mutamento destinazione d'uso

Tabelle millesimali e mutamento destinazione d’uso Il mutamento della destinazione d'uso e il frazionamento dell'unità immobiliare

Il mutamento della destinazione d’uso

Oggetto della presente disamina è il rapporto tra il mutamento della destinazione d’uso e la potenziale alterazione della caratura millesimale dell’immobile in condominio. Si faccia il caso, di cui pure la giurisprudenza si è occupata in diverse occasioni, che il proprietario per un qualsiasi motivo abbia a richiedere il mutamento della originaria destinazione catastale.

In tali casi, per legittimare il proprietario dell’unità immobiliare in questione a richiedere – anche a mezzo atto di citazione da notificarsi all’amministratore (e non più a tutti i condomini) – la revisione delle tabelle millesimali, occorre accertare che sussistano le condizioni di cui all’art. 69 disp. att. c.c. sopra menzionate (errore o alterazione di almeno 1/5 del valore dell’immobile).

Non è sufficiente di per sé, dunque, il mero dato del mutamento della destinazione d’uso ad incidere sull’assetto millesimale, atteso che l’individuazione dei valori proporzionali deve avvenire tenendo conto delle caratteristiche obiettive proprie degli immobili e non anche della loro possibile destinazione, determinata essenzialmente da valutazioni di carattere soggettivo, quali le personali necessità e/o le esigenze economiche (Cass.  n. 19797/2016).

Il frazionamento dell’unità immobiliare

Le medesime considerazioni valgono per il caso di divisione orizzontale in due parti di un appartamento in condominio. Con sentenza n. 15109 del 3 giugno 2019, la II sezione civile della Corte di Cassazione ha analizzato tale fattispecie alla luce del criterio della “notevole alterazione del rapporto originario tra i valori dei singoli piani o porzioni di piano”.

Tale criterio era vigente in epoca ante-riforma e veniva in rilievo nella fattispecie in commento in quanto applicabile ratione temporis.

Il frazionamento aveva determinato una diversa intestazione della quota millesimale, in precedenza attribuita ad un unico condomino e ciò imponeva, al più, di adeguare le regole di gestione del condominio alla mutata situazione, mentre non ha inciso sulle tabelle millesimali, non essendosi notevolmente alterato il rapporto originario tra i valori dei singoli piani o porzione di piano, da intendersi, allo stato, come alterazione di almeno 1/5 del valore proporzionale dell’unità immobiliare. È solo oltre tale soglia che si può richiedere ed ottenere la revisione delle tabelle.

La Cassazione conclude la disamina affermando che “grava sull’assemblea l’onere di provvedere a ripartire le spese tra le due nuove parti così create ed i rispettivi titolari, determinandone i valori proporzionali espressi in millesimi sulla base dei criteri sanciti dalla legge”.

Quanto appena detto è supportato dalla circostanza che in ambito condominiale non trova (rectius non trova più) cittadinanza il principio dell’apparenza del diritto, non sussistendo relazione di terzietà tra condominio e condomino.

Ne deriva che le spese gravano esclusivamente sul proprietario effettivo dell’unità immobiliare e che l’amministratore ha il potere/dovere di aggiornare i propri dati tenendo conto della reale composizione dell’edificio e, ai fini del riparto, anche a mezzo consultazione dei pubblici registri immobiliari (conformi Cass. civ. VI/II n. 23621/2017 e Cass. civ.  II n. 17039/2007).

 

riforma Cartabia processo civile

Riforma Cartabia processo civile La riforma Cartabia del processo civile e i correttivi in fase di approvazione per rendere la procedura ancora più efficiente 

Riforma Cartabia e correttivi

La riforma Cartabia del processo civile è stata attuata con il decreto legislativo n. 149 del 2022. La legge di bilancio 2023 n. 127/2022 ha anticipato l’entrata in vigore di molte disposizioni della riforma, che ha modificato in modo organico il processo civile.

A meno di un anno dalla sua entrata in vigore, il Ministro della Giustizia Nordio ha già presentato una serie di correttivi alla Riforma Cartabia per velocizzare e alleggerire la procedura, soprattutto attraverso una maggiore digitalizzazione.

In attesa dell’approvazione definitiva dei correttivi, ricordiamo in breve le principali modifiche apportate dalla Cartabia al codice di procedura civile.

Modifiche alle disposizioni generali

Ampliata la competenza per valore del Giudice di Pace, che è stata innalzata a 10.000,00 euro per le cause relative a beni mobili e a 25.000,00 euro per le cause risarcitorie che riguardano i danni prodotto dalla circolazione stradale.

Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione ora può essere rilevato anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, mentre il difetto del giudice ordinario nei confronti del giudice amministrativo o di altri giudici speciali può essere rilevato anche d’ufficio nel giudizio di primo grado. Nei gradi di impugnazione il difetto può essere rilevato solo se oggetto di un motivo specifico. L’attore però non può impugnare la sentenza per denunciare la giurisdizione del giudice a cui si è rivolto.

In presenza di cause connesse relative a cause accessorie, di garanzia, accertamento incidentale o eccezione di compensazione, se una di esse è soggetta al rito semplificato di cognizione e l’altra a un rito speciale, le cause devono essere trattate con il rito semplificato di cognizione.

Cambiano le regole del regolamento di competenza. Chi propone l’istanza deve depositare il ricorso e i documenti a corredo della stessa nel termine perentorio di 20 giorni, che decorre dalla data dell’ultima notificazione alle parti. I processi nel cui ambito viene richiesto il regolamento di competenza sono sospesi dal giorno in cui la copia del ricorso notificato vene depositata davanti al giudice  innanzi al quale pende la causa o dal giorno in cui viene emessa l’ordinanza con cui il giudice chiede il regolamento di competenza.

Il Tribunale in composizione collegiale non decide più le cause indicate nei punti 5 e 6 dell’art. 50 bis c.p.c tra le quali figurano:

  • le impugnazioni alle delibere assembleari;
  • le cause di impugnazione dei testamenti e di riduzione della legittima.

A causa delle imponenti modifiche che hanno investito la normativa dedicata alle persone e alla famiglia l’art. 78 c.p.c limita la nomina del curatore speciale ai soli casi in cui viene rilevata l’urgenza di avere una persona che assista o rappresenti un incapace, una persona giuridica o una associazione, in attesa che venga nominato il soggetto che ne assuma la rappresentanza o lo assista. La nomina del curatore è prevista inoltre se c’è conflitto di interessi tra rappresentato e rappresentante.

Chi si comporta male in giudizio, nei casi contemplati dall’art. 96 c.p.c (responsabilità aggravata), viene raggiunto anche da una sanzione pecuniaria che varia da un minimo di 500 a un massimo di 5.000 euro.

Aggiunto un nuovo comma all’art. 101 c.p.c, dedicato al principio del contraddittorio, che  prevede l’adozione di provvedimenti opportuni nel caso in cui il giudice rilevi una lesione del diritto di difesa.

Il nuovo art. 121 c.p.c, nel sancire la libertà della forme per gli atti per i quali la legge non prevede forme determinate, per tutti gli atti del processo sancisce il rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità.

Introdotta la possibilità di svolgere le udienze da remoto, mediante collegamenti audiovisivi, come previsto dal nuovo art. 127 bis c.p.c. e di sostituire l’udienza con il deposito di note scritte come prevede il nuovo art. 127 ter c.p.c.

Tante le novità che hanno investito le notifiche, con conseguente modifica degli articoli 137, 139, 147 e 149 bis c.p.c. Eliminate le comunicazioni a mezzo telefax, nessun limite orario per le notifiche a mezzo pec, che l’UG esegue ai destinatari obbligati di munirsi di un indirizzo di posta elettronica.

Le novità del processo di cognizione

La parte introduttiva del giudizio di cognizione cambia notevolmente. Modificato il contenuto dell’atto di citazione art. 163 c.p.c, modificati i termini per comparire art. 163 bis, le regole di costituzione dell’attore art. 165 c.p.c e del convenuto art. 166 c.p.c.

Le attività che le parti svolgevano a causa già iniziata con le memorie art. 183 c.p.c vengono ora anticipate all’interno delle memorie integrative art. 171 ter da produrre prima della prima udienza, la cui disciplina, contenuta nell’art. 183 c.p.c è stata completamente riformulata.

Eliminata l’udienza 184 c.p.c dedicata all’assunzione dei mezzi di prova, la riforma ha modificato anche l’art. 188 c.p.c. In base alla nuova formulazione di questa norma il giudice, una volta completata l’istruttoria, rimette le parti davanti al Collegio per la decisione, assegnando termini per note e comparse o dopo la discussione orale art. 275 bis c.p.c.

Cambiate le regole per la remissione della causa dal Collegio al Giudice monocratico e viceversa e introdotto il procedimento semplificato di cognizione per le cause “pronte”per la decisione.

Cambiato anche il procedimento davanti al giudice di Pace, che viene avviato con ricorso e al quale si applicano, in quanto compatibili, le stesse norme del procedimento semplificato di cognizione.

Il giudizio di appello è stato in gran parte riformato. Modificato l’art. 342 c.p.c sulla forma dell’atto di appello e l’art. 343 c.p.c sui modi e termini dell’appello incidentale, che deve essere proposto a pena di decadenza almeno 20 giorni prima dell’udienza di comparizione fissata dall’appellante. Cambiate le regole sulla improcedibilità dell’appello, che ora viene dichiarata con sentenza. Completamente riformato l’art. 348 bis c.p.c sulla inammissibilità e manifesta infondatezza dell’appello. Torna il giudice istruttore in appello se il procedimento si svolge davanti alla Corte, cambia la trattazione in appello e anche la fase decisionale, che avviene alternativamente in base alle regole dell’art. 350 bis c.p.c dopo la discussione orale o in base a quanto previsto dall’art. 352 c.p.c, che prevede la decisione dopo la concessione di termini per note e comparse.

Il giudizio davanti alla Cassazione viene rinnovato attraverso la previsione di nuovi casi di ricorso e del nuovo rinvio pregiudiziale per la risoluzione di questioni di diritto. Cambiato anche il contenuto del ricorso e i termini di deposito del controricorso e del ricorso incidentale. Distribuiti diversamente anche i casi in cui la Cassazione può pronunciarsi in udienza pubblica o in camera di consiglio.

Il processo esecutivo è stato rinnovato con l’eliminazione della formula esecutiva da apporre sul titolo, sostituita dalla copia attestata conforme all’originale. Riformata la norma sul pignoramento in generale e l’art. 492 bis c.p.c sulla ricerca telematica dei beni da  pignorare. Introdotto ex novo l’art. 568 bis c.p.c che consente al debitore di procedere alla vendita diretta dell’immobile pignorato alle condizioni stabilite dall’art. 569 bis c.p.c.

assegno di divorzio

Assegno di divorzio: si conta anche la convivenza Le Sezioni Unite della Cassazione chiariscono che la convivenza prematrimoniale deve essere presa in considerazione nella determinazione dell'assegno divorzile

Convivenza prematrimoniale nell’assegno divorzile

La convivenza prematrimoniale che ha «consolidato» una divisione dei ruoli domestici capace di creare «scompensi» destinati a proiettarsi sul futuro matrimonio e sul divorzio, deve necessariamente essere presa in considerazione nella determinazione dell’assegno divorzile. Così, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza n. 35385-2023, ha accolto il gravame proposto dalla ricorrente in relazione al computo della convivenza prematrimoniale ai fini della determinazione dell’assegno divorzile.

I criteri di determinazione dell’assegno divorzile

A tal proposito, il Giudice di legittimità ha anzitutto compiuto un ampio excursus in ordine ai criteri di determinazione dell’assegno divorzile, ricordando, in particolare, quanto stabilito dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la storica sentenza n. 18287/2018 con cui era stata superata la distinzione tra “criterio attributivo e criteri determinativo dell’assegno di divorzio, essendosi affermato che il giudice deve accertare l’adeguatezza dei mezzi (…) alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto”. La suddetta sentenza, inoltre, aveva introdotto il principio di autoresponsabilità nell’ambito del rapporto coniugale e durante tutta la sua durata, dunque anche nella fase patologica.

La rilevanza della convivenza prematrimoniale

Posto quanto sopra, la Corte è poi passata all’esame del caso di specie, riguardante le contestazioni avanzate da un’ex moglie in ordine alla mancata valutazione, da parte del Giudice di merito, del contributo economico e personale dalla stessa fornito durante la fase prematrimoniale. La ricorrente ha in particolare messo in rilievo come, già durante detto periodo, i futuri coniugi avevano compiuto scelte comuni di organizzazione della vita familiare e di riparto dei rispettivi ruoli.

Rispetto a tale doglianza, le Sezioni Unite hanno ricordato che nel nostro ordinamento sussiste indubbiamente “una differenza (..) tra matrimonio e convivenza, (..) dato che il matrimonio e, per volontà del legislatore, l’unione civile, appartengono ai modelli c.d. «istituzionali», mentre la convivenza di fatto, al contrario, è un modello «familiare non a struttura istituzionale». Tuttavia, convivenza e matrimonio sono comunque modelli familiari dai quali scaturiscono obblighi di solidarietà morale e materiale, anche a seguito della cessazione dell’unione istituzionale e dell’unione di fatto”.

Ciò posto, la Corte ha messo in luce come, considerata la crescente diffusione sociale del fenomeno della convivenza, la convivenza prematrimoniale, laddove protrattasi nel tempo ed abbia «consolidato» una divisione dei ruoli domestici capace di creare «scompensi» destinati a proiettarsi sul futuro matrimonio e sul divorzio che dovesse seguire, deve necessariamente essere presa in considerazione anche nella fase patologica del rapporto coniugale e dunque anche ai fini della determinazione dell’assegno divorzile, tenendo conto dei criteri stabiliti dalle Sezioni Unite nel 2018.

Concluso l’esame sulla questione di massima importanza sopra riassunta, il Giudice di legittimità ha enunciato il seguente principio di diritto “Ai fini dell’attribuzione e della quantificazione, ai sensi dell’art. 5, comma 6, l. n. 898/1970, dell’assegno divorzile, avente natura, oltre che assistenziale, anche perequativo-compensativa, nei casi peculiari in cui il matrimonio si ricolleghi a una convivenza prematrimoniale della coppia, avente i connotati di stabilità e continuità, in ragione di un progetto di vita comune, dal quale discendano anche reciproche contribuzioni economiche, laddove emerga una relazione di continuità tra la fase «di fatto» di quella medesima unione e la fase «giuridica» del vincolo matrimoniale, va computato anche il periodo della convivenza prematrimoniale, ai fini della necessaria verifica del contributo fornito dal richiedente l’assegno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei coniugi, occorrendo vagliare l’esistenza, durante la convivenza prematrimoniale, di scelte condivise dalla coppia che abbiano conformato la vita all’interno del matrimonio e cui si possano ricollegare, con accertamento del relativo nesso causale, sacrifici o rinunce, in particolare, alla vita lavorativa/professionale del coniuge economicamente più debole, che sia risultato incapace di garantirsi un mantenimento adeguato, successivamente al divorzio”.

Allegati

opposizione a decreto ingiuntivo

Opposizione a decreto ingiuntivo: mediazione a carico del condominio Nell’opposizione a decreto ingiuntivo l’obbligo di esperire il procedimento di mediazione spetta al Condominio

Mediazione obbligatoria

Non è richiesta la mediazione obbligatoria per le controversie relative alla riscossione dei contributi dovuti dai singoli condomini, solo quando la relativa pretesa è azionata con il ricorso per decreto ingiuntivo. Infatti, in tal caso, la mediazione obbligatoria, opererà solo nell’eventuale fase del giudizio di opposizione e solo dopo la pronuncia “sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione”.

Onere della mediazione

La riforma Cartabia ha, tuttavia, precisato all’art. 5 bis che: “Quando l’azione di cui all’articolo 5, comma 1, è stata introdotta con ricorso per decreto ingiuntivo, nel procedimento di opposizione l’onere di presentare la domanda di mediazione grava sulla parte che ha proposto ricorso per decreto ingiuntivo”.

Da ciò ne consegue che l’amministratore, in caso di opposizione del decreto monitorio, ha l’onere di presentare la domanda di mediazione.

Tuttavia, egli non è costretto a convocare l’assemblea condominiale al riguardo.

Infatti, l’amministratore del condominio, per effetto della richiamata modifica normativa  di cui all’art. 5 ter non necessita della delibera assembleare autorizzativa dall’assemblea per attivare la mediazione.

Solo se il condòmino moroso opponente parteciperà alla mediazione attivata dall’amministratore e verrà formulata una proposta transattiva in quel caso l’amministratore convocherà l’assemblea per deliberare in merito.

 

impugnazione delibera condominiale

Impugnazione delibera: in mediazione occorre indicare i motivi Il Tribunale di Napoli rimarca l'obbligo di indicare espressamente i motivi di impugnativa nel procedimento di mediazione

Obbligo di mediazione impugnativa delibera assembleare

Ai sensi dell’art. 5, co. 1, d.lgs 28/2010, chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, associazione in partecipazione, consorzio, franchising, opera, rete, somministrazione, società di persone e subfornitura, è tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione, il che significa che, nelle materie di cui sopra, l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L’improcedibilità è eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza.

Quando l’azione di cui all’articolo 5, co. 1, è stata introdotta con ricorso per decreto ingiuntivo, nel procedimento di opposizione l’onere di presentare la domanda di mediazione grava sulla parte che ha proposto ricorso per decreto ingiuntivo (art 5 bis, d.l gs 28/2010) e quindi sul condominio ricorrente.

Ai fini della tempestività (al fine di impedire, nella specie, la decadenza per inosservanza del termine di cui all’art. 1137, 2° comma, c.c.) della domanda di mediazione obbligatoria ex art. 5 d.lgs. 25/2010, quel che conta, afferma il tribunale di Napoli, nella sentenza n. 10208/2023, “è la comunicazione a controparte della avvenuta presentazione della domanda, e non anche della data di convocazione dinanzi all’organismo di mediazione”.

L’art. 5, 6° comma, del d.lgs. 28/2010 prevede, infatti, che “Dal momento della comunicazione alle altre parti, la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale. Dalla stessa data, la domanda di mediazione impedisce altresì la decadenza per una sola volta, ma se il tentativo fallisce la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza, decorrente dal deposito del verbale di cui all’art. 11 presso la segreteria dell’organismo”.

Pertanto, osserva ancora il tribunale, “non è dal momento della presentazione della domanda di mediazione, ma soltanto dal momento della relativa comunicazione all’altra o alle altre parti, che si verifica l’effetto, collegato dalla legge alla proposizione della relativa procedura deflattiva, di impedire la decadenza eventualmente prevista per la proposizione dell’azione giudiziale, come nel caso della impugnazione delle delibere dell’assemblea condominiale, ex art. 1137, 2° comma, c.c.” (cfr. Cass. 2273/2019).

Peraltro, non sembra possa validamente porsi in dubbio che l’onere della comunicazione (al fine anzidetto) della presentazione della domanda di mediazione incomba sulla parte che l’ha presentata, e non già sull’adito organismo di mediazione, come si evince in modo univoco dalla stessa formulazione della norma, che collega l’effetto interruttivo della prescrizione o impeditivo della decadenza al momento della comunicazione alle altre parti della domanda di mediazione.

Obbligo di indicare i motivi di impugnativa in mediazione

Quanto all’obbligo di indicare, a pena di improcedibilità, tutti i vizi e le motivazioni e le domande che saranno poi oggetto dell’azione giudiziaria, il tribunale ricorda che ai sensi dell’art. 4, comma 2 del d.lgs. 28/2010: “L’istanza deve indicare l’organismo, le parti, l’oggetto e le ragioni della pretesa” e deve avere gli stessi elementi (parti, oggetto e ragioni) riproposti in sede processuale (persone, petitum e causa petendi dell’art. 125 c.p.c.) ciò in quanto la mediazione è effettiva solo ove la parte chiamata viene messa in condizione di conoscere tutte le questioni costitutive della pretesa dell’altra parte. L’istanza perciò deve essere completa, così da rendere possibile il raggiungimento di un accordo che risolva la materia del contendere evitando un procedimento giudiziale.

“Una domanda di mediazione generica sotto il profilo del petitum o della causa petendi, non può considerarsi validamente espletata e comporta l’improcedibilità della domanda” (nota 1).

Nella specie, invero, parte attrice ha avanzato istanza di mediazione dalla quale si evince soltanto l’oggetto della domanda, ossia l’impugnativa della delibera del 17.12.2021 con particolare riguardo ai capi 2 e 3 all’ordine del giorno senza alcuna indicazione dei motivi di tale impugnazione.

Orbene, precisa il giudice, se è vero che per la mediazione ante causam è sempre possibile sanare l’improcedibilità, potendo il giudice demandare un nuovo esperimento della mediazione e, solo in caso di mancato (valido) esperimento di tale nuova mediazione, pronunciare l’improcedibilità della domanda, è anche vero che nel caso di impugnazione di delibera condominiale sussiste un termine di decadenza che viene interrotto  dalla “comunicazione” (che può essere fatta sia dall’organismo di mediazione che direttamente dall’istante) della istanza di mediazione alla controparte una sola volta e che inizia a decorrere nuovamente dal deposito del verbale conclusivo della mediazione.

Tale effetto interruttivo, però, può essere riconosciuto solo ad una procedura validamente espletata ed in relazione all’istanza comunicata che sia simmetrica alla futura domanda giudiziale, tenuto conto della natura deflattiva dell’istituto della mediazione, volto ad instaurare subito, già dinanzi al mediatore e prima del processo, un effettivo contraddittorio sulle questioni che saranno oggetto del futuro ed eventuale giudizio di merito. Ed è sempre in virtù della fine della procedura che il legislatore ricollega, per una sola volta, alla mediazione l’interruzione delle decadenze.

Diversamente, consentire alla parte di avvalersi del beneficio dell’impedimento delle decadenze con la mera presentazione di una “istanza” che non presenti i requisiti sopra indicati, significherebbe svilire l’istituto della mediazione ad un mero adempimento burocratico, in contrasto con la ratio ad esso sotteso, ed incentivare il suo uso meramente dilatorio, a beneficio di una sola parte.

Nel caso di specie l’istanza di mediazione versata in atti si presenta del tutto generica, non contiene alcun riferimento alle singole delibere impugnate ed ai vizi ad esse imputati; la domanda giudiziale, invece, contiene l’impugnativa di più deliberati (si tratta, infatti, di più delibere assunte su diversi ordini del giorno della stessa seduta) e l’esposizione, per ciascuna di essi, dei singoli vizi denunciati (contemplando, peraltro, in alcuni casi, anche censure che non si sostanziano, strictu sensu, in vizi di legittimità delle delibere).

Mancando la necessaria simmetria tra l’istanza di mediazione e la domanda giudiziale in concreto formulata, la mediazione non può ritenersi validamente svolta e, quindi, non impedita la decadenza dell’impugnazione ex art. 1137 c.c. (per cui sarebbe risultato inutile demandare alle parti una nuova mediazione che mai avrebbe potuto sanare la decadenza nella quale è incorsa la parte attrice).

Infatti, nel caso sottoposto all’esame del tribunale “non può parlarsi di parziale difformità, di non perfetta coincidenza di petitum e causa petendi ovvero di generica indicazione dei motivi giacché essi oggettivamente non risultano in alcun modo richiamati nell’istanza di mediazione”.

Conseguentemente, il tribunale napoletano dichiara improcedibile la domanda e inammissibile l’impugnazione per intervenuta decadenza.

approvazione e revisione tabelle millesimali

Approvazione e revisione tabelle millesimali: serve la forma scritta Necessità della forma scritta per l’approvazione e la revisione delle tabelle millesimali

Tabelle millesimali e forma scritta

L’aspetto che suscita maggiore interesse relativamente alla redazione ed applicazione delle tabelle millesimali in sede di riparto di una o più spese in ambito condominiale, attiene alla necessità di forma scritta per ciò che concerne l’approvazione e/o le modifiche.

Tale assunto è di fondamentale importanza anche nell’ottica delle conseguenze relative alla forma di invalidità di una delibera assembleare che disponga diversamente.

Così ha stabilito con sentenza n. 26042/2019, la Suprema Corte in data 15 ottobre 2019. Con tale sentenza si è affermato, che non è sufficiente – per derogare a criteri tabellari previsti dalla legge e/o dal regolamento di condominio e per la creazione di una tabella “virtuale” di riparto – il pagamento dei contributi per molti anni da parte dei condomini sulla base di tabelle applicate “de facto” né la reiterata approvazione di rendiconti e di delibere di ripartizione delle spese secondo criteri diversi da quelli di cui alle tabelle esistenti. Una o più deliberazioni adottate in tal senso dall’assemblea sarebbero sicuramente invalide (conforme Cass. n. 4259/2018).

Il riparto per quote uguali non esiste

Si ricade in detta fattispecie nel caso, purtroppo frequente, in cui si vanno a ripartire spese ordinarie o, soprattutto straordinarie, con il criterio della suddivisione in parti uguali, sulla scorta di prassi seguite nel tempo dai condòmini.

Quel che è certo è che osta a tale illegittimo contegno, la mancanza di una approvazione per iscritto della tabella che si pretende di applicare ovvero della modifica della stessa rispettivamente, in forza del sistema vigente, a maggioranza o all’unanimità.

Invero, sul punto già si erano espresse le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 943/1999 argomentando sull’analogia di forma (scritta ad substantiam) che deve caratterizzare il regolamento di condominio e le tabelle millesimali. E ciò non solo in caso di regolamento contrattuale (in quanto nello stesso ben possono essere contenute clausole che incidono sui diritti dei singoli condomini o sulle loro proprietà esclusive o, ancora, possono prevedersi limitazioni per i singoli sulle parti comuni) ma anche in caso di regolamento di condominio cd. assembleare, con tabelle allegate, posto che vi è l’obbligo per l’amministratore di conservare il relativo registro dei verbali (art. 1130 n.7 c.c.). Tale ultimo assunto trova conferma nella disposizione di cui all’art. 68 disp. att c.c. alla stregua del quale, ove non precisato dal titolo, il valore proporzionale di ciascuna unità immobiliare è espresso in millesimi in apposita tabella allegata (in forma scritta) al regolamento di condominio.

Irrilevanza del consenso o dell’acquiescenza dei condomini

Deve, quindi, affermarsi l’irrilevanza del ripetersi del consenso o dell’acquiescenza tacita dei condomini verso ripartizioni effettuate alla stregua di tabelle millesimali diverse da quelle risultanti dai sopra menzionati atti scritti, sino a quando queste non vengano modificate da una valida delibera assembleare.

 

teste de relato

Teste de relato: analisi dell’art. 195 c.p.p. La figura del teste de relato è prevista dall’art. 195 c.p.p. che disciplina l’utilizzo delle dichiarazioni rese dal testimone indiretto nel processo penale

Chi è il teste de relato?

Il teste de relato è il testimone che racconta un fatto, non per averlo appreso direttamente, ma per averne acquisito conoscenza da un altro soggetto.

Vediamo in che modo il codice di procedura penale disciplina questa figura, ma soprattutto quale valore riconosce alle dichiarazioni di questo soggetto.  

Teste de relato nel processo penale: l’art. 195 c.p.p.

Il codice di procedura penale definisce la testimonianza de relato come testimonianza indiretta nell’art. 195 c.p.p.

  • Il primo comma di questa norma dispone che quando il testimone si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, il giudice, a richiesta di parte, dispone che queste siano chiamate a deporre.”
  • Il secondo comma, a integrazione del primo, dispone che l’esame delle persone che hanno conoscenza diretta dei fatti, possa essere richiesto non solo su istanza di parte, ma anche d’ufficio direttamente dal giudice.
  • Il terzo comma precisa poi che, se non si osserva la regola contenuta nel primo comma, le dichiarazioni sui fatti di cui il testimone abbia avuto conoscenza da terze persone non siano utilizzabili a meno che sia impossibile procedere all’esame del testimone diretto perché defunto, irreperibile o infermo.
  • Le regole contenute nell’art. 195 c.p.p si applicano anche quando il testimone indiretto abbia avuto la comunicazione del fatto in una forma diversa da quella orale.

Limiti per agenti e ufficiali di polizia giudiziaria

Il comma 4 della norma pone poi un limite alla testimonianza indiretta, che si rivolge nello specifico agli ufficiali e agli agenti di polizia giudiziaria. Questi soggetti non possono infatti deporre su quanto appreso dai testimoni in sede di acquisizione di sommarie informazioni o nel momento in cui raccolgono denunce, querele, istanze orali, sommarie informazioni e dichiarazioni spontanee della persona indagata.

Testimonianza de relato e segreto professionale e d’ufficio

Il comma 6 dell’art. 195 c.p.p. pone un limite ulteriore all’utilizzo della testimonianza indiretta. Questa disposizione vieta infatti l’esame del testimone del relato se i fatti da loro appresi provengono da soggetti che sono tenuti al segreto professionale ai sensi dell’art. 200 c.p.p. o al segreto d’ufficio di cui all’art. 201 c.p.p. in relazione alle circostanze previste da questi due articoli, a condizione che i soggetti tenuti al segreto non abbiano deposto sugli stessi fatti o li abbiano divulgati in un altro modo.

Inutilizzabilità per rifiuto o ignoranza

L’ultimo comma dell’art. 195 c.p.p. prevede infine che le dichiarazioni del testimone de relato non siano utilizzabili se il soggetto si rifiuti o non sia comunque in grado di indicare la persona o la fonte da cui ha appreso la notizia che riguarda i fatti oggetto d’esame.

Questa disposizione, come l’intero articolo 195 c.p.p., hanno la finalità primaria di vietare le testimonianze anonime.

La Cassazione sulla testimonianza de relato

Vediamo ora, alcune recenti sentenze della Cassazione sulla testimonianza de relato:

Cassazione n. 3488/2024

La disciplina prevista in tema di testimonianza indiretta dall’art. 195 cod. proc. pen. non trova applicazione quando la fonte di riferimento sia costituita da un soggetto che rivesta la qualità di imputato nel medesimo procedimento o in procedimento connesso.

Cassazione n. 34818 /2023

Gli unici casi testualmente previsti di inutilizzabilità della testimonianza de relato trovano il loro fondamento nel fatto che il teste si rifiuti o non sia in grado di indicare la propria fonte di conoscenza (comma 7 dell’art. 195 c.p.p.) o nel fatto che, pur richiestone, il giudice non chiami a deporre le persone alle quali il teste abbia fatto riferimento per la conoscenza dei fatti (comma 3, in relazione al comma 1 dell’art. 195 cod. proc. pen.).

Cassazione n. 47531/2023

In tema di testimonianza indiretta, possono formare oggetto della testimonianza de relato del personale di polizia giudiziaria i risultati dell’individuazione fotografica poiché essa consiste in una dichiarazione ricognitiva resa da un teste della propria percezione visiva ove la difesa non abbia richiesto l’esame della fonte diretta (Sez. 5, n. 5701 del 05/11/2021, dep. 2022, Rv. 282779 – 01), così implicitamente rinunciando ad avvalersi del diritto a procedere al suo esame (ex 7 Corte di Cassazione – copia non ufficiale multis, Sez. 6, n. 12982 del 20/02/2020, Rv. 279259 – 01; Sez. 5, n. 50346 del 22/10/2014, Rv. 261316 – 01).

compensi gratuito patrocinio

Gratuito patrocinio: all’avvocato spettano i compensi per la fase istruttoria La Cassazione chiarisce che nel patrocinio a spese dello Stato all’avvocato va liquidato il compenso per la fase istruttoria anche in caso di prescrizione del procedimento

Gratuito patrocinio e compensi avvocato

Nel gratuito patrocinio, all’avvocato spettano i compensi per la fase istruttoria anche in caso di prescrizione del procedimento, se è stata depositata la lista testimoniale e sono stati citati i testi. Così la seconda sezione civile della Cassazione, nell’ordinanza n. 2502-2024, accogliendo il ricorso di un avvocato.

La vicenda

Nella vicenda, il presidente del tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto rigettava l’opposizione, proposta ex art.170 del DPR 115/2002, dall’avvocato avverso il decreto di liquidazione del compenso per l’attività svolta in un processo penale, quale difensore di soggetto ammesso al gratuito patrocinio a spese dello Stato. Il Tribunale, in particolare, non aveva liquidato li compenso per la fase istruttoria, ritenendo che detta fase non si fosse mai svolta in quanto il processo, che aveva tratto origine dall’opposizione a decreto penale di condanna, dopo una serie di rinvii, era stato definito con la dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione.

Il ricorso

L’avvocato adiva quindi il Palazzaccio lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 12 del D.M. 10.3.2014, n.55, in relazione all’art.360, comma 1, n.3 c.p.c., per avere li Tribunale omesso di liquidare la fase istruttoria sull’erroneo presupposto che essa non si fosse svolta, sebbene lo stesso avesse depositato una lista testimoniale ed avesse citato i testi, attività, questa, espressamente prevista dall’art.12, comma 3 del D.M. 55/2014.

La decisione

Per gli Ermellini, l’avvocato ha ragione. “Il Tribunale ha escluso il compenso per la fase istruttoria perché il processo penale era stato definito con la dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione, senza considerare – osservano infatti – che l’art.12, comma 3 del D.M. 55/2014 prevede che la fase istruttoria non consiste solo nell’escussione dei testi, acquisizione di documentazione etc., ma comprende anche l’attività preparatoria all’istruttoria, vale a dire ‘le richieste, gli scritti, le partecipazioni o assistenze relative ad atti ed attività istruttorie procedimentali o processuali anche preliminari, rese anche in udienze pubbliche o in camera di consiglio, che sono funzionali alla ricerca di mezzi di prova, alla formazione della prova, comprese liste, citazioni e le relative notificazioni, l’esame dei consulenti, testimoni, indagati o imputati di reato connesso o collegato’”. ;

Nel caso di specie, dunque il giudice ha omesso di liquidare la fase istruttoria, benché il ricorrente avesse depositato la lista testimoniale e citato due testi, “attività inequivocabilmente compresa nella fase istruttoria”.

Da qui l’accoglimento del ricorso. Parola al giudice del rinvio.

Allegati

riforma Cartabia processo penale

Riforma Cartabia processo penale Il processo penale è stato profondamente modificato dalla Riforma Cartabia per accelerare la durata della procedura e rispettare così gli impegni del PNRR

Riforma Cartabia per ridurre la durata dei processi penali

La riforma Cartabia del processo penale è avvenuta con il decreto legislativo n. 150/2022, in vigore dal 30.12.2022. Il testo ha apportato le modifiche di maggiore rilevo al codice penale e al codice di procedura penale, al fine di rispettare gli impegni assunti dall’Italia con il PRNN, ossia ridurre prima di tutto la durata media dei processi penali nei tre diversi gradi di giudizio di almeno 1/4. Vediamo in breve le novità di maggiore rilievo.

Le modifiche al codice penale

La riforma ha inserito nel codice penale il nuovo art. 20 bis, che contempla le pene sostitutive della reclusione e dell’arresto, ossia la semilibertà sostitutiva, la detenzione domiciliare sostitutiva, il lavoro di pubblica utilità sostitutivo e la pena pecuniaria sostitutiva.

Tra le circostanze attenuanti del reato previste dall’art. 62 c.p. è stato inserita anche la partecipazione del responsabile a programmi di giustizia riparativa con la vittima del reato, concluso con un esito riparativo. Qualora l’esito riparativo preveda l’assunzione, da parte del soggetto imputato, di impegni di natura comportamentale, la circostanza attenuante viene valutata solo se detti impegni sono stati rispettati.

All’interno dell’art. 131 bis c.p, che disciplina i casi di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, la riforma ha ampliato e inserito specificamente i riferimenti normativi ai casi in cui l’offesa non può essere considerata di particolare tenuità.

Nel determinare la multa o la ammenda il giudice ora deve valutare le condizioni patrimoniali del reo, anche nel disporre il pagamento rateale. Lo prevedono gli articoli 133 bis e 133 ter c.p. come riformulati dalla Riforma.

Cambiano le regole sulla conversione delle pene attraverso la modifica dell’art. 136 del codice penale.

Sono diventati procedibili a querela altri reati, fatte salve le eccezioni previste in presenza di determinate circostanze: lesioni personali art. 582 c.p, lesioni stradali, art. 590 c.p, sequestro di persona art. 605 c.p, violenza privata art. 610 c.p, violazione di domicilio art. 614 c.p, furto art. 624 c.p, turbativa violenta del possesso di cose immobili art. 626 c.p, danneggiamento art. 635 c.p, disturbo del riposo e delle occupazioni delle persone art. 659 c.p; molestia o disturbo alle persone art. 660 c.p, truffa art. 640 c.p, frode informatica art. 640 c.p e appropriazione indebita art. 646 c.p.

Le modifiche della riforma al codice di procedura penale

La prima novità di rilievo apportata dalla riforma Cartabia consiste nella digitalizzazione del processo penale. Gli articoli 110 e 111 c.p.p per la prima volta prevedono la forma del documenti informatico degli atti del procedimento penale e il rispetto delle conseguenti regole per la redazione, la sottoscrizione, la conservazione, l’accesso, la trasmissione e la ricezione in formato elettronico di detti atti e documenti. Completano il set di norme dedicate alla digitalizzazione  sopratutto i seguenti articoli:

  • 111 bis c.p.p dedicato al deposito informatico;
  • 111 ter c.p.p sul fascicolo informatico e l’accesso agli atti;
  • 148 c.p.p sulle notifiche telematiche.

Cambiata la durata massima delle indagini preliminari:  sei mesi per le contravvenzioni, un anno  per i delitti, un anno e sei mesi per i delitti art. 407 comma 2. Ammessa la proroga di questi termini per una sola volta e per non più di sei mesi se le indagini sono complesse.

L’archiviazione della notizia di reato art. 408 c.p.p è consentita quando dagli elementi acquisiti nel corso delle indagini non si può formulare una ragionevole previsione di condanna o applicare una misura di sicurezza diversa dalla confisca.

Ampliate le fattispecie di reato per le quali è prevista la citazione diretta a giudizio art. 552 c.p.p , con particolare riferimento a quei reati che non richiedono investigazioni complesse.

Nuova udienza “filtro” di comparizione prebattimentale dopo la citazione diretta art. 554 bis e 554 ter c.p.c, che funge da snodo tra le indagini preliminari e il dibattimento.

Il rito del patteggiamento prevede ora la possibilità per l’imputato e il P.M di chiedere al giudice di non applicare le pene accessorie o di applicarle per una durata determinata e di non disporre la confisca per determinati beni e determinati importi.

Per quanto riguarda le impugnazione in base alle modifiche della Cartabia, l’art. 593 c.p.p prevede l’inappellabilità delle sentenze che applicano la pena dell’ammenda o la pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità e le sentenze di proscioglimento per reati che vengono puniti con la sola pena pecuniaria o con una pena alternativa.

incentivo all'esodo

Incentivo all’esodo: non va nell’assegno di divorzio La Cassazione spiega che l'indennità di incentivo all'esodo, con cui è regolata la risoluzione anticipata del rapporto di lavoro, non è assimilata all'indennità di fine rapporto e non è computata nella determinazione dell'assegno divorzile

Spettanze di fine rapporto e assegno divorzile

Nel caso in esame il titolare di assegno divorzile aveva domandato al Giudice di merito la corresponsione di quanto percepito dall’ex coniuge in ragione della cessazione del suo rapporto di lavoro.

All’ex moglie veniva riconosciuta in primo grado una quota del trattamento di fine rapporto percepito dall’ex coniuge. Il Giudice di secondo grado aveva confermato la spettanza di fine rapporto in favore dell’ex moglie ed aveva altresì escluso la richiesta formulata dalla stessa in ordine alla percezione dell’incentivo all’esodo.

A tal ultimo proposito, la Corte di appello di Milano aveva ritenuto doversi escludere che l’incentivo all’esodo rientrasse nell’indennità di fine rapporto di cui all’art. 12-bis legge n. 898 del 1970, in quanto altrimenti si sarebbe finito con l'”attribuire all’ex coniuge una quota di retribuzioni future, non accumulate durante il matrimonio, non collegate quindi alla durata del matrimonio secondo la previsione letterale della norma”.

Avverso tale decisione veniva proposto ricorso per cassazione da parte dell’ex moglie.

Contrasto interpretativo sull’incentivo all’esodo nell’assegno divorzile

Con sentenza n. 6229-2024, le Sezioni Unite della Cassazione hanno rigettato il ricorso principale proposto e compensato le spese di lite.

La Cassazione, chiamata a pronunciarsi, per quanto qui rileva, in ordine alla spettanza o meno dell’incentivo all’esodo all’ex coniuge titolare di assegno divorzile, ha anzitutto dato conto del contrasto interpretativo insorto in ordine alla spettanza dell’ex coniuge all’incentivo all’esodo e delineato nell’ordinanza interlocutoria. A tal riguardo, un primo orientamento sostiene che “le somme corrisposte a (..) titolo (d’incentivo all’esodo) non avrebbero natura liberale né eccezionale, costituendo, piuttosto, reddito di lavoro dipendente (..)”, mentre un contrapposto orientamento ritiene che “l’indennità di cui è menzione nell’art. 12-bis riguarda unicamente quell’indennità, comunque denominata, che, maturando alla cessazione del rapporto di lavoro, è determinata in proporzione della durata del rapporto medesimo e dell’entità della retribuzione corrisposta al lavoratore: connotazione ― questa ― non presente nell’incentivo all’anticipato collocamento in quiescenza”.

Posto il suddetto contrasto interpretativo, in relazione al quale è stato ritenuto necessario l’intervento delle Sezioni Unite, la Corte ha poi ripercorso la natura e la funzione assistenziale e perequativo-compensativa dell’assegno divorzile, così come delineata dalla giurisprudenza di legittimità a partire dalla nota sentenza della Cassazione a Sezioni Unite 11 luglio 2018, n. 18287.

Spettanza dell’incentivo all’esodo all’ex coniuge

In ragione della natura e della funzione dell’assegno divorzile, la Cassazione ha evidenziato come la “ratio dell’art. 12-bis della l. n. 898 del 1970 debba individuarsi nel «fine di attuare una partecipazione, seppure posticipata, alle fortune economiche costruite insieme dai coniugi finché il matrimonio è durato, ovvero di realizzare la ripartizione tra i coniugi di un’entità economica maturata nel corso del rapporto di lavoro e del matrimonio, così soddisfacendo esigenze (non solo di natura assistenziale, evidenziate dal richiamo alla spettanza dell’assegno di divorzio, ma) anche di natura compensativa, rapportate cioè al contributo personale ed economico dato dall’ex coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune»”.

In relazione all’incentivo all’esodo, la Corte ha rilevato come esso sia estraneo al concetto d’indennità di fine rapporto, invero, ha osservato la Corte, tale indennità “non opera quale retribuzione differita, sicché è da escludere la conseguente necessità di farne partecipe il coniuge che di tale retribuzione ha già fruito sotto forma di assegno divorzile. In effetti, tale indennità non si raccorda ad entità economiche maturate nel corso del rapporto di lavoro, onde non trova fondamento giustificativo l’apprensione di una quota di essa da parte del coniuge che di tale retribuzione ha già fruito sotto forma di assegno divorzile. In effetti, tale indennità non si raccorda ad entità economiche maturate nel corso del rapporto di lavoro, onde non trova fondamento giustificativo l’apprensione di una quota di essa da parte del coniuge che ha diritto alla percezione dell’assegno di divorzio: l’esigenza di assicurare, in chiave assistenziale e perequativo-compensativa, una ripartizione dei redditi maturati nel corso del matrimonio qui non ricorre, proprio in quanto non si è in presenza di proventi accantonati nel corso della vita coniugale e divenuti esigibili al cessare del rapporto lavorativo; si è piuttosto al cospetto di un’attribuzione patrimoniale discendente da un sopravvenuto accordo con cui si remunera il coniuge lavoratore per il prestato consenso all’anticipato scioglimento del rapporto di lavoro (…). In definitiva, la spettanza, al coniuge divorziato, della quota del 40% dell’indennità in questione non ha mai modo di configurarsi”.

Sulla scorta delle suddette ragioni, la Corte di Cassazione ha dunque respinto il ricorso principale.

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