tribunale per i minorenni

Tribunale per i minorenni: 8 euro per ogni e-mail con copie digitali Il Ministero della giustizia chiarisce i costi per il rilascio di copie digitali nei procedimenti minorili: 8 euro per ogni email inviata, 25 euro per copie audio-video

Costi copie digitali nei procedimenti minorili

Con provvedimento del 10 giugno 2025, la Direzione generale degli affari interni del Dipartimento per gli affari di giustizia, tramite il canale Filo Diretto, ha fornito risposta a un quesito sollevato dal Presidente del Tribunale per i minorenni di Bari in merito all’applicazione dei diritti di copia nei procedimenti penali minorili.

Assenza del fascicolo informatico e problematiche

Il Tribunale per i minorenni di Bari ha evidenziato come, in assenza del fascicolo penale informatico e del relativo applicativo gestionale (TIAP), la trasmissione telematica degli atti richieda una preventiva scansione manuale dei documenti. Questa attività, particolarmente onerosa in termini di tempo e risorse umane, non è attualmente valorizzata nei diritti forfettari previsti per la copia degli atti.

Applicazione dell’art. 269-bis del Dpr n. 115/2002

La Direzione generale ha chiarito che trova piena applicazione l’articolo 269-bis del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, come modificato dalla legge 30 dicembre 2024, n. 207 (legge di Bilancio 2025), anche in assenza del fascicolo informatico.

In particolare, è stato stabilito che:

  • Per ogni richiesta di rilascio e invio per via telematica (email o PEC) di copie digitali di atti e documenti relativi a procedimenti penali minorili, si applica un diritto forfettario di 8 euro per ogni singolo invio, indipendentemente dal numero di pagine trasmesse.

  • Tale importo è previsto dalla tabella allegato n. 8 del d.P.R. n. 115/2002.

Copie di file audio e video: il diritto forfettario

Sebbene non oggetto diretto del quesito, la Direzione ha confermato che anche per la riproduzione di file audio o video su supporti informatici (come chiavette USB, CD o DVD), si applica un diritto di copia forfettario pari a 25 euro.

Possibilità di rilascio cartaceo

Resta salva, come già ricordato nel provvedimento del 5 marzo 2025, la possibilità per l’utente di richiedere copie cartacee, per le quali continua ad applicarsi il tradizionale sistema di calcolo dei diritti di copia, commisurati al numero di pagine richieste.

modello 5

Modello 5 inviato in ritardo? L’illecito deontologico resta Il CNF chiarisce: l’invio tardivo del Modello 5 revoca la sospensione ma non esclude la responsabilità disciplinare

Modello 5, regolarizzazione non elimina l’illecito

Con le decisioni n. 407, 408 e 409 del 2024, pubblicate il 12 giugno 2025 sul sito del Codice deontologico, il Consiglio Nazionale Forense ha ribadito un principio importante in tema di responsabilità deontologica degli avvocati: l’invio tardivo del Modello 5 alla Cassa Forense non scrimina l’illecito disciplinare, anche se comporta la revoca della sospensione amministrativa.

Il caso: omissione del Modello 5 e difesa in giudizio

Il caso esaminato riguardava un avvocato sanzionato dal Consiglio Distrettuale di Disciplina per omesso invio del Mod. 5. L’incolpato aveva impugnato la decisione davanti al CNF, sostenendo che la propria posizione era stata nel frattempo regolarizzata con Cassa Forense e chiedendo quindi l’estinzione del procedimento per cessazione della materia del contendere.

La decisione del CNF: responsabilità confermata

Il Consiglio Nazionale Forense ha però rigettato l’eccezione difensiva, chiarendo che la regolarizzazione tardiva rileva solo per individuare la data finale di consumazione dell’illecito, ma non comporta l’estinzione del procedimento disciplinare.

Infatti, secondo l’art. 17, comma 5 della legge n. 576/1980 (come modificato dalla legge n. 141/1992), l’omesso invio del Mod. 5 determina la sospensione amministrativa dell’avvocato, sospensione che viene meno una volta trasmesso il modello. Tuttavia, la violazione deontologica si consuma comunque e rimane sanzionabile.

rifiuto della quarta pec

Rifiuto della quarta pec: focus sui motivi del rigetto La Cassazione chiarisce che in caso di rifiuto della quarta pec, la parte deve contestare solo le ragioni indicate dalla cancelleria

Deposito PCT rigettato

Rifiuto della quarta pec: con l’ordinanza n. 15801/2025, la prima sezione civile della Corte di Cassazione ha stabilito un importante principio in materia di processo civile telematico (PCT). Quando un atto viene rifiutato dalla cancelleria a seguito del controllo manuale (la cosiddetta “quarta PEC”), l’onere della parte si limita a contestare i motivi indicati nel rigetto, senza dover dimostrare la regolarità dell’intero processo di invio.

Il caso concreto riguardava una S.c.a.r.l. che aveva proposto opposizione allo stato passivo di un fallimento, ma il Tribunale di Teramo aveva dichiarato il ricorso tardivo, ritenendo insufficiente la documentazione relativa al primo deposito, avvenuto via PEC.

Perfezionamento deposito telematico

Nel processo civile telematico, ogni deposito genera quattro distinte comunicazioni PEC:

  1. Ricevuta di accettazione: il sistema accoglie il messaggio inviato;

  2. Ricevuta di consegna: l’atto arriva alla casella PEC dell’ufficio giudiziario;

  3. Controlli automatici: verifica formale dell’indirizzo del mittente, del formato e della dimensione;

  4. Controllo del cancelliere: verifica manuale e definitiva accettazione (o rigetto).

Il deposito si considera perfezionato già al momento della seconda PEC, con effetto provvisorio, salvo successivo buon esito della verifica finale da parte della cancelleria.

Basta la contestazione mirata

Nel caso analizzato, il deposito iniziale del 14 marzo 2016 era stato rifiutato il 18 marzo con la quarta PEC. L’opponente aveva poi effettuato un nuovo deposito cartaceo il 30 marzo, allegando le quattro ricevute PEC.

Il Tribunale aveva ritenuto la prova insufficiente, poiché mancavano i file originali e il contenuto informatico del primo atto. Ma per la Cassazione questa impostazione è errata: la parte non deve dimostrare l’intero iter tecnico, ma può concentrarsi esclusivamente sui motivi esplicitati nel rigetto della cancelleria.

Il principio di diritto della Cassazione

Secondo la Suprema Corte: “Nell’ipotesi in cui la quarta p.e.c. dia esito non favorevole, la parte ha l’onere di attivarsi con immediatezza per rimediare al mancato perfezionamento del deposito telematico; la reazione immediata si sostanzia, alternativamente e secondo i casi:

(a) in un nuovo tempestivo deposito, da considerare in continuazione con la precedente attività, previa contestazione delle ragioni del rifiuto;
(b) in una tempestiva formulazione dell’istanza di rimessione in termini ove la decadenza si assuma in effetti avvenuta ma per fatto non imputabile alla parte.”

In altre parole, basta contestare i motivi specifici contenuti nella quarta PEC. La prova dell’intera regolarità tecnica o del contenuto del ricorso non può essere richiesta dal giudice, salvo specifica eccezione della controparte.

Giudizio da rifare

Rilevata l’erroneità del ragionamento del giudice di merito, la Cassazione ha rinviato il procedimento al Tribunale di Teramo, in diversa composizione, affinché valuti:

  • la tempestività della reazione della parte al rifiuto;

  • la legittimità delle ragioni del rigetto indicate dalla cancelleria.

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detrazione per figli a carico

Figlio maggiorenne: il genitore affidatario mantiene la detrazione La Cassazione conferma: la detrazione per figli a carico resta invariata al raggiungimento della maggiore età, senza bisogno di un nuovo accordo tra genitori separati

Detrazione per figli a carico maggiorenni

Detrazione per figli a carico: con l’ordinanza n. 15224/2025, la sezione tributaria della Cassazione ha stabilito un principio rilevante per le famiglie separate: il genitore affidatario può continuare a beneficiare della detrazione fiscale per i figli a carico anche dopo il compimento del diciottesimo anno di età del figlio, nella stessa misura prevista durante la minore età, senza necessità di stipulare un nuovo accordo con l’altro genitore.

Cartella esattoriale per detrazione “non condivisa”

Una madre, affidataria esclusiva dei figli, aveva fruito per intero della detrazione fiscale nella dichiarazione dei redditi, anche dopo che i figli avevano raggiunto la maggiore età. L’Agenzia delle Entrate le aveva contestato la mancata ripartizione del beneficio con l’ex coniuge, notificandole una cartella esattoriale da oltre mille euro.

La Commissione Tributaria Provinciale le aveva dato ragione, ma in appello la Commissione Tributaria Regionale del Lazio aveva ribaltato il verdetto, affermando che – con la maggiore età dei figli – era necessario un nuovo accordo tra gli ex coniugi per regolare le detrazioni. La madre ha quindi presentato ricorso in Cassazione.

Nessuna norma impone un nuovo accordo

La Corte ha accolto il ricorso, censurando la tesi dell’Agenzia delle Entrate e della CTR. I giudici hanno chiarito che non esiste alcuna disposizione di legge che richieda un accordo tra genitori separati per continuare a fruire della detrazione al compimento della maggiore età del figlio.

Anzi, la Cassazione ha richiamato la prassi amministrativa della stessa Agenzia delle Entrate, la quale – con la circolare n. 15/E del 2007 e la successiva n. 34/E del 2008 – aveva già affermato che, in assenza di un diverso accordo, le detrazioni restano ripartite come in precedenza.

Detrazione per figli a carico: il principio della Cassazione

La Suprema Corte ha enunciato con chiarezza il seguente principio di diritto: “La detrazione fiscale per i figli a carico, prevista dall’art. 12, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, è riconosciuta ai genitori, legalmente separati o divorziati, nella medesima misura in cui era ripartita nel periodo della minore età del figlio, quando quest’ultimo raggiunge la maggiore età, senza che sia necessario un accordo in tal senso tra i genitori”.

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dolo o colpa grave

Avvocati responsabili solo per dolo o colpa grave Approvata in Commissione Giustizia al Senato, la proposta di legge n. 745 che intende limitare la responsabilità civile degli avvocati: ora si attende la discussione in Aula

Responsabilità avvocati: la proposta di legge

Gli avvocati potrebbero presto rispondere civilmente solo in caso di dolo o colpa grave. È quanto prevede la proposta di legge n. 745, che ha ricevuto nei giorni scorsi il via libera dalla Commissione Giustizia del Senato e che ora attende la calendarizzazione in Aula, con possibile discussione prima della pausa estiva.

Il testo, presentato due anni fa dal senatore Pierantonio Zanettin (Forza Italia) e sostenuto dall’associazione Italia Stato di diritto, mira a modificare la legge professionale forense (legge n. 247/2012), introducendo un principio di limitazione della responsabilità degli avvocati che li equiparerebbe, almeno sotto questo profilo, ai magistrati.

Responsabilità ridotta come per i magistrati

Il cuore della proposta consiste nell’escludere la responsabilità civile dell’avvocato per colpa lieve e nelle ipotesi di errore interpretativo di norme, prevedendo invece la possibilità di azione risarcitoria solo nei casi di dolo o colpa grave.

Un modello ispirato alla disciplina già vigente per i magistrati, contenuta nella legge n. 117/1988, che consente di agire per danni solo in presenza di dolo o colpa grave, escludendo espressamente la responsabilità per l’attività interpretativa o valutativa. L’obiettivo dichiarato è dunque quello di riconoscere agli avvocati una tutela simile a quella dei giudici, considerando la complessità e l’alto rischio interpretativo insito nell’attività forense.

La normativa attuale

Attualmente, la legge 247/2012 non contiene disposizioni esplicite sulla responsabilità civile degli avvocati, lasciando il tema alla giurisprudenza, che ha delineato negli anni un quadro fondato sull’obbligo di diligenza professionale ex art. 1176, comma 2, c.c. L’avvocato, in quanto professionista, è tenuto a un comportamento conforme allo standard medio della categoria, con possibilità di risarcimento del danno anche per colpa lieve.

La proposta in esame andrebbe dunque a introdurre un limite normativo esplicito, riducendo sensibilmente il rischio di azioni giudiziarie contro i legali per scelte professionali non viziate da dolo o grave negligenza.

Le ragioni della riforma

Nella relazione illustrativa allegata al disegno di legge si sottolinea l’esigenza di garantire agli avvocati un margine di autonomia e sicurezza operativa, anche in funzione del ruolo costituzionalmente riconosciuto della difesa.

Viene segnalato, infatti, un aumento delle azioni civili promosse da clienti contro i propri legali, anche in relazione a decisioni processuali negative, come l’inammissibilità di ricorsi in Cassazione. In assenza di una tutela normativa specifica, il rischio è che l’avvocato si trovi esposto a responsabilità anche per scelte interpretative o strategiche ragionevoli, con effetti paralizzanti sulla libertà e indipendenza del mandato difensivo.

mantenimento dei figli maggiorenni

Mantenimento dei figli maggiorenni: il parziale adempimento è reato La Cassazione chiarisce che l'adempimento parziale dell'obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni è reato

Omesso mantenimento figli maggiorenni reato

Con la sentenza n. 15264/2025, la sesta sezione penale della Corte di Cassazione ha affrontato un tema di rilievo in materia di violazione degli obblighi di assistenza familiare ex art. 570, comma 2, n. 2, c.p., chiarendo un punto controverso riguardante il mantenimento dei figli maggiorenni.

La Corte ha statuito che l’adempimento solo parziale dell’obbligo di mantenimento non esclude la responsabilità penale, neppure quando i figli beneficiari siano divenuti maggiorenni, salvo che non sia comprovato uno stato di necessità, la cui valutazione, tuttavia, segue criteri diversi rispetto ai casi in cui il mantenuto sia minorenne.

Il fatto

Il procedimento trae origine dalla condanna inflitta a un padre per omesso versamento dell’assegno di mantenimento in favore della figlia, divenuta nel frattempo maggiorenne ma ancora non economicamente autosufficiente, in quanto impegnata in un regolare corso di studi universitari.

L’uomo si era difeso sostenendo di aver eseguito solo versamenti parziali a causa di gravi difficoltà economiche, legate alla perdita del lavoro e alla sopravvenienza di nuovi oneri familiari. Aveva quindi chiesto l’assoluzione per carenza dell’elemento soggettivo del reato, invocando lo stato di necessità.

Il principio affermato dalla Cassazione

La Corte ha confermato la condanna e ha affermato un principio di diritto destinato ad orientare futuri giudizi in casi analoghi:

“In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, l’adempimento solo parziale dell’obbligo di mantenimento in favore del figlio maggiorenne non esclude la configurabilità del reato di cui all’art. 570, comma 2, n. 2, c.p., anche se la condotta è determinata da difficoltà economiche, salvo che queste integrino un vero e proprio stato di necessità penalmente rilevante.”

In sostanza, non basta addurre genericamente problemi economici per escludere la punibilità, se i versamenti sono stati inferiori a quanto stabilito dal giudice. La Corte distingue chiaramente tra:

  • Figli minorenni, per i quali il giustificato stato di necessità può escludere l’elemento soggettivo del reato, purché provato.
  • Figli maggiorenni non autosufficienti, per i quali il debitore deve dimostrare compiutamente che l’inadempimento era assolutamente inevitabile, non potendo in alcun modo adempiere.

Le motivazioni

La Corte richiama precedenti conformi e ribadisce che il mantenimento è un obbligo legale, non una prestazione facoltativa, e che la maggiore età del figlio non lo fa venir meno, se il beneficiario non ha ancora raggiunto una indipendenza economica. Come precisato in motivazione:

“La responsabilità genitoriale non si esaurisce con il compimento del diciottesimo anno di età, ma persiste in relazione alle condizioni oggettive del figlio. Il debitore non può arbitrariamente ridurre quanto dovuto, né invocare mere difficoltà finanziarie senza dimostrare l’assoluta impossibilità di adempiere.”

Il parziale adempimento, se volontario e non accompagnato da iniziative giudiziali per la modifica dell’importo (es. ricorso ex art. 710 c.p.c.), non ha effetto scriminante, ma anzi può integrare gli estremi del reato se produce una situazione di effettiva privazione per il figlio.

Figlio maggiorenne e autosufficienza

Un altro passaggio chiave della sentenza riguarda la condizione del figlio:

“L’obbligo di mantenimento permane finché il figlio non abbia raggiunto una effettiva e stabile indipendenza economica. L’onere della prova su tale condizione spetta al genitore obbligato.”

Nel caso concreto, la figlia risultava ancora iscritta all’università, priva di redditi, e residente con la madre. L’uomo, pur lavorando saltuariamente, non aveva dimostrato di trovarsi in stato di indigenza assoluta né aveva attivato strumenti legali per modificare il quantum dovuto.

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dl sicurezza

Dl Sicurezza: legge in vigore Pubblicata in Gazzetta Ufficiale e in vigore dal 10 giugno la legge di conversione del dl sicurezza: nuovi reati, pene più dure per violenze a pubblici ufficiali, stretta su cannabis light e occupazioni abusive

Legge sicurezza: 14 nuovi reati

E’ stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale, per entrare in vigore dal 10 giugno 2025, la legge n. 80/2025 di conversione del dl sicurezza, approvata definitivamente nei giorni scorsi dal Senato, nel testo identico a quello licenziato dalla Camera e originariamente approvato dal Consiglio dei Ministri il 4 aprile 2025 (ricalcando in buona parte il testo originario del ddl sicurezza su cui c’erano stati anche i rilievi del Colle).

La nuova legge “recante disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonchè di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario” introduce importanti novità normative, tra cui 14 nuove fattispecie di reato e diverse circostanze aggravanti, oltre a toccare temi come occupazioni abusive, ordine pubblico, cannabis light e tutela delle forze dell’ordine.

Nuovi reati contro la sicurezza e il terrorismo

La legge 80 introduce nuove figure criminose, come:

  • Detenzione di materiale con finalità di terrorismo (reclusione da 2 a 6 anni);

  • Diffusione telematica di istruzioni per atti violenti o sabotaggi (nuovo art. 270-quinquies.3 c.p.).

Estensione delle misure antimafia

Le verifiche antimafia si applicano anche alle imprese che aderiscono a contratti di rete. Inoltre, viene limitato il potere del prefetto di sospendere autonomamente alcuni effetti interdittivi per garantire i mezzi di sostentamento ai familiari del destinatario.

Contrasto all’usura e sostegno economico

L’art. 33 prevede il supporto di esperti incaricati per gli operatori economici vittime di usura, beneficiari di mutui agevolati (art. 14, legge n. 108/1996), con l’obiettivo di facilitarne il reinserimento nel circuito economico legale.

Reato di occupazione arbitraria di immobile

Viene istituito il reato specifico di occupazione arbitraria, con possibilità per la polizia giudiziaria di disporre il rilascio immediato dell’immobile, anche senza provvedimento del giudice, in caso di occupazioni illecite.

Maggiori tutele per forze dell’ordine

La legge:

  • Aggrava le pene per lesioni, violenza e resistenza a pubblico ufficiale;

  • Introduce aggravanti per atti commessi contro agenti di polizia giudiziaria o per impedire la realizzazione di infrastrutture (cd. “norma anti no-Tav/no-Ponte”);

  • Prevede l’uso di bodycam e videosorveglianza nei servizi di ordine pubblico e nei luoghi di detenzione;

  • Destina fino a 10.000 euro a copertura delle spese legali per agenti coinvolti in procedimenti penali connessi al servizio.

Nuovo reato di rivolta in carcere e nei Cpr

Si introduce il reato di rivolta in istituto penitenziario o centro per rimpatri (Cpr), con pene:

  • Da 1 a 5 anni per chi partecipa con violenza o minaccia;

  • Fino a 18 anni in caso di morte o lesioni gravi.

Misure contro blocchi stradali e proteste violente

Tra le novità:

  • Reato per chi impedisce la libera circolazione su strade e ferrovie (già illecito amministrativo);

  • Estensione del Daspo urbano per reati commessi in aree sensibili;

  • Aggravanti per reati gravi commessi presso stazioni, metropolitane o convogli;

  • Arresto in flagranza differita per lesioni a pubblici ufficiali durante manifestazioni.

Pene più severe per truffe e accattonaggio

Viene:

  • Inasprita la repressione dell’accattonaggio con impiego di minori;

  • Introdotta una nuova aggravante per truffe agli anziani, punita con reclusione da 2 a 6 anni e multa fino a 3.000 euro.

Stop alla cannabis light

La legge vieta ogni forma di:

  • Commercio, distribuzione, trasporto, invio e consegna delle infiorescenze di canapa, anche se semilavorate, essiccate o triturate;

  • Prodotti derivati (estratti, oli, resine), indipendentemente dal contenuto di THC.

Nuove disposizioni sulla pena per le detenute madri

Si supera il rinvio automatico della pena per le donne incinte o madri, che viene ora valutato caso per caso, soprattutto quando vi sia rischio concreto di reiterazione. Si distingue il trattamento per:

  • Figli fino a 1 anno di età;

  • Figli da 1 a 3 anni, con modalità differenziate nell’esecuzione.

 

Leggi anche: Ddl Sicurezza: dall’UE l’invito a modificare il testo e Cannabis light: il ddl sicurezza la vieta

lavoro pesante

Il lavoro pesante non è mobbing La Cassazione chiarisce che la mole di lavoro, anche intensa, non costituisce mobbing se rientra nei doveri noti del lavoratore

Mole di lavoro e mobbing

Il lavoro pesante non è mobbing. Con l’ordinanza n. 14890/2025, la sezione lavoro della Corte di Cassazione ha stabilito che la gravosità delle mansioni assegnate a un lavoratore non integra automaticamente una condotta di mobbing o straining da parte del datore di lavoro, specialmente quando tali compiti rientrano nei doveri tipici della posizione ricoperta e sono noti al prestatore sin dall’instaurazione del rapporto.

Secondo i giudici di legittimità, è legittimo che un superiore imponga un’intensificazione dell’attività lavorativa se ciò è funzionale al perseguimento di obiettivi aziendali prefissati, a condizione che tale condotta non si traduca in atti persecutori, discriminatori o lesivi della dignità personale del dipendente.

Il potere direttivo non è di per sé abusivo

Nel caso esaminato, la Corte ha condiviso le conclusioni dei giudici di merito, che avevano rigettato le accuse di mobbing e straining mosse dal lavoratore. È stato affermato che l’organizzazione del lavoro, incluse le direttive impartite gerarchicamente, rientrava nell’alveo del potere organizzativo e direttivo del datore, esercitato in funzione dell’efficienza aziendale, senza intenti vessatori.

Tale orientamento conferma che il semplice disagio o affaticamento, anche significativo, non è sufficiente a integrare una condotta antigiuridica in assenza di specifici atti ritorsivi o di sistematica emarginazione.

L’onere della prova grava sul lavoratore

La Suprema Corte ha inoltre ribadito un principio cardine in materia di responsabilità datoriale: è il lavoratore che lamenta un danno alla salute a dover fornire la prova del pregiudizio subito, della nocività dell’ambiente di lavoro e del nesso causale tra tali elementi.

Solo al ricorrere di tale presupposto scatta in capo al datore l’obbligo di dimostrare di aver adottato tutte le misure prevenzionistiche idonee a tutelare l’integrità psico-fisica del dipendente, ai sensi dell’art. 2087 c.c.

Nel caso in oggetto, tuttavia, il dipendente si è limitato a dedurre genericamente la sussistenza di un ambiente stressogeno, senza allegare né documentare elementi concreti e specifici a sostegno delle proprie doglianze. Ciò ha comportato il rigetto delle sue istanze in tutte le sedi di giudizio.

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cartellino senza prezzo

Cartellino senza prezzo? Scatta la sanzione La Cassazione conferma l'obbligo di esposizione chiara e leggibile del prezzo di vendita nel cartellino

Prezzo non visibile nel cartellino

Cartellino senza prezzo: una griffe della moda è stata sanzionata per aver nascosto i cartellini del prezzo all’interno dei capi esposti. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14826/2025, ha confermato che il prezzo di vendita deve essere sempre chiaramente visibile, a tutela del consumatore. L’informazione deve essere trasparente, accessibile e immediatamente percepibile, anche nei settori di lusso.

Il caso: cartellino senza prezzo

La vicenda trae origine da un verbale redatto dalla Guardia di Finanza, che aveva accertato l’assenza di indicazioni chiare sul prezzo di prodotti in vendita presso una nota boutique. I cartellini erano presenti, ma nascosti all’interno delle tasche dei vestiti o chiusi nelle borse. L’autorità comunale aveva inflitto una sanzione amministrativa da 1.032 euro, poi confermata in sede giudiziaria.

In primo grado, il Giudice di pace di Ferrara aveva accolto l’opposizione della maison, ritenendo sufficiente la presenza del cartellino anche se non visibile esternamente. Ma il Tribunale e poi la Cassazione hanno ribaltato il verdetto.

Visibilità e leggibilità requisiti inscindibili

Secondo la Seconda sezione civile della Corte, il cartellino del prezzo non deve solo esistere, ma anche essere posizionato in modo tale da risultare immediatamente visibile. La Corte ha chiarito che, sebbene “visibilità” e “leggibilità” non siano sinonimi, la chiara leggibilità imposta dall’art. 14 del D.lgs. 114/1998 comporta necessariamente anche una facile visibilità da parte del pubblico.

Un cartellino posto all’interno di un prodotto o nascosto tra le pieghe non risponde a tale requisito, violando così le disposizioni sul commercio al dettaglio.

La regola vale anche per il self-service

Particolare rilievo viene dato dalla Corte alla disposizione contenuta nel terzo comma dell’art. 14, che disciplina la vendita a libero servizio: in questi casi, l’esposizione del prezzo deve garantire una immediata percezione visiva da parte del consumatore. Da ciò discende che, se la visibilità è richiesta anche dove il cliente può manipolare il prodotto, a maggior ragione è necessaria nei casi in cui il contatto fisico con il bene non sia consentito.

Il precedente

La Corte ha richiamato un proprio orientamento consolidato con la sentenza n. 3115/2005, secondo cui un cartellino posto sotto l’oggetto in esposizione è da considerarsi “nascosto”. Anche se il prezzo è tecnicamente leggibile una volta individuato, non soddisfa l’obbligo normativo se non immediatamente visibile e riconducibile al prodotto esposto.

Trasparenza prezzi diritto del consumatore

Il principio espresso dalla Corte si inserisce nel solco della normativa italiana ed europea che mira alla tutela della trasparenza informativa nei rapporti di consumo. Il commerciante non può scegliere discrezionalmente dove collocare il prezzo, soprattutto se tale scelta comporta difficoltà per il cliente nel conoscere il costo del prodotto.

La Corte ha respinto anche l’argomento della maison, secondo cui nel settore moda la visibilità del prezzo sarebbe “non rilevante” rispetto a brand, allestimento e qualità del servizio: la normativa sul commercio non prevede deroghe per il lusso.

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cellulare protetto

Reato rubare messaggi WhatsApp da cellulare protetto Per la Cassazione l'accesso a WhatsApp da un cellulare protetto da password integra il reato di accesso abusivo a sistema informatico

Rubare messaggi WhatsApp da cellulare protetto

Rubare messaggi da cellulare protetto: con la sentenza n. 19421/2025, la Corte di cassazione ha chiarito che WhatsApp è a tutti gli effetti un sistema informatico protetto. Di conseguenza, accedervi abusivamente, anche solo per estrarre messaggi da utilizzare in giudizio, integra il reato previsto dall’articolo 615-ter del codice penale, punito con la reclusione fino a dieci anni nei casi più gravi.

Il principio assume particolare rilievo in un contesto in cui le chat private vengono spesso utilizzate come prova in ambito familiare, ad esempio nei giudizi di separazione o di addebito.

Il caso: accesso abusivo al telefono dell’ex moglie

Nel caso esaminato dalla Suprema Corte, l’imputato si era impossessato del telefono cellulare della ex moglie, dispositivo protetto da password, ed era riuscito a estrarre alcuni messaggi WhatsApp scambiati con un’altra persona. Successivamente, aveva consegnato quei messaggi al proprio avvocato, con l’obiettivo di utilizzarli nel giudizio di separazione.

Nonostante la Corte d’appello avesse ridotto la pena inflitta, è stata comunque confermata la responsabilità dell’imputato per i reati di accesso abusivo a sistema informatico (art. 615-ter c.p.), violenza privata (art. 610 c.p.) e concorso formale di reati (art. 81 c.p.).

La motivazione

Secondo i giudici, la condotta dell’imputato ha violato il “domicilio informatico” della persona offesa, ossia quello spazio digitale tutelato dalla legge come estensione del domicilio fisico (ai sensi dell’art. 14 della Costituzione). Il dispositivo era nella esclusiva disponibilità della donna ed era protetto da password, a conferma della volontà di escludere terzi dall’accesso ai suoi dati personali.

Il reato di cui all’art. 615-ter c.p., introdotto dalla legge 547/1993, punisce chiunque si introduce abusivamente o si mantiene all’interno di un sistema informatico o telematico contro la volontà dell’avente diritto, proteggendo la riservatezza dei dati personali e la sicurezza delle informazioni digitali.

Anche WhatsApp è sistema informatico protetto

La Cassazione ha ritenuto che l’applicazione WhatsApp rientra nella nozione di sistema informatico, poiché combina componenti software, hardware e reti telematiche per consentire lo scambio di messaggi, immagini e video.

Come già chiarito in giurisprudenza in merito alle caselle e-mail, anche uno spazio di memoria protetto da password, come quello di WhatsApp, rappresenta una porzione riservata del sistema informatico, il cui accesso indebito costituisce un illecito penale.

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