Diffamazione su WhatsApp: esclusa l’aggravante della pubblicità Diffamazione su WhatsApp: esclusa l’aggravante delle pubblicità, la chat conserva una sua riservatezza, non è un sito o un social media

Diffamazione su una chat di WhatsApp

Esclusa la diffamazione aggravata dal mezzo della pubblicità del messaggio offensivo su una chat di WhatsApp. Lo ha stabilito la sentenza n. 42783/2024 della Corte di Cassazione. La decisione ha stabilito infatti che l’invio di un messaggio offensivo su una chat di WhatsApp non comporta automaticamente l’applicazione dell’aggravante del “mezzo di pubblicità”. La sentenza chiarisce che l’uso di piattaforme come WhatsApp, anche se coinvolge numerosi partecipanti, non equivale a una comunicazione pubblica. La riservatezza intrinseca di queste chat limita la diffusività del messaggio e impedisce l’applicazione automatica di aggravanti legate alla pubblicità.

Militare assolto dal reato di diffamazione

Il caso di cui si sono occupati gli Ermellini riguarda un militare, accusato di aver diffamato una collega tramite un commento offensivo inviato a una chat WhatsApp denominata “181 ESEMPIO”, composta da 156 membri. Per l’accusa il numero di iscritti configura l’aggravante del “mezzo di pubblicità”, rendendo il reato procedibile d’ufficio. Tuttavia, il giudice di primo grado ha assolto l’imputato per “particolare tenuità del fatto” ai sensi dell’articolo 131 bis del codice penale.

La Corte Militare d’Appello ha confermato la condanna, sostenendo la natura pubblica della comunicazione nella chat. Ricorrendo in Cassazione, la difesa dell’imputato ha sollevato tre punti: erronea identificazione della persona offesa, contraddittorietà nella qualificazione dell’offesa e impropria applicazione della legge riguardo alla presunta “pubblicità” del messaggio.

Aggravante della pubblicità inapplicabile

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso in merito all’errata applicazione dell’aggravante del mezzo di pubblicità. Secondo i giudici, una chat WhatsApp, seppur con numerosi iscritti, conserva una dimensione riservata e non può essere equiparata a strumenti come social network o siti web pubblici. La decisione si basa su un’analisi dettagliata delle caratteristiche tecniche della piattaforma. La sentenza distingue infatti i mezzi di comunicazione in grado di raggiungere un pubblico indeterminato dagli strumenti più circoscritti come le chat private.

Aggravante della pubblicità configurabile su social e siti web

Nelle piattaforme social, come Facebook, la diffusione di contenuti può teoricamente raggiungere un numero indefinito di utenti, configurando una “pubblicità” che giustifica l’applicazione dell’aggravante. Nel caso delle chat WhatsApp, invece, il messaggio è accessibile solo agli iscritti, i quali devono essere stati precedentemente accettati nel gruppo. Questa caratteristica preserva un elemento fondamentale di riservatezza, anche se il numero di membri può essere elevato. La Cassazione sottolinea che la diffusione di un messaggio all’interno di un gruppo chiuso non determina automaticamente la “perdita di riservatezza”. Con l’esclusione dell’aggravante, il reato contestato al militare è procedibile solo su querela di parte e non d’ufficio. La mancanza di una querela valida ha quindi portato all’annullamento senza rinvio della sentenza d’appello, rendendo improcedibile il caso.

 

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reato di truffa

Reato di truffa accodarsi all’auto davanti per non pagare Telepass Reato di truffa: integrato anche quando ci si accoda all’automobile che precede nella pista riservata al Telepass per non pagare il pedaggio 

Reato di truffa non pagare i pedaggi autostradali

Il reato di truffa punito dall’art. 640  c.p, rappresenta una fattispecie complessa che si configura anche quando, come nel caso di cui si è occupata la Cassazione nella sentenza n. 42760/2024, con più azioni dello stesso disegno criminoso, un soggetto compie più passaggi autostradali alla guida della propria auto accodandosi al veicolo che lo precede sulla pista riservata al Telepass per non pagare il pedaggio.

Il caso analizzato dagli Ermellini offre spunti di riflessione sulle dinamiche di questo reato, anche in relazione a provvedimenti cautelari e alla disponibilità dei beni strumentali.

Sequestro preventivo del mezzo

Il Giudice di primo grado si pronuncia su un caso di presunta truffa connessa al mancato pagamento di pedaggi autostradali. L’indagato, attraverso una serie di condotte illecite reiterate, avrebbe infatti evitato di pagare i pedaggi accodandosi ai veicoli sulla corsia riservata al Telepass. Questo comportamento, configurato come reato di truffa, è accompagnato dal sequestro preventivo dell’autovettura utilizzata per commettere il reato.

Istanza di dissequestro dell’auto dell’acquirente

Nella vicenda però è coinvolto anche un terzo soggetto, che ha acquistato l’auto utilizzata dall’indagato per commettere il reato e che per questo ha presentato istanza di dissequestro del mezzo. L’uomo, a supporto della sua domanda, sostiene la regolarità della compravendita e la sua estraneità al reato. Il Tribunale però rigetta la richiesta. Per l’autorità giudiziaria il contratto rappresenta un possibile espediente per eludere il vincolo reale sul bene.

Nessun contratto di comodo per l’acquisto dell’auto

La decisione viene portata all’attenzione della Corte di Cassazione. Il ricorrente sostiene che la compravendita era avvenuta in buona fede e prima che l’indagato fosse consapevole delle accuse a suo carico. La difesa denuncia un apparato motivazionale insufficiente e illogico del provvedimento con cui si è deciso di mantenere il sequestro, contestando la definizione del contratto come un accordo “di comodo”. Nell’impugnazione il ricorrente sottolinea inoltre l’assenza di trascrizione nei registri pubblici, da cui dovrebbe conseguire l’invalidazione del sequestro.

Sequestro opponibile al terzo

La Cassazione dichiara inammissibile il ricorso, riaffermando alcuni principi giuridici fondamentali.

  • In materia di ricorsi contro provvedimenti cautelari reali, è possibile sollevare solo questioni di legittimità e non di merito. Nel caso in esame, le contestazioni avanzate si riferiscono invece soprattutto al merito della valutazione del Tribunale, quindi non esaminabili in sede di legittimità.
  • Il sequestro può essere opposto anche al terzo acquirente se emergono elementi che dimostrano la strumentalità del contratto rispetto al reato.
  • La mancata trascrizione del vincolo non influisce sulla validità del sequestro, poiché tale formalità ha natura meramente dichiarativa e non costitutiva.

Il caso richiama l’attenzione su fenomeni di micro-criminalità, come l’elusione dei pedaggi autostradali, che possono assumere rilevanza penale e comportare conseguenze significative, inclusa la perdita della disponibilità di beni apparentemente estranei al reato.

 

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Allegati

divieto di avvicinamento

Divieto di avvicinamento: requisiti della misura Divieto di avvicinamento: il giudice deve indicare i luoghi che la vittima frequenta di solito, la distanza minima e la misura di controllo

Requisiti del divieto di avvicinamento

Quando un giudice emette un divieto di avvicinamento, è tenuto a specificare nell’ordinanza i luoghi abitualmente frequentati dalla vittima, la distanza minima di sicurezza da mantenere, che non deve essere inferiore a 500 metri, e il sistema di controllo da adottare.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 42892/2024, ha annullato un’ordinanza del Tribunale del Riesame di Genova, mettendo in luce gravi carenze nell’applicazione del divieto avvicinamento nei confronti della persona offesa.

Questo provvedimento sottolinea i requisiti imprescindibili che devono essere rispettati dai giudici quando dispongono misure cautelari per proteggere le vittime, specialmente nei casi di violenza domestica o di genere.

Così facendo, la Corte riafferma l’importanza di applicare rigorosamente le norme relative al divieto di avvicinamento. I giudici devono assicurarsi che le misure cautelari non siano solo simboliche, ma strumenti efficaci per prevenire ulteriori abusi. La precisione delle prescrizioni e l’utilizzo delle tecnologie di controllo non sono facoltativi, ma requisiti essenziali per garantire la sicurezza delle vittime e l’efficacia dell’intervento giudiziario.

Lacune nell’ordinanza cautelare

L’ordinanza contestata è stata emessa il 31 luglio 2024. Con questo provvedimento, il Tribunale del Riesame aveva sostituito gli arresti domiciliari dell’imputato con il divieto di avvicinamento alla persona offesa e ai luoghi da questa frequentati, assieme a un obbligo di dimora con permanenza notturna. Tuttavia, il Pubblico Ministero ha impugnato la decisione evidenziando:

  • la mancata indicazione dei luoghi solitamente frequentati dalla vittima;
  • l’assenza della distanza minima di sicurezza di 500 metri;
  • la mancata imposizione dei dispositivi elettronici di controllo come previsto dall’articolo 282-ter c.p.p., aggiornato dalla Legge 168/2023.

Previsioni legislative

Le normative attualmente vigenti richiedono che nel disporre il divieto di avvicinamento alla persona offesa il giudice debba indicare:

  • i luoghi abitualmente frequentati dalla vittima con descrizioni chiare e dettagliate;
  • una distanza minima non inferiore a 500 metri;
  • l’adozione obbligatoria dei dispositivi elettronici per il controllo (come ad esempio i braccialetti elettronici), salvo accertamenti tecnici che ne dimostrino l’impossibilità.

Tali requisiti sono stati introdotti attraverso modifiche legislative mirate a rafforzare le tutele per le vittime dei reati violenti e garantire un controllo efficace sui comportamenti degli imputati. La legge stabilisce che la mancanza anche solo di uno degli elementi richiesti rende il provvedimento viziato.

Divieto di avvicinamento: criticità dell’ordinanza

La Corte di Cassazione, concordando con il Pubblico Ministero, ha ritenuto l’ordinanza emessa dal Tribunale genovese non conforme ai principi sanciti dalla normativa vigente. Essa infatti non ha specificato i luoghi frequentati dalla persona offesa, elemento cruciale per fornire certezze sia all’imputato sia alla vittima. L’omissione compromette infatti l’efficacia delle misure cautelari e la sicurezza della vittima.

Inoltre, nell’ordinanza mancava anche la prescrizione della distanza minima richiesta dalla legge. Infine, non era previsto l’utilizzo degli strumenti elettronici per il controllo come richiesto dall’articolo 282-ter; questo impone infatti che il divieto d’avvicinamento venga accompagnato da modalità tecnologiche salvo impossibilità tecnica dichiarata espressamente. Tale misura non è accessoria, ma parte integrante della tutela.

La Cassazione ribadisce inoltre che il divieto d’avvicinamento rappresenta una misura cautelare unica modulabile secondo due approcci:

  • vietando l’accesso ai luoghi frequentati dalla vittima;
  • imponendo una distanza minima rispetto alla persona offesa.

La scelta tra queste opzioni o loro combinazione deve essere motivata nel rispetto dei principi proporzionalità ed adeguatezza; inoltre prescrivere controlli tramite dispositivi tecnologici obbligatoriamente garantisce continuo monitoraggio sul rispetto delle misure imposte.

Misure protettive più stringenti

Le modifiche legislative recenti culminate nella Legge n°168/2023 hanno reso più stringente quadro normativo relativo alle misure protettive seguendo approccio tolleranza zero verso violenze domestiche/genere; in particolare eliminata discrezionalità giudice circa adozione dispositivi elettronici rendendoli obbligatori salvo impossibilità tecnica accertata.

La sentenza ha quindi annullato l’ordinanza impugnata, disponendo rinvio Tribunale Genova affinché deliberi nuovamente rispettando principi stabiliti dalle norme vigenti.

 

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messa alla prova

Messa alla prova La messa alla prova è un istituto giuridico di diritto penale che permette di evitare la condanna se si rispetta il programma di recupero

Messa alla prova: analisi della disciplina

La messa alla prova è un istituto giuridico che consente a un imputato di affrontare un processo penale senza la condanna, purché dimostri il proprio impegno nel seguire un programma di recupero sociale. Questo strumento ha come obiettivo la rieducazione e il reinserimento del reo nella società, riducendo così il ricorso alla pena detentiva. In Italia, la messa alla prova è disciplinata dalla Legge 67/2014, modificata dal D.Lgs. n. 150/2022, con l’intento di rafforzare e migliorare l’efficacia di questa misura alternativa alla pena.

Introduzione della messa alla prova

La Legge 67/2014 ha introdotto nel sistema penale italiano l’istituto della messa alla prova, applicabile a imputati per reati di natura non grave. L’idea alla base di questa legge è quella di offrire a chi ha commesso un reato l’opportunità di evitare la pena detentiva a condizione che accetti di intraprendere un percorso di recupero e di reintegrazione sociale, sotto il controllo delle autorità competenti.

L’istituto può essere richiesto per reati punibili con pene inferiori a 4 anni di reclusione, salvo specifiche esclusioni. Esso è applicabile in particolare a persone con un’età inferiore ai 21 anni al momento del reato, a chi ha compiuto 70 anni, o a chi è affetto da patologie che ne rendono incompatibile l’esecuzione della pena.

Durante il periodo della messa alla prova, l’imputato può essere obbligato a svolgere attività socialmente utili, partecipare a corsi di formazione o seguire programmi terapeutici, a seconda del tipo di reato commesso e della valutazione del giudice. Se l’imputato completa con successo il programma, il processo penale si conclude con un esito positivo, evitando la condanna.

Novità del decreto legislativo n. 150/2022

Il D.Lgs. n. 150/2022, entrato in vigore il 17 ottobre 2022, ha apportato rilevanti modifiche alla Legge 67/2014, per rendere l’istituto uno strumento ancora più efficace e accessibile, mirando a una maggiore personalizzazione del trattamento e alla riduzione dei tempi processuali.

Una delle principali novità riguarda l’ampliamento delle categorie di reati per cui è possibile richiedere la messa alla prova. Il decreto legislativo 150/2022 ha esteso l’istituto anche a reati che, pur non essendo di particolare gravità, erano precedentemente esclusi da questa misura alternativa. Inoltre, il decreto ha reso più flessibile la durata dell’istituto, permettendo di adattarla alle necessità del singolo individuo e al tipo di programma scelto.

Una novità significativa riguarda anche l’introduzione di meccanismi di monitoraggio più efficienti. La legge 150/2022 ha reso più stringente il sistema di controllo sull’osservanza degli impegni assunti dall’imputato, con un maggiore coinvolgimento dei servizi sociali e delle agenzie di recupero. Ciò permette di garantire che il processo di rieducazione e reintegrazione sia effettivamente seguito e che venga rispettato dagli imputati.

Come funziona la messa alla prova

Il funzionamento della messa alla prova prevede che il giudice verifichi, su richiesta dell’imputato, se sussistono le condizioni per l’applicazione di questa misura. In caso positivo, il giudice stabilisce le modalità e le condizioni specifiche per il programma di recupero. Il periodo di messa alla prova varia in base alla tipologia di reato e alle esigenze di recupero dell’imputato. L’articolo 168 c.p stabilisce in ogni caso che “La prestazione è svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato e la sua durata giornaliera non può superare le otto ore. La sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato non può essere concessa più di una volta.”

Nel periodo stabilito, l’imputato è tenuto a completare attività lavorative o socialmente utili, attività educative, corsi di formazione o di terapia, a seconda del piano stabilito. Se al termine del programma il giudice ritiene che l’imputato abbia adempiuto agli obblighi previsti, il procedimento penale viene archiviato e non viene inflitta alcuna condanna.

Se, invece, l’imputato non rispetta le condizioni della messa alla prova, il giudice può decidere di revocarla, con conseguente ripristino del processo penale. In tal caso, l’imputato viene giudicato secondo le modalità ordinarie.

I benefici della misura

La messa alla prova offre numerosi vantaggi sia per l’imputato che per la società. Tra i benefici principali della misura ci sono i seguenti:

  • evitare il carcere: la messa alla prova consente di evitare la pena detentiva, che può essere particolarmente gravosa per il reo e dannosa per il suo reinserimento sociale;
  • promuovere la rieducazione: attraverso attività socialmente utili e programmi di formazione, l’imputato ha l’opportunità di recuperare e reintegrarsi nella società;
  • decongestionare il sistema penale: la messa alla prova riduce il carico di lavoro per i tribunali e le carceri, contribuendo a snellire i processi e a garantire una giustizia più rapida;
  • risparmio di risorse: il sistema di messa alla prova, che prevede l’utilizzo di risorse esterne come associazioni di volontariato, è anche un modo per ottimizzare i costi del sistema giudiziario e penitenziario.

 

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giurista risponde

Delitto di concussione e mancanza di coercizione psicologica È configurabile il delitto di concussione nel caso in cui la condotta intimidatoria del pubblico agente non determini uno stato di coercizione psicologica nel soggetto passivo?

Quesito con risposta a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti

 

Non è configurabile il delitto di concussione nel caso in cui la condotta del pubblico agente si risolva in un mero condizionamento, o in un’attività di generica persuasione, che non si estrinsechi in una forma di intimidazione obiettivamente idonea a determinare uno stato di coercizione psicologica nel soggetto passivo (Cass., sez. VI, 4 ottobre 2024, n. 36951).

Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a valutare l’applicazione del regime dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni ex art. 393 c.p., in luogo della fattispecie di concussione ex art. 317 c.p.

La Corte d’Appello territoriale, invero, aveva confermato la condanna del ricorrente per i delitti di concussione tentata e consumata, dichiarando inammissibile l’appello proposto dalla parte civile. L’imputato, all’epoca dei fatti appuntato scelto dai Carabinieri, era stato ritenuto responsabile di detti reati in relazione alle condotte tenute al fine di ottenere il risarcimento dei danni della propria autovettura, commessi da minori non identificati. Tali condotte sono consistite nel convocare i genitori dei minori sospettati di essere tra i possibili autori del danneggiamento, presentandosi, in una occasione, in divisa, nel chiedere loro con insistenza di individuare i colpevoli o di contribuire tutti alla riparazione dell’auto, sulla base di preventivi presentati dallo stesso ricorrente, richiesta cui aderivano solo alcuni dei genitori, raccogliendo una somma di danaro che, tuttavia, veniva rifiutata dall’imputato, poiché inferiore all’importo richiesto dallo stesso nei preventivi predetti.

Avverso la sentenza della Corte territoriale, l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione deducendo, in primo luogo, la mancanza della condizione di coazione psicologica delle vittime. Egli, infatti, aveva agito in qualità di privato cittadino e senza provocare nei genitori – come riferito da un teste – alcuna forma di timore riverenziale.

La Suprema Corte ha ritenuto fondati il primo e il terzo motivo, cui assorbiva gli altri.

La Corte, preliminarmente, evidenziava che il delitto di concussione richiede una condotta di prevaricazione abusiva del funzionario pubblico, commessa con abuso dei suoi poteri o delle sue qualità, che incida in modo significativo sulla libertà di autodeterminazione del destinatario, costringendolo alla dazione o alla promessa indebita.

È fondamentale, dunque, ai fini della configurabilità del reato, che l’agente pubblico si sia avvalso della posizione di preminenza sul privato, per cercare di prevaricarne le scelte e le decisioni (Cass., sez. VI, 4 giugno 2021, n. 24560), atteso che l’avverbio “indebitamente”, utilizzato nell’art. 317 c.p., qualifica non già l’oggetto della pretesa del pubblico ufficiale, la quale può anche non essere oggettivamente illecita, quanto le modalità della sua richiesta e della sua realizzazione (Cass., sez. VI, 1° febbraio 2011, n. 27444).

Le Sezioni Unite hanno chiarito che il delitto di concussione è caratterizzato, dal punto di vista oggettivo, da un abuso costrittivo del pubblico agente che si attua mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno “contra ius”, da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che, senza alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all’alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita; inoltre, si distingue dal delitto di induzione indebita, previsto dall’art. 319quater c.p., la cui condotta si configura come persuasione, suggestione, inganno (sempre che quest’ultimo non si risolva in un’induzione in errore), pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivato dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico (Cass., Sez. Un., 24 ottobre 2013, n. 12228).

Le Sezioni Unite hanno, inoltre, perimetrato il confine tra le due modalità di realizzazione della condotta del pubblico agente chiarendo, in primo luogo, che l’abuso della qualità – c.d. abuso soggettivoconsiste nell’uso indebito della posizione personale rivestita dal pubblico funzionario e, quindi, nella strumentalizzazione da parte di costui non di una sua attribuzione specifica, bensì della propria qualifica soggettiva – senza alcuna correlazione con atti dell’ufficio o del servizio – così da fare sorgere nel privato rappresentazioni costrittive o induttive di prestazioni non dovute. In secondo luogo, le Sezioni Unite evidenziavano che tale abuso della qualità, per assumere rilievo come condotta costrittiva o induttiva (rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 319quater c.p.), deve sempre concretizzarsi in un facere” (non è configurabile in forma omissiva) e deve avere una efficacia psicologicamente motivante per il soggetto privato che deve comunque avvertire la possibile estrinsecazione dei poteri del pubblico agente, con conseguenze per sé pregiudizievoli o anche ingiustamente favorevoli e, proprio per scongiurare le prime o assicurarsi le seconde, decide di aderire all’indebita richiesta. In terzo luogo, l’abuso dei poteri – c.d. abuso oggettivo – consiste invece nella strumentalizzazione da parte del pubblico agente dei poteri a lui conferiti, nel senso che questi sono esercitati in modo distorto, vale a dire per uno scopo oggettivamente diverso da quello per cui sono stati conferiti e in violazione delle regole giuridiche di legalità, imparzialità e buon andamento dell’attività amministrativa. Infine, tale abuso può essere realizzato in forma sia commissiva che omissiva, potendo il pubblico funzionario deliberatamente astenersi dall’esercizio dei propri poteri, ricorrendo a sistemi defatigatori di ritardo o di ostruzionismo volti a conseguire la dazione o la promessa di denaro o di altre utilità in cambio del sollecito compimento dell’atto richiesto.

Affinché possa configurarsi il delitto di concussione, occorre, dunque, che, attraverso tale abuso, dei poteri o delle qualità, il pubblico ufficiale, o l’incaricato di un pubblico servizio, eserciti forme di pressione di tale intensità da non lasciare margine alla libertà di autodeterminazione del destinatario della pretesa illecita, che, di conseguenza, si determina alla dazione o alla promessa esclusivamente per evitare il danno minacciato.

Nel caso di specie, pertanto, ad avviso dei giudici di legittimità, la Corte territoriale, formulando una valutazione che esulava da tali coordinate ermeneutiche, si era limitata a porre l’accento su alcuni particolari di per sé non determinanti, quali la qualifica pubblicistica del ricorrente -indipendentemente da una sua effettiva strumentalizzazione, ma solo in quanto nota a tutti i genitori – e il fatto che lo stesso si sia presentato ad una riunione in divisa.

Invero, secondo quanto emerge dalle due sentenze di merito, l’imputato si era sostanzialmente limitato ad una generica pressione, prospettando le possibili ragioni di convenienza legate a eventuali indagini sui danneggiamenti o di carattere socio-familiare da parte dei servizi sociali, qualora non fossero stati individuati gli autori dei danneggiamenti ovvero non si fosse provveduto, in ogni caso, alla riparazione dell’auto privata del ricorrente.

Tale richiesta, sebbene posta in essere nei confronti di soggetti che ne conoscevano l’appartenenza all’Arma dei Carabinieri, non appare in alcun modo attuata con modalità tali da configurare quella indebita strumentalizzazione della qualifica o del potere idonea a coartare la volontà dei destinatari. Egli, infatti, si era limitato a chiedere loro di individuare i colpevoli o, comunque, di attivarsi al fine di risarcirlo del danno, pretesa quest’ultima che, sebbene censurabile sotto un profilo civilistico, non risulta accompagnata da alcuna prospettazione di un male ingiusto che ne giustifichi una rilevanza agli effetti penali (tale non potendosi intendere il generico riferimento alle indagini che sarebbero state svolte in caso di denuncia riguardante minorenni).

Siffatta condotta esorbita dal perimetro della “costrizione”, come sopra definita, trattandosi di una mera pressione che, oltre a non apparire correlata ad un abuso né dei poteri né della qualità del ricorrente, per le modalità con le quali è stata esercita non appare idonea ad incidere sulla libertà di autodeterminazione dei destinatari della richiesta.

Deve, dunque, ribadirsi che non è configurabile il delitto di concussione nel caso in cui la condotta del pubblico agente si risolva in un mero condizionamento, o in un’attività di generica persuasione, che non si estrinsechi in una forma di intimidazione obiettivamente idonea a determinare uno stato di coercizione psicologica nel soggetto passivo.

 

(*Contributo in tema di “Sinistro stradale e risarcimento del terzo trasportato”, a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

reato maternità surrogata

Il reato di maternità surrogata Cosa prevede la nuova legge che introduce il reato di maternità surrogata commesso all’estero da un cittadino italiano pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 18 novembre e in vigore dal 3 dicembre 2024

Maternità surrogata: reato universale

Nella giornata del 16 ottobre 2024 è arrivato il sì definitivo del Senato, al ddl n. 824 proposto da Fratelli d’Italia che ha reso la maternità surrogata un reato universale.

La nuova legge n. 169/2024, recante “Modifiche all’art. 12 della legge n. 40/2004, in materia di perseguibilità del reato di surrogazione di maternità commesso all’estero da cittadino italiano”, è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 18 novembre per entrare in vigore il 3 dicembre.

Modifica della legge 40/2004

Il testo va a modificare l’articolo 12 della legge n. 40 del 19 febbraio del 2004, che punisce la realizzazione, la commercializzazione, l’organizzazione o pubblicizza il commercio dei gameti e degli embrioni o la surrogazione di maternità.

Al comma 6 dell’articolo 12 di detta legge il ddl aggiunge il seguente periodo: se i fatti di cui al periodo precedente, con riferimento alla surrogazione di maternità, sono commessi allestero, il cittadino italiano è punito secondo la legge italiana”. 

Condotte in paese straniero

Il provvedimento prevede in pratica l’applicazione della legge italiana anche quando le condotte punite dal comma 6 relative alla maternità surrogata vengono commesse in un paese straniero.

In questo modo si potranno perseguire penalmente anche le condotte, già punite dalla legge n. 40/2004, anche se poste in essere in un paese estero e anche qualora questo paese estero non le consideri un illecito penale.

Pene previste per reato di maternità surrogata

Il testo della nuova legge è lo stesso che era già stato approvato dalla Camera durante la prima lettura avvenuta nel luglio del 2023.

Durante l’iter la Lega aveva proposto un inasprimento ulteriore delle sanzioni derivanti dal reato portando la reclusione a 10 anni e la multa fino a 2 milioni di euro, ma la proposta è stata respinta.

Al reato di surrogazione di maternità si applicheranno, di conseguenza, le pene previste dallo stesso comma 6 ossia la reclusione da tre mesi a due anni e la multa da 600.000 euro fino a 1 milione di euro.

decreto giustizia

Decreto giustizia: tutte le novità Decreto giustizia n. 178/2024: tutte le novità sulle misure per la giustizia, sulla tutela delle vittime, e sulle riforme della magistratura

Decreto giustizia: in Gazzetta il DL n. 178/2024

Il Decreto giustizia n. 178/2024, contenente “Misure urgenti in materia di giustizia”, approda sulla Gazzetta Ufficiale n. 280 del 29 novembre 2024 ed entra in vigore il 30 novembre. Questo provvedimento, composto da 11 articoli, introduce diverse disposizioni per rafforzare il sistema giudiziario. Il testo dedica anche particolare attenzione alla tutela delle vittime di violenza di genere, alla gestione delle misure cautelari e all’organizzazione interna della magistratura.

Vittime di violenza: novità sul braccialetto elettronico

Il decreto giustizia potenzia gli strumenti a disposizione dell’autorità giudiziaria per proteggere le vittime di violenza di genere e atti persecutori. In particolare, vengono perfezionate le norme sulle modalità di utilizzo del braccialetto elettronico. La polizia giudiziaria, prima che il giudice decida la misura cautelare, deve verificare la fattibilità tecnica e operativa dello strumento.

Questo controllo tiene conto dei seguenti aspetti:

  • caratteristiche dei luoghi coinvolti;
  • distanze e copertura della rete;
  • qualità del collegamento e tempi di invio dei segnali;
  • capacità gestionale dello strumento.

Un rapporto dettagliato su queste verifiche deve essere trasmesso all’autorità giudiziaria entro 48 ore. Se il braccialetto non è tecnicamente od operativamente idoneo, il giudice può adottare misure più severe, anche in combinazione con quelle già in atto.

In caso di violazioni gravi o reiterate delle prescrizioni imposte, il giudice ha la facoltà di revocare gli arresti domiciliari e optare per la custodia cautelare in carcere.

Proroga elezioni giudiziarie e misure per la magistratura

Un’altra importante disposizione del decreto giustizia riguarda la proroga delle elezioni per i Consigli giudiziari e il Consiglio direttivo della Corte di Cassazione, ora fissate per aprile 2025. Questa decisione permette di riallineare le date elettorali alle recenti modifiche normative e assicurare una gestione più fluida delle procedure di rinnovo.

Il decreto modifica inoltre i criteri per il conferimento degli incarichi direttivi di legittimità, riservandoli ai magistrati che garantiranno almeno due anni di servizio prima del collocamento a riposo, anziché quattro.

In vista della piena operatività del nuovo Tribunale per le persone, i minorenni e la famiglia, si introduce una deroga temporanea ai limiti di permanenza nell’incarico per i magistrati già assegnati a procedimenti familiari. Questa misura intende incentivare l’integrazione dei magistrati esperti nella nuova struttura.

Formazione e impiego dei giudici onorari

Per accelerare i conferimenti di incarichi direttivi e semidirettivi, l’obbligo di frequenza dei corsi di formazione viene posticipato all’avvenuto conferimento dell’incarico, da completare entro sei mesi. Tale modifica riduce i tempi burocratici, agevolando una più rapida assegnazione delle responsabilità.

Il periodo di assegnazione dei giudici onorari di pace all’ufficio del processo è ridotto da due anni a uno. Questa decisione punta a rendere più efficiente l’impiego delle risorse selezionate, velocizzando il loro contributo concreto all’attività giudiziaria.

Emergenza carceraria ed edilizia penitenziaria

Tra le misure adottate spiccano le modifiche alla disciplina del Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria. L’obiettivo è affrontare con maggiore efficienza la crisi del sistema carcerario, migliorando le strutture e ottimizzando l’allocazione delle risorse.

Insolvenza, INAIL e lavori di pubblica utilità

Il provvedimento chiarisce alcune disposizioni transitorie relative al Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Inoltre, si introducono misure specifiche per estendere la copertura INAIL ai soggetti impegnati in lavori di pubblica utilità. Questa previsione amplia le tutele per i lavoratori, garantendo un maggiore riconoscimento della loro attività.

Temi esclusi dal decreto giustizia

Nonostante le aspettative iniziali, il testo definitivo del decreto non include norme riguardanti gli illeciti dei magistrati. Le polemiche suscitate dalla proposta di introdurre nuove fattispecie di illeciti disciplinari hanno portato alla loro esclusione.

Allo stesso modo, non sono state inserite le norme sulla cybersicurezza, che avrebbero attribuito al procuratore nazionale Antimafia e Antiterrorismo funzioni di impulso per reati informatici.

 

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indulto

Indulto: guida completa Indulto: disciplinato dall’art. 174 c.p. è un provvedimento generale che condona in tutto o in parte la pena o la trasforma in un’altra specie

Cos’è l’indulto

L’indulto è una misura di clemenza che può essere concessa dallo Stato per ridurre, estinguere o commutare le pene inflitte a chi ha commesso reati, ma solo in determinate circostanze. Trattasi di un provvedimento di clemenza che consente infatti la riduzione, l’estinzione  e la commutazione della pena inflitta per determinati reati in un’altra specie di pena.

Esso è concesso dal Presidente della Repubblica ma, a differenza della grazia, che viene concessa  in relazione a casi singoli, l’indulto ha un carattere collettivo e si applica a categorie di detenuti.

Art. 79 della Costituzione: votazione e limiti di legge

L’istituto è previsto dall’articolo 79 della Costituzione, che definisce le modalità di approvazione della legge che lo contempla e i limiti applicativi. La norma recita infatti testualmente: “Lamnistia e l’indulto sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale. La legge che concede l’amnistia o l’indulto stabilisce il termine per la loro applicazione. In ogni caso l’amnistia e l’indulto non possono applicarsi ai reati commessi successivamente alla presentazione del disegno di legge.” 

Articolo 174 c.p.: disciplina

L’indulto  disciplinato dall’articolo 174 del Codice penale, che stabilisce le modalità di applicazione e le condizioni necessarie per il suo utilizzo. Per prima cosa lo stesso può essere concesso per le pene detentive e pecuniarie. Esso non estingue infatti le pene accessorie e neppure gli altri effetti penali della sentenza di condanna, a mano che la legge che lo prevede non disponga diversamente.

Esso ha inoltre efficacia per:

  • reati non gravi: esclusi quindi quelli più gravi come i crimini legati a terrorismo, mafia, omicidi, ecc.;
  • pene detentive e pecuniarie: nel senso che il beneficio può riguardare sia le pene privative della libertà che quelle pecuniarie, riducendole o estinguendole in determinate proporzioni. Non vengono meno invece le misure di sicurezza e le pene accessorie.

Condizioni per la concessione dell’indulto

Questo beneficio non viene mai concesso in modo automatico. Le condizioni sono stabilite da apposite leggi, che determinano chi può beneficiarne. La legge deve infatti indicare nel dettaglio:

  • quali reati che sono esclusi dall’applicazione dell’indulto;
  • i limiti di pena per cui può essere concesso beneficio;
  • le categorie di detenuti a cui si può applicare.

Inoltre, la sua concessione deve essere preceduta da una valutazione politica, che prende in considerazione le circostanze storiche, sociali e giuridiche del momento.

Giurisprudenza della Cassazione

La Corte di Cassazione ha più volte esaminato l’indulto, con particolare attenzione agli ambiti di applicazione e alle modalità di calcolo delle pene. Una delle questioni più dibattute è se l’indulto possa estinguere completamente una pena, anche se il condannato ha commesso reati di grave entità.

In una sentenza del 2018, la Cassazione ha chiarito che l’indulto si applica solo se la pena inflitta è compatibile con la misura dell’indulto, stabilita dalla legge. La Corte ha ribadito che l’indulto non può mai essere applicato ai reati di terrorismo e mafia, come previsto espressamente dalla legge.

Un altro aspetto trattato dalla giurisprudenza riguarda la sospensione condizionale della pena: se la pena è già sospesa, l’indulto non può essere applicato automaticamente. In questo caso, il condannato potrebbe perdere il beneficio della sospensione se non adempie a determinati requisiti previsti dal giudice.

 

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servizi sociali

Servizi sociali anche per violenza sessuale La Cassazione chiarisce che può essere concesso l'affidamento ai servizi sociali anche per il reato ex art. 609-bis c.p.

Affidamento ai servizi sociali

Sì all’affidamento ai servizi sociali al soggetto che si è macchiato del reato di violenza sessuale (ex art. 609 bis c.p.). Così la prima sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 17374/2024.

La vicenda

Nella vicenda, iI Tribunale di sorveglianza di Torino respingeva l’istanza di differimento pena ai sensi dell’art. 147 cod. pen. e dell’affidamento in prova al servizio sociale formulate. Ciò a ragione della gravità dei reati commessi, tra cui quello di cui all’art. 609-bis cod. pen., nonchè dell’assenza di una seria e verificabile attività lavorativa e della sperimentazione, allo stato, di altre forme trattamentali (permessi premio), infine della mancanza di elementi sulla base dei quali superare la diagnosi di pericolosità derivante dal reato commesso.

Il ricorso

Avverso tale ordinanza l’imputato adiva il Palazzaccio, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento al rigetto dell’istanza di affidamento in prova al servizio sociale.
A dire della difesa, il Tribunale di sorveglianza ha ritenuto dirimente e preponderante, rispetto agli elementi positivi pur evidenziati dalla relazione di sintesi dell’equipe e, comunque, emergenti dagli atti, la gravità del reato commesso e i plurimi precedenti di cui risulta gravato, sottostimando, invece, plurimi elementi positivi, quali il parere ampiamente favorevole dell’equipe.

Affidamento in prova ai servizi sociali: presupposti

Per la S.C., il ricorso è fondato.
L’art. 47, comma 2, ord. pen. consente l’applicazione dell’affidamento in prova al servizio sociale ove si possa ritenere che la misura, «anche attraverso le prescrizioni di cui al comma 5, contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati».
Nel caso di specie, il giudice specializzato ha reso una motivazione contraddittoria e, comunque, carente. Benché “nella stringata parte espositiva avesse dato atto dell’assenza di precedenti penali e carichi pendenti, senza minimamente confrontarsi con quanto emergente dalla relazione dell’equipe trattamentale – spiegano dalla S.C. – ha concentrato in via esclusiva la sua attenzione sulla condanna per il delitto di cui all’art. 609-bis c.p., sull’asserita mancata sperimentazione di permessi premio e sulla mancanza di prospettive lavorative”. Invece, la relazione dell’equipe della casa circondariale aveva espresso parere favorevole al riconoscimento della misura alternativa, valorizzando il fatto che l’uomo avesse aderito volontariamente ad un programma specifico rivolto ai condannati per reati di violenza di genere e che, compatibilmente con le condizioni di salute (che non rendevano possibile una partecipazione più ampia alle attività trattamentali), avesse svolto un percorso detentivo positivo.
Il giudice specializzato, in definitiva, secondo i giudici di piazza Cavour, ha fondato il provvedimento di rigetto sul solo argomento della gravità dei reati commessi, facendo di essi una considerazione assoluta e ponendoli da soli a sostegno della decisione, senza considerazione adeguata di diversi altri fattori riguardanti l’evoluzione della personalità del ricorrente, successiva alla consumazione della condotta sanzionata e senza fare congrua valutazione delle risultanze indicate nella relazione dell’equipe.
Al riguardo, dunque, la Corte ribadisce i principi ormai consolidati, secondo i quali “in tema di affidamento in prova al servizio sociale, ai fini del giudizio prognostico in ordine alla realizzazione delle prospettive cui è finalizzato l’istituto, e, quindi, dell’accoglimento o del rigetto dell’istanza, non possono, di per sé, da soli, assumere decisivo rilievo, in senso negativo, elementi quali la gravità del reato per cui è intervenuta condanna, i precedenti penali o la mancata ammissione di colpevolezza, né può richiedersi, in positivo, la prova che il soggetto abbia compiuto una completa revisione critica del proprio passato, essendo sufficiente che, dai risultati dell’osservazione della
personalità, emerga che un siffatto processo critico sia stato almeno avviato (Sez. 1, n. 1410 del 30/10/2021, M., Rv. 277924; Sez. 1, n. 773 del 03/12/2013, dep. 2014, Naretto, Rv. 258402)”.

Il principio di diritto

Il Tribunale non ha fatto, dunque, buon governo del principio di diritto secondo cui «ai fini della concessione di una misura alternativa alla detenzione, si deve tener conto del grado di consapevolezza e di rieducazione raggiunto dal condannato, nonché dell’evoluzione della sua personalità successivamente al fatto, al fine di consentire un’ulteriore evoluzione favorevole e un ottimale reinserimento sociale» (cfr. Cass. n. 10586/2019).

Il profilo che deve essere valorizzato non è se abbia o meno l’interessato ammesso le sue colpe ovvero, pur avendole ammesse, ne abbia depotenziato li valore, ma se abbia accettato la sentenza e quindi la sanzione a lui inflitta, prestando la dovuta collaborazione nel percorso rieducativo.

La decisione

Da qui l’annullamento dell’ordinanza impugnata relativamente al diniego dell’affidamento in prova al servizio sociale, con rinvio al Tribunale di sorveglianza di Torino per nuovo esame che, libero negli esiti, sia ossequiante dei principi sopraesposti.

Allegati

lavori di pubblica utilità

Lavori di pubblica utilità: disciplina e funzionamento I lavori di pubblica utilità sono attività non retribuite che vengono svolte per la collettività da soggetti liberi, condannati e detenuti

Lavori di pubblica utilità: definizione

I lavori di pubblica utilità sono attività non retribuite che vengono svolte a beneficio della collettività presso enti pubblici, organizzazioni sociali o di volontariato. Il lavoro di pubblica utilità si configura come uno strumento efficace di giustizia riparativa, offrendo al condannato la possibilità di compensare la collettività attraverso attività concrete e costruttive.

Riferimenti normativi

  1. Decreto 27 luglio 2023 – Modalità di svolgimento del lavoro di pubblica utilità – art. 71 comma 1 lett. d) decreto legislativo n. 150/2022
  2. Decreto 8 giugno 2015 n. 88 – Regolamento recante disciplina delle convenzioni in materia di pubblica utilità ai fini della messa alla prova dell’imputato – art. 8 legge n. 67/2014
  3. Decreto 26 marzo 2001 – Norme per la determinazione delle modalità di svolgimento del lavoro di pubblica utilità applicato – art. 54, c. 6 del decreto legislativo n. 274/2000

Lavori di pubblica utilità: applicazione

Il lavoro di pubblica utilità rappresenta una sanzione alternativa nel sistema giuridico italiano e consiste nella prestazione non retribuita di attività a favore della collettività. Può essere svolto presso enti pubblici, organizzazioni sociali o di volontariato, ed è previsto sia per soggetti liberi sia per detenuti o internati.

  1. In favore dei soggetti liberi, può sostituire pene detentive o pecuniarie in vari contesti tra i quali figurano:
  • le violazioni del Codice della Strada (articoli 186 e 187): per guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di stupefacenti, il lavoro può sostituire pene tradizionali, purché richiesto dall’imputato o disposto dal giudice;
  • legge sugli stupefacenti (art. 73, comma 5-bis): in casi di lieve entità, il giudice può sostituire la pena detentiva con questa sanzione. L’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna (UEPE) monitora il rispetto dell’obbligo.
  1. Secondo l’ 20-ter dell’ordinamento penitenziario, anche i detenuti possono svolgere lavoro di pubblica utilità, in conformità al d.m. 26 marzo 2001 e ad apposite convenzioni. Tale misura favorisce il reinserimento sociale attraverso attività a beneficio della comunità.
  2. Il lavoro di pubblica utilità può essere anche impiegato come pena sostitutiva o accessoria.
  • Sospensione del processo con messa alla prova (art. 168-bis c.p.): il lavoro diventa parte del programma di trattamento, definito in base alle esigenze personali dell’imputato;
  • Sospensione condizionale della pena (art. 165 c.p.): il condannato deve svolgere attività non retribuita come condizione per ottenere la sospensione;
  • Sostituzione di pene detentive brevi (art. 56-bis L. 689/1981): per reati con pene inferiori a tre anni, il lavoro di pubblica utilità può essere applicato come pena sostitutiva.

Modalità di svolgimento del lavoro per pubblica utilità

Il lavoro di pubblica utilità può svolgersi in diversi settori come:

  • l’assistenza sociale (anziani, malati, disabili).
  • la protezione civile e tutela ambientale;
  • le attività pertinenti alla professionalità del condannato.

La durata della misura varia tra 6 e 15 ore settimanali, ma può essere estesa fino a 8 ore giornaliere su richiesta. Un giorno di lavoro equivale a due ore di attività, garantendo la compatibilità con esigenze di vita, studio o salute del condannato.

Cosa accade se si violano le modalità di svolgimento

Il mancato rispetto degli obblighi può comportare la revoca della misura, con ripristino della pena originaria. In caso di risarcimento dei danni o eliminazione delle conseguenze del reato, è possibile la revoca della confisca, salvo i casi obbligatori.

Portale Nazionale per i lavori di pubblica utilità

Il Portale Nazionale per i lavori di pubblica utilità, disponibile online, è uno strumento innovativo che semplifica la gestione e la ricerca di opportunità per l’esecuzione del lavoro di pubblica utilità. Destinato a cittadini, tribunali e uffici di esecuzione penale esterna, il portale velocizza il processo di abbinamento tra le caratteristiche del condannato o imputato, la natura del reato commesso e l’attività lavorativa non retribuita da svolgere. Questo approccio favorisce il reinserimento sociale e contribuisce a ridurre il rischio di recidiva.

Sviluppato con il contributo di diversi dipartimenti del Ministero della Giustizia, il portale è un progetto in continua evoluzione. I tribunali alimentano la piattaforma aggiornando le convenzioni locali e garantendo la pubblicazione delle informazioni sul sito del Ministero. L’obiettivo è semplificare le procedure e migliorare l’accesso alle informazioni per tutti gli attori coinvolti.

Il portale offre tre modalità di ricerca: tramite infografica, per individuare rapidamente i posti disponibili; ricerca avanzata, con filtri dettagliati; e ricerca semplice, basata su parole chiave.

 

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