società semplice

Società semplice: la Corte Costituzionale sul fallimento in estensione dei soci La Consulta chiarisce che il fallimento di una società semplice non è opponibile ai soci se non sono stati convocati nella procedura. Ecco cosa prevede la sentenza n. 87/2025

Società semplice e rischio di fallimento in estensione

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 87 del 2025, ha precisato i limiti del cosiddetto fallimento in estensione dei soci illimitatamente responsabili di una società semplice.

In linea generale, la società semplice non è soggetta a fallimento. Tuttavia, quando si accerta che ha esercitato attività commerciale, può essere dichiarata fallita, con la conseguenza che anche i soci rispondono patrimonialmente e possono subire il fallimento in estensione.

La legge fallimentare (articolo 147 del regio decreto n. 267/1942) consente che il procedimento di fallimento dei soci sia separato da quello della società.

Il diritto di difesa dei soci e la convocazione nella procedura

La questione esaminata dalla Corte riguardava un caso in cui i soci non erano stati convocati nel giudizio che aveva dichiarato il fallimento della società semplice. La normativa vigente, secondo l’interpretazione consolidata, riteneva sufficiente garantire ai soci il diritto di proporre reclamo entro trenta giorni dalla trascrizione della sentenza nel registro delle imprese.

Tuttavia, i giudici costituzionali hanno osservato che questa garanzia non è adeguata nel caso di una società semplice, che normalmente non è soggetta a fallimento e i cui soci non hanno motivo di monitorare costantemente il registro delle imprese.

L’onere di verifica e i limiti dell’affidamento

La Consulta ha affermato che, per garantire l’effettività del diritto di difesa, non può gravare sui soci l’onere di controllare autonomamente l’eventuale fallimento della società.

Secondo la sentenza, su basi così deboli non si può fondare un accertamento che condiziona la possibilità di dichiarare il fallimento del socio, con pesanti ripercussioni anche sul piano personale.

Di conseguenza, i soci devono essere convocati non solo nel giudizio che decide sul loro fallimento in estensione, ma anche nel procedimento che accerta la fallibilità dell’ente.

Fallimento società semplice non è automaticamente opponibile ai soci

La Corte costituzionale ha stabilito che, se la convocazione manca, la sentenza dichiarativa del fallimento della società non è opponibile ai soci illimitatamente responsabili.

Nel giudizio sul fallimento in estensione, sarà quindi possibile discutere nuovamente la fallibilità dell’ente, a meno che non sia dimostrato che i soci hanno partecipato alla procedura oppure che abbiano esercitato il diritto di difesa mediante reclamo.

Questa interpretazione assicura un bilanciamento tra esigenze di tutela del ceto creditorio e diritti fondamentali dei soci.

amministratori di società

Amministratori di società: pec obbligatoria Gli amministratori di società costituite a partire dal 1° gennaio 2025 dovranno munirsi di una pec personale. Il MIMIT ha prorogato la scadenza al 31 dicembre 2025, ecco per chi

PEC obbligatoria per gli amministratori di società

Dal 1° gennaio 2025, una novità importante è entrata in vigore per le aziende italiane: tutti gli amministratori di società dovranno avere una casella di posta elettronica certificata (PEC) personale. Lo stabilisce la legge di bilancio 2025.

La PEC è come una raccomandata digitale: garantisce che un messaggio sia stato inviato e ricevuto, e funge da prova legale. L’obiettivo di questa nuova norma è rendere la comunicazione tra aziende e amministrazione pubblica più sicura e tracciabile.

Il MIMIT proroga al 31 dicembre 2025 l’obbligo per gli amministratori di società già costituite di comunicare la PEC al Registro Imprese. Vediamo per quali motivi e cosa cambia.

Proroga dell’obbligo PEC per gli amministratori di società

Il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (MIMIT), con una nuova comunicazione diffusa il 25 giugno 2025, ha ufficialmente prorogato il termine entro il quale gli amministratori delle imprese costituite in forma societaria dovranno comunicare il proprio domicilio digitale (PEC) al Registro delle Imprese. La nuova scadenza è fissata al 31 dicembre 2025.

La proroga si è resa necessaria dopo i numerosi dubbi interpretativi sorti in merito alla tempistica dell’adempimento, generando incertezze tra imprese, professionisti e Camere di Commercio.

L’obbligo introdotto dalla Legge di Bilancio

La Legge di Bilancio ha esteso agli amministratori delle società l’obbligo di possedere un domicilio digitale e di comunicarlo al Registro delle Imprese, al fine di garantire maggiore trasparenza e semplificazione dei rapporti con la Pubblica Amministrazione.

Per le società costituite dal 1° gennaio 2025 in poi, resta confermato che la comunicazione del domicilio digitale deve avvenire contestualmente alla domanda di iscrizione al Registro delle Imprese.

Il caos sulle scadenze e l’intervento di Unioncamere

In un primo momento, con la nota prot. n. 43836 del 12 marzo 2025, il MIMIT aveva fissato la scadenza per le imprese già esistenti al 30 giugno 2025.

Tuttavia, questa indicazione è stata smentita da Unioncamere, che ha chiarito come il termine non derivasse da alcuna norma di legge. Secondo Unioncamere, l’obbligo per le società già costituite dovrebbe essere adempiuto solo al momento del primo rinnovo o variazione degli amministratori successivo al 1° gennaio 2025.

Le Camere di Commercio si sono divise: alcune hanno seguito la linea di Unioncamere, altre hanno mantenuto un approccio prudenziale richiamando la scadenza ministeriale, mentre alcune hanno ritenuto che il termine fosse di carattere ordinatorio e non perentorio.

Il confronto con i commercialisti e la nuova proroga

A ridosso della scadenza originaria, anche il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili ha avviato un dialogo con il Ministero per chiarire la corretta applicazione dell’obbligo, evidenziando il rischio di sanzioni non legittime.

Alla luce delle difficoltà interpretative, il MIMIT è intervenuto nuovamente con la nota del 25 giugno 2025, stabilendo in via ufficiale la proroga del termine al 31 dicembre 2025.

Cosa devono fare le imprese costituite dal 1° gennaio 2025

Per le nuove società costituite dal 1° gennaio 2025, l’obbligo di indicare il domicilio digitale dell’amministratore rimane invariato: la comunicazione deve avvenire già al momento della domanda di iscrizione al Registro Imprese.

interrogatorio formale

Interrogatorio formale Interrogatorio formale: cos’è, quando è ammissibile, normativa, come si richiede, quale valore ha e giurisprudenza

Cos’è l’interrogatorio formale

L’interrogatorio formale è un mezzo di prova tipico del processo civile regolato dagli articoli 230 e seguenti del codice di procedura civile. Consiste in una serie di domande rivolte alla parte avversaria, su fatti rilevanti e controversi, idonea a produrre effetti vincolanti nel giudizio.

A differenza dell’interrogatorio libero, che ha funzione esplorativa, quello formale valore probatorio, in quanto può determinare una vera e propria prova legale.

Quando è ammissibile e quando no

Secondo l’art. 230 c.p.c., l’interrogatorio formale è ammissibile solo in relazione a fatti personali della parte e che essa possa conoscere direttamente. Non è quindi consentito proporre l’interrogatorio su fatti:

  • notori;
  • irrilevanti ai fini della decisione;
  • già pacifici tra le parti;
  • non riferibili direttamente alla parte stessa.

Inoltre, l’interrogatorio non può essere ammesso nei confronti di soggetti incapaci di rendere confessione, come i minori o gli interdetti, salve le eccezioni previste dalla legge.

Qual è la normativa di riferimento

La disciplina dell’istituto si rinviene principalmente nel codice di procedura civile, agli articoli:

  • Art. 230 c.p.c. – “Modo dell’interrogatorio”;
  • Art. 231 c.p.c. – “Risposta”;
  • Art. 232 c.p.c. – “Mancata risposta”.

Queste norme stabiliscono i presupposti, le modalità e gli effetti della confessione giudiziale resa in sede di interrogatorio formale.

Come si propone la richiesta di interrogatorio

La parte interessata deve chiedere l’ammissione dell’interrogatorio nell’atto introduttivo del giudizio, indicando specificamente i capitoli sui quali intende che la controparte venga interrogata. La richiesta può essere formulata anche successivamente, ma prima dell’apertura della fase istruttoria.

Se il giudice accoglie la richiesta, dispone l’interrogatorio mediante ordinanza, fissando un’udienza per l’assunzione della prova.

L’interrogatorio è assunto personalmente dal giudice, il quale formula le domande sui singoli capitoli previamente autorizzati. La parte interrogata ha l’obbligo di rispondere personalmente e direttamente.

Qual è il valore dell’interrogatorio formale

L’interrogatorio formale ha un elevato valore probatorio quando si conclude con confessione su fatti sfavorevoli alla parte che confessa e favorevoli alla controparte. In tal caso, la confessione giudiziale ex art. 2730 c.c ha efficacia vincolante, essendo considerata prova legale.

Se la parte non compare oppure rifiuta di rispondere senza giustificato motivo, il giudice può considerare come ammessi i fatti dedotti nell’interrogatorio ex art. 232 c.p.c.

Giurisprudenza

Cassazione n. 24799/2024: Quando una parte rilascia dichiarazioni a proprio favore durante un interrogatorio formale, il giudice non è obbligato ad accettarle in automatico. Spetta a lui valutarle liberamente, tenendo conto di tutte le altre prove raccolte. Solo così, infatti, possono diventare un elemento per formare la sua decisione finale.

Cassazione n. 29473/2023: L’interrogatorio formale ha un unico scopo: ottenere la confessione giudiziale di fatti che vanno contro chi li ammette, e che tornano a esclusivo vantaggio della parte che ha richiesto l’interrogatorio. Non può invece essere usato come prova di fatti che favoriscono la parte che sta rendendo la confessione.

Cassazione n. 2956/2018: La parte che ha richiesto l’interrogatorio formale della controparte può liberamente rinunciarvi in qualsiasi momento, senza bisogno del consenso della controparte o del giudice. Questo è il rovescio della medaglia del fatto che una parte non può mai chiedere il proprio interrogatorio formale.

 

Leggi anche l’articolo di procedura penale dedicato all’Interrogatorio di garanzia

interdizione

Interdizione: la guida Interdizione: cos'è, normativa, chi può essere interdetto e chi può chiedere l'interdizione, effetti e differenze con l'inabilitazione

Cos’è l’interdizione

L’interdizione è un istituto giuridico previsto dal Codice Civile che tutela le persone affette da gravi patologie psichiche, impedendo loro di compiere atti giuridicamente rilevanti. L’interdetto, infatti, viene privato della capacità di agire e sottoposto alla tutela di un tutore legale, che ne gestisce gli interessi.

Normativa di riferimento

L’istituto è disciplinato dagli articoli 414 e seguenti del Codice Civile, che stabiliscono:

  • chi può essere interdetto;
  • la procedura per ottenere l’interdizione;
  • gli effetti giuridici che ne derivano.

Chi può essere interdetto?

Possono essere dichiarate interdette le persone che:

  • sono affette da grave infermità mentale;
  • non sono in grado di provvedere autonomamente ai propri interessi;
  • possono arrecare danni a sé stessi o al proprio patrimonio.

Soggetti legittimati a richiedere l’interdizione

La richiesta di interdizione può essere presentata:

  • dal coniuge o dal convivente;
  • dai parenti entro il quarto grado;
  • dagli affini entro il secondo grado
  • dal Pubblico Ministero, quando la situazione lo richieda;
  • dal tutore o dal curatore in caso di necessità.

Procedura di interdizione

L’istituto segue una procedura giudiziaria ben definita.

  1. Presentazione del ricorso

    • il soggetto legittimato presenta il ricorso al Tribunale del luogo di residenza o domicilio della persona da interdire;
    • al ricorso è necessario allegare la documentazione medica che attesti la patologia del soggetto.
  1. Ascolto dell’interdicendo e valutazione delle condizioni

    • il giudice tutelare valuta lo stato mentale dell’interdicendo con l’intervento del Pubblico Ministero e se lo ritiene opportuno può nominare un consulente tecnico;
    • l’interessato viene quindi ascoltato per accertare le sue condizioni;
    • dopo l’esame il giudice può nominare un tutore provvisorio.
  1. Sentenza di interdizione

    • se il Tribunale accoglie la richiesta, dichiara l’interdizione con una sentenza, nominando un tutore legale;
    • la sentenza viene quindi annotata nei registri dello stato civile.

Cosa comporta l’interdizione?

L’interdizione ha effetti significativi sulla capacità giuridica del soggetto:

  • perdita della capacità di agire: l’interdetto non può compiere atti giuridici, come firmare contratti o amministrare il proprio patrimonio;
  • nomina di un tutore: il Tribunale assegna un tutore, che prende decisioni in nome e per conto dell’interdetto;
  • possibilità di revoca: se le condizioni dell’interdetto migliorano, è possibile chiedere la revoca dell’interdizione tramite apposito procedimento giudiziario.

Differenze tra interdizione e inabilitazione

Caratteristica Interdizione Inabilitazione
Requisito Grave infermità mentale Incapacità parziale di gestire i propri affari
Capacità di agire Completamente revocata Limitata agli atti di ordinaria amministrazione
Nomina di un tutore No, nomina di un curatore
Atti che può compiere Nessuno senza il tutore Può compiere atti quotidiani senza autorizzazione

Giurisprudenza

Cassazione n. 27691/2023: data la marcata differenza tra l’amministrazione di sostegno, che mira a rafforzare le capacità residue del soggetto vulnerabile, e l’interdizione, che invece limita l’autonomia per tutelare il patrimonio familiare, il divieto di sposarsi previsto dall’articolo 85 del codice civile per l’interdetto non si applica generalmente al beneficiario dell’amministrazione di sostegno. Tuttavia, il giudice tutelare può imporre tale divieto solo in casi di eccezionale gravità e se ciò è nell’esclusivo interesse del beneficiario.

Cassazione n. 34216/2022: il decreto con cui il giudice istruttore nomina un tutore o curatore provvisorio nell’ambito di un procedimento di interdizione o inabilitazione non è equiparabile a una sentenza. Questo perché si tratta di un provvedimento interinale e provvisorio, che può essere revocato dallo stesso giudice e perde la sua efficacia una volta che viene emessa la sentenza definitiva. Di conseguenza, non è possibile presentare ricorso per cassazione contro tale decreto ai sensi dell’articolo 111 della Costituzione.

Leggi anche: Addio a interdizione e inabilitazione?

appalti pubblici

Appalti pubblici: no a costi e sicurezza solo per il primo concorrente La Corte costituzionale boccia la norma della Provincia di Bolzano che richiede i costi della manodopera e sicurezza solo al primo classificato nelle gare pubbliche

Appalti pubblici: la bocciatura della Consulta

Appalti pubblici: con la sentenza n. 80/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 22, comma 13, della legge provinciale di Bolzano n. 2 del 2024. La norma prevedeva che soltanto il primo concorrente in graduatoria fosse tenuto a indicare i costi della manodopera e della sicurezza nei contratti pubblici.

Violazione del codice dei contratti pubblici

La Corte ha evidenziato il contrasto con gli articoli 108, comma 9, e 110, comma 1, del d.lgs. n. 36/2023 (nuovo codice dei contratti pubblici), i quali impongono:

  • l’indicazione obbligatoria dei costi della manodopera e degli oneri di sicurezza da parte di tutti i concorrenti, a pena di esclusione;

  • la verifica delle offerte sospettate di anomalia da parte della stazione appaltante in base a questi costi.

La norma provinciale, limitando l’obbligo al solo primo classificato, vanifica gli strumenti di controllo e trasparenza previsti a tutela del lavoro e della concorrenza.

Tutela del lavoro e trasparenza nelle gare

L’obbligo dichiarativo previsto dal codice ha una finalità precisa: garantire la protezione dei lavoratori, responsabilizzare gli operatori economici e facilitare i controlli della stazione appaltante. La violazione di questo impianto normativo compromette tali obiettivi, aprendo la strada a offerte opache e potenzialmente dannose per i diritti dei lavoratori.

Norme di riforma economico-sociale prevalenti

Secondo la Corte, le disposizioni del codice dei contratti pubblici rientrano nella materia della tutela della concorrenza e costituiscono norme fondamentali di riforma economico-sociale, con rilievo anche sovranazionale, in quanto attuative di obblighi derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea.

Pertanto, anche la Provincia autonoma di Bolzano, pur dotata di competenza legislativa primaria in materia di lavori pubblici di interesse provinciale, è tenuta a rispettarle in virtù dell’articolo 8 dello statuto speciale e del richiamo all’articolo 4.

contratto di ormeggio

Furto barca? Sì al risarcimento nel contratto di ormeggio La Cassazione conferma il diritto al risarcimento per furto dell’imbarcazione in porto: il contratto di ormeggio può includere responsabilità di custodia

Cos’è il contratto di ormeggio

Il contratto di ormeggio è un accordo atipico tra il diportista e il gestore del porto o marina, in cui il conduttore ottiene l’uso di uno spazio protetto per la propria imbarcazione. Non essendo disciplinato espressamente dal codice civile o navale, si caratterizza per una struttura minima essenziale: messa a disposizione dello spazio acqueo e sue pertinenze. Qualora includa servizi accessori come la custodia, si applicano disposizioni simili al deposito. 

Il caso sottoposto alla Cassazione

Con l’ordinanza n. 16318/2025, la Terza Sezione Civile ha esaminato un ricorso relativo al furto di un’imbarcazione ormeggiata. Il proprietario sosteneva che il gestore del porto avesse l’obbligo di custodia e quindi dovesse rispondere del danno subito.

La Corte ha rilevato che, se nel contratto è prevista la custodia, il porto assume un obbligo autonomo e non si limita a fornire il posto barca. Per escludere la propria responsabilità il gestore deve provare di aver vigilato con diligenza, impiegando misure adeguate alla prevenzione del furto.

La motivazione: dalla diligenza al risarcimento

La Cassazione ha ribadito che, in presenza di obbligo di custodia, si presume la responsabilità del gestore in caso di furto o danneggiamento. Per sottrarsi al risarcimento, la marina deve dimostrare:

  1. Un’attenta sorveglianza con standard conformi al “buon padre di famiglia”;

  2. Che l’evento sia stato causato da circostanze non imputabili a colpa. 

La mancata produzione di prove probanti in giudizio inficia la possibilità di escludere la responsabilità e legittima il risarcimento.

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trust

Il trust Il trust: cos'è, quale legge lo regola, chi sono i soggetti protagonisti dell'istituto e per quali finalità viene disposto

Cos’è il Trust

Il trust può essere definito come un rapporto giuridico in base al quale un soggetto, il disponente (o settlor), trasferisce beni (denaro, immobili, partecipazioni societarie, ecc.) a un altro soggetto, il trustee, che li gestisce in nome proprio, ma nell’interesse di uno o più beneficiari o per il raggiungimento di uno scopo specifico, secondo le istruzioni impartite dal disponente in un atto scritto. L’elemento distintivo del trust è la segregazione patrimoniale. I beni che vengono conferiti nel trust formano infatti un patrimonio distinto dal patrimonio personale del trustee e del disponente. In questo modo i beni risultano insensibili alle vicende personali (creditori, fallimenti, successioni) di questi due soggetti. Lo scopo per cui viene istituito  il trust deve essere meritevole di tutela dall’ordinamento giuridico di riferimento affinché l’istituto sia valido.

Riferimenti normativi

In Italia, il trust non è stato istituito e regolato da una legge nazionale. La sua presenza e la sua disciplina nel nostro ordinamento derivano dalla ratifica della Convenzione dell’Aja del 1985 sulla legge applicabile ai trust e sul loro riconoscimento. La ratifica è avvenuta tramite la Legge 16 ottobre 1989, n. 364, in vigore dal 1° gennaio 1992. Questo significa che, stante l’assenza di una legge italiana che lo disciplini, l’istituto è pienamente riconosciuto e le sue regole di funzionamento sono dettate dalla legge straniera scelta dal disponente, a patto che sia conforme ai principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico.

I soggetti del Trust

Per capire il trust, è necessario conoscere i soggetti coinvolti e i rispettivi ruoli.

  • Il disponente (o settlor) è la persona che decide di istituire il trust. È colui che segrega il proprio patrimonio (o parte di esso) e lo destina a uno scopo specifico, trasferendone la titolarità al trustee. Il disponente definisce le regole del trust, gli scopi e i beneficiari, esercitando un ruolo centrale nella sua creazione.
  • Il trustee: è il soggetto che riceve i beni dal disponente. È il gestore fiduciario del patrimonio, vincolato da un obbligo di fedeltà e buona fede nell’amministrazione dei beni. Il trustee non è il proprietario dei beni, ma ne detiene la titolarità “qualificata” o “fiduciaria” per il raggiungimento delle finalità indicate dal disponente e nell’interesse dei beneficiari. I suoi compiti sono indicati nell’atto istitutivo del trust e nella legge ad esso applicabile. Il trustee può essere una persona fisica o giuridica, e può essere anche uno dei beneficiari, purché non sia l’unico.
  • I beneficiari: sono le persone (fisiche o giuridiche) che traggono vantaggio dalla gestione del trust. Il disponente li può individuare singolarmente, ma possono essere anche categorie di soggetti. Beneficiari del trust possono essere anche soggetti non ancora nati nel momento in cui  viene costituito. Il trust infine può nascere anche per perseguire uno scopo specifico (trust di scopo).
  • Il guardiano (o protector) è una figura eventuale, ma sempre più diffusa nei trust moderni. Il suo compito è di vigilare sul trustee e sulla sua attività, per verificare che lo stesso  agisca in linea sia con le volontà del disponente che nell’interesse dei beneficiari. Il guardiano può avere poteri specifici, come la nomina o revoca del trustee, l’approvazione di determinate operazioni o la modifica dell’atto di trust. Questa figura offre un ulteriore livello di protezione e controllo, soprattutto in presenza di situazioni complesse o di lunga durata.

I diversi usi del trust

Analizziamo ora le finalità per le quali si ricorre al trust.

Protezione dei beni: il disponente trasferisce i beni al trustee per segregare il patrimonio. I beneficiari possono essere lo stesso disponente, i suoi familiari o altri soggetti. Con il trust  i beni sono protetti da rischi professionali o personali. Il guardiano può assicurare che il trustee agisca sempre a tutela di questo patrimonio.

Tutela di minori e dei soggetti diversamente abili: il disponente costituisce il trust per garantire il sostegno a beneficiari vulnerabili. Il trustee deve gestire i beni nel rispetto delle istruzioni ricevute, e deve assicurare che i fondi vengano gestiti per le esigenze dei beneficiari. In questo caso è utile la presenza di un guardiano per monitorare le attività del trustee.

Tutela del patrimonio per finalità successorie: il disponente pianifica la successione, affidando al trustee il compito di gestire e distribuire i beni ai beneficiari (eredi) nel tempo, prevenendo sperperi o cattive gestioni.

Beneficenza: i beneficiari in questo caso sono la comunità o una causa determinata. Il trustee gestisce i fondi per finalità caritatevoli.

Forme di investimento e pensionistiche: il disponente affida i fondi a un trustee  che li investe a beneficio di beneficiari. In questo caso l’istituto presenta delle similitudini con i fondi comuni o i fondi pensione.

Vantaggi fiscali: anche se non deve essere l’unico scopo, questo istituto può offrire vantaggi fiscali. I soggetti (disponente, trustee, beneficiari) devono operare però sempre nel rispetto delle normative per evitare il rischio di elusione o evasione.

 

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rifiuto della quarta pec

Rifiuto della quarta pec: focus sui motivi del rigetto La Cassazione chiarisce che in caso di rifiuto della quarta pec, la parte deve contestare solo le ragioni indicate dalla cancelleria

Deposito PCT rigettato

Rifiuto della quarta pec: con l’ordinanza n. 15801/2025, la prima sezione civile della Corte di Cassazione ha stabilito un importante principio in materia di processo civile telematico (PCT). Quando un atto viene rifiutato dalla cancelleria a seguito del controllo manuale (la cosiddetta “quarta PEC”), l’onere della parte si limita a contestare i motivi indicati nel rigetto, senza dover dimostrare la regolarità dell’intero processo di invio.

Il caso concreto riguardava una S.c.a.r.l. che aveva proposto opposizione allo stato passivo di un fallimento, ma il Tribunale di Teramo aveva dichiarato il ricorso tardivo, ritenendo insufficiente la documentazione relativa al primo deposito, avvenuto via PEC.

Perfezionamento deposito telematico

Nel processo civile telematico, ogni deposito genera quattro distinte comunicazioni PEC:

  1. Ricevuta di accettazione: il sistema accoglie il messaggio inviato;

  2. Ricevuta di consegna: l’atto arriva alla casella PEC dell’ufficio giudiziario;

  3. Controlli automatici: verifica formale dell’indirizzo del mittente, del formato e della dimensione;

  4. Controllo del cancelliere: verifica manuale e definitiva accettazione (o rigetto).

Il deposito si considera perfezionato già al momento della seconda PEC, con effetto provvisorio, salvo successivo buon esito della verifica finale da parte della cancelleria.

Basta la contestazione mirata

Nel caso analizzato, il deposito iniziale del 14 marzo 2016 era stato rifiutato il 18 marzo con la quarta PEC. L’opponente aveva poi effettuato un nuovo deposito cartaceo il 30 marzo, allegando le quattro ricevute PEC.

Il Tribunale aveva ritenuto la prova insufficiente, poiché mancavano i file originali e il contenuto informatico del primo atto. Ma per la Cassazione questa impostazione è errata: la parte non deve dimostrare l’intero iter tecnico, ma può concentrarsi esclusivamente sui motivi esplicitati nel rigetto della cancelleria.

Il principio di diritto della Cassazione

Secondo la Suprema Corte: “Nell’ipotesi in cui la quarta p.e.c. dia esito non favorevole, la parte ha l’onere di attivarsi con immediatezza per rimediare al mancato perfezionamento del deposito telematico; la reazione immediata si sostanzia, alternativamente e secondo i casi:

(a) in un nuovo tempestivo deposito, da considerare in continuazione con la precedente attività, previa contestazione delle ragioni del rifiuto;
(b) in una tempestiva formulazione dell’istanza di rimessione in termini ove la decadenza si assuma in effetti avvenuta ma per fatto non imputabile alla parte.”

In altre parole, basta contestare i motivi specifici contenuti nella quarta PEC. La prova dell’intera regolarità tecnica o del contenuto del ricorso non può essere richiesta dal giudice, salvo specifica eccezione della controparte.

Giudizio da rifare

Rilevata l’erroneità del ragionamento del giudice di merito, la Cassazione ha rinviato il procedimento al Tribunale di Teramo, in diversa composizione, affinché valuti:

  • la tempestività della reazione della parte al rifiuto;

  • la legittimità delle ragioni del rigetto indicate dalla cancelleria.

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nuda proprietà

Nuda proprietà Nuda proprietà: cos’è, il legame con l’usufrutto, riferimenti normativi, vantaggi, svantaggi, aspetti fiscali e consolidazione

Cos’è la nuda proprietà

La nuda proprietà si distingue dalla piena proprietà, perché si realizza quando su un bene immobile gravano diritti di godimento a favore di altri soggetti. Chi possiede la nuda proprietà detiene la “scatola” dell’immobile, ma non può utilizzarlo o percepirne i frutti finché un altro soggetto, l’usufruttuario, ne ha il diritto.

Nuda proprietà e usufrutto

Per cogliere appieno la nuda proprietà, è quindi essenziale capire l’usufrutto. L’usufrutto è un diritto reale di godimento su cosa altrui. L’usufruttuario può godere del bene, usarlo e trarne i frutti (naturali e civili), con il vincolo di rispettarne la destinazione economica, senza possibilità di cambiarla.

L’usufrutto può essere costituito per legge (usufrutto legale), per volontà delle parti (contratto o testamento) o per usucapione. La sua durata è limitata: esso si estingue con la morte dell’usufruttuario (se persona fisica) o decorso il periodo massimo di trent’anni (se a favore di persona giuridica). Questo significa che l’usufrutto non può essere trasmesso agli eredi dell’usufruttuario e, se ceduto a terzi, si estingue comunque con la morte del cedente originario.

L’usufruttuario, pur non essendo proprietario, può agire come tale agli occhi di terzi, possedendo il bene e potendolo affittare. Tuttavia, non può vendere l’immobile, ma solo il suo diritto di usufrutto.

Riferimenti normativi

La disciplina della nuda proprietà, poiché legata al diritto di usufrutto, è contenuta nell’articolo 978 e seguenti del Codice Civile, che regolamentano questo diritto reale.

Le norme di natura fiscale invece sono contenute nelle leggi fiscali e nei regolamenti degli enti locali competenti.

Acquisto della nuda proprietà

La nuda proprietà di un immobile si acquista comprando, ereditando o ricevendo in donazione un bene la cui piena titolarità è priva del diritto di utilizzo e di godimento fino alla morte dell’usufruttuario. Questa forma di acquisizione può essere vantaggiosa per diverse ragioni. Il suo valore economico, ad esempio, è inferiore a quello della piena proprietà, ma si ricompone una volta cessato l’usufrutto. In particolare, il valore della nuda proprietà vitalizia dipende dall’età dell’usufruttuario: più è anziano, maggiore è il valore della nuda proprietà al momento dell’acquisto, poiché la durata prevista dell’usufrutto è minore. Questo rende la nuda proprietà un investimento interessante, perché il suo valore può aumentare nel tempo, mano a mano che l’usufruttuario invecchia.

Vantaggi  

Acquistare la nuda proprietà offre quindi diversi vantaggi:

  • l’immobile viene acquisito a un prezzo inferiore rispetto alla piena proprietà;
  • il valore dell’immobile tende a crescere nel tempo con l’invecchiamento dell’usufruttuario e l’aumento del valore di mercato:
  • il nudo proprietario non deve sostenere le spese di manutenzione ordinaria, quelle di amministrazione e custodia, né il carico fiscale ordinario, che sono a carico dell’usufruttuario;
  • per chi vende, è un modo per ottenere liquidità mantenendo il diritto di abitare l’immobile;
  • per chi compra, può essere un investimento a lungo termine per i figli.

Svantaggi  

Nonostante i vantaggi, l’istituto presenta anche degli svantaggi:

  • il nudo proprietario deve attendere la cessazione dell’usufrutto per poter godere pienamente dell’immobile;
  • le spese di manutenzione straordinaria sono a carico del nudo proprietario;
  • chi vende la nuda proprietà conservando l’usufrutto non può vendere il bene e deve conservarlo in buono stato.

Nuda proprietà e imposte

Il nudo proprietario non è gravato dai carichi fiscali sull’immobile, poiché questi sono a carico dell’usufruttuario. L’usufruttuario è tenuto infatti a pagare imposte come IMU, TASI e IRPEF. Al nudo proprietario spettano solo le imposte indirette, su una base imponibile ridotta del valore dell’usufrutto. All’inizio e alla fine dell’usufrutto, i carichi fiscali si ripartiscono proporzionalmente.

Estinzione usufrutto e acquisizione proprietà

Il nudo proprietario ottiene la piena titolarità dell’immobile alla cessazione dell’usufrutto grazie all’istituto della “consolidazione”, che si realizza quando i poteri di godimento e utilizzo si riuniscono.

L’usufrutto può estinguersi per diverse ragioni:

  • morte dell’usufruttuario (sia per usufrutto vitalizio che temporaneo);
  • scadenza del termine (per usufrutto temporaneo);
  • cessione del diritto dall’usufruttuario al nudo proprietario:
  • prescrizione, che si verifica e l’usufruttuario non esercita i suoi poteri per almeno vent’anni.
  • distruzione totale del bene causata dall’usufruttuario;
  • rinuncia dell’usufruttuario;
  • abusi o inadempimenti gravi dell’usufruttuario che causano un danno rilevante all’immobile, portando all’estinzione giudiziale dell’usufrutto e a un possibile risarcimento.

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indennità custode giudiziario

Indennità custode giudiziario: alle SS.UU. il termine di decadenza La Cassazione rimette alle Sezioni Unite il nodo del termine di 100 giorni per chiedere l’indennità del custode giudiziario

Indennità custode giudiziario

Indennità custode giudiziario: con l’ordinanza interlocutoria n. 15046/2025, la prima sezione civile della Cassazione ha rimesso alle sezioni unite la seguente questione: se al custode giudiziario debba applicarsi il termine di 100 giorni previsto per gli altri ausiliari del giudice ai sensi dell’art. 71, comma 2, del D.P.R. n. 115/2002 (Testo unico spese di giustizia).

Il nodo interpretativo nasce da un contrasto giurisprudenziale tra le sezioni civili e penali della stessa Corte, evidenziando la natura trasversale della figura del custode tra processo civile e penale.

Il caso

La vicenda trae origine da una opposizione proposta da un custode giudiziario contro il rigetto, da parte del GIP di Locri, dell’istanza di liquidazione delle indennità relative alla custodia di autoveicoli sequestrati in sede penale.

Il ricorrente lamentava che il termine di decadenza di 100 giorni, previsto dall’art. 71 per gli ausiliari del giudice, non fosse applicabile alla sua posizione, regolata invece dal successivo art. 72 del D.P.R. n. 115/2002, che non contempla alcun termine decadenziale.

Le tesi contrapposte

La Cassazione ha esaminato due orientamenti consolidati ma contrapposti:

  • Orientamento restrittivo (penale): esclude l’applicabilità del termine di decadenza al custode, evidenziando l’assenza di tale previsione nell’art. 72 e la differenza strutturale e funzionale tra custode e altri ausiliari. Il custode, infatti, non contribuisce all’accertamento giudiziale, ma ha un compito materiale di conservazione del bene sottoposto a vincolo.

  • Orientamento estensivo (civile): sostiene l’applicazione del termine anche al custode giudiziario, fondandosi sull’art. 3 del T.U. spese di giustizia, che elenca gli ausiliari del giudice in senso ampio. In tale prospettiva, il custode rientrerebbe tra i soggetti che devono presentare l’istanza di liquidazione entro 100 giorni dal compimento dell’incarico.

Le ragioni del rinvio alle Sezioni Unite

La Corte, pur rilevando l’esistenza di numerose pronunce che equiparano il custode agli ausiliari del giudice, ha riconosciuto la presenza di elementi distintivi che potrebbero giustificare un trattamento differenziato. In particolare, si osserva che:

  • L’attività del custode ha una natura continuativa e spesso si protrae nel tempo;

  • Il compenso del custode è definito come “indennità”, distinta dagli “onorari” previsti per gli altri ausiliari;

  • La disciplina vigente (in particolare l’art. 72) non contiene alcuna disposizione specifica in merito a un termine perentorio di richiesta.

Quale sarà la sorte dell’indennità del custode?

Sarà ora compito delle Sezioni Unite della Cassazione chiarire in modo definitivo se il custode giudiziario debba o meno presentare l’istanza di liquidazione entro il termine di 100 giorni dal termine del proprio incarico.

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