

Gli animali vittime di reato non potranno essere abbattuti o ceduti fino alla sentenza definitiva. Il nuovo art. 260-bis del codice di procedura penale regola il sequestro, consentendo l’affidamento degli animali a enti, associazioni o privati dietro cauzione. Chi commette reati abituali contro gli animali potrà essere soggetto a misure di prevenzione previste dal codice antimafia.

Responsabilità amministrativa di enti e società

L’introduzione dell’art. 25-undevicies nel decreto legislativo 231/2001 prevede sanzioni specifiche per gli enti coinvolti in reati contro gli animali.

Divieto di catene

Sarà vietato tenere gli animali legati con catene o strumenti simili, salvo esigenze documentate. La violazione sarà punita con una multa da 500 a 5.000 euro.

Traffico illecito di animali da compagnia

La reclusione aumenta a 4-18 mesi e la multa da 6.000 a 30.000 euro. Sanzioni più severe sono previste per l’introduzione illecita di animali sul territorio nazionale.

Banca dati dei reati contro gli animali

Sarà creata una sezione specifica nella banca dati delle Forze di polizia, con il coinvolgimento del Ministero dell’Ambiente per il coordinamento.

Divieto di commercio di pellicce di gatti domestici

Sarà vietato utilizzare a fini commerciali pelli e pellicce della specie Felis catus.

 

Leggi anche: Reato somministrare farmaci non necessari agli animali

reati fiscali

Reati fiscali, tenuità del fatto se il debito è quasi estinto La Cassazione riconosce la tenuità del fatto per chi, pur indagato per reati fiscali, ha quasi integralmente estinto il debito

Reati fiscali e tenuità del fatto

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 22076/2025, ha ribadito un importante principio in materia di reati fiscali: l’elevato grado di collaborazione del contribuente con l’amministrazione finanziaria può giustificare l’applicazione dell’art. 131-bis c.p., che disciplina la non punibilità per particolare tenuità del fatto. Ciò vale soprattutto quando l’autore del reato ha versato quasi per intero l’importo contestato.

La vicenda

La questione riguarda una contribuente, legale rappresentante di una società, imputata per dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti (art. 2, D.lgs. 74/2000). Secondo l’accusa, l’imputata aveva inserito in dichiarazione elementi passivi fittizi per evadere l’IVA.

Condannata in primo grado dal Tribunale di Salerno il 12 marzo 2024, la sentenza è stata confermata dalla Corte d’appello. La difesa, nel ricorso per Cassazione, ha però evidenziato che l’imputata aveva già versato 95.500 euro su un debito complessivo di circa 97.000 euro, lamentando il mancato riconoscimento della tenuità del fatto.

Il principio affermato

Per la Suprema Corte, il comportamento successivo alla commissione del reato — nella specie il versamento quasi integrale del debito — costituisce un indice rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 131-bis c.p. La valutazione della particolare tenuità deve tenere conto della parte residua del debito ancora da saldare e dell’impegno concreto e attuale al pagamento.

Secondo i giudici, se la parte versata copre la quasi totalità del dovuto, tale condotta assume particolare rilevanza sotto il profilo collaborativo e può prevalere sull’offensività originaria del fatto.

Collaborazione e recupero prevalgono sulla punizione

La Cassazione sottolinea che negare rilevanza a tali comportamenti finirebbe per svuotare di significato la riforma dell’art. 13 del D.lgs. 74/2000, orientata a privilegiare il recupero delle somme evase rispetto alla sola finalità punitiva. Il diritto penale tributario moderno, in questa prospettiva, è volto a incentivare la regolarizzazione spontanea, anche parziale, dei debiti tributari.

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giurista risponde

Adescamento di minore e reati-fine: quale confine Come si atteggia il delitto di adescamento di minore previsto e punito dall’art. 609undecies c.p. rispetto ai reati-fine cui tende la condotta dell’agente?

Quesito con risposta a cura di Giulia Boursier Niutta e Tiziana Cassano

 

Il delitto di adescamento, di cui all’art. 609undecies c.p., è stato introdotto dalla L. 1° ottobre 2012, n. 172, recante la ratifica della Convenzione di Lanzarote, per accrescere la tutela del minore rispetto ai pericoli cui è esposto, in particolare sul web, e contiene una clausola di riserva “se il fatto non costituisce più grave reato”. Punisce infatti solo le condotte prodromiche a quelle previste dagli articoli da 600 a 600quinquies e dagli art. 609bis, 609quater, 609quinquies, 609octies c.p., sempre che non si sia verificato il reato fine. Il presupposto, pertanto, è che non siano ancora configurabili gli estremi del tentativo o della consumazione del reato fine. Si tratta quindi di una tutela anticipata rispetto alla commissione del reato fine, sia pure allo stadio del tentativo, e non è ammesso il concorso formale tra i due reati, perché vi sarebbe un bis in idem (Cass. sez. VI, 23 gennaio 2025, n. 2787).

Avverso la sentenza di condanna pronunciata in secondo grado che riconosceva la responsabilità penale dell’imputato in ordine al delitto previsto e punito dall’art. 609undecies c.p., la difesa ricorreva per Cassazione, eccependo violazione di legge e vizio di motivazione, avuto riguardo alla carenza dell’elemento soggettivo del reato di adescamento sotto il duplice profilo dell’assenza di prova dell’intenzione di commettere il reato-fine di atti sessuali con minorenne e della mancanza di prova della conoscenza o conoscibilità dell’età della persona offesa.

Dall’ipotesi accusatoria recepita dai giudici di merito, emergeva che l’imputato – venticinquenne – avesse adescato la persona offesa – dodicenne – su un social, carpendone la fiducia mediate la cessione delle credenziali di accesso alla piattaforma Netflix, finalizzata ad ottenere incontri sessuali. Inequivocabile appariva l’intento dal contenuto erotico delle conversazioni virtuali intrattenute, connotate da richieste ed inoltro da parte dell’imputato di materiale pornografico autoprodotto, nonché dalle bramose richieste di incontro in circostanze di intimità. Parimenti sconfessata appariva l’eccezione della difesa in ordine alla conoscibilità dell’età della persona offesa, atteso che quest’ultima denegava una richiesta d’incontro a causa della punizione impartita dai genitori.

Ebbene, la Suprema Corte adita – ritenendo il ricorso complessivamente infondato – ha trattato della fattispecie di adescamento di minore, analizzandone natura e funzione. Partendo dalla ratio legis della fattispecie in esame – rappresentata dalla necessità di tutelare i minori rispetto ai pericoli cui sono esposti, in particolare sul web, concepita al precipuo scopo di neutralizzare il rischio di commissione di reati più gravi – e dall’analisi della casistica nella quale si è costantemente ravvisato il tentativo del delitto di atti sessuali con minorenni, la Corte di legittimità ha evidenziato quanto segue. La disposizione di cui all’art. 609undecies c.p., integrando un reato di pericolo concreto, offre una tutela anticipata al bene giuridico che mira a proteggere (corretto sviluppo psicofisico del minore e sua autodeterminazione), criminalizzando condotte prodromiche rispetto a quelle previste dagli articoli da 600 a 600quinquies e dagli artt. 609bis, 609quater, 609quinquies e 609octies c.p., sempreché non si sia verificato il reato fine. Segnatamente, il delitto de quo si configura allorquando l’agente ponga in essere – attraverso artifici, lusinghe o minacce – atti volti a carpire la fiducia del minore, al fine di attrarre la persona offesa al proprio volere e addivenire al compimento del reato-fine. Affinché si configuri il delitto di cui all’art. 609undecies c.p. è, pertanto, necessario che non siano ancora configurabili gli estremi del tentativo o della consumazione del reato-fine, cui si accede quando si passa a richieste insistenti o pressanti di ottenere materiale pornografico ovvero atti sessuali. Quanto detto fuga ogni dubbio in ordine alla tenuta costituzionale della norma rispetto al principio di offensività. Parimenti è a dirsi per quanto concerne la legittimità della norma rispetto ai principi di determinatezza e proporzionalità della pena, atteso che il vaglio sull’elemento soggettivo del reato – dolo specifico – e sulla materialità dello stesso è ancorato a parametri oggettivi dai quali possa dedursi il movente sessuale e che gli atti posti in essere dall’agente finalisticamente orientati alla commissione del reato fine sono sanzionati con una cornice edittale autonoma – equa, proporzionata e inferiore – rispetto a quella prevista per i delitti cui accede. Di qui, la compatibilità del sistema anche con il principio di rieducazione della pena.

 

(*Contributo in tema di “Il confine tra il delitto di adescamento di minore e i reati-fine che la norma mira a prevenire”, a cura di Giulia Boursier Niutta e Tiziana Cassano, estratto da Obiettivo Magistrato n. 84 / Aprile 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

spese processuali

Spese processuali anche se il reato è prescritto La sentenza della Cassazione chiarisce che la prescrizione non evita la condanna dell’imputato alle spese della parte civile

Spese processuali e prescrizione

Con la sentenza n. 18619/2025, la seconda sezione penale della Corte di Cassazione ha ribadito un importante principio in materia di spese processuali in caso di estinzione del reato per prescrizione, affermando che l’imputato può essere comunque condannato al rimborso delle spese sostenute dalla parte civile, anche se non vi è stata pronuncia di colpevolezza.

Il fatto

Nel caso esaminato, il tribunale di merito aveva dichiarato l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione. Nonostante ciò, il giudice aveva condannato l’imputato al pagamento delle spese legali sostenute dalla parte civile costituitasi nel processo. L’imputato aveva proposto ricorso per cassazione, sostenendo che, venendo meno l’accertamento della responsabilità penale, non vi fosse legittimazione a imporre il pagamento delle spese a suo carico.

La motivazione della Corte

La Cassazione ha rigettato il ricorso e ha riaffermato che:

“Nell’ipotesi di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, l’imputato può comunque essere condannato al pagamento delle spese in favore della parte civile, non essendo la prescrizione indice di soccombenza”.

Secondo la Corte, la prescrizione non implica una pronuncia di assoluzione né tantomeno una valutazione favorevole in ordine alla fondatezza delle difese dell’imputato. Anzi, nel processo penale, la decisione di non proseguire per intervenuta estinzione del reato non impedisce al giudice di decidere sulle spese processuali, tenendo conto del comportamento complessivo delle parti.

Il principio di diritto affermato

Il principio sancito dalla sentenza è il seguente:

Anche in caso di estinzione del reato per prescrizione, l’imputato può essere condannato al pagamento delle spese sostenute dalla parte civile, soprattutto quando quest’ultima si sia costituita tempestivamente e la sua pretesa risarcitoria non sia risultata temeraria o strumentale.

Ciò si fonda sull’interpretazione sistematica dell’art. 541 c.p.p., secondo cui il giudice, nel disporre la condanna alle spese, può tener conto dell’andamento processuale e delle risultanze probatorie, pur senza emettere un giudizio di responsabilità.

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giurista risponde

Infedele patrocinio: il nocumento come elemento costitutivo della fattispecie Può ritenersi integrato il delitto di patrocinio infedele di cui all’art. 380 c.p. al cospetto della violazione di doveri professionali dai quali non consegua alcun nocumento?

Quesito con risposta a cura di Giulia Boursier Niutta e Tiziana Cassano

 

In tema di reati contro l’attività giudiziaria, il reato di patrocinio infedele non è integrato dalla sola violazione dei doveri professionali, occorrendo anche la verificazione di un nocumento agli interessi della parte, che può essere costituito dal mancato conseguimento di risultati favorevoli, ovvero da situazioni processuali pregiudizievoli, ancorché verificatesi in una fase intermedia del procedimento, che ne ritardino o impediscano la prosecuzione. – Cass., sez. VI, 28 gennaio 2025, n. 3431.

Con sent. 3431/2025, la Suprema Corte – chiamata a pronunciarsi in tema di patrocinio infedele previsto e punito dall’art. 380 c.p. – conformandosi all’orientamento giurisprudenziale in seno alla stessa consolidatosi, è tornata a sancire la necessità, ai fini dell’integrazione del delitto di cui trattasi, della sussistenza di un concreto nocumento cagionato all’assistito al cospetto della condotta che si assume infedele del patrocinatore.

La pronuncia originava dal ricorso promosso dall’imputato avverso la sentenza emessa in grado d’appello confermativa della condanna di primo grado, con la quale veniva riconosciuta la responsabilità penale del prefato accusato di aver abbandonato la difesa del proprio assistito (omettendo di comparire e costituirsi in giudizio). Ebbene, la difesa ricorreva per Cassazione eccependo violazione di legge ed erronea affermazione della responsabilità penale in ordine al delitto di cui all’art. 380 c.p. per insussistenza degli elementi strutturali del reato (sub species dell’elemento soggettivo e oggettivo), atteso che:

  • nell’ambito dei tre procedimenti penali oggetto d’imputazione, l’assistito veniva prosciolto e che all’odierno ricorrente alcun emolumento veniva corrisposto;
  • con riferimento al procedimento di natura civile, al ricorrente non veniva conferito mandato alle liti, difettando così il presupposto di legittimazione del difensore a costituirsi in giudizio.

Alcun pregiudizio subiva la persona offesa, ravvisandosi l’assenza nocumento da intendersi non necessariamente in senso civilistico quale danno patrimoniale, ma anche nel senso di mancato conseguimento di beni giuridici o di benefici, anche solo di ordine morale, che avrebbero potuto conseguire al corretto e leale esercizio del patrocinio legale (Cass., sez. V, 3 febbraio 2017, n. 22978; Cass., sez. II, 14 febbraio 2019, n. 12361). Pertanto, nell’accogliere il ricorso, la Corte di legittimità ha sancito l’impossibilità di sussumere il concreto nell’alveo della fattispecie incriminatrice in esame partendo proprio dalla definizione del nocumento quale elemento costitutivo indefettibile della sussistenza dell’illecito penale. In plurimi arresti, infatti, il Supremo Consesso ha sancito il principio secondo il quale la sola violazione dei doveri professionali gravanti in capo al patrocinatore non sarebbe sufficiente ad integrare gli estremi del delitto de quo, essendo necessario che dalla stessa derivi la verificazione dell’evento ovverossia di un nocumento agli interessi della parte ravvisabile anche al cospetto del mancato conseguimento di risultati favorevoli, ovvero di situazioni processuali pregiudizievoli, ancorché verificatesi in una fase intermedia del procedimento, che ne ritardino o impediscano la prosecuzione (Cass., sez. VI, 30 gennaio 2020, n. 8617; Cass. pen. 7 novembre 2019, n. 5764; Cass., sez. VI, 16 giugno 2015, n. 26542).

 

(*Contributo in tema di “Il delitto di infedele patrocinio: il nocumento come elemento costitutivo della fattispecie ”, a cura di Giulia Boursier Niutta e Tiziana Cassano, estratto da Obiettivo Magistrato n. 84 / Aprile 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

diffamazione

Diffamazione: l’uso del condizionale non basta per evitarla Cassazione: non basta il condizionale per evitare la diffamazione se la notizia è falsa e non verificata

Diffamazione online

La Corte di cassazione, con la sentenza n. 14196 del 2025, ha stabilito un principio rilevante in materia di diffamazione a mezzo stampa e diritto di cronaca: l’impiego di forme verbali al condizionale non è sufficiente a escludere la lesione della reputazione altrui, qualora le informazioni diffuse siano false, offensive e prive di verifica.

Secondo i giudici di legittimità, non si può invocare la scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca – neppure nella sua forma putativa – quando l’articolo diffonde insinuazioni suggestive e ambigue, presentando fatti non veri come se fossero plausibili, soprattutto se associati ad accadimenti reali.

Il caso concreto

Nel caso esaminato, un giornalista era stato condannato per aver pubblicato un articolo in cui un appartenente alla Guardia di Finanza veniva indicato come “in combutta coi narcos” in relazione a un’operazione antidroga. La notizia, veicolata attraverso un blog, utilizzava il condizionale per insinuare il coinvolgimento dell’agente, ma non era fondata su riscontri oggettivi né su fonti attendibili.

La difesa aveva sostenuto che l’uso del condizionale escludesse l’intento diffamatorio, ma la Cassazione ha chiarito che tale forma linguistica non esclude la responsabilità, quando le espressioni sono idonee a indurre il lettore a ritenere veritiera una notizia falsa.

Cronaca e verità: i limiti dell’art. 21 Cost.

Il diritto di cronaca, tutelato dall’art. 21 della Costituzione, incontra limiti precisi, fissati dalla giurisprudenza consolidata:

  1. Verità oggettiva della notizia, o quantomeno verità putativa, purché frutto di adeguate verifiche;

  2. Interesse pubblico alla diffusione del fatto;

  3. Continenza espositiva, ovvero modalità sobrie e rispettose nella narrazione.

L’assenza di uno di questi presupposti rende il contenuto potenzialmente diffamatorio e non giustificabile. L’utilizzo di un linguaggio allusivo o insinuante – anche se formalmente prudente – non è idoneo a scriminare la condotta lesiva.

La posizione della Cassazione

Nel testo della pronuncia, la Corte sottolinea che la carica offensiva di un’esposizione redazionale che mescoli fatti veri e non veri, con l’uso di espressioni ambigue e condizionali, è persino superiore rispetto a forme dubitative o interrogative. L’ambiguità narrativa può infatti generare nel lettore medio la convinzione di trovarsi di fronte a una verità oggettiva.

In assenza di verifica delle fonti e di riscontri concreti, il condizionale non solo non attenua, ma rafforza la responsabilità del cronista, specialmente quando si attribuiscono fatti penalmente rilevanti a soggetti determinati.

patrocinio infedele

Patrocinio infedele Patrocinio infedele: quando l’avvocato risponde penalmente – guida completa all’art. 380 c.p.

Cos’è il patrocinio infedele

Il reato di patrocinio infedele si configura quando l’avvocato, agendo con dolo, viola consapevolmente i doveri di fedeltà e lealtà nei confronti del proprio assistito, arrecandogli un danno giuridicamente rilevante. Si tratta di una fattispecie che tutela l’integrità del rapporto fiduciario tra difensore e cliente, ponendosi al crocevia tra diritto penale, deontologia forense e responsabilità professionale.

Normativa di riferimento: art. 380 codice penale

Il testo dell’art. 380 c.p. recita: “Il patrocinatore (…) che,  rendendosi infedele ai suoi doveri professionali, arreca nocumento agli interessi della parte da lui difesa, assistita o rappresentata dinanzi all’Autorità giudiziaria o alla Corte penale internazionale, è punito con la reclusione da uno a tre anni e con la multa non inferiore a euro 516.”

Il legislatore con questa norma intende colpire penalmente le condotte scorrette e sleali del difensore, che tradiscono gli interessi del proprio cliente con comportamenti fraudolenti.

Quando si configura il reato di patrocinio infedele

Il reato si perfeziona quando sussistono due elementi fondamentali:

  • un comportamento sleale o doloso dell’avvocato nell’esercizio dell’attività difensiva o di assistenza;
  • la lesione dei diritti della parte assistita, cagionata da tale comportamento.

Non si tratta di una semplice negligenza o imperizia, ma di una vera e propria infedeltà dolosa, come ad esempio:

  • la mancata presentazione intenzionale a un’udienza rilevante;
  • l’acquiescenza consapevole a provvedimenti sfavorevoli;
  • l’omissione di atti fondamentali per interesse proprio (es. favorire la controparte);
  • la comunicazione fraudolenta di informazioni al cliente, al solo fine di indurlo a rinunciare a un diritto.

Elemento oggettivo del reato

Sul piano oggettivo, il reato di patrocinio infedele richiede:

  • un atto o comportamento attivo od omissivo del difensore;
  • che tale condotta abbia precluso o danneggiato i diritti della parte;
  • che la condotta sia fraudolenta, ossia accompagnata da un elemento di inganno o dissimulazione.

Elemento soggettivo: il dolo specifico

Affinché si configuri il reato è sufficiente la presenza del dolo generico, ovvero  la rappresentazione e la volontà, anche eventuale, delle conseguenze dell’evento.

L’avvocato non risponde penalmente se:

  • agisce in buona fede;
  • commette un errore tecnico con colpa;
  • svolge l’attività con imperizia o superficialità, ma senza volontà fraudolenta.

Il momento consumativo del reato

Il reato si consuma nel momento in cui si materializza la lesione degli interessi del cliente. Non è sufficiente che si realizzi la mera lesione dell’interesse al regolare funzionamento della giustizia.

Procedibilità, competenza e pena

  • Procedibilità: il reato è procedibile d’ufficio.
  • Competenza: spetta al Tribunale in composizione monocratica.
  • Pena prevista: reclusione da uno a tre anni e multa don inferiore a 516,00 euro.

Violazione grave del rapporto fiduciario

Il patrocinio infedele costituisce una delle violazioni più gravi che un avvocato possa commettere nei confronti del proprio cliente. La norma mira a tutelare la fiducia nella funzione difensiva, cardine del giusto processo. La responsabilità penale si affianca a quella disciplinare e civile, e può comportare radiazione dall’albo, sanzioni economiche e pregiudizi irreparabili per la parte lesa.

Giurisprudenza rilevante sul patrocinio infedele

La Cassazione penale è intervenuta più e più volte per chiarire alcuni aspetti importanti del reato.

Cassazione n. 13084/2025: Nell’accertare il reato di infedele patrocinio, il giudice non può limitarsi a esaminare singoli atti isolati. È invece essenziale contestualizzare l’intera attività professionale svolta dall’avvocato, inserendola nella linea difensiva complessiva e nella strategia processuale adottata per raggiungere gli obiettivi del cliente. Questo approccio permette di valutare se il patrocinatore abbia intenzionalmente tradito il suo obbligo di curare gli interessi della parte, in conformità con il mandato ricevuto, le regole professionali e le incombenze processuali.

Cassazione n. 341/2025: il reato di patrocinio infedele ai sensi dell’articolo 380 del Codice Penale non si configura con la sola violazione dei doveri professionali. È infatti necessario che si verifichi un nocumento agli interessi della parte, il quale può manifestarsi come il mancato ottenimento di risultati favorevoli o la creazione di situazioni processuali pregiudizievoli, anche se queste si presentano in una fase intermedia del procedimento, ritardandone o impedendone il prosieguo. Questo nocumento, inteso come conseguenza della violazione dei doveri professionali, costituisce l’evento del reato. Tale evento non è necessariamente un danno patrimoniale in senso civilistico, ma può consistere anche nel mancato conseguimento di beni giuridici o di benefici, inclusi quelli di natura morale, che sarebbero derivati da un esercizio corretto e leale del patrocinio legale.

Cassazione n. 25766/2023: Il delitto di patrocinio infedele, delineato dall’articolo 380 del Codice Penale, si perfeziona nel momento in cui il professionista compie un’azione o un’omissione che, oltre a rappresentare un’infedeltà ai suoi doveri professionali, risulta capace di arrecare un nocumento agli interessi della parte che sta rappresentando, assistendo o difendendo.

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aggredire il capotreno

Aggredire il capotreno è reato di resistenza a pubblico ufficiale Aggredire il capotreno configura il reato di resistenza a pubblico ufficiale. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 20125/2025

La qualifica di pubblico ufficiale

Aggredire il capotreno è reato. Con la sentenza n. 20125/2025, la Corte di Cassazione ha ribadito che il capotreno, durante lo svolgimento delle proprie mansioni, riveste la qualifica di pubblico ufficiale. La decisione trae origine da un episodio in cui un passeggero, giunto il treno a fine corsa, ha rifiutato di scendere e ha aggredito il capotreno e il macchinista con calci e pugni.

La difesa aveva contestato la qualifica di pubblico ufficiale, sostenendo che l’attività svolta dal capotreno – limitata alla verifica del termine della corsa – fosse di natura interna e priva di rilievo pubblicistico. La Suprema Corte ha però escluso tale interpretazione.

Poteri autoritativi anche senza coercizione

La Cassazione ha chiarito che il concetto di “potere autoritativo” non si esaurisce nelle sole attività coercitive, ma comprende ogni attività che implichi l’esercizio di una potestà pubblica in forma discrezionale. Il soggetto che si trova destinatario di tale potere assume una posizione non paritetica, ovvero non è sullo stesso piano dell’autorità che lo esercita.

In questo contesto, anche se esercitata da personale appartenente a una società per azioni – come Trenitalia S.p.A. – l’attività può essere qualificata come pubblicistica se regolata da norme di diritto pubblico e finalizzata alla tutela di interessi generali, come la sicurezza dei viaggiatori.

La funzione pubblica del capotreno

Nel caso di specie, il capotreno, giunto a fine corsa, ha invitato il passeggero a lasciare il convoglio. L’aggressione è avvenuta in risposta a tale invito. Secondo la Corte, il controllo effettuato in quel momento rientrava pienamente nei compiti di sicurezza e ordine pubblico previsti dal D.P.R. n. 753/1980, che impone ai viaggiatori il rispetto delle disposizioni impartite dal personale ferroviario per la regolarità e sicurezza del servizio.

La normativa affida al personale ferroviario poteri accertativi e certificativi, anche in assenza delle forze dell’ordine, in merito a condotte rilevanti ai fini sanzionatori. Ne consegue che il comportamento del capotreno – diretto a garantire la sicurezza dei passeggeri e la regolare chiusura del servizio – ha natura pubblicistica.

Il reato di resistenza a pubblico ufficiale

Sulla base di tali considerazioni, la Corte ha confermato la condanna per il reato di cui all’art. 337 c.p., ritenendo legittima la qualifica di pubblico ufficiale attribuita al capotreno. È stata dunque respinta la tesi difensiva secondo cui la funzione esercitata sarebbe stata priva di rilievo pubblicistico.

Il ricorso è stato rigettato e l’imputato condannato anche al pagamento delle spese processuali.

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