autovelox mobile

Autovelox mobile segnalato da cartello “fisso”: multa valida Autovelox mobile: legittima la multa anche se l'apparecchio di rilevazione della velocità è segnalato la un cartello fisso

Autovelox mobile segnalato da cartello fisso

È legittima la multa elevata tramite una postazione autovelox mobile segnalata unicamente con un cartello “fisso”. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2857/2025.

La legge non richiede l’uso di cartelli mobili per segnalare le postazioni mobili di controllo della velocità. È sufficiente che la postazione sia segnalata in modo chiaro e visibile. Non importa che il cartello sia fisso o mobile.

Superamento limiti velocità: multa contestata

Un conducente riceve un verbale di contestazione per il superamento dei limiti di velocità. Per questa violazione gli viene   irrogata una multa di 1.658,00 euro, decurtati 10 punti dalla patente con sospensione della stessa per sei mesi.

Tra le ragioni del ricorso per la contestazione del verbale figura la segnalazione non adeguata dell’apparecchio con cartelli mobili, nel rispetto del Dm 13 giugno 2017. Dal verbale inoltre non risultano la tipologia del dispositivo utilizzato (fisso o mobile), i dati dell’omologazione ministeriale, i riferimenti alla taratura e alle prescritte verifiche periodiche per accertare la funzionalità dell’apparecchio. La Prefettura nel resistere al ricorso afferma il corretto allestimento della postazione di controllo e la regolarità dei risultati degli apparecchi di rilevazione della velocità.

Legittima la segnalazione permanente

Il Giudice di pace rigetta il ricorso del conducente precisando che “la presegnalazione del dispositivo di rilevazione della velocità poteva legittimamente essere effettuata alternativamente con segnaletica temporanea o permanente.”

Il conducente impugna la decisione davanti al Tribunale competente. Questa autorità giudiziaria, nella sua qualità di giudice dell’appello conferma la sentenza impugnata e la conseguente legittimità della rilevazione e della multa irrogata. Il conducente però non si arrende e ricorre in Cassazione.

Autovelox mobile: con cartello fisso la multa è legittima

La Suprema Corte però boccia tutti i motivi del ricorse. Per quanto riguarda poi nello specifico la  contestazione sulla validità della postazione mobile di controllo della velocità con cartello fisso gli Ermellini precisano che la legge italiana non impone che la postazione mobile per il rilevamento della velocità debba essere obbligatoriamente segnalata tramite cartelli mobili. L’importante è che gli automobilisti siano avvisati della possibilità di controlli della velocità in un determinato tratto di strada.

Questa funzione di avviso può essere svolta da qualsiasi tipo di cartello, sia fisso che mobile, senza alcuna distinzione. Questo significa che per legge, non è obbligatorio l’utilizzo di un cartello mobile per segnalare la presenza di una postazione di controllo della velocità.La funzione di avviso può essere assolta da qualsiasi cartello, sia fisso che mobile. L’importante è che il cartello sia ben visibile e che avvisi gli automobilisti della possibilità di controlli della velocità indipendentemente dal tipo di postazione (fissa o mobile), è fondamentale che sia adeguatamente segnalata e ben visibile.

 

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legge 104

Legge 104: l’uso distorto dei permessi porta al licenziamento Legge 104: i permessi previsti per l’assistenza al familiare disabile non possono essere usati per svolgere attività personali

Permessi legge 104: servono per assistere disabile

Le legge 104 prevede la possibilità per il dipendente di chiedere permessi dal lavoro per assistere familiari disabili. Spesso però la giurisprudenza ci mette a conoscenza di vicende da cui emerge un uso distorto di questi permessi. Di recente tre sentenze della Corte di Cassazione si sono espresse nel senso di ritenere legittimo il licenziamento del lavoratore per l’uso distorto dei permessi 104. Questi permessi infatti possono essere usufruiti solo per dare assistenza al parente disabile e non per svolgere attività personali. Un utilizzo di questo genere rappresenta un vero e proprio abuso della misura.

Permessi legge 104 per andare in bici: ok licenziamento

La sentenza della Cassazione n. 2157/2025 precisa che per la giurisprudenza di legittimità è pacifico ritenere che l’utilizzo dei permessi 104 da parte del lavoratore per svolgere attività diverse dall’assistenza del familiare, costituisca una giusta causa di licenziamento. L’assenza dal lavoro in virtù del permesso 104 deve essere direttamente collegata allassistenza del disabile, senza poter essere utilizzata per altri scopi. Il beneficio, che comporta sacrifici organizzativi per il datore di lavoro, è giustificato solo se risponde a esigenze tutelate dalla legge. Se manca il nesso causale tra assenza e assistenza, l’uso del permesso è improprio o abusivo, configurando una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede verso il datore di lavoro e l’Ente assicurativo. Nel caso di specie la Cassazione ha rigettato il ricorso del lavoratore contro la sentenza d’appello, che ha confermato la legittimità del licenziamento irrogato. La Corte di merito ha infatti rilevato che il lavoratore ha sistematicamente e preordinatamene occupato gli orari destinati al permesso 104 per andare a correre in bicicletta.

Permessi 104 per attività personali: sì licenziamento

La vicenda di cui si è occupata la Cassazione nella sentenza n. 2586/2025 riguarda invece un caso di licenziamento di una dipendente, che invece di assistere il nonno grazie ai permessi 104, ha pensato bene di usare quel tempo per fare acquisti, farsi riparare l’auto. Non è valso a nulla il tentativo di dimostrare che tutte le commissioni erano in realtà collegate al nonno. Sulla decisione finale hanno pesato le osservazioni della Corte di merito sulla giusta causa del licenziamento. La stessa ha infatti affermato che “la condotta tenuta dalla lavoratrice si configura di gravità tale da giustificare il licenziamento atteso che, per quanto emerso, la medesima nell’arco temporale in cui, anziché lavorare, avrebbe dovuto dedicarsi alla cura del familiare in qualità di titolare dei permessi ex L. n. 104/92, ha svolto per la quasi totalità del periodo incombenze legate a  esigenze di carattere esclusivamente personale con conseguente sussistenza di uno scostamento rilevantissimo  tra il comportamento tenuto e la finalità di assistenza dei permessi”. 

Permessi legge 104 per campionato FootGolf

La Cassazione n. 2619/2025 ha confermato invece il licenziamento del lavoratore che ha richiesto il permesso 104 per partecipare al campionato di Foot Golf. Il fatto che la disabile da assistere, zia del lavoratore fosse presente presso il centro in cui si è svolta la gara non ha inciso “sulla configurabilità dello sviamento dalla funzione propria del beneficio essendo emerso che tale permesso non era stato chiesto dal lavoratore per garantire assistenza alla familiare disabile ma nel proprio interesse, onde consentirgli di partecipare al campionato di FootGolf. Pur volendo ammettere che l’assistenza al disabile possa estrinsecarsi in attività riconducibili alla mera presenza ovvero ai normali rapporti familiari, comunque il lavoratore non aveva svolto integralmente l’attività di assistenza nelle ore del permesso, essendo in parte stato impegnato nella gara.” Se l’assenza dal lavoro non è finalizzata all’assistenza del disabile, l’uso del permesso risulta improprio o abusivo. Il dipendente che sfrutta il permesso per scopi diversi viola la buona fede nei confronti del datore di lavoro, privandolo ingiustamente della prestazione. Inoltre, nei confronti dell’Ente previdenziale, tale condotta comporta un’indebita percezione dell’indennità e un uso distorto dell’assistenza prevista dalla legge.

 

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rubare per fame

Rubare per fame è sempre furto In presenza di una situazione di indilazionabile necessità può scattare l'ipotesi del furto lieve per bisogno

Furto lieve per bisogno

Rubare per fame è sempre furto, anche se commesso da un senzatetto per bisogno e se i beni sottratti sono di basso valore e servono a soddisfare un bisogno urgente, ossia come nella fattispecie, procurarsi del cibo per sopravvivere. Tuttavia, può scattare l’ipotesi del furto lieve in presenza di una situazione di indilazionabile necessità. Lo ha chiarito la quarta sezione penale della Cassazione, con sentenza n. 40685/2024.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte d’Appello di Milano, confermava la sentenza emessa dal Tribunale di Monza, che, riconosciute le attenuanti generiche ritenute equivalenti alla contestata recidiva, aveva condannato una senzatetto alla pena di mesi quattro di reclusione ed €.100,00 di multa per il reato di tentato furto di 4 pezzi di parmigiano, 3 pezzi di soppressa veneta, una confezione di bastoncini di cotone e una confezione di detersivo liquido, furto commesso all’interno di un supermercato.

La Corte territoriale aveva disatteso i motivi di gravame, confermando la valutazione del primo giudice quanto alla ritenuta inconfigurabilità dello stato di necessità e dell’ipotesi lieve di furto per bisogno, di cui all’art. 626 n. 2 cod pen.

Il ricorso

L’imputata adiva il Palazzaccio lamentando innanzitutto violazione di legge e vizio di motivazione ex art. 606, lett. b) ed e) cod.proc.pen, in relazione all’art. 54 cod. pen. poichè la Corte non aveva valutato le oggettive circostanze del fatto, e in particolare le sue condizioni. La donna era stata descritta dagli inquirenti come malnutrita ed estremamente debole; elemento confermato dalle risultanze della annotazione di servizio in cui dava atto che gli stessi operanti avevano provveduto all’acquisto di pane presso il supermercato per sfamarla.

Inoltre, si doleva di illogica ed errata argomentazione resa dalla Corte di merito, secondo cui il cibo che aveva tentato di sottrarre non era di eseguo valore né sussisteva lo stato di bisogno, potendo la stessa rivolgersi ad enti assistenziali: era infatti emerso che l’imputata è una senzatetto e la merce sottratta, per sua natura scarsamente deperibile, le avrebbe permesso di sostentarsi vivendo per strada; né era possibile discriminare, sotto il profilo del bisogno, tra chi asporta dal supermercato cibi più economici e chi cibi più costosi.

Lo stato di necessità

I giudici della S.C., quanto alla prima doglianza, convengono però con quelli di merito, nelle cui decisioni si è esclusa la sussistenza di una situazione di vera e propria costrizione, dovuta al pericolo attuale di un danno grave alla persona, non volontariamente causato e non altrimenti evitabile (ciò che avrebbe scriminato l’azione: art. 54 cod. pen.), mentre si è ritenuto sussistente un generale stato di indigenza e condizioni di salute della donna tali da rendere difficile provvedere agli elementari bisogni di vita ma, comunque, stimando evitabile l’azione furtiva (qualificando conseguentemente l’agire ex art. 626, comma 1, num. 2,cod. pen).

Per la S.C. dunque non trova applicazione la scriminante dello stato di necessità, che postula il pericolo attuale di un danno grave alla persona, non volontariamente causato e non altrimenti fronteggiabile (cfr anche Sez. 3, n. 35590 del 11/05/2016, Mbaye, Rv. 267640 – 01); mentre configura il delitto di furto lieve per bisogno, di cui all’art. 626, comma primo, n. 2, cod. pen., la condotta del soggetto malnutrito e in generale stato di indigenza che si impossessi di generi alimentari di ridotto valore economico.
Nella vicenda, non ricorrono, secondo piazza Cavour, i presupposti della inevitabilità del pericolo e della sua involontaria causazione, non potendosi sovrapporre, come rilevato dalla Corte territoriale, uno stato di bisogno determinato dalle condizioni di indigenza e di assenza di stabile dimora con i precisi requisiti di cui all’art. 54 cod pen.

Riconoscimento del furto lieve per bisogno

Fondato invece il motivo sul mancato riconoscimento del furto lieve per bisogno che, secondo il consolidato orientamento di legittimità, proseguono i giudici, “è configurabile nei casi in cui la cosa sottratta sia di tenue valore e sia effettivamente destinata a soddisfare un grave ed urgente bisogno; ne consegue che, per far degradare l’imputazione da furto comune a furto lieve, non è sufficiente la sussistenza di un generico stato di bisogno o di miseria del colpevole, occorrendo, invece, una situazione di grave ed indilazionabile bisogno alla quale non possa provvedersi se non sottraendo la cosa (Sez. 5, n.32937del 19/05/2014, Rv. 261658, Sez. 2, n.42375 del 05/10/2012)”.
Nel caso in esame la ricorrente ha allegato elementi dai quali risulta il grave stato di
malnutrizione ed estrema debolezza tali da poter essere valutati come situazione di indilazionabile bisogno di provvedere a nutrirsi e la Corte milanese non ha argomentato in ordine a tali elementi di fatto ed ha svolto considerazioni di carattere congetturale, quali il fatto che la merce, di valore di poco superiore ai 100 euro, fosse destinata ad essere rivenduta, non per sfamarsi e lavarsi, ma per trarne guadagno.

Da qui l’annullamento della sentenza con rinvio per nuovo esame.

 

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cancellazione sospesa

Cancellazione sospesa per l’avvocato che ha cause di valore Cancellazione sospesa dalla sezione degli avvocati stabiliti per il legale che deve riassumere cause appese di ingente valore

Cancellazione sospesa per l’avvocato

Cancellazione sospesa per l’avvocato che deve riassume perentoriamente cause di ingente valore entro il 31 gennaio 2025. Lo hanno deciso le Sezioni Unite della Cassazione con l’ordinanza interlocutoria n. 1899/2025. La prova dei giudizi pendenti e la richiesta del PM di accogliere le richieste dell’avvocato hanno convinto le SU ad accogliere le richieste del legale. Sospesa pertanto l’esecuzione della sentenza con cui il CNF ha disposto la cancellazione del legale dalla sezione speciale degli avvocati stabiliti.

Richiesta di sospensione della cancellazione dall’albo

Un avvocato ha presentato ricorso in Cassazione contro il provvedimento del Consiglio Nazionale Forense (CNF) che ha disposto la sua cancellazione dalla sezione speciale dell’albo degli avvocati stabiliti. La motivazione della cancellazione risiedeva nell’assenza del titolo di studio necessario. Tuttavia, il legale ha chiesto anche la sospensione dell’esecuzione della decisione, sottolineando un aspetto cruciale: deve riassumere urgentemente alcune cause di ingente valore economico entro il termine perentorio del 31 gennaio 2025. Un eventuale ritardo potrebbe compromettere il corretto svolgimento dei processi e arrecare danni ai clienti coinvolti.

Cancellazione sospesa: avvocato può seguire giudizi pendenti

La Cassazione ha esaminato la richiesta e ha accolto l’istanza del ricorrente, sospendendo l’esecuzione della sentenza del CNF. La decisione è motivata da due elementi principali.

  • In primo luogo, l’avvocato ha fornito prove concrete dell’esistenza di procedimenti in corso di rilevante importanza economica, per i quali è necessaria la sua immediata riassunzione.
  • In secondo luogo, il termine del 31 gennaio 2025 è perentorio e non prorogabile. La cancellazione dall’albo, infatti, ha comportato un’automatica interruzione dei processi in cui il legale era coinvolto, rendendo indispensabile la sua reintegrazione per garantire la continuità della difesa.

Un ulteriore elemento a sostegno della sospensione è la richiesta del Pubblico Ministero, che ha espresso parere favorevole all’accoglimento del ricorso dell’avvocato. La Cassazione, pur sospendendo l’esecuzione della decisione del CNF, ha chiarito che la questione principale resta aperta: dovrà essere esaminata nel merito ogni singola motivazione dell’impugnazione presentata dal legale. La decisione definitiva sulla validità della cancellazione sarà dunque presa successivamente, ma nel frattempo l’avvocato potrà continuare ad esercitare la professione e adempiere agli obblighi processuali urgenti.

 

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rifiuto rapporti sessuali

Rifiuto rapporti sessuali: addebito del divorzio contrario alla CEDU Rifiuto rapporti sessuali: contrasta con il rispetto della vita privata ritenerlo causa di addebito del divorzio

Rifiuto rapporti sessuali nel vincolo matrimoniale

Rifiuto rapporti sessuali e addebito del divorzio. La sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 23 gennaio 2025 affronta il tema del dovere coniugale di intrattenere rapporti sessuali e dei riflessi giuridici per il coniuge che non lo rispetta. La decisione a cui giunge la Corte riconosce il diritto di ogni individuo di scegliere se avere o meno rapporti sessuali, anche all’interno del matrimonio. Il consenso, ha ribadito la Corte, è un elemento imprescindibile per la libertà sessuale e qualsiasi atto sessuale non consensuale costituisce violenza. I giudici sono chiamati a interpretare le norme sui diritti e doveri coniugali in linea con il rispetto della vita privata e della libertà sessuale di ciascun coniuge.

Rifiuto rapporti sessuali: divorzio addebitato alla moglie

La sentenza pone fine a una vicenda che vede protagonista una coppia francese in crisi matrimoniale. L’autorità giudiziaria competente addebita il divorzio alla moglie, ritenuta responsabile di aver interrotto i rapporti intimi con il marito per oltre dieci anni. La Corte d’Appello di Versailles ha ritenuto questo rifiuto una violazione grave e ripetuta dei doveri matrimoniali, rendendo intollerabile la vita comune. La donna però ha impugnato la decisione fino alla Corte di Cassazione, che ha respinto il ricorso. A quel punto, la parte soccombente ha adito la Corte Edu, affermando il suo diritto al rispetto della vita privata (articolo 8 Cedu), che la sentenza avrebbe violato.

Diritto francese: i rapporti sessuali sono un dovere coniugale

Il codice civile francese, così come quello italiano, prevede una serie di diritti e doveri derivanti dal matrimonio, tra cui la “comunione di vita”, spesso interpretata come “comunità di letto”. La giurisprudenza francese include tra i doveri coniugali anche quello di intrattenere rapporti sessuali, sanzionando la prolungata astensione dalle relazioni intime.

Vita privata comprende quella sessuale, serve consenso

La Corte Edu però ha accolto il ricorso della donna, rilevando una violazione dell’articolo 8 della Cedu da parte dell’ordinamento francese. La Corte ha sottolineato come la nozione di “vita privata” includa anche la vita sessuale e che, di conseguenza, qualsiasi ingerenza in tale ambito debba essere giustificata e proporzionata. Nel caso specifico, la Corte ha criticato l’approccio del diritto francese, che sanziona il rifiuto di rapporti sessuali all’interno del matrimonio. Un tale obbligo, secondo la Corte, è sproporzionato e contrario al principio per cui solo ragioni gravi possono giustificare ingerenze nella sfera sessuale.

La Corte ha inoltre evidenziato come il dovere coniugale, previsto dall’ordinamento francese, non tenga conto del consenso ai rapporti sessuali, elemento fondamentale per la libertà sessuale di ciascun individuo. Qualsiasi atto sessuale non consensuale, ha ricordato la Corte, costituisce violenza sessuale.

Cosa prevede l’ordinamento italiano

Anche l’ordinamento italiano, pur non prevedendo espressamente un obbligo di vita sessuale, include tale aspetto tra i doveri coniugali. Il rifiuto di intrattenere rapporti sessuali può essere sanzionato con l’addebito della separazione, come confermato da diverse sentenze della Cassazione.

Attenzione però, perché la sentenza della Corte Edu impone una nuova interpretazione delle norme che regolano i rapporti coniugali. I giudici dovranno quindi considerare la vita sessuale come un elemento importante della relazione, ma mai determinante per una pronuncia sanzionatoria nei confronti del coniuge che rifiuti il proprio consenso a rapporti sessuali.

 

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organismo incompetente mediazione

Organismo incompetente mediazione: l’accordo salva il giudizio Organismo incompetente mediazione: la domanda è improcedibile, solo se le parti si accordano per un’altra sede il giudizio è salvo

Organismo incompetente mediazione

La sentenza emessa dal Tribunale di Vasto, giudice Fabrizio Pasquale, l’11 dicembre 2024 ha dichiarato improcedibile la domanda di risarcimento danni presentata contro un geometra a causa dell’incompetenza territoriale dell’organismo di mediazione adito. Nel decidere la questione di rito il tribunale sottolinea l’importanza di rispettare i criteri di competenza territoriale nella scelta dellorganismo di mediazione, pena l’improcedibilità dell’azione giudiziale. L’attore, avendo presentato l’istanza a un organismo incompetente, ha visto infatti rigettata la propria richiesta senza poter entrare nel merito. Solo l’accordo tra le partirebbe potuto salvare il giudizio.

Richiesta risarcitoria per responsabilità professionale

L’attore ha convenuto in giudizio il geometra incaricato della redazione di un frazionamento catastale, ritenuto responsabile di errori tecnici che avrebbero causato lesito sfavorevole di un altro contenzioso civile in cui l’attore era coinvolto. In particolare, l’attore ha richiesto un risarcimento danni di 60.000 euro, sostenendo che la perizia errata del geometra avesse influenzato negativamente le decisioni nei giudizi civili contro altri eredi in una controversia possessoria. Il convenuto ha contestato ogni addebito, chiedendo il rigetto della domanda.

Eccezione di improcedibilità

Alla prima udienza il geometra ha sollevato uneccezione preliminare di improcedibilità della domanda, sostenendo che il tentativo di mediazione obbligatorio era stato svolto dinanzi a un organismo territorialmente incompetente, in violazione dell’art. 4, comma 1, del D.Lgs. n. 28/2010.

Il giudice ha quindi limitato il dibattito alla sola questione preliminare relativa alla validità della mediazione e ha fissato un’udienza per decidere su tale punto.

Competenza territoriale organismo di mediazione

Dalla documentazione è emerso che l’attore aveva avviato la mediazione presso lorganismo della Camera di Commercio di Chieti-Pescara, con sede a Pescara. Tuttavia, il giudice ha sottolineato che:

  • il foro competente per la controversia era il Tribunale di Vasto;
  • l’organismo di mediazione avrebbe dovuto avere una sede nel circondario del tribunale territorialmente competente;
  • il D.Lgs. n. 28/2010 prevede che la mediazione sia effettuata presso un organismo nel luogo del giudice territorialmente competente, salvo accordo tra le parti, che in questo caso non era stato raggiunto.

Ne è derivata la conclusione che la procedura di mediazione era stata svolta in violazione della legge e non poteva considerarsi valida ai fini della procedibilità della domanda.

Dichiarazione di improcedibilità: conseguenze

Secondo la giurisprudenza prevalente, la presentazione della domanda di mediazione a un organismo territorialmente incompetente comporta limprocedibilità dellazione giudiziale, poiché la condizione di procedibilità non può considerarsi soddisfatta.

Il Tribunale ha respinto le argomentazioni dellattore, il quale sosteneva che il giudice avrebbe dovuto concedere un termine per ripetere la mediazione. Infatti, con la Riforma Cartabia (D.Lgs. 149/2022), è stata abrogata la possibilità per il giudice di assegnare un nuovo termine per la mediazione in caso di irregolarità.

Il Tribunale di Vasto ha quindi deciso di dichiarare improcedibile la domanda dell’attore.

 

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omologazione e approvazione autovelox

Omologazione e approvazione autovelox: il ministero fa marcia indietro Omologazione e approvazione autovelox: la circolare del 23 gennaio 2025 equipara le due procedure suscitando non poche polemiche

Ministero dell’Interno: la circolare delle polemiche

La circolare del 23 gennaio 2025 su omologazione e approvazione autovelox del Ministero dell’interno, sta suscitando parecchie polemiche.

Il documento del Viminale parte dall’esame delle recenti pronunce della Cassazione n. 10505, n. 20492 e n. 20913, che sanciscono la differenza tra omologazione e approvazione e precisano che solo l’omologazione rende legittimi gli accertamenti effettuati con l’autovelox. 

Omologazione e approvazione autovelox: chiarimenti

Dopo queste pronunce il dicastero ha avviato un dialogo con l’Avvocatura di Stato e il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti per avere delucidazioni sul significato dei due termini dal punto di vista operativo.

L’Avvocatura Generale ha concluso per la omogeneità delle due procedure di omologazione e di approvazione per tutta una serie di motivi.

  • I due procedimenti sono finalizzati a verificare l’utilità dell’apparecchio allo scopo a cui è destinato e la sua conformità alle necessità di misurazione.
  • Omologazione e approvazione riguardano il prototipo dell’apparecchio e non quello singolo che poi viene affettivamente impiegato per le rilevazioni su strada.
  • La materia in entrambi i casi è di competenza del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti.
  • Per l’omologazione, così come per l’approvazione, vengono svolte istruttorie tecniche e amministrative finalizzate a valutare requisiti e caratteristiche dell’apparecchio per la funzione che deve svolgere e per la conformità alle regole nazionali e comunitarie.
  • Sul dispositivo si esprime infine il Consiglio Superiore dei lavori pubblici, per verificare l’efficienza e l’idoneità.
  • L’esito positivo di questo controllo è seguito dal decreto dirigenziale di autorizzazione alla commercializzazione dei singoli apparecchi in conformità al prototipo depositato.

L’Avvocatura precisa tuttavia che in giudizio, per non incorrere in giudizi di inammissibilità, occorre depositare il decreto di approvazione dello strumento di rilevazione indicato nel verbale che ha accertato la violazione ed eventuali decreti di omologazione di strumenti diversi da quelli finalizzati a verificare la violazione del limite di velocità.

Tavolo tecnico per omologazione e approvazione autovelox

Per garantire l’uniformità interpretativa è stato istituito anche un tavolo tecnico  presso il Ministero delle Infrastrutture di cui fanno parte i rappresentanti del Ministero dell’Interno, dell’ANCI e del Ministero delle imprese e del made in Italy.

Lo scopo è di definire in modo uniforme le procedure per l’omologazione del prototipo la fase di taratura e il controllo di funzionalità dei dispositivi e anche delle apparecchiature e dei mezzi tecnici indicati nell’articolo 201 comma 1 bis lett. e) e f) del Codice della Strada.

 

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casa famiglia

Casa famiglia per il figlio che usa troppo il cellulare Casa famiglia per il minore problematico che cresce in un ambiente conflittuale e fa un uso smodato dello smartphone

Casa famiglia per figlio che fa uso smodato del cellulare

Un ragazzo di 13 anni viene collocato in una casa famiglia per decisione del Tribunale per i minorenni competente. La vicenda ruota attorno a una situazione familiare estremamente delicata, caratterizzata da alta conflittualità tra i genitori, episodi di violenza domestica e comportamenti problematici del minore, come l’uso smodato del cellulare. I genitori ovviamente si oppongono alla decisione di primo grado e poi a quella della Corte di’Appello. La Cassazione però con l’ordinanza n.1832/2025 respinge il ricorso dimostrando anche di condividere le conclusioni del giudice di primo grado sull’importanza di una corretta educazione digitale.

Collocazione del minore in casa famiglia

La vicenda prende avvio da una richiesta del Pubblico Ministero presso il Tribunale per i minorenni di Salerno, che nell’aprile 2022 ha chiesto la decadenza della responsabilità genitoriale. La situazione familiare era critica: i genitori non riuscivano a gestire i conflitti, e il figlio mostrava comportamenti aggressivi e una forte dipendenza dai dispositivi elettronici, in particolare dal cellulare. I servizi sociali, intervenuti per monitorare la situazione, hanno rilevato ulteriori problemi, tra cui difficoltà scolastiche e scarsa capacità dei genitori di garantire un ambiente stabile.

Il Tribunale ha deciso di sospendere la responsabilità genitoriale di entrambi i genitori, disponendo l’affidamento del ragazzo ai servizi sociali. Il minore è stato collocato in una casa famiglia, con il divieto assoluto di utilizzare dispositivi elettronici. Inoltre, i contatti con i genitori sono stati limitati e demandati a successivi accertamenti.

Entrambi i genitori hanno impugnato il provvedimento, presentando ricorso alla Corte d’Appello. La Corte d’Appello, tuttavia, ha respinto i ricorsi, confermando la validità della decisione del Tribunale.

Nomina tardiva del curatore e pregiudizio per il minore

I genitori hanno quindi fatto ricorso alla Corte di Cassazione, sollevando cinque motivi principali di impugnazione. Tra questi, hanno ribadito la presunta violazione del diritto del minore a essere rappresentato adeguatamente e l’assenza di un difensore per il figlio nel primo grado di giudizio. Tuttavia, la Cassazione ha ritenuto infondate le doglianze, stabilendo che, pur in presenza di errori procedurali, non era stato arrecato un concreto pregiudizio al minore.

Secondo i giudici, la nomina tardiva del curatore speciale non aveva inciso negativamente sull’esito del processo. Infatti, il curatore nominato successivamente ha potuto partecipare attivamente al giudizio d’appello, rappresentando gli interessi del minore in modo autonomo e indipendente.

La Cassazione ha richiamato anche il principio secondo cui l’interesse superiore del minore deve prevalere su ogni altra considerazione. In situazioni di conflitto familiare e inadeguatezza genitoriale, è necessario intervenire prontamente per garantire un ambiente sereno al bambino. La collocazione in casa famiglia è stata ritenuta una misura adeguata, viste le difficoltà dei genitori di fornire un contesto stabile e protetto.

Inoltre, i giudici hanno sottolineato l’importanza di procedere con celerità in questi casi, evitando inutili ritardi che potrebbero aggravare il disagio del minore. Sebbene la nomina tardiva del curatore speciale rappresenti un errore procedurale, non ha reso nullo il processo, poiché il minore è stato adeguatamente rappresentato nelle fasi successive.

Educazione digitale: vietato l’uso dello smartphone

Un elemento centrale del caso è  luso eccessivo del cellulare da parte del ragazzo. Questo aspetto è emerso come un campanello d’allarme, evidenziando un problema diffuso tra i giovani. La dipendenza da dispositivi elettronici può avere conseguenze negative sullo sviluppo emotivo, sociale e scolastico dei ragazzi. In questo caso, il Tribunale ha scelto di vietare al minore l’utilizzo di smartphone e tablet, ritenendoli un fattore aggravante della sua situazione, già sufficientemente problematica.

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shock tributario

Shock tributario: nessun risarcimento Shock tributario: non spetta il risarcimento alla professionista se non prova il nesso tra condotta del consulente e la patologia psichica

Shock tributario: niente risarcimento senza prova

Sul risarcimento del danno da shock tributario” si è espressa la Corte di Cassazione nella sentenza n. 1036/2025. Gli Ermellini hanno affrontato nello specifico il caso di una professionista che ha chiesto i danni patrimoniali e non patrimoniali causati dalla negligenza del proprio consulente contabile, responsabile di inadempimenti che hanno costretto la donna a versare all’Erario più di 9000,00 euro.

Consulente inadempiente: sanzioni per più di 9000 euro

Una professionista subisce un accertamento fiscale in relazione all’anno 2009, conclusosi con il pagamento di oltre 9.000 euro in sanzioni. La donna attribuisce il problema alle omissioni del consulente contabile. A causa dello stress provocato dalla vicenda, la ricorrente ritiene di aver sviluppato una grave patologia psichiatrica, diagnosticata come disturbo delladattamento” con perdita significativa della capacità lavorativa. Nel 2015, la ricorrente chiude infatti la propria attività professionale, lamentando una riduzione del reddito di circa il 40%. Chiede quindi il risarcimento di oltre 500.000 euro per i danni patrimoniali e morali subiti.

Danno da “shock tributario”: manca la prova

Il Tribunale di Parma accoglie parzialmente accolto la domanda, riconoscendo però solo un risarcimento di 743,64 euro per il danno patrimoniale legato alle omissioni fiscali. Non ha invece ritenuto provati il danno alla salute e il lucro cessante.Il giudice esclude il nesso di causalità tra la condotta del consulente e la grave patologia psichica, considerando il danno non prevedibile secondo il criterio dell’art. 1225 c.c. L’autorità giudiziaria inoltre respinge la richiesta di una consulenza tecnica medico-legale. In appello, la Corte di Bologna conferma la decisione, dichiarando inammissibile il ricorso per mancanza di elementi nuovi e condividendo la valutazione del Tribunale.

Shock tributario: danno prevedibile?

La ricorrente a questo punto impugnato la sentenza della Corte d’Appello davanti alla Corte di Cassazione. Tra i motivi del ricorso la ricorrente:

  • lamenta l’errata applicazione dell’ 1225 c.c in quanto il danno psichico era prevedibile, data la gravità delle omissioni del consulente;
  • contesta la non ammissione della CTU medico-legale perché ha impedito una corretta valutazione della patologia e del suo nesso causale con l’inadempimento;
  • considera del tutto errata valutazione delle prove perché la documentazione prodotta dimostra un chiaro legame tra l’accertamento fiscale e il danno subito.

Danno psichico non giustificato

La Cassazione respinge il ricorso, sottolineando che la prevedibilità del danno, secondo l’art. 1225 c.c., deve essere valutata in modo astratto. Il danno deve rientrare cioè nella normale alea del contratto, secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità. Il giudice di merito, secondo la Cassazione, ha motivato adeguatamente la decisione. L’assenza di risvolti penali nella vicenda fiscale e l’entità modesta delle sanzioni non giustificano un danno psichico così grave.

La Corte conferma anche la discrezionalità del giudice nell’ammettere o rigettare le richieste di consulenze tecniche. Nel caso in esame, il Tribunale ha ritenuto che la documentazione medica prodotta fosse insufficiente a dimostrare il nesso causale. Lo stesso inoltre ha valutato che la patologia denunciata fosse sproporzionata rispetto alla condotta del consulente.

 

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Allegati

Codice contratti pubblici: non si applica agli ordini degli avvocati Codice dei contratti pubblici: il COA di Milano delibera l'inapplicabilità agli ordini degli avvocati e invita il legislatore a chiarire

Codice contratti pubblici e Ordini Forensi

Il tema dell’applicazione del Codice dei contratti pubblici agli Ordini professionali è oggetto di un dibattito acceso e ancora irrisolto. L’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) e il TAR del Lazio, con la sentenza n. 7455 del 16 aprile 2024, hanno espresso la posizione secondo cui tale Codice dovrebbe essere applicabile anche agli Ordini professionali. Tuttavia, l’Ordine degli Avvocati di Milano, in linea con il Consiglio Nazionale Forense (CNF), ha assunto una posizione opposta.

Con una delibera adottata il 16 gennaio 2025, l’Ordine milanese ha affermato che gli Ordini non rientrano nell’ambito di applicazione del Codice dei contratti pubblici.

Codice dei contratti pubblici: ragioni dell’inapplicabilità

Le ragioni di questa posizione sono molteplici e radicate nella natura degli Ordini professionali. Questi, ai sensi dell’articolo 24 dell’Ordinamento Forense sono enti pubblici non economici di carattere associativo dotati di autonomia patrimoniale e finanziaria e non dipendono quindi dalla finanza pubblica. La loro struttura e funzione li distinguono dagli enti pubblici economici e dalle amministrazioni pubbliche in senso stretto. Il Codice dei contratti pubblici, pensato per garantire trasparenza e concorrenza negli appalti pubblici, non risulta coerente con il ruolo e le attività svolte dagli Ordini professionali, come gli Ordini degli Avvocati.

 

Un altro punto critico è rappresentato dagli oneri burocratici che deriverebbero dall’applicazione del Codice. Gli Ordini sarebbero costretti a gestire processi complessi e onerosi, senza che ciò comporti un reale beneficio. L’obbligo di rispettare procedure rigide rischierebbe di compromettere l’efficienza operativa degli Ordini, che già agiscono in un ambito fortemente regolamentato.

Inoltre, recenti interventi normativi hanno già escluso espressamente l’applicazione di molte disposizioni del diritto amministrativo agli Ordini professionali, riconoscendo la loro natura associativa e la specificità delle loro funzioni. Questo rafforza la convinzione che l’applicazione del Codice dei contratti pubblici agli Ordini sia non solo ingiustificata, ma anche incoerente con il quadro normativo vigente.

Consiglio dell’Ordine di Milano: richieste

Alla luce di ciò, la delibera dell’Ordine degli Avvocati di Milano chiede il riconoscimento ufficiale dell’inapplicabilità del Codice dei contratti pubblici agli Ordini professionali. Propone inoltre una modifica legislativa che chiarisca definitivamente la questione. Secondo l’Ordine, è necessario evitare che interpretazioni divergenti possano creare incertezze o difficoltà operative.

La delibera invita anche tutti gli Ordini professionali a collaborare per adottare una posizione condivisa. Si sollecita un intervento normativo che confermi in modo inequivocabile l’esclusione degli Ordini dall’ambito di applicazione del Codice. Solo attraverso un’azione comune e mirata è possibile ottenere un chiarimento normativo che tuteli l’autonomia degli Ordini e ne garantisca l’efficacia operativa.

 

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