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Limiti vincolo destinazione d’uso bene culturale Quali sono i limiti operativi del vincolo di destinazione d’uso del bene culturale?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. plen., 13 febbraio 2023, n. 5.

L’Adunanza plenaria ha enunciato i seguenti principi di diritto:

Ai sensi degli artt. 7bis, 10, comma 3, lett. d), 18, comma 1, 20, comma 1, 21, comma 4, e 29, comma 2, del codice 42/2004, il vincolo di destinazione d’uso del bene culturale può essere imposto quando il provvedimento risulti funzionale alla conservazione della integrità materiale della cosa o dei suoi caratteri storici o artistici, sulla base di una adeguata motivazione, da cui risulti l’esigenza di prevenire situazioni di rischio per la conservazione dell’integrità materiale del bene culturale o del valore immateriale nello stesso incorporato;

ai sensi degli artt. 7bis, 10, comma 3, lett. d), 18, comma 1, 20, comma 1, 21, comma 4, e 29, comma 2, del codice 42/2004, il vincolo di destinazione d’uso del bene culturale può essere imposto a tutela di beni che sono espressione di identità culturale collettiva, non solo per disporne la conservazione sotto il profilo materiale, ma anche per consentire che perduri nel tempo la condivisione e la trasmissione della manifestazione culturale immateriale, di cui la cosa contribuisce a costituirne la testimonianza.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. VI, 7 giugno 2021, n. 4318;
Cons. Stato, sez. II, 29 ottobre 2020, n. 6628;
Cons. Stato, sez. VI, 14 ottobre 2015, n. 4747; Id., 18 ottobre 1993, n. 741
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Interdittiva antimafia e controllo giudiziario Quale il rapporto tra il giudizio di impugnazione dell’interdittiva antimafia e il c.d. controllo giudiziario?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. plen., 13 febbraio 2023, nn. 6, 7 e 8.

Preliminarmente, i Giudici evidenziano come il sistema tradizionale delle misure interdittive patrimoniali nei confronti delle imprese infiltrate da organizzazioni di stampo mafioso si è ampliato di ulteriori misure, volte a graduare la loro incidenza sullo svolgimento e sulla gestione delle attività economiche, consentendo anche la prosecuzione da parte dell’impresa. Tra queste è compreso il controllo giudiziario che ai sensi dell’art. 34bis, comma 6, del codice delle leggi antimafia e delle misure di sicurezza, può essere chiesto dalle imprese destinatarie di informazioni antimafia interdittiva ai sensi dell’art. 84, comma 4, che abbiano proposto l’impugnazione del provvedimento del prefetto.

Presso la giurisprudenza amministrativa si affermava l’orientamento secondo cui, per consentire di portare a conclusione il controllo giudiziario disposto dal Tribunale della prevenzione penale occorrerebbe la pendenza del giudizio amministrativo; non solo al momento in cui l’impresa formula la domanda di ammissione al Tribunale della prevenzione penale, ma per tutta la durata della procedura, fissata dal medesimo Tribunale.

Altra tesi è, invece, quella che considera l’autonomia dei procedimenti, secondo cui la connessione tra il giudizio impugnatorio e il controllo giudiziario a domanda, opera esclusivamente nel momento genetico-applicativo di quest’ultimo, senza espressamente condizionarne la vigenza alla perdurante pendenza del primo.

Ciò premesso, l’Adunanza Plenaria ritiene che, vada affermata la tesi dell’autonomia dei procedimenti.

In conclusione, il Consiglio di Stato ha enunciato il seguente principio di diritto: “La pendenza del controllo giudiziario a domanda ex art. 34bis, comma 6, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, non è causa di sospensione del giudizio di impugnazione contro l’informazione antimafia interdittiva, né delle misure straordinarie di gestione, sostegno e monitoraggio di imprese previste dall’art. 32, comma 10, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, per il completamento dell’esecuzione dei contratti stipulati con la pubblica amministrazione dall’impresa destinataria un’informazione antimafia interdittiva.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. III, ord. 6 luglio 2022, n. 5615; Id., ord. 6 luglio 2022, n. 5624;
Id., 19 maggio 2022, n. 3973
Art. 2697 c.c.

Art. 2697 c.c. e giurisprudenza sull’onere della prova La ripartizione dell’onere della prova è disciplinata dall’art. 2697 c.c. ma la Cassazione ne ha definito meglio i contorni. In particolare: il principio di vicinanza della prova

L’onere della prova nell’art. 2697 c.c.

L’art. 2697 c.c. disciplina l’onere della prova, disponendo che chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento, mentre chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti, o eccepisce che il diritto si è modificato o estinto, deve provare i fatti su cui tale eccezione si fonda.

Nel corso del tempo, la giurisprudenza in tema di onere della prova ha definito meglio i contorni della corretta applicazione dell’art. 2697 c.c., come vedremo in questa breve rassegna di sentenze della Corte di Cassazione.

Le Sezioni Unite sull’onere della prova

Da un lato, quindi, la regola generale prevede che chi vuole far valere un diritto in giudizio deve provarne i fatti costitutivi, mentre chi tale diritto contesta deve dare dimostrazione dei fatti impeditivi, modificativi o estintivi dello stesso; dall’altro lato, la giurisprudenza sull’art. 2697 c.c. ha talvolta reso tale regola meno rigorosa.

Viene in mente, innanzitutto, il c.d. principio di vicinanza della prova, secondo cui l’onere della prova riguardo a un determinato fatto dovrebbe ricadere sul soggetto che ha la disponibilità degli elementi probatori che occorrono alla sua dimostrazione.

Secondo tale principio, più volte invocato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, è stato chiarito, ad esempio, che in tema di inadempimento contrattuale o di inesatto adempimento, per il creditore sia sufficiente dimostrare la fonte del proprio credito e limitarsi ad allegare l’inadempimento da parte del debitore; su quest’ultimo, invece, ricadrà l’onere della prova dell’adempimento della propria obbligazione contrattuale, quale fatto estintivo del diritto vantato dal creditore (cfr. Cass., SS.UU., n. 13533/2001).

Cassazione e principio di vicinanza della prova

Il principio di prossimità della prova ha trovato mitigazione nella stessa giurisprudenza di Cassazione sull’art. 2697 c.c., che ha specificato che tale principio rappresenta un’eccezionale deroga al canonico regime della ripartizione dell’onere della prova, e pertanto non può semplicisticamente esaurirsi nella diversità di forza economica dei contendenti, ad esempio in ambito bancario, ma esige l’impossibilità dell’acquisizione simmetrica della prova (quindi tale principio non può trovare applicazione quando il cliente sia in possesso di una copia del contratto bancario) (cfr. Cass. n. 6511/2016 e n. 17923/2016).

Un altro rilevante ambito in cui è importante individuare il soggetto su cui ricade l’onere della prova è la garanzia per vizi nella compravendita.

In tal caso, le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 11748/2019, sottolineando il carattere garantistico di tale obbligazione, hanno chiarito che l’esistenza dei vizi della cosa deve essere dimostrata dal compratore, in quanto soggetto che ha la disponibilità del bene.

Art. 2697 c.c. e giurisprudenza: valore probatorio della fattura

Su un diverso piano, una recente pronuncia della Corte di Cassazione definisce, invece, i contorni dell’onere della prova quando questo sia assolto attraverso la produzione in giudizio di una fattura.

La Suprema Corte ha, infatti, contraddetto la pronuncia di un tribunale che aveva ritenuto che l’onere probatorio a cui il creditore istante era tenuto non potesse ritenersi convenientemente assolto attraverso la produzione delle fatture, dato che le stesse costituivano una documentazione predisposta dalla stessa parte ricorrente.

Al riguardo, gli Ermellini hanno rilevato che, consistendo la fattura commerciale in una dichiarazione indirizzata all’altra parte di fatti concernenti un rapporto già costituito,  è vero che, quando tale rapporto sia contestato fra le parti, la fattura non può costituire un valido elemento di prova delle prestazioni eseguite, potendo al massimo costituire un mero indizio.

“Tuttavia” – evidenzia il provvedimento – “nel  caso in cui non vi sia contestazione fra le parti rispetto al rapporto in essere fra loro, la fattura può costituire un valido elemento di prova quanto alle prestazioni eseguite, specie nell’ipotesi in cui il debitore abbia accettato, senza contestazioni, le fatture stesse nel corso dell’esecuzione del rapporto (Cass., ord. n. 949 del 10 gennaio 2024).

recupero compensi avvocato ufficio

All’avvocato d’ufficio spettano anche le spese per il recupero dei compensi La Cassazione conferma che il difensore d’ufficio ha diritto anche al rimborso delle spese, diritti e onorari delle procedure di recupero del proprio credito, ivi compresa la fase di opposizione a decreto ingiuntivo

Recupero compensi avvocato ufficio

Il difensore d’ufficio ha diritto, in sede di esperimento della procedura di liquidazione dei propri compensi professionali, anche al rimborso delle spese, dei diritti e degli onorari relativi alle procedure di recupero del credito non andate a buon fine, compresi compensi e spese per la fase di opposizione al decreto ingiuntivo. Lo ha statuito la seconda sezione civile della Cassazione con l’ordinanza n. 5041-2024.

La vicenda

Nella vicenda, il presidente del tribunale di Piacenza rigettava l’opposizione proposta ex art. 170 d.P.R. 115/2002 dall’avvocato al decreto di liquidazione emesso a suo favore dal Gip per l’attività svolta quale difensore d’ufficio di un imputato, lamentando il mancato riconoscimento delle spese sostenute per difendersi nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.

L’ordinanza evidenziava che il diritto al rimborso dei compensi relativi alla procedura esecutiva inutilmente esperita volta alla riscossione dell’onorario comprendeva i costi relativi al solo procedimento monitorio ai sensi degli artt. 82 e 116 d.P.R. 115/2002, senza riferimento alla successiva ed eventuale fase di opposizione.

Rilevava, inoltre, che il ricorrente non chiedeva la liquidazione degli onorari come liquidati dalla sentenza del giudice di pace che aveva rigettato l’opposizione, ma gli onorari che il ricorrente aveva versato al difensore di fiducia nominato nell’opposizione. Trattandosi, dunque, di “una scelta personale del ricorrente, che ben avrebbe potuto difendersi in proprio, con la conseguenza che li compenso versato al difensore non poteva farsi rientrare nei costi del procedimento monitorio quale passaggio obbligato per provare il requisito di cui all’art. 116 d.P.R. 115/2002”.

Il ricorso

Il legale proponeva ricorso per Cassazione, evidenziando il consolidato orientamento della Suprema Corte secondo il quale il “difensore d’ufficio ha diritto a vedersi liquidato non solo il compenso relativo all’attività svolta quale difensore d’ufficio nel procedimento penale della persona risultata successivamente insolvente, ma anche le spese sostenute per il tentativo di recupero del credito professionale”.

La decisione

Per gli Ermellini, il professionista ha ragione.

“E’ consolidato l’indirizzo di cui sono espressione già Cass. n. 24104/2011 e Cass. n. 27854/201 – ricordano infatti – le quali, recependo i principi maggioritari nella giurisprudenza delle sezioni penali della Cassazione, hanno statuito nel senso che li difensore d’ufficio di un imputato in un processo penale ha diritto, in sede di esperimento della procedura di liquidazione dei propri compensi professionali, anche al rimborso delle spese, dei diritti e degli onorari relativi alle procedure di recupero del credito non andate a buon fine”.

Tale principio, aggiungono dal Palazzaccio, “risulta del tutto coerente con la lettera dell’art. 116 d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 e con la sua stessa ratio, perché l’estensione della liquidazione anche ai compensi e agli esborsi resisi necessari per la procedura esecutiva, ancorché rimasta infruttuosa, si giustifica per riferirsi strumentalmente e funzionalmente a una precedente attività professionale comunque resa anche nell’interesse dello Stato; quindi, risulterebbe iniquo accollare al professionista l’onere delle spese occorrenti per il recupero dei compensi professionali dovuti e riconosciuti all’avvocato (cfr. Cass. n. 40073/2021).

Le medesime ragioni che impongono di riconoscere al difensore d’ufficio i compensi e le spese riferite al decreto ingiuntivo chiesto nei confronti del soggetto a cui favore ha prestato l’attività difensiva, in quanto importi necessari a procurarsi il titolo esecutivo da azionare, “impongono – dunque – di riconoscere al difensore anche i compensi e le spese della fase di opposizione al decreto ingiuntivo eventualmente instaurato dal debitore ingiunto”.

Né può giustificare la negazione del compenso e delle spese, concludono dalla S.C., “il fatto che l’avvocato avesse nominato un difensore mentre avrebbe potuto difendersi in proprio, in quanto anche in tale secondo caso egli avrebbe avuto diritto ai compensi stabiliti per la prestazione resa”.

Da qui l’accoglimento del ricorso con rinvio al Tribunale di Piacenza in persona di diverso magistrato, li quale deciderà facendo applicazione dei principi esposti.

Allegati

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Aggravante ad effetto speciale ed aggravante comune La circostanza aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 628, comma 3, n. 3 quinquies c.p. può concorrere con l’aggravante comune di cui all’art. 61, comma 1, n. 5, c.p.?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei, Consuelo Nicoletti e Francesca Ricci

 

In tema di concorso tra circostanze, l’aggravante di cui all’art. 628, comma 3, n. 3quinquies, c.p. non può concorrere con quella indicata all’art. 61, comma 1, n. 5, c.p. atteso che la prima è legata al dato anagrafico obiettivo (il superamento dei sessantacinque anni di età) mentre la seconda attiene più genericamente a situazioni o condizioni anche personali tali da ostacolare la privata difesa; pertanto, onde evitare l’addebito plurimo di un accadimento circostanziale, occorrerà applicare la disposizione di cui all’art. 68 c.p. – Cass., sez. II, 27 gennaio 2023 n. 3496.

Con la pronuncia in commento la Suprema Corte è stata investita della questione inerente alla possibilità di un duplice riconoscimento della circostanza aggravante ad effetto speciale di aver commesso il fatto nei confronti di persona ultrasessantacinquenne ex art. 628, comma 3, n. 3quinquies, c.p. e dell’aggravante ad effetto comune di aver profittato delle circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o la privata difesa di cui all’art. 61, comma 1, n. 5, c.p. in capo al ricorrente condannato in primo ed in secondo grado per i delitti di rapina aggravata, lesioni gravi, furto pluriaggravato, furto con strappo, indebito utilizzo e falsificazione di strumenti di pagamento diversi dai contanti, tutte condotte avvinte dal vincolo della continuazione.

Avverso il provvedimento di secondo grado è stato proposto ricorso per vizio di motivazione e violazione della legge penale e processuale penale, avendo la Corte distrettuale rigettato immotivatamente la richiesta di disapplicazione dell’aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 628, comma 3, n. 3quinquies c.p. ritenuta secondo l’argomentazione difensiva una mera duplicazione dell’aggravante comune di cui al n. 5 dell’art. 61, comma 1, c.p. in ragione della medesimezza della condotta contestata in concreto all’imputato.

La Suprema Corte ha ritenuto il ricorso fondato in quanto la medesima circostanza di fatto (l’età della vittima superiore a sessantacinque anni) ha determinato nel caso di specie una duplicazione di effetti ingravescenti: infatti, il giudice di prime cure, con argomenti poi confermati dalla Corte territoriale, ha ritenuto che la sopracitata condizione obiettiva della vittima integrasse gli estremi di entrambe le aggravanti contestate, determinato una ingravescenza della pena applicata in concreto rispetto al più mite trattamento sanzionatorio che sarebbe potuto derivare dall’assorbimento dell’una circostanza nell’altra ovvero rispetto al diverso esito del giudizio di bilanciamento tra circostanze di segno diverso (venendo a cadere il divieto normativo).

Orbene, secondo la Suprema Corte, le due circostanze aggravanti non possono in concreto concorrere in quanto l’aggravante di cui all’art. 628, comma 3, n. 3quinquies, c.p. è legata al dato anagrafico obiettivo (il superamento di sessantacinque anni di età) mentre quella indicata all’art. 61, comma 1, n. 5, c.p. attiene più genericamente a circostanze anche personali tali da ostacolare la privata difesa (nel caso di specie, apprezzata dai giudici limitatamente all’età senile ed alla conseguente debolezza fisica della persona offesa). Pertanto, si dovrà fare ricorso alla disciplina di cui all’art. 68 c.p. secondo la quale “salvo quanto disposto nell’art. 15 c.p., quando una circostanza aggravante comprende in sé un’altra circostanza aggravante, ovvero una circostanza attenuante comprende in sé altra circostanza attenuante, è valutata a carico o a favore del colpevole soltanto la circostanza aggravante o la circostanza attenuante, la quale importa, rispettivamente, il maggior aumento o la maggior diminuzione di pena” (nel caso di specie, dovrà trovare applicazione la sola circostanza aggravante di cui al comma terzo dell’art. 628 c.p. in quanto ad effetto speciale e dotata di un effetto sanzionatorio più grave).

In conclusione, la Suprema Corte ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla circostanza aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 5, c.p., ritenuta assorbita nella circostanza aggravante ad effetto speciale contestata, con rinvio ad altra sezione della Corte territoriale per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio.

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Presupposti aggravante odio etnico e razziale In presenza di quali presupposti si configura la circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei, Consuelo Nicoletti e Francesca Ricci

 

La circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso (già prevista dall’art. 3, comma 1, D.L. 122/1993 e oggi dall’art. 604ter, comma 2, c.p.) è configurabile non solo quando l’azione per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulta intenzionalmente diretta a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio e comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori, ma anche quando essa si rapporti, nell’accezione corrente, ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza, non avendo rilievo la mozione soggettiva dell’agente. – Cass., sez. V, 26 gennaio 2023 n. 3417.

Con la pronuncia in commento la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la sussistenza della circostanza aggravante di aver agito per finalità di odio etnico e razziale in capo al ricorrente, condannato per il delitto aggravato di diffamazione, per avere costui affisso un manifesto contenente una frase dalla portata asseritamente diffamatoria (“Kyenge torna in Congo”).

La Corte di Appello, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, ha assolto l’imputato dall’imputazione di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa, confermando nel resto la responsabilità penale per il delitto di cui all’art. 595 c.p. Avverso la pronuncia di secondo grado è stato proposto ricorso da parte dell’imputato deducendo sei motivi di doglianza: in particolare – per quanto di interesse in questa sede – con il primo motivo è stata denunciata l’erronea applicazione dell’art. 3, commi 1 e 6, D.L. 122/1993 convertito nella L. 205/1993 (Legge Mancino) in ragione della decisione contraddittoria per cui la Corte territoriale avrebbe escluso la responsabilità dell’imputato per il delitto di propaganda di idee fondate sull’odio razziale, ritenendo tuttavia sussistente l’aggravante di aver agito per finalità di odio etnico e razziale in relazione al delitto di diffamazione; con il secondo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 595 c.p., la carenza assoluta di prova e il difetto di motivazione in relazione all’affermazione della responsabilità penale del ricorrente, posto che secondo l’argomentazione difensiva nell’espressione utilizzata non si ravviserebbero insulti, offese o altri elementi costitutivi del reato ma che si tratterebbe, invece, di un invito a tornare nel paese d’origine espresso nell’ambito di un dibattito politico contingente.

Quanto al primo motivo di censura, la Suprema Corte, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha ritenuto che la conclusione assolutoria per l’imputazione di propaganda per motivi di discriminazione razziale non esclude che la condotta ascritta al ricorrente possa rapportarsi ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza, configurandosi quindi l’aggravante contestata. Sul punto, i giudici di legittimità hanno richiamato il principio di diritto secondo cui la circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio entico, razziale o religioso (già prevista dall’art. 3, comma 1, D.L. 122/1993 e, oggi, dall’art. 604ter, comma 1, c.p. ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. i), D.Lgs. 21/2018) è configurabile non solo quando l’azione, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulta intenzionalmente diretta a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio e comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori, ma anche quando essa si rapporti, nell’accezione corrente, ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza, non avendo rilievo la mozione soggettiva dell’agente (Cass. 18 novembre 2020, n. 307).

In merito al secondo motivo di doglianza, la Suprema Corte, nel richiamare la consolidata giurisprudenza di legittimità in materia di diffamazione, ha ritenuto corretta l’argomentazione con cui la Corte distrettuale ha conferito alla frase “Kyenge torna in Congo” una concreta portata diffamatoria, in quanto ha attribuito alla persona offesa l’indegnità a fare parte del consesso dei cittadini italiani, evocandone un’asserita inferiorità alla luce delle sue origini africane e al colore della pelle; i Giudici di Piazza Cavour hanno escluso, altresì, che tale condotta possa essere scriminata in quanto l’espressione utilizzata non contiene alcuna critica alle idee della persona offesa ma si è sostanziata nella sua denigrazione e, anzi, proprio in ragione della matrice razziale dell’espressione ha ritenuto il fatto aggravato ai sensi dell’art. 3, comma 1, D.L. 122/1993.

In definitiva, la Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. V, 18 novembre 2020, n. 307; Cass., sez. V, 2 novembre 2017, n. 7859
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Rissa tra gruppi e scriminante legittima difesa La scriminante della legittima difesa può applicarsi al delitto di rissa tra due gruppi contrapposti?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei, Consuelo Nicoletti e Francesca Ricci

 

In tema di rissa, non è configurabile la legittima difesa in uno scontro tra gruppi contrapposti, essendo i corissanti originariamente animati dall’intento aggressivo. Tale principio può essere derogato solo in situazioni eccezionali, ossia solo quando si determini, nell’ambito della contesa, una reazione assolutamente imprevedibile e sproporzionata che si traduce in un’offesa diversa e più grave di quella accettata. Quest’ultima, atteggiandosi ad offesa nuova, autonoma ed ingiusta, consente il riconoscimento della scriminante in esame, laddove sia tale da porre una delle parti corissanti in posizione passiva. – Cass., sez. V, 26 gennaio 2023, n. 3462.

La causa di giustificazione della legittima difesa, prevista dall’art. 52 c.p., scrimina la condotta di chi abbia commesso un fatto di reato al fine di difendere un diritto proprio o altrui da un pericolo attuale di un’offesa ingiusta, a condizione che la difesa sia proporzionata all’offesa. Pertanto, la sua configurazione consente di rimuovere l’antigiuridicità insita nella condotta difensiva, rendendola così irrilevante sul piano penale: quel che, infatti, l’ordinamento reputa prevalente in una situazione di aggressione-reazione, è proprio l’interesse dell’aggredito a non patire un’offesa ingiusta.

Affinché la fattispecie scriminante in parola possa dirsi configurata è necessario, sul piano strutturale, il concorso di due requisiti: l’aggressione ingiusta e la reazione difensiva. La prima si traduce in un pericolo attuale di un’offesa ingiusta ad un diritto proprio o altrui derivante da una condotta umana, laddove invece la seconda deve essere intesa in termini di azione dettata dalla necessità di difendersi, in quanto il pericolo non può essere evitato se non reagendo contro l’aggressore.

Giova precisare che rientra nel fuoco della necessità non qualsiasi condotta, ma solo quella che non sia sostituibile con altra meno lesiva. In altri termini, la difesa del diritto non può risultare possibile se non tramite quella precisa reazione, non avendo l’agente alternative lecite o meno lesive.
Infine, si richiede che la difesa sia proporzionata all’offesa, nel senso che la prima non deve risultare arbitraria ed eccessiva rispetto alla seconda.

La ricostruzione generale della disciplina è necessaria per rispondere al quesito sottoposto al vaglio della Corte di Cassazione, ossia se la legittima difesa possa applicarsi al delitto di rissa tra due gruppi rivali ed eventualmente a quali condizioni.

Ad avviso del Collegio, la risposta non può che essere di carattere negativo, alla luce di quella che è la struttura stessa del reato che qui rileva.

Osserva la Corte, infatti, che il delitto di rissa è ontologicamente connotato da uno scambio vicendevole di insulti e percosse, sicché è poco compatibile con tale assunto l’idea di una posizione che sia sin dall’origine di mera passività. Del resto, ove così non fosse, non si potrebbe neppure parlare di rissa, atteso che essa implica una partecipazione attiva allo scontro, realizzata mediante atti diretti sia ad offendere che a difendersi.

Pertanto, la Corte afferma che nel delitto in esame i corissanti sono ordinariamente animati dall’intento reciproco di offendersi e dunque accettano la situazione di pericolo nella quale volontariamente si pongono, con l’ovvia conseguenza che la loro difesa non può dirsi necessitata.

Tuttavia, proseguono i Giudici di legittimità, tale principio può essere derogato solo in situazioni eccezionali, ossia solo quando si registri una reazione assolutamente imprevedibile e sproporzionata che si traduce in un’offesa diversa e più grave di quella accettata. Quest’ultima, dunque, si atteggia ad offesa nuova, autonoma ed ingiusta, tale da legittimare la configurazione della scriminante della legittima difesa.

Sottolinea la Corte, dunque, come il precedente orientamento secondo cui possa riconoscersi la legittima difesa in uno scontro tra gruppi contrapposti solo quando coloro che si difendono si pongano in una posizione passiva, limitandosi a parare i colpi o dandosi alla fuga, così da far venir meno l’intento aggressivo, debba essere letto sempre in relazione al configurarsi di una situazione imprevista sorta nell’ambito della contesa. Solo in un’ipotesi del genere, infatti, può dirsi recuperata la necessità della reazione all’interno della dinamica delittuosa, non essendo più gli agenti animati da alcun intento lesivo nei confronti degli altri corissanti.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    ex multis: Cass., sez. V, 19 febbraio 2015, n. 32381;
Cass., sez. V, 29 novembre 2019, n. 15090
Difformi:      Cass., sez. V, 8 ottobre 2020, n. 33112
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Natura pubblicistica ente Al fine di individuare la natura pubblicistica di un ente deve farsi ricorso ad una concezione formalistica o sostanzialistica?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei, Consuelo Nicoletti e Francesca Ricci

 

Ai fini della individuazione della natura pubblica di un ente, ciò che rileva è la natura pubblica delle finalità perseguite con la specifica attività, rispetto alla quale la veste giuridica dell’ente può al più costituire un indice sintomatico non esclusivo. Deve pertanto essere avallata la concezione sostanziale e non formalistica, al pari di quanto accade nell’ambito del diritto amministrativo. – Cass., sez. V, 24 gennaio 2023, n. 3078.

La questione afferente alla definizione della natura pubblicistica o meno di un ente è propedeutica alla configurazione di talune fattispecie di reato previste dall’ordinamento, quale, a titolo esemplificativo, il delitto di turbativa d’asta di cui all’art. 353 c.p. Tale rilevanza può aversi tanto con riferimento all’individuazione del soggetto attivo o passivo del reato, quanto per quel che attiene ad altri elementi costitutivi della fattispecie: si pensi in questo senso ad una normativa di settore che può trovare applicazione solo se ricorre la natura pubblicistica dell’ente. Specularmente, dalla natura pubblica può ricavarsi altresì la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio del singolo agente.

Il tema si intreccia inevitabilmente con il settore del diritto amministrativo, naturale sedes materiae, ragion per cui occorre comprendere se ed in che termini sia possibile una “contaminazione” tra istituti rilevanti per i due rami dell’ordinamento.

Interrogata sul punto, la Corte di Cassazione precisa preliminarmente che detta contaminazione è sì possibile, ma non in maniera automatica: essa infatti deve essere realizzata senza perdere di vista quella che è la finalità ultima dell’operazione ermeneutica, ossia la definizione dell’ambito applicativo della fattispecie penale. In questo senso, dunque, il ricorso alla normativa e alla giurisprudenza amministrativa non può avvenire sic et simpliciter, ma deve tener conto dell’esigenza di ricostruzione del reato.
Fatta tale premessa, alla luce di quali criteri occorre far riferimento per qualificare, sul piano penalistico, un ente come pubblico?

Per il diritto amministrativo, il carattere pubblicistico va individuato non in relazione alla qualità dei soggetti componenti l’ente, bensì alla natura degli atti posti in essere, sicché eventuali strutture adottate – associative o consortili – rilevano esclusivamente sul piano organizzativo.

Analogamente, la Corte di Cassazione, negli anni, ha affermato che ciò che rileva per dirimere il dubbio interpretativo in esame è la natura pubblica delle finalità perseguite dall’ente con la specifica attività.

In particolare, ha evidenziato come l’obbligatorietà del ricorso alla procedura ad evidenza pubblica sia indice sintomatico del carattere pubblicistico dell’attività svolta, soprattutto laddove si tratti di settori strategici e speciali, quali ad esempio quello dell’energia o dei servizi di informazione, motivo per cui i dipendenti di tali società rivestono la qualifica di incaricati di pubblico servizio.

Da ciò consegue, dunque, che ai fini dell’individuazione della natura pubblica di un ente rileva non la veste giuridica adottata – la quale, peraltro, se può costituire un indice sintomatico, certamente però non assume la stessa incidenza di altri dati, quali la disciplina applicata –, bensì la finalità perseguita tramite la propria attività.

Alla luce di tali argomentazioni, deve ritenersi quindi superato il precedente indirizzo ermeneutico che, a seguito della privatizzazione di molti enti pubblici, aveva escluso, sposando il criterio formalistico, la natura pubblica di tali società sulla base della sola veste giuridica. Ciò peraltro creava delle antinomie di non poco conto, in quanto se da un lato l’ente veniva considerato un soggetto di diritto privato, dall’altro però i suoi dipendenti ben potevano assumere la qualità di incaricati di pubblico servizio o di pubblici ufficiali.

L’evoluzione giurisprudenziale ha messo in evidenza l’inadeguatezza di tale approccio interpretativo, anche a fronte di una legislazione che non sempre consente di ricavare in maniera secca ed immediata la natura dell’ente. Per tali ragioni, si è affermato che allo scopo di individuare gli indici di riconoscimento dell’ente pubblico occorre far riferimento alla nozione di organismo pubblico, la quale avalla una lettura sostanzialistica, peraltro in piena conformità anche alle norme ed alla giurisprudenza di fonte europea.

Del resto, la concezione sostanzialistica è più coerente con la ratio delle norme penali, che è quella di evitare che attraverso l’impiego di particolari forme societarie per il perseguimento di interessi pubblici possano essere perpetrate condotte elusive dei sistemi di controllo e delle relative sanzioni, con ciò determinando un arretramento di tutela dell’interesse generale.

Posta così la questione, la Corte conclude affermando che anche un consorzio di enti pubblici locali, costituito per l’approvvigionamento di energia elettrica, sia un soggetto pubblico, come tale tenuto al rispetto della normativa in tema di gare ad evidenza pubblica.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    ex multis: Cass., sez. VI, 10 novembre 2015, n. 28299;
Cass., sez. VI, 12 novembre 2015, n. 6405;
Commissione c. Spagna; 15 maggio 2003, causa C-214/00
Difformi:      ex multis: Cass., sez. V, 5 aprile 2005, n. 38071;
Cass., sez. VI, 27 novembre 2012, n. 49759
giurista risponde

Furto in abitazione e presenza occasionale È escluso il reato di furto in abitazione, ex art. 624bis c.p., in caso di presenza meramente occasionale all’interno di un luogo di privata dimora o nelle sue pertinenze?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei, Consuelo Nicoletti e Francesca Ricci

 

La mera occasionalità della presenza all’interno del luogo di privata dimora o nelle sue pertinenze è insufficiente a configurare la fattispecie di furto in abitazione ex art. 624bis c.p. – Cass., sez. IV, 11 gennaio 2023, n. 3716.

Nel caso di specie il furto oggetto del ricorso aveva riguardato una caldaia a pellet posta all’interno del locale taverna sito al piano terra di una villetta sottoposta ad opera di ristrutturazione. La finalità per le quali l’agente si era introdotto nell’abitazione era quella di ristrutturare, su incarico del proprietario, l’immobile all’interno del quale si trovava il bene sottratto.

Le Sezioni Unite, già in precedenza chiamate a comporre il contrasto applicativo tra gli artt. 624 e 624bis c.p. avevano optato per una nozione molto rigorosa di privata dimora. Pertanto, ai fini della configurabilità del più grave reato previsto dall’art. 624bis c.p., rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale.

Alla stregua di tale rigorosa lettura, si è escluso che nella nozione rientrino, per esempio, i luoghi di lavoro, salvo che il fatto sia avvenuto all’interno di un’area riservata alla sfera privata della persona offesa, mentre vi rientrano quelli adibiti «in modo apprezzabile sotto il profilo cronologico allo svolgimento di atti della vita privata, non limitati questi ultimi soltanto a quelli della vita familiare e intima (propri dell’abitazione)», nonché i luoghi che, ancorché non destinati allo svolgimento della vita familiare o domestica, abbiano, comunque, le caratteristiche dell’abitazione.

Sono stati, così, evidenziati tre elementi necessari ai fini della sussistenza dell’ipotesi di reato in esame: a) l’utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività professionale e di lavoro in genere), in modo riservato ed al riparo da intrusioni esterne; b) la durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da mera occasionalità; c) la non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il consenso del titolare (così le S.U. 31345/2017).

La giurisprudenza successiva ha sottolineato l’irrilevanza che il fatto sia commesso in un’abitazione disabitata quando siano in corso dei lavori di ristrutturazione. Quello che viene in rilievo è, infatti, il rapporto di stabilità che lega il luogo fisico con la vita privata del titolare.

La dimora, quindi, deve possedere una concreta connotazione che la possa ricondurre alla vita del proprietario (Cass., sez. IV, 1782/2018).

Inoltre, ai fini della configurazione del furto in abitazione, è necessario che sussista il nesso finalistico, e non un mero collegamento occasionale, tra l’ingresso nell’abitazione e l’impossessamento della cosa mobile.

L’art. 624bis c.p. così recita: «Chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, mediante introduzione in un edificio o in un altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora o nelle pertinenze di essa».

L’espressione “mediante introduzione”, pertanto, deve essere letta nel senso che l’introduzione nell’edificio deve coincidere con il mezzo per commettere il reato. Non si tratta, infatti, della pura e semplice collocazione delle cose sottratte in determinati luoghi, uffici o stabilimenti, come diversamente avviene nelle circostanze aggravanti di cui all’art. 625, n. 6 e 7, c.p.

Deve sussistere un rapporto di strumentalità tra l’introduzione nell’edificio e l’azione predatoria posta in essere.

Viceversa, si avrà furto in abitazione quando l’introduzione nell’abitazione del soggetto passivo avvenga a seguito di consenso di quest’ultimo carpito con l’inganno (Cass., sez. V, 13582/2010), poiché la fattispecie incriminatrice dettata dall’art. 624bis richiama indubbiamente la sottostante condotta di violazione di domicilio, sanzionata dall’art. 614 c.p., norma che riguarda comportamenti di introduzione nell’altrui dimora, realizzati “con inganno” o “contro la volontà espressa o tacita di chi ha diritto di escluderlo”.

Nel caso concreto, la finalità per la quale l’agente si era introdotto nell’abitazione era quella di ristrutturare, su incarico del proprietario, l’immobile all’interno del quale si trovava il bene sottratto.

Per tali ragioni, la Suprema Corte di cassazione, con sent. 3716/2023, mancando il nesso finalistico necessario a configurare l’art. 624bis c.p., ha accolto parzialmente il ricorso proposto dal ricorrente e ha annullato la sentenza impugnata limitatamente alla qualificazione giuridica del fatto e rinviato alla Corte di appello di Perugia anche per la verifica della sussistenza della condizione di procedibilità ed eventuale rideterminazione della pena.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. S.U. 22 giugno 2017, n. 31345; Cass., sez. IV, 16 gennaio 2018, n. 1782;
Cass., sez. V, 1° aprile 2014, n. 21293
giurista risponde

Discarica abusiva e deposito incontrollato di rifiuti In quali casi ricorre il reato di discarica abusiva e non il differente illecito amministrativo di deposito incontrollato di rifiuti?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei, Consuelo Nicoletti e Francesca Ricci

 

In tema di deposito incontrollato di rifiuti, ove esso si realizzi con plurime condotte di accumulo, in assenza di attività di gestione, la distinzione con il reato di realizzazione di discarica non autorizzata si fonda principalmente sulle dimensioni dell’area occupata e sulla quantità di rifiuti depositati. – Cass., sez. III, 19 gennaio 2023, n. 4241.

Si può, quindi, affermare che in presenza di un’area vasta di occupazione e una ingente quantità di rifiuti eterogenei ivi depositati si configuri il reato di discarica abusiva.

Il problema che si era posto nel caso di specie riguardava se in assenza di un’attività di gestione dei rifiuti, in considerazione delle dimensioni dell’area occupata e della quantità di rifiuti depositata, la condotta potesse essere qualificata quale illecito amministrativo di deposito incontrollato di rifiuti, valutato anche che il ricorrente non era né titolare di imprese, né responsabile di enti. Considerato, inoltre, che i rifiuti erano ammassati in una sola porzione dell’area interessata.

A far presupporre che si trattasse di discarica abusiva gli elementi sintomatici del reato presi in considerazione sono stati: l’accumulo (più o meno sistematico) ma comunque non occasionale di rifiuti in un’area determinata, l’eterogeneità dei beni accantonati, la condizione di degrado dello stato dei luoghi, con evidente dismissione senza alcuna possibilità di riutilizzo.

La Terza sezione penale della Corte di cassazione, con la sent. 4214/2023, considera tutti i motivi di impugnazione manifestamente infondati. La corretta qualificazione del reato di discarica abusiva, configurata dai giudici della Corte d’Appello di Cagliari, può essere dedotta dalla trasformazione dello stato dei luoghi realizzata attraverso plurimi conferimenti di rifiuti di vario genere (lastre e frammenti di eternit, tubature in ferro, lavabi, sanitari dismessi, materiale plastico ferroso, pneumatici usati, materiale di risulta di cantieri edili e tegole ecc.) sparsi dappertutto e alla rinfusa sul fondo della proprietà per un’estensione complessiva di 500 mq.

Per la Giurisprudenza di legittimità, infatti, “ai fini della configurabilità del reato di realizzazione o gestione di discarica non autorizzata è sufficiente l’accumulo di rifiuti, per effetto di una condotta ripetuta, in una determinata area, trasformata di fatto in deposito, con tendenziale carattere di definitività, in considerazione delle quantità considerevoli e dello spazio occupato, essendo del tutto irrilevante che manchino delle attività di trasformazione, recupero o riciclo, proprie di una discarica autorizzata” (Cass., sez. III, 39027/2018; Cass., sez. III, 18399/2017; Cass., sez. III, 47501/2013; Cass., sez. III, 27296/2004).

Dunque, si può affermare che si ha discarica abusiva tutte le volte in cui, per effetto di una condotta ripetuta, i rifiuti vengono scaricati in una determinata area trasformata di fatto in deposito o ricettacolo di rifiuti con tendenziale carattere di definitività.

La realizzazione di una discarica può, quindi, effettuarsi attraverso il ripetitivo accumulo nello stesso luogo di sostanze oggettivamente destinate all’abbandono, o anche mediante un unico conferimento di ingenti quantità di rifiuti, che faccia assumere alla zona interessata l’inequivoca destinazione di ricettacolo di rifiuti. Diversamente, il deposito incontrollato di rifiuti si considera prodromico ad una successiva fase di smaltimento o di recupero del rifiuto stesso.

La gestione di una discarica si identifica, invece, in un’attività autonoma, successiva alla realizzazione della prima condotta, che può essere compiuta dallo stesso autore di quest’ultima o da altri soggetti.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. III, 10 giugno 2019, n. 25548; Cass., sez. III, 28 agosto 2018, n. 39027; Cass., sez. III, 11 aprile 2017, n. 18399