clausola risolutiva espressa

Clausola risolutiva espressa Clausola risolutiva espressa art. 1456 c.c.: cos'è, come funziona, differenze rispetto alla condizione risolutiva e giurisprudenza

Cos’è la clausola risolutiva espressa

La clausola risolutiva espressa è una clausola contrattuale che prevede la risoluzione automatica del contratto in caso di inadempimento di uno degli obblighi  che gravano su una delle parti. In altre parole, se una delle parti non adempie agli obblighi stabiliti nel contratto, l’altra parte può considerare il contratto risolto senza necessità di intervento giudiziale.

Questa clausola è esplicitamente indicata nel contratto e deve essere concordata dalle parti al momento della stipula.

Normativa di riferimento: art. 1456 c.c.

La norma che prevede e disciplina la clausola risolutiva espressa è l’articolo 1456 c.c. Esso dispone in particolare che: “1. I contraenti possono convenire espressamente che il contratto si risolva nel caso che una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite. In questo caso, la risoluzione si verifica di diritto quando la parte interessata dichiara all’altra che intende valersi della clausola risolutiva.”

Dal tenore letterale della norma emerge che la risoluzione del contratto non richiede l’intervento di un giudice, ma è automatica, in quanto le parti hanno esplicitamente previsto l’inadempimento come causa di risoluzione. La clausola risolutiva espressa è quindi uno strumento di protezione per le parti contraenti, per evitare lunghe procedure legali per risolvere un contratto in caso di inadempimento.

Funzionamento della clausola risolutiva espressa

La clausola risolutiva espressa è un meccanismo automatico di risoluzione, che scatta nel momento in cui si verifica un inadempimento da parte di una delle parti. Tuttavia, affinché la risoluzione si realizzi, è necessario che la clausola sia esplicitamente prevista nel contratto, che l’inadempimento sia di entità tale da giustificare la sua attivazione e che la parte interessata dichiari all’altra parte di volersene avvalere.

Un esempio pratico utile a chiarire

Supponiamo che due parti stipulino un contratto di locazione con una clausola risolutiva espressa che preveda la risoluzione del contratto nel caso in cui una delle parti non paghi il canone entro 30 giorni dalla scadenza. Se il conduttore non paga il canone per un mese, il locatore può ritenere risolto il contratto senza bisogno di una causa legale, comunicando l’intenzione al conduttore di volersi avvalere della clausola. La risoluzione avviene  quindi automaticamente, sulla base di quanto concordato nel contratto. La parte che ha subito l’inadempimento non ha quindi bisogno di rivolgersi al tribunale per chiedere la risoluzione del contratto, proprio perché la clausola prevede già l’eventualità di un effetto automatico a fronte di un comportamento inadempiente.

Differenze con la condizione risolutiva

Molti tendono a confondere la clausola risolutiva espressa con la condizione risolutiva, ma ci sono differenze significative tra le due. Vero che entrambe portano alla risoluzione del contratto, ma la modalità e i presupposti sono diversi.

Cos’è la condizione risolutiva

La condizione risolutiva, come definita dal Codice Civile (Art. 1359), è un evento futuro e incerto che determina la cessazione di un contratto. Il contratto esiste già e ha effetti, ma si risolve automaticamente al verificarsi di una condizione che è incerta e non dipende dall’inadempimento di una delle parti. La condizione risolutiva può essere legata a eventi esterni (ad esempio, l’approvazione di un finanziamento, l’ottenimento di una licenza) e il contratto si risolve solo se tali eventi si verificano. La risoluzione avviene senza bisogno di un’azione delle parti, ma dipende dall’evento specifico concordato.

La differenza con la clausola risolutiva espressa

La clausola risolutiva espressa, invece, dipende direttamente dall’inadempimento di una delle parti e prevede una risoluzione automatica del contratto, senza la necessità di un evento futuro e incerto. Il contratto è già in vigore e, se una parte non adempie ai suoi obblighi, il contratto viene risolto in base a quanto stabilito nella clausola. L’inadempimento, quindi, è la causa scatenante, non un evento esterno.

Giurisprudenza  

La giurisprudenza italiana ha esaminato numerosi casi riguardanti la clausola risolutiva espressa e la sua applicazione nei contratti. Ecco alcune sentenze significative:

Cassazione n. 23287/2024: per avvalersi della clausola risolutiva espressa (ex art. 1456 c.c.), l’inadempimento deve essere effettivo; altrimenti, si rischierebbe un abuso del diritto. La buona fede, sancita dagli artt. 1175 e 1375 c.c., guida l’interpretazione per evitare condotte pretestuose e abusi. La giurisprudenza sottolinea che, se il comportamento del debitore è conforme alla buona fede, anche se rientra nei fatti previsti dalla clausola, non può essere considerato inadempimento. Questo principio tutela entrambe le parti da azioni ingiustificate.

Cassazione n. 14195/2022: la tolleranza del creditore (come l’accettazione di pagamenti parziali o tardivi) non elimina la clausola risolutiva espressa né implica una tacita rinuncia ad avvalersene, purché il creditore, contestualmente o successivamente, dichiari l’intenzione di utilizzarla in caso di ulteriori inadempimenti. Secondo la giurisprudenza (Cass. 2005, 2013, 2018), la tolleranza rende temporaneamente inoperante la clausola, ma questa riprende efficacia se il creditore richiama il debitore all’adempimento puntuale delle sue obbligazioni con una nuova manifestazione di volontà.

Cassazione n. 23879/2021: la clausola risolutiva espressa è invalida se non indica specificamente le obbligazioni contrattuali a cui si riferisce. È necessario individuare con precisione gli obblighi la cui violazione giustifica lo scioglimento immediato del contratto. Durante la redazione, è essenziale definire chiaramente le circostanze che possono provocare la risoluzione automatica, evitando riferimenti generici a tutte le obbligazioni contrattuali. In questo modo le parti possono identificare, sin dall’inizio, le violazioni gravi che impediscono la prosecuzione del rapporto, riducendo tempi e costi rispetto a un accertamento giudiziale.

 

Leggi anche: La risoluzione del contratto

interdizione e inabilitazione

Addio a interdizione e inabilitazione? Interdizione e inabilitazione a rischio: un emendamento del Governo al ddl AS n. 1192 vuole superare questi istituti in favore dell'AdS

Interdizione e inabilitazione

Interdizione e inabilitazione a rischio. L’emendamento del Governo alla legge di semplificazione annuale (ddl AS n. 1192) prevede l’accorpamento degli istituti dell’inabilitazione e dell’interdizione nell’amministrazione di sostegno.

L’emendamento delega l’Esecutivo a rivedere gli istituti di tutela suddetti al fine di superarli gradualmente e accorpare la tutela dei disabili nell’amministrazione di sostegno, dopo una attenta rimodulazione.

Interdizione e inabilitazione: deboli a rischio?

Insorge l’avvocatura sottolineando l’importanza dell’assistenza professionale per i soggetti deboli. Il superamento degli istituti tradizionale di tutela pare del tutto inopportuno. Le modifiche al vaglio rischiano inoltre di compromettere la ratio dell’istituto dell’amministrazione di sostegno.

Condivisibile l’obiettivo di superare istituti anacronistici, ma occorre considerare anche la possibile regressione delle garanzie dei diritti fondamentali dei soggetto più deboli.

L’emendamento rischia anche di minacciare i patrimoni, appare  quindi necessario proporre livelli di formalità diversi per patrimoni e redditi maggiori.

Gli istituti dell’amministrazione di sostegno, dell’inabilitazione e interdizione inoltre sono diversi. L’amministrazione di sostegno è più elastica e adatta a situazioni temporanee. L’inabilitazione e all’interdizione invece hanno funzione stabile e duratura.

Occorrono criteri stringenti e definiti per l’applicazione dell’Amministrazione di sostegno, garanzie di controllo giurisdizionale e partecipazione attiva del beneficiario. Necessario a tal fine   il coinvolgimento delle professioni legali e del terzo settore.

Aiga: serve una riforma giusta ed equilibrata

Aiga ritiene che l’emendamento comprometta la tutela dei più fragili, ne riduca le garanzie e ne indebolisca la protezione patrimoniale.

Nel suo comunicato stampa del 9 aprile 2025 ricorda anche la propria proposta di legge finalizzata a:

  • riconoscere la professionalità degli amministratori di sostegno;
  • garantire un compenso equo e dignitoso a questi soggetti;
  • definirne chiaramente le responsabilità;
  • rafforzarne la tutela fiscale e legale.

Il legislatore deve adottare un approccio responsabile, tutelare i diritti dei soggetti fragili e garantire la dignità professionale degli amministratori di sostegno.

avviso di giacenza

Avviso di giacenza Cos’è l’avviso di giacenza, come funziona la compiuta giacenza degli atti giudiziari: guida con giurisprudenza

Cos’è l’avviso di giacenza

L’avviso di giacenza è un documento che il servizio postale lascia nella cassetta delle lettere quando non è possibile consegnare un atto o una raccomandata direttamente al destinatario. Questo avviso informa che il plico è disponibile per il ritiro presso l’ufficio postale entro un determinato periodo.

Disciplina della compiuta giacenza degli atti giudiziari

Nel contesto degli atti giudiziari, la “compiuta giacenza” si riferisce al periodo dopo il quale un atto non ritirato si considera comunque notificato al destinatario.

Secondo l’articolo 140 del Codice di Procedura Civile, se la consegna di un atto non può essere effettuata per irreperibilità, incapacità o rifiuto del destinatario, l’ufficiale giudiziario deposita una copia dell’atto presso la casa comunale e ne dà comunicazione tramite raccomandata con avviso di ricevimento.

La notifica si considera completata quando sono trascorsi dieci giorni da quando il destinatario, non trovato al suo domicilio, ha ricevuto l’avviso di deposito dell’atto presso il comune tramite raccomandata. Trascorsi infatti dieci giorni dalla data di deposito senza che il destinatario ritiri l’atto, la notifica si considera perfezionata per “compiuta giacenza”.

È importante notare che, anche se l’atto rimane in giacenza per un periodo più lungo (fino a 180 giorni per gli atti giudiziari), gli effetti legali della notifica si producono al decimo giorno dalla data di deposito.

Lo ha chiarito la Cassazione nell’ordinanza n. 8895/2022 sancendo il seguente principio: In materia di notifiche di atti tributari tramite servizio postale, la validità della notifica è garantita anche in caso di assenza del destinatario. Se il postino non trova il destinatario a casa infatti lascia un avviso di giacenza nella cassetta postale, se poi il destinatario non ritira l’atto entro 10 giorni, la notifica si considera perfezionata. Questo vale anche se il destinatario ha ricevuto l’avviso di deposito (CAD) ma non è andato a ritirare l’atto. In questi casi, si presume che il destinatario abbia avuto conoscenza dell’atto, in base all’articolo 1335 del codice civile. Questo perché l’avviso di giacenza è stato consegnato all’indirizzo del destinatario, dandogli la possibilità di ritirare l’atto. La notifica quindi raggiunge il suo scopo quando l’avviso di giacenza entra nella sfera di conoscibilità del destinatario. Se  il destinatario sceglie di non ritirare l’atto, la notifica è comunque valida.

Come riconoscere il contenuto dell’avviso di giacenza

L’avviso di giacenza contiene informazioni utili per identificare il tipo di atto o comunicazione non consegnata. Ad esempio, il colore dell’avviso può fornire indicazioni preliminari: un avviso di colore verde è spesso associato a comunicazioni ufficiali o atti giudiziari. Inoltre, sull’avviso sono presenti codici numerici che identificano la natura del documento. Codici come 75, 76, 77, 78 e 79 indicano generalmente atti giudiziari o comunicazioni da parte di enti pubblici.

Queste informazioni permettono al destinatario di avere un’idea del contenuto della comunicazione e dell’ente mittente.

Giurisprudenza rilevante

La giurisprudenza ha più volte affrontato il tema della “compiuta giacenza” e degli effetti della notifica:

Cassazione n. 31724/2019: Se uno degli adempimenti richiesti dall’art. 140 c.p.c. viene omesso, la notificazione è nulla, ma può essere sanata se raggiunge comunque il suo scopo, ai sensi dell’art. 156 c.p.c. Ciò vale anche quando il destinatario riceve l’avviso di raccomandata riguardante il deposito del plico presso l’ufficio postale, ma decide di non ritirarlo, facendo scattare la compiuta giacenza. Tuttavia, la presunzione di conoscenza prevista dall’art. 1335 c.c può essere superata solo se il destinatario dimostra di essere stato, senza sua colpa, impossibilitato a prendere visione dell’atto.

Cassazione n. 32201/2018: Nella notificazione a destinatario irreperibile ex art. 140 c.p.c., l’avviso di ricevimento della raccomandata informativa non deve necessariamente attestare la consegna o la scadenza del termine di giacenza, né contenere tutte le annotazioni previste per le notifiche postali. Tuttavia, in base alla sentenza della Corte Costituzionale n. 3/2010, deve emergere l’eventuale trasferimento, decesso o altro impedimento che renda l’avviso non conoscibile dal destinatario.

 

 

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rendita vitalizia

La rendita vitalizia Rendita vitalizia: cos'è, cosa la distingue dalla rendita perpetua, a chi spetta, come funziona e giurisprudenza di rilievo in materia

Cos’è la rendita vitalizia?

La rendita vitalizia è un contratto disciplinato dagli articoli 1872 e seguenti del Codice Civile, con il quale una parte (denominata costituitore) si obbliga a corrispondere periodicamente una somma di denaro o una quantità di beni a un’altra parte (beneficiario o vitaliziato), per tutta la durata della vita di quest’ultimo o di un terzo.

Il contratto può essere a titolo oneroso, quando il vitaliziato trasferisce un bene o versa una somma in cambio della rendita, oppure a titolo gratuito, se costituito come donazione.

Tipologie di rendita

Il nostro codice civile prevede e disciplina due tipi di rendite:

  • perpetua: non è legata alla durata della vita di una persona specifica (art. 1861 c.c.) e si costituisce tramite contratto. Essa conferisce il diritto a esigere in modo perpetuo una prestazione periodica di denaro o di cose fungibili, quale corrispettivo della vendita di un immobile o della cessione di un capitale;
  • vitalizia: quando dipende dalla vita di un individuo determinato (art. 1872 c.c.). Ai sensi del comma 2 dell’art. 1873 del Codice Civile la rendita può essere costituita anche per la durata della vita di più persone.

Quando e a chi spetta

La rendita vitalizia può essere pattuita tra privati, derivare da specifiche disposizioni testamentarie o da una donazione. È uno strumento spesso utilizzato:

  • nell’ambito della pianificazione successoria, per garantire un reddito stabile a un familiare;
  • nei contratti di cessione di beni immobili con riserva di rendita a favore del cedente;
  • per assicurare un sostegno economico in caso di cessione d’azienda o quote societarie;
  • in ambito previdenziale, con rendite assicurative legate ai piani pensionistici.

La rendita spetta al beneficiario designato, il quale ha diritto a percepirla secondo le condizioni stabilite nel contratto. In caso di premorienza del beneficiario, la rendita si estingue, salvo diversa pattuizione.

Giurisprudenza in materia di rendita vitalizia 

La giurisprudenza ha spesso affrontato controversie relative alla rendita vitalizia.

Cassazione n. 8116/2024

Per accertare la validità di una rendita vitalizia, elemento essenziale è l’alea, ovvero l’equivalenza del rischio tra le parti al momento della stipula. Questa equivalenza si valuta considerando l’entità della rendita e la presumibile durata della vita del beneficiario. Il contratto è nullo se, per l’età e la salute del vitaliziato, era prevedibile con certezza il suo decesso, rendendo calcolabili guadagni e perdite per entrambe le parti. Nel caso specifico, la Cassazione ha confermato la nullità perché la vitaliziata di 48 anni, conoscendo la situazione economica della società vitaliziante, non presentava un rischio equivalente per quest’ultima.

Cassazione n. 10031/2023

L’accordo stipulato in sede di separazione e recepito nel divorzio congiunto, in cui un coniuge cede quote societarie all’altro in cambio di un assegno vitalizio a favore del cedente e dei figli, senza interruzione anche dopo la maggiore età di questi ultimi, non è soggetto a revisione ai sensi dell’articolo 8 della legge sul divorzio. La Corte qualifica tale pattuizione non come un assegno divorzile, ma come la costituzione di una rendita vitalizia, con conseguente inapplicabilità delle norme sulla revisione dell’assegno divorzile.

Cassazione n. 11290/2017

Secondo il consolidato indirizzo interpretativo della Corte di Cassazione, il vitalizio alimentare è un contratto atipico che si distingue dalla rendita vitalizia per la sua aleatorietà più accentuata. Questa alea non riguarda solo la durata del contratto, legata alla vita del beneficiario, ma anche la quantità e la natura delle prestazioni dovute (vitto, alloggio e assistenza), che possono variare nel tempo in base a fattori imprevedibili come le condizioni di salute del beneficiario. Inoltre, le prestazioni di assistenza hanno una natura spiccatamente personale e richiedono un vitaliziante specificamente scelto in base alle sue qualità individuali. Nel vitalizio alimentare, una parte si obbliga a fornire queste prestazioni in cambio del trasferimento di un immobile o di altri beni.

 

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servitù di panorama

La servitù di panorama Servitù di panorama: definizione, riferimenti normativi, differenze rispetto al diritto di veduta e sentenze della Cassazione

Cos’è la servitù di panorama

La servitù di panorama è un diritto reale su cosa altrui che consente al titolare del fondo dominante di mantenere una vista libera e panoramica da un determinato punto del proprio immobile, limitando la facoltà del proprietario del fondo vicino (fondo servente) di costruire o modificare in modo tale da ostruire la visuale.

Diversamente dal diritto di veduta (che riguarda il diritto di affacciarsi e guardare sul fondo altrui), la servitù di panorama si riferisce alla possibilità di godere di una visuale aperta – ad esempio verso il mare, una vallata, un parco o un centro storico – e alla conseguente tutela dell’interesse estetico o economico connesso alla visuale stessa.

La servitù di panorama nel codice civile

Il codice civile italiano non contiene una disciplina espressa di questa servitù. Tuttavia, essa può essere ricondotta alla categoria delle servitù atipiche previste dall’art. 1027 c.c., secondo cui: “La servitù prediale consiste nel peso imposto sopra un fondo per l’utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario.”

La servitù di panorama, dunque, rientra tra le servitù prediali purché:

  • sia costituita per iscritto (o per usucapione nei casi ammessi);
  • ci sia un fondo dominante e un fondo servente, entrambi identificabili;
  • l’utilità sia duratura e oggettiva, non meramente personale o estetica.

Differenze rispetto al diritto di veduta 

Spesso si confonde la servitù di panorama con il diritto di veduta, ma i due istituti hanno natura e disciplina differenti:

Caratteristica

Diritto di veduta

Servitù di panorama

Fonte

Normativa espressa (art. 907 c.c. e ss.)

Servitù atipica ex art. 1027 c.c.

Oggetto

Affacciarsi e guardare sul fondo altrui

Mantenere una vista panoramica libera

Costituzione

Anche per usucapione

Solo per titolo scritto o usucapione se evidente e continuata

Limitazioni

Distanze minime da rispettare

Divieto di costruire che ostacoli la visuale

Natura

Servitù apparente o non apparente

Generalmente non apparente

Il diritto di panorama, per essere tutelato, deve essere costituito formalmente come servitù, altrimenti il proprietario del fondo vicino ha piena libertà di edificazione entro i limiti urbanistici e civilistici.

Costituzione e tutela 

La servitù di panorama può essere costituita:

  • per contratto: mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata;
  • per testamento;
  • per usucapione: se l’esercizio della servitù è continuo, pacifico e inequivoco per almeno venti anni, e l’esistenza della servitù è “visibile” (ad esempio per l’esistenza di parapetti o terrazze dedicate).

Una volta costituita, la servitù vincola il fondo servente a non costruire o sopraelevare in modo da pregiudicare la visuale panoramica del fondo dominante.

In assenza di servitù, non si può impedire al vicino di costruire: il solo fatto di godere di una bella vista non attribuisce un diritto acquisito alla sua conservazione.

Servitù di panorama: Cassazione

La Corte di Cassazione nel tempo ha fornito importanti precisazioni sul contenuto e sulle modalità di acquisto della servitù di panorama:

Cassazione n. 17922/2023: il diritto di veduta panoramica si configura come una servitù che, a seconda dei casi, si traduce in un divieto di costruire (non aedificandi) o di sopraelevare (altius non tollendi). Questo diritto può essere acquisito tramite contratto (a titolo derivativo), per destinazione del padre di famiglia o per usucapione (a titolo originario). Tuttavia, queste ultime modalità richiedono, oltre alla specifica destinazione data dall’originario unico proprietario o all’esercizio prolungato per oltre vent’anni di attività corrispondenti alla servitù, anche la presenza di opere visibili e permanenti che siano ulteriori rispetto a quelle che semplicemente consentono la vista.

Cassazione n. 2973/2012: la servitù di panorama, che valorizza la piacevolezza di un fondo grazie alla vista che offre, è un tipo di servitù “altius non tollendi” che limita sia le costruzioni che la crescita degli alberi. Per poterla acquisire tramite la destinazione del padre di famiglia o l’usucapione, è necessario che esistano opere visibili e permanenti ulteriori rispetto a quelle che permettono semplicemente la veduta. In altre parole, tali opere devono essere specificamente destinate all’esercizio della servitù di panorama invocata, altrimenti quest’ultima sarebbe sempre implicita nella servitù di veduta.

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opposizione di terzo

Opposizione di terzo all’esecuzione Opposizione di terzo all’esecuzione art. 619 c.p.c.: cos’è, chi la può proporre, come funziona la procedura e sentenze di rilievo

Cos’è l’opposizione di terzo all’esecuzione

L’opposizione di terzo all’esecuzione è un rimedio processuale a tutela di soggetti estranei a un’esecuzione forzata, che rivendicano un diritto di proprietà o altro diritto reale su un bene pignorato. Secondo l’art. 619 c.p.c., se un terzo sostiene di avere un diritto incompatibile con l’esecuzione in corso, può proporre opposizione per ottenere la liberazione del bene.

Chi può proporre l’opposizione di terzo

Sono legittimati a proporre opposizione di terzo:

  • il proprietario del bene pignorato, se dimostra che il bene non appartiene al debitore esecutato;
  • chi vanta sul bene dei diritti reali di godimento (usufrutto, uso, abitazione, servitù);
  • il creditore pignoratizio o il titolare di altri diritti di garanzia;
  • chi ha stipulato un contratto opponibile ai terzi (es. locazione registrata prima del pignoramento).

L’onere della prova del diritto vantato sul bene spetta all’opponente, che deve dimostrare la titolarità mediante documentazione idonea (es. atti notarili, contratti, registrazioni nei pubblici registri).

Procedura di opposizione di terzo all’esecuzione

L’opposizione si propone con ricorso al giudice dell’esecuzione. Tale atto deve contenere seguenti elementi:

  • l’individuazione del bene pignorato;
  • la natura del diritto vantato;
  • le prove documentali a supporto della domanda. L’articolo 621 ccc dipone infatti che il terzo opponente non possa dimostrare il suo diritto per mezzo di testimoni, a meno che l’esistenza del diritto non sia verosimile in relazione alla professione o al commercio svolti da terzo o dal debitore.

Il giudice, esaminata l’istanza, può decidere di:

  • accogliere l’opposizione e disporre l’esclusione del bene dal pignoramento;
  • rigettare l’opposizione, se il diritto vantato non è sufficientemente provato;
  • sospendere l’esecuzione in via cautelare, in attesa della decisione.

Se l’opposizione è respinta, l’opponente può impugnare la decisione dinanzi alla Corte d’Appello.

Come opporsi?

Per proporre l’opposizione di terzo all’esecuzione, l’opponente deve compiere i seguenti passaggi:

  1. raccogliere la documentazione che attesti la titolarità del diritto;
  2. depositare il ricorso presso il Tribunale competente (dove si svolge l’esecuzione);
  3. notificare il ricorso alle parti coinvolte (creditore procedente e debitore);
  4. partecipare all’udienza, ove il giudice valuterà la fondatezza della richiesta.

Il giudice, su istanza del terzo, può anche, in presenza di gravi motivi, sospendere il processo con o senza cauzione.

Giurisprudenza rilevante

Alcune sentenze significative della Corte di Cassazione in tema di opposizione di terzo all’esecuzione:

Cassazione n. 40751/2021: l’azione prevista dall’articolo 619 del codice di procedura civile, essendo qualificata in questo modo, implica che essa rimane soggetta al principio generale secondo cui l’onere della prova ricade su chi, attraverso una propria affermazione, intende far derivare conseguenze giuridiche a suo favore. Pertanto, spetterà all’opponente dimostrare il fatto giuridico su cui basa il suo presunto diritto sui beni mobili soggetti a esecuzione, come stabilito anche dalla sentenza n. 1506/1972 della Sezione 3 della Corte di Cassazione.

Cassazione n. 17913/2022: nonostante la sua struttura bifasica, il giudizio di opposizione di terzo all’esecuzione, disciplinato dall’articolo 619 del codice di procedura civile, presenta una natura unitaria. Di conseguenza, l’atto di citazione per la fase di merito, che eventualmente segue la fase sommaria dinanzi al giudice dell’esecuzione, è validamente notificato presso il difensore nominato con la procura alle liti rilasciata già nella prima fase, a meno che la parte destinataria non abbia espresso una volontà diversa e esplicita di limitare la validità del mandato difensivo a tale fase.

Cassazione civile n. 4005/2022: se un terzo vanta un diritto reale su un bene immobile soggetto a esecuzione forzata, la sua possibilità di azione varia a seconda della sua partecipazione al procedimento esecutivo: se ha preso parte al procedimento, può presentare solo opposizione agli atti esecutivi; se non ha partecipato, può presentare opposizione di terzo ai sensi dell’articolo 619 del codice di procedura civile durante il giudizio di esecuzione e, dopo la vendita e l’aggiudicazione, può rivendicare il bene nei confronti dell’aggiudicatario.

 

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fermo tecnico

Il fermo tecnico Fermo tecnico: significato, normativa di riferimento, danno risarcibile e prova dello stesso, tipologie e giurisprudenza rilevante

Cos’è il fermo tecnico?

Il fermo tecnico è il periodo di tempo durante il quale un veicolo, un macchinario o un’attrezzatura non può essere utilizzato. Il mancato utilizzo può dipendere da un guasto o da un incidente che ne ha compromesso il normale funzionamento. Esso si verifica quindi quando un bene è immobilizzato per cause impreviste e necessita di riparazioni o interventi per tornare operativo.

Nel contesto di un incidente stradale, il fermo tecnico si riferisce al periodo in cui un veicolo non è utilizzabile perché danneggiato. Il proprietario quindi deve essere risarcito per i danni economici derivanti dalla perdita d’uso. Non si tratta di un danno fisico diretto al bene, ma di una perdita economica che può avere un impatto significativo sul reddito o sull’attività professionale.

Normativa di riferimento

Il fermo tecnico non ha una disciplina specifica all’interno del Codice Civile italiano. Esso si inserisce nel contesto delle disposizioni generali sui danni patrimoniali e sul risarcimento dei danni derivanti da incidenti e da responsabilità civile. Esso è collegato agli articoli 2043 e seguenti del Codice Civile, che trattano della responsabilità civile per i danni causati da fatti illeciti.

Nel caso di un incidente stradale, il danno da fermo tecnico viene generalmente risarcito dal responsabile dell’incidente. Costui infatti dovrà risarcire il danno subito dal proprietario del veicolo danneggiato. Il danneggiato può chiedere il risarcimento del fermo tecnico anche per il periodo in cui il veicolo o l’attrezzatura è inutilizzabile. La prova del danno può essere fornita da un preventivo di riparazione o da un certificato di inidoneità rilasciato da un professionista.

In cosa consiste il danno da fermo tecnico

Il danno da fermo tecnico consiste nella perdita di guadagni o nella riduzione della produttività a causa dell’incapacità di utilizzare il veicolo, il macchinario o l’attrezzatura. Ad esempio, nel caso di un incidente che danneggia un veicolo utilizzato per il lavoro, il danno da fermo tecnico si concretizza nel periodo in cui il mezzo non può essere impiegato, con conseguente perdita economica per l’azienda o per il professionista.

Nel caso di un veicolo, il danno può essere calcolato in base al costo del noleggio di un altro mezzo equivalente o al guadagno perso durante il periodo in cui il veicolo è stato immobilizzato. Per un macchinario, il danno da fermo tecnico può essere determinato attraverso una stima del valore economico che l’azienda perde per l’impossibilità di utilizzare l’attrezzatura, considerando la durata del fermo e il tipo di attività che viene impedita.

Tipologie di danno da fermo tecnico

  • Fermo tecnico di un veicolo: il danno si calcola sulla base della perdita economica derivante dall’impossibilità di utilizzare il mezzo (Es: attività commerciale che dipende dal trasporto).
  • Fermo tecnico di un macchinario: in questo caso, il danno riguarda il fermo produttivo e viene calcolato sulla base dei guadagni che l’impresa non è riuscita a realizzare a causa dell’impossibilità di utilizzare l’
  • Fermo tecnico in ambito professionale: può riguardare anche il caso di un libero professionista che non può utilizzare il proprio veicolo o attrezzatura per lavorare, con la conseguente perdita di reddito.

Come va dimostrato il danno

Dimostrare il danno da fermo tecnico è essenziale per poter chiedere il risarcimento. Per ottenere un risarcimento, il danneggiato deve fornire prove adeguate del periodo di fermo, della causa che ha provocato l’immobilizzazione del bene e della perdita economica derivante da tale fermo.

Documenti utili per dimostrare il danno

  • Certificato di inidoneità (nel caso di incidenti stradali): serve a documentare il danno subito dal veicolo o dal macchinario.
  • Preventivo o fattura di riparazione: serve per provare i costi necessari per riparare il danno e far tornare il bene operativo.
  • Testimonianze: nel caso di incidenti o guasti, può essere utile avere testimonianze di persone che hanno assistito all’incidente o che possono confermare il periodo di fermo del bene.
  • Documentazione commerciale: come contratti, ordini e fatture che provano la perdita economica derivante dal fermo tecnico, ad esempio la mancata esecuzione di un servizio.
  • Contratti di noleggio: in caso di sostituzione del veicolo danneggiato con uno a noleggio, i contratti di noleggio possono dimostrare il periodo di immobilizzazione e i costi sostenuti.

Giurisprudenza sul fermo tecnico

La giurisprudenza italiana ha trattato diversi casi relativi al fermo tecnico e al risarcimento dei danni derivanti da tale immobilizzazione. Di seguito alcune sentenze significative:

Cassazione n. 15262/2023: il danno da “fermo tecnico” di un veicolo incidentato non può considerarsi automaticamente sussistente (“in re ipsa”). Esso richiede un’adeguata prova. A tal fine, è sufficiente dimostrare l’effettiva spesa sostenuta per il noleggio di un mezzo sostitutivo, la cui riconducibilità causale all’illecito può essere desunta attraverso un ragionamento presuntivo.

Cassazione n. 7358/2023: il danno da fermo tecnico di un veicolo incidentato deve essere adeguatamente allegato e dimostrato. Non è sufficiente la sola prova della sua indisponibilità. Spetta al danneggiato fornire evidenza della spesa sostenuta per il noleggio di un veicolo sostitutivo o del mancato guadagno derivante dall’impossibilità di utilizzare l’auto. Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto erronea la decisione del giudice di merito che aveva richiesto anche la prova della necessità della spesa, nonostante fosse già stata dimostrata l’effettiva erogazione dell’importo

Cassazione n. 27343/2024: nel caso di illegittimo fermo amministrativo, il danno non patrimoniale, anche se invocato per la presunta violazione di diritti di rango costituzionale, non è risarcibile quando si limita a incidere sulla quotidianità con disagi, fastidi, frustrazioni, ansie o altre forme di insoddisfazione di lieve entità. Tali conseguenze, non configurandosi come gravi, restano prive di rilevanza risarcitoria in quanto di natura bagatellare e non suscettibili di una quantificazione economica.

 

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impresa individuale

Impresa individuale Cos’è l’impresa individuale, qual è la normativa di riferimento e le caratteristiche, come aprirla e con quali costi

Cos’è l’impresa individuale

L’impresa individuale è una forma giuridica in cui un singolo individuo esercita un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi. In questo contesto, il titolare dell’impresa assume personalmente tutte le decisioni e le responsabilità connesse all’attività.

Caratteristiche dell’impresa individuale

  • Semplicità di costituzione: l’avvio è relativamente semplice e non richiede un capitale minimo iniziale;
  • Gestione autonoma: il titolare ha il pieno controllo sulle decisioni aziendali e può avvalersi di collaboratori o dipendenti per lo svolgimento dell’attività;
  • Responsabilità illimitata: il titolare risponde con tutto il suo patrimonio personale per le obbligazioni assunte dall’impresa.

Normativa di riferimento

In Italia, questo istituto è regolato dal Codice Civile, in particolare dagli articoli 2082 e seguenti, che definiscono l’imprenditore e le modalità di esercizio dell’attività d’impresa.

Differenza tra ditta e impresa individuale

I termini “ditta individuale” e “impresa individuale” sono spesso utilizzati erroneamente come sinonimi. La “ditta” però è uno dei segni distintivi di un’impresa, è infatti il nome che l’impresa utilizza per identificarsi sul mercato. L’impresa individuale invece caratterizza l’attività svolta dall’imprenditore in modo organizzato, economico e professionale.

Vantaggi e svantaggi dell’impresa individuale

Vantaggi

  • Costi di avvio ridotti: non è necessario un capitale sociale minimo e le procedure burocratiche sono meno complesse rispetto ad altre forme giuridiche.
  • Gestione semplificata: il titolare ha il controllo diretto su tutte le operazioni e decisioni aziendali.

Svantaggi

  • Responsabilità personale illimitata: il titolare risponde con il proprio patrimonio personale per i debiti dell’impresa.
  • Capacità finanziaria limitata: essendo basata su un’unica persona, l’impresa potrebbe avere accesso limitato a risorse finanziarie rispetto a società con più soci.

Come aprire un’impresa individuale

Per avviare un’impresa individuale, è necessario seguire questi passaggi:

  1. Apertura della Partita IVA: richiedere l’attribuzione del numero di Partita IVA presso l’Agenzia delle Entrate.
  2. Iscrizione al Registro delle Imprese: registrare l’impresa presso la Camera di Commercio competente territorialmente.
  3. Comunicazione di inizio attività: presentare la Segnalazione Certificata di Inizio Attività (SCIA) al Comune dove ha sede l’impresa.
  4. Iscrizione agli enti previdenziali: Registrarsi presso l’INPS e, se previsto, all’INAIL per le coperture assicurative obbligatorie.

Numero di dipendenti

Non esiste un limite specifico al numero di dipendenti che un’impresa individuale può assumere. Il titolare può decidere liberamente in base alle esigenze operative e alle capacità finanziarie dell’impresa.

Responsabilità per i debiti

Il titolare è personalmente responsabile per tutti i debiti e le obbligazioni dell’impresa. Ciò significa che, in caso di insolvenza, i creditori possono rivalersi sia sul patrimonio aziendale che su quello personale dell’imprenditore.

Costi di avvio

I costi per avviarla possono variare, ma generalmente includono:

  • Imposta di bollo e diritti di segreteria: circa 120€ – 400€, a seconda della Camera di Commercio locale;
  • Diritto annuale camerale: importo variabile in base al tipo di attività e alla provincia;
  • Spese per consulenze professionali: eventuali costi per commercialisti o consulenti per l’assistenza nelle pratiche burocratiche;

È consigliabile consultare gli enti locali o professionisti del settore per ottenere informazioni aggiornate sui costi specifici.

 

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quietanza di pagamento

La quietanza di pagamento Quietanza di pagamento: cos'è, quale forma deve avere, quali dati deve contenere, giurisprudenza e fac-simile

Cos’è la quietanza di pagamento e a cosa serve

La quietanza di pagamento è un documento con cui il creditore attesta di aver ricevuto un pagamento da parte del debitore, liberandolo dall’obbligazione. Questo strumento ha una funzione probatoria, dimostrando l’avvenuto saldo di un debito e prevenendo eventuali contestazioni future.

La quietanza può riguardare qualsiasi tipologia di pagamento, come il saldo di fatture, la chiusura di un prestito o il pagamento di un contratto di locazione. La sua importanza è fondamentale sia in ambito commerciale che civile, poiché certifica in modo inequivocabile l’adempimento di un’obbligazione.

La quietanza nel codice civile

La norma di riferimento per questo istituto è l’articolo 1199 del codice civile, che disciplina il diritto del debitore alla quietanza. La norma dispone infatti che il creditore che riceve il pagamento dal debitore, su richiesta di questo soggetto, deve a spese del richiedente, rilasciare quietanza e annotarlo sul titolo, se questo non viene restituito al debitore.

Forma e contenuto del documento

La quietanza di pagamento deve essere rilasciata in forma scritta.  Questa forma è preferibile per garantire certezza giuridica e maggiore tutela in caso di contestazioni.

Contenuto essenziale della quietanza di pagamento

Affinché la quietanza sia valida, deve contenere i seguenti elementi:

  • dati delle parti: nome e cognome del creditore e del debitore (o ragione sociale in caso di aziende);
  • importo pagato: cifra esatta corrisposta in numeri e in lettere;
  • causale del pagamento: specificazione dell’obbligazione adempiuta (es. pagamento fattura n. XXXX, saldo prestito, affitto mensile);
  • data e luogo del pagamento;
  • modalità di pagamento: contanti, bonifico bancario, assegno, ecc.;
  • firma del creditore: elemento essenziale per la validità della quietanza.

Giurisprudenza

La Corte di Cassazione ha più volte ribadito il valore probatorio della quietanza di pagamento, stabilendo alcuni principi fondamentali.

Cassazione n. 19034/2024: la quietanza non è soggetta a particolari requisiti formali previsti dalla legge e può essere contenuta in qualsiasi documento che attesti in modo inequivoco l’avvenuto pagamento, specificandone l’importo e la causale. Tuttavia, affinché abbia valore di confessione stragiudiziale con piena efficacia probatoria, deve essere rilasciata e sottoscritta dal creditore, poiché solo la firma conferisce al documento la validità probatoria tipica della scrittura privata, come stabilito dall’art. 2702 c.c.

Cassazione n. 5945/2023: Il creditore che, rilasciando una quietanza al debitore, riconosce di aver ricevuto il pagamento, effettua una confessione stragiudiziale opponibile alla controparte, con pieno valore probatorio ai sensi degli articoli 2733 e 2735 del codice civile. Pertanto, egli non può contestare tale dichiarazione se non dimostrando, conformemente a quanto previsto dall’articolo 2732 c.c., che essa è stata resa per errore di fatto o sotto costrizione, non essendo sufficiente provare la falsità della dichiarazione stessa.

Cassazione n. 23875/2021: La quietanza rilasciata al debitore costituisce prova piena dell’avvenuto pagamento. Se prodotta in giudizio, il creditore non può dimostrare tramite testimoni l’inesistenza del pagamento, ma solo provare che la dichiarazione è stata resa per errore di fatto o sotto violenza. Inoltre, affinché l’errore possa determinare l’annullamento, deve presentare i requisiti di essenzialità e riconoscibilità previsti dall’art. 1428 c.c.

Fac-simile di quietanza

Ecco un modello di quietanza di pagamento che può essere utilizzato per attestare l’avvenuta corresponsione di una somma dovuta:

QUIETANZA DI PAGAMENTO

Io sottoscritto/a [Nome e Cognome del creditore], nato/a il [data di nascita], residente in [indirizzo], codice fiscale [codice fiscale], in qualità di creditore, dichiaro di aver ricevuto da [Nome e Cognome del debitore], nato/a il [data di nascita], residente in [indirizzo], codice fiscale [codice fiscale], la somma di € [importo] ([importo in lettere]), a saldo dell’obbligazione relativa a [causale del pagamento, es. fattura n. XXXX, contratto di locazione, ecc.].

Il pagamento è avvenuto in data [data del pagamento] mediante [modalità di pagamento: bonifico bancario, contanti, assegno, ecc.].

Con la presente quietanza, dichiaro integralmente soddisfatta l’obbligazione di cui sopra e libero il debitore da ogni ulteriore pretesa relativa al pagamento in oggetto.

Luogo e data: ________________

Firma del creditore: ________________

 

 

 

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legato remuneratorio

Il legato remuneratorio Il legato remuneratorio: definizione, l’articolo 632 c.c., gli effetti, differenze con la donazione rimuneratoria e giurisprudenza

Cos’è il legato remuneratorio

Il legato remuneratorio è una disposizione testamentaria con cui il testatore attribuisce un bene o un diritto a un soggetto per ricompensarlo di servizi o benefici ricevuti in vita, senza che vi sia un obbligo giuridico di corrispettivo. Si distingue dalla donazione remuneratoria, poiché opera mortis causa.

Normativa di riferimento: articolo 632 c.c.

Il comma 2 dell’articolo 632 del Codice Civile disciplina il legato remuneratorio, stabilendo che “Sono validi i legati fatti a titolo di rimunerazione per i servizi prestati al testatore, anche se non ne sia indicato l’oggetto o la quantità.”

Per comprendere il significato del legato rimuneratorio occorre menzionare però anche il comma 1 della norma, ai sensi del quale: “È nulla la disposizione che lascia al mero arbitrio dell’onerato o di un terzo di determinare l’oggetto o la quantità del legato.”

In sostanza il legislatore ammette il legato per riconoscenza, a condizione che la volontà testamentaria venga rispettata e non sia rimesso a un terzo o al beneficiario del legato compreso, la determinazione arbitraria dell’oggetto o della quantità del legato stesso.

Effetti del legato remuneratorio

  1. Acquisto automatico: come ogni legato, si acquista di diritto alla morte del testatore, senza necessità di accettazione espressa, salvo rinuncia;
  2. Irriducibilità totale o parziale: se il valore del legato eccede la quota disponibile, può essere ridotto a tutela dei legittimari;
  3. Diritto di prelazione: in alcuni casi, il legatario può vantare un diritto di prelazione sul bene rispetto agli eredi;
  4. Esonero dai debiti ereditari: il legatario non risponde delle passività ereditarie oltre il valore del legato ricevuto.

Differenze con la donazione remuneratoria

A differenza della donazione remuneratoria (disciplinata dall’art. 770 c.c.), che è un atto inter vivos, il legato remuneratorio produce effetti solo alla morte del testatore e non richiede accettazione espressa.

Giurisprudenza rilevante

La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire alcuni aspetti applicativi dell’articolo 632 c.c

Cassazione n. 191/1970: l’art. 632, comma 1, c.c., prevede la nullità della disposizione testamentaria quando l’oggetto o la quantità del legato sono rimessi al mero arbitrio dell’onerato o di un terzo. Tuttavia, tale norma non si estende alla scelta della data di esecuzione della prestazione, anche se questa può influire sull’ammontare del legato.

 

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