giurista risponde

Dichiarazione di interesse culturale di un bene È legittimo il provvedimento della Soprintendenza di dichiarazione di interesse culturale di un bene che applichi in concreto, pur non facendone espressa menzione, i criteri individuati dal Consiglio superiore delle antichità e belle arti?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, è legittimo il provvedimento anche alla luce della necessaria valutazione di tipo globale e sintetico e posto che l’interesse culturale dell’opera venga espresso in considerazione della norma attributiva del potere, non nella dimensione oggettiva di fatto storico bensì di fatto mediato dalla valutazione affidata all’Amministrazione, per cui il privato ha l’onere di dimostrare che il giudizio di valore espresso da quest’ultima sia scientificamente inaccettabile (Cons. Stato, sez. VI, 19 novembre 2024, n. 9285).

Il Collegio ricorda che, ai sensi degli artt. 10, comma 3, lett. a), 13 e 14, del D.Lgs. 42/2004, il giudizio per l’imposizione di una dichiarazione di interesse culturale storico-artistico particolarmente importante (il c.d. vincolo diretto) è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, in quanto implica l’applicazione di cognizioni tecnico-scientifiche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari caratterizzati da ampi margini di opinabilità. Sulla scorta di tanto, l’accertamento compiuto dall’Amministrazione preposta alla tutela è sindacabile in sede giudiziale esclusivamente sotto i profili della ragionevolezza, proporzionalità, adeguatezza, logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecniche e del procedimento applicativo prescelto (Cons. Stato, sez. VI, 3 marzo 2022, n. 1510).

Emerge, dall’elaborazione a cui il Collegio dà continuità, che il presupposto del potere ministeriale di vincolo viene preso in considerazione dalla norma attributiva del potere, non nella dimensione oggettiva di fatto storico, accertabile in via diretta dal giudice, bensì di fatto mediato dalla valutazione affidata all’Amministrazione. Ne consegue, dunque, che se è vero che l’interessato può “contestare anche il nucleo intimo dell’apprezzamento complesso” ha tuttavia l’onere di dimostrare che il giudizio di valore espresso dall’Amministrazione sia scientificamente inaccettabile.

Dunque, nel caso di specie, l’Amministrazione, pur non avendone fatta espressa menzione, ha applicato in concreto i criteri individuati dal Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti nella seduta del 10 gennaio del 1974 (e recepiti dal D.M. 6 dicembre 2017, n. 537), approdando ad una valutazione finale supportata da adeguata motivazione. Motivazione in linea con i già indicati criteri che svolgono un ruolo di mero indirizzo rispetto alla spendita delle potestà di discrezionalità tecnica attribuite all’amministrazione tutoria e pongono parametri compositi da applicare, senza alcun automatismo, in maniera congiunta nell’ambito di un giudizio di tipo globale e sintetico.

 

(*Contributo in tema di “Dichiarazione di interesse culturale di un bene”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Furto lieve per stato di necessità L’ipotesi di furto lieve per bisogno può essere riconosciuta in presenza di una situazione di grave indigenza, anche se il valore della merce sottratta supera quello comunemente considerato “tenue”?

Quesito con risposta a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo

 

La Corte di Cassazione ha precisato che il delitto di furto lieve, motivato da esigenze di necessità, può essere riconosciuto nei casi in cui l’oggetto sottratto abbia un valore modesto e sia destinato a soddisfare una necessità grave e urgente. Tale principio stabilisce che, per qualificare l’imputazione come furto lieve anziché come furto comune, non è sufficiente un generico stato di bisogno o di miseria da parte del colpevole; è, invece, necessaria una condizione di urgenza, per la quale non vi siano alternative praticabili se non la sottrazione dell’oggetto stesso (Cass. sez. V, 19 maggio 2014, n. 32937). (Cass., sez. IV, 6 novembre 2024, n. 40685).

Nel caso in esame, la Corte d’Appello aveva confermato la condanna per tentato furto di generi alimentari e prodotti per la cura personale, ritenendo non sussistente lo stato di necessità invocato dalla ricorrente. Tuttavia, la Suprema Corte ha accolto il ricorso, sottolineando che la Corte d’Appello non aveva adeguatamente valutato le circostanze oggettive che attestavano un grave stato di malnutrizione e indigenza della ricorrente, la quale era stata descritta come una persona senza fissa dimora e in condizioni di estrema vulnerabilità.

La Corte ha evidenziato che la semplice valutazione del valore dei beni sottratti, superando i cento euro, non è sufficiente per escludere l’ipotesi di furto lieve per necessità, in quanto la merce era destinata a soddisfare un’urgenza alimentare. Pertanto, la Cassazione ha annullato la sentenza impugnata, rinviando il caso alla Corte d’Appello affinché riesamini la situazione in conformità ai principi giuridici esposti. La Corte ha ribadito che l’analisi del comportamento dell’imputato deve tener conto delle specifiche circostanze di vita e delle necessità in cui si trova.

In conclusione, la decisione della Cassazione evidenzia l’importanza di un’analisi approfondita delle condizioni di fatto che possono giustificare una condotta di furto lieve per bisogno, richiamando l’attenzione sulla differenza tra lo stato di necessità previsto dall’art. 54 c.p. e l’ipotesi di furto lieve per bisogno di cui all’art. 626 c.p.

 

(*Contributo in tema di “Assunzione di sostanza stupefacente: la responsabilità penale dello spacciatore in caso di morte”, a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Assunzione sostanza stupefacente: responsabilità penale dello spacciatore in caso di morte Come viene a configurarsi l’elemento soggettivo colposo dello spacciatore in relazione alla morte dell’assuntore di sostanza stupefacente?

Quesito con risposta a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo

 

Nell’ipotesi di morte verificatasi in conseguenza dell’assunzione di sostanza stupefacente, la responsabilità penale dello spacciatore ai sensi dell’art. 586 c.p. per l’evento morte non voluto richiede che sia accertato non solo il processo di causalità tra consegna della droga e morte, ma anche che il decesso sia in concreto rimproverabile allo spacciatore e che, quindi, sia accertata nei suoi confronti la presenza, in concreto, dell’elemento soggettivo colposo, correlata alla violazione di una regola precauzionale diversa dalla norma che incrimina il reato-base e ad un coefficiente di prevedibilità ed evitabilità in concreto del rischio per il bene della vita del soggetto che assuma la sostanza drogante, calibrate secondo la figura di un agente – modello che si trovi nella specifica situazione di quello “reale” ed alla stregua di tutte le circostanze del caso concreto da quest’ultimo conosciute e conoscibili (Cass., sez. V, 14 novembre 2024, n. 41898).

In seguito ad una sentenza di proscioglimento per omissione di soccorso e contestuale condanna in appello ai sensi del reato ex art. 586 c.p. e cessione di sostanze stupefacenti, veniva presentato ricorso presso il Supremo Consesso per due ordini di motivi. Da una parte, violazione di legge per l’affermazione di responsabilità ex art. 586 c.p. per il mancato riconoscimento dell’elemento soggettivo colposo per la morte della persona offesa, assuntrice abituale di sostanza stupefacente; il secondo, invece, si limitava al vizio di legge per il trattamento sanzionatorio complessivo e il riconoscimento della recidiva. Il caso concerneva la responsabilità penale di uno spacciatore per la morte dell’assuntrice per la cessione di una dose, dopo che i due avevano trascorso insieme la notte a bere e consumare eroina, tanto che il consulente tecnico del Pubblico Ministero riconosceva tra le cause del decesso un sovradosaggio acuto di oppiacei.

In merito al riconoscimento della colpa in capo all’imputato, il quesito veniva ritenuto fondato da parte del Supremo Consesso.

Il grado di colpa esigibile e il relativo accertamento necessario venivano illustrati dalla Corte partendo dalla interpretazione costituzionalmente orientata fornita dalla sentenza di Cass., Sez. Un., 22 gennaio 2009, n. 22676 (cd. Ronci). Quest’ultima si occupava di illustrare la compatibilità tra il reato di morte come conseguenza di altro delitto e il principio di colpevolezza, aderendo alla tesi già discussa in giurisprudenza della responsabilità per colpa in concreto.

Partendo dall’accertamento, questo deve necessariamente svolgersi mediante un giudizio di prognosi postuma, focalizzata sul frangente in cui è avvenuto il fatto. Oggetti dell’accertamento sono il nesso di causalità tra la consegna della droga e l’evento morte, ma anche e soprattutto la concreta rimproverabilità del decesso in capo allo spacciatore. Quest’ultima può ritenersi presente qualora la sussistenza dell’elemento soggettivo colposo risulti correlato alla violazione di una regola precauzionale differente a quella incriminante il reato – base e in presenza di un concreto coefficiente di prevedibilità ed evitabilità del rischio per il bene (ndr. vita dell’assuntore). Il parametro di valutazione è quello del comportamento dell’agente – modello, basato su tutte le circostanze del caso concreto dall’autore conosciute e conoscibili. Su queste fondamenta si è poi incardinata tutta la giurisprudenza successiva in materia di imputazione dell’omicidio dell’assuntore di sostanza stupefacente nei confronti dello spacciatore ex art. 586 c.p. (da ult. Cass. 19 settembre 2018, n. 49573).

L’analisi della Corte di legittimità prosegue riconoscendo il reato di morte come conseguenza di altro delitto quale forma di delitto aggravato dall’evento. Essa assume i contorni di una forma speciale di aberratio delicti ex art. 83, comma 2 c.p.: l’evento-morte, non voluto, viene imputato a titolo di colpa nell’ambito di un concorso formale di reati, in quanto derivante dalla commissione di una diversa condotta voluta e prevista ex se costituente reato. Tale circostanza impone che la valutazione del coefficiente psicologico colposo richiesto debba essere riferita al momento dell’evento morte, seppur collegato oggettivamente al precedente delitto doloso, poiché è dall’evento che viene ricavata la regola precauzionale violata.

Due sono gli elementi che confluiscono nella ricostruzione del fatto di reato: da una parte, l’agire prodromico all’evento che deve essere assistito dalla coscienza e volontà degli elementi essenziali del reato; dall’altra, l’accertamento della colpa, la quale deve essere proiettata nella fase consequenziale alla consumazione del delitto doloso. Pertanto, l’accertamento appena accennato va legato al momento della cessione della dose di sostanza stupefacente e non, come veniva realizzato dal giudice di merito nel caso di specie, nell’arco temporale tra questa e il decesso per non aver prestato assistenza alla vittima.

D’altra parte, la giurisprudenza di merito non ha valorizzato altri elementi ragionevolmente sintomatici della prevedibilità in concreto; indici di colpa possono risultare, sempre per giurisprudenza di legittimità consolidata, nella cessione contestuale o ravvicinata di più dosi alla medesima persona, nella consegna di una dose in elevata concentrazione o nella cessione a soggetto in evidente stato di alterazione da alcol (Cass., Sez. Un., 22 gennaio 2009, n. 22676).

 

(*Contributo in tema di “Assunzione di sostanza stupefacente: la responsabilità penale dello spacciatore in caso di morte”, a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Il pagamento al creditore apparente: la tutela dell’art. 1189 c.c. Il debitore adempiente può invocare la tutela di cui all’art. 1189 c.c. quando sussiste una situazione in cui il pagamento avvenga in conflitto tra i creditori?

Quesito con risposta a cura di Angela De Girolamo e Ilaria Iacobone

 

Poiché l’art. 1189 c.c. è diretto a tutelare il solo debitore che paghi il creditore che appia “univocamente” tale, cioè la situazione in cui il pagamento avvenga in mancanza di un conflitto, noto al debitore, sulla relativa legittimazione, tale disposizione non è, di regola, applicabile nel caso in cui siano espressamente rivolte al debitore, prima del pagamento, pretese contrastanti da diversi potenziali aventi diritto (disponendo del resto il debitore di diversi e adeguati strumenti di tutela della sua posizione, per tale eventualità), salvo solo il caso eccezionale in cui alcune di suddette pretese appaiono, già prima facie, manifestamente infondate e pretestuose ovvero vi sia un ordine giudiziale che imponga il pagamento in favore di uno dei pretendenti (Cass., sez. III, 23 ottobre 2024, n. 27439 (pagamento al creditore apparente).

Nel caso di specie, il Supremo Consesso compie una precisa ricognizione del perimetro applicativo dell’art. 1189 c.c., che disciplina il pagamento effettuato dal debitore nei confronti di colui che appare essere il creditore (creditore apparente). In virtù di tale articolo, il legislatore ha stabilito che il debitore è liberato dall’adempimento dell’obbligazione allorquando dia prova di aver eseguito la prestazione nei confronti di un soggetto che, senza essere il creditore o, comunque, un soggetto legittimato ex art. 1188 c.c., appaia essere legittimato in base a circostanze univoche e dimostra, altresì, di essere stato in buona fede. Di talché, dall’analisi della disposizione in esame emerge che affinché l’adempimento in favore di un soggetto diverso da quello legittimato a riceverlo determini la liberazione ex art. 1189 c.c., occorre che ricorrano due distinti presupposti: uno di carattere soggettivo (la buona fede del debitore) e l’altro di carattere oggettivo (le circostanze univoche che facciano apparire il ricevente come soggetto legittimato). La ratio della norma è, dunque, quella di tutelare l’affidamento incolpevole del debitore che in buona fede ritiene di adempiere la sua obbligazione, pagando il creditore legittimato a riceve la prestazione (e non il creditore apparente).

Sulla base di tale analisi, i giudici della Corte di Cassazione, nella sentenza oggetto di attenzione, hanno ravvisato la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 1189 c.c., da parte dei giudici della Corte d’Appello di Milano, poiché questi non avevano valutato, nell’individuare l’effettivo titolare del diritto di pagamento, una pluralità di circostanze di fatto, tra cui l’esistenza di più creditori rispetto al premo assicurativo. Invero, nel momento in cui vengono avanzate più pretese in ordine al pagamento dell’obbligazione, tra loro contrastanti e ad opera di soggetti diversi, è palese la sussistenza di una controversia in punto di autenticità delle sottoscrizioni (precedente effettuate) e, quindi, di riflesso, anche sulla autenticità della titolarità del diritto al pagamento.

Ciò posto, la Corte di Cassazione stabilisce che la sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Milano sia inficiata da un vizio c.d. di sussunzione, poiché ha ricondotto nell’alveo del perimetro applicativo dell’art. 1189 c.c. una fattispecie concreta che, in realtà, non rientra in tale campo applicazione. Difatti, la disciplina enucleabile dall’art. 1189 c.c. non è passibile di applicazione allorquando, in primo luogo, siano avanzate – espressamente – al debitore pretese tra loro contrastanti e provenienti da soggetti in conflitto tra loro circa l’adempimento di un’obbligazione e, in secondo luogo, quando non sussistono circostanze oggettive ovvero univoche che inducono il debitore ad effettuare il pagamento nei confronti di uno dei “creditori”.

La Corte di Cassazione, conclude, stabilendo che in tali casi viene in soccorso, non già l’art. 1189 c.c., ma l’art. 687 c.p.c. La norma, nello specifico, disciplina il c.d. sequestro conservativo. Di tale autonoma figura di sequestro ci si può avvalere allorché tra le parti del rapporto sinallagmatico sorga una controversia circa i diritti e gli obblighi nascenti dallo stesso rapporto, così come nell’ipotesi in cui, avendo il debitore chiesto un accertamento negativo del proprio obbligo, intenda medio tempore sottrarsi alle conseguenze negative dell’inadempimento, ossia alla mora debendi.

Sulla base di tali principi, i giudici di legittimità, nel caso attenzionato, accolgono il ricorso incidentale avanzato dagli eredi dello stipulante la polizza assicurativa e cassano la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinviano alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione.

 

(*Contributo in tema di “Il pagamento al creditore apparente: la tutela dell’art. 1189 c.c.”, a cura di Angela De Girolamo e Ilaria Iacobone, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Somministrazione del vaccino e responsabilità ASL Esiste un nesso causale tra l’esecuzione delle vaccinazioni e l’autismo?

Quesito con risposta a cura di Angela De Girolamo e Ilaria Iacobone

 

 

Va negata l’esistenza di un nesso causale tra la somministrazione di un vaccino e i problemi fisici e psicofisici riconducibili allo spettro dell’autismo, sulla base delle più accreditate ricerche scientifiche (Cass., sez. III, ord. 7 novembre 2024, n. 28691).

Nel caso oggetto di attenzione, il Supremo Consesso analizza una relativa al rapporto tra il consenso informato e la somministrazione di un vaccino non obbligatorio a un soggetto minorenne e l’insorgenza, all’indomani, di una progressiva e grave regressione psico-fisica, culminata in una forma di autismo.

I ricorrenti lamentavano, in uno dei quattro motivi, che la Corte d’Appello di Bari aveva accolto solo le doglianze in merito al mancato consenso informato e non anche quelle relative al risarcimento dei danni da somministrazione del vaccino, senza, per altro, tener conto del fatto che, se adeguatamente informati, non avrebbero acconsentito alla somministrazione dello stesso vaccino al figlio (minorenne).

I giudici di legittimità sul punto, riprendendo e condividendo il percorso logico-argomentativo sviluppato dai giudici della Corte d’Appello di Bari, asseriscono che il motivo sollevato dai ricorrenti è infondato. Innanzitutto, si riconosce il capo all’ASL un deficit informativo circa i rischi di eventuali reazioni fisiche conseguenti la somministrazione del vaccino. Tuttavia, si rileva che sulla base delle più accreditate ricerche scientifiche non si può determinare alcuna relazione di causalità tra la somministrazione del vaccino e le successive patologie fisiche e psico-fisiche riconducibili allo spettro dell’autismo.

Sulla base di tale conclusione scientifica, è stata esclusa ogni relazione casuale tra l’iniezione del vaccino e la sindrome di autismo. Si è negato, così, l’an del diritto al risarcimento e correttamente non si è sviluppata alcuna istruttoria in ordine al quantum debeatur.

 

(*Contributo a cura di Angela De Girolamo e Ilaria Iacobone, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Legittimazione a impugnare e azione popolare (Art. 9 D.lgs. 267/2000) Ciascun elettore può far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al comune e alla provincia?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Sì, ciascun elettore può far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al comune e alla provincia se si presuppone l’esistenza di una situazione giuridica attiva in capo all’ente da tutelare mediante azione giudiziale e l’inerzia dello stesso ente nel far valere detta situazione giuridica in sede processuale (Cons. Stato, sez. V, 12 novembre 2024, n. 9046 – Legittimazione a impugnare, azione popolare, art. 9 d.lgs. 267/2000).

Nella fattispecie concreta il ricorrente ha agito in giudizio ai sensi dell’art. 9, comma 1, D.Lgs. 267/2000, e cioè in via sostitutiva dell’ente comunale e provinciale.

La suddetta disposizione prevede che ciascun elettore può far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al comune e alla provincia. Dunque, si tratta di un particolare meccanismo di sostituzione processuale dell’ente locale a beneficio degli elettori che presuppone l’esistenza di un’azione giudiziale di spettanza dell’ente e la sua inerzia nell’esercitarla.

La natura dello strumento non è correttiva, bensì suppletiva e il suo presupposto necessario va rinvenuto nell’omissione, da parte dell’ente, dell’esercizio delle proprie azioni e ricorsi. Infatti, l’attore non può porsi in contrasto con l’ente stesso al fine di rimuovere gli errori e le illegittimità da questo commessi.

Pertanto, occorre che l’azione e il ricorso siano volti alla tutela di posizioni giuridiche dell’ente locale cui l’elettore si sostituisce, in specie nei confronti di possibili pregiudizi derivanti da azioni od omissioni di terzi, da fatti o atti compiuti da privati o anche da altre pubbliche amministrazioni.

L’iniziativa sostitutiva postula dunque, da un lato, una situazione giuridica attiva in capo all’ente da tutelare mediante azione giudiziale, dall’altro, l’inerzia dello stesso ente nel far valere detta situazione giuridica in sede processuale.

 

(*Contributo in tema di “Legittimazione a impugnare, azione popolare, art. 9 d.lgs. 267/2000”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Offerte anomale, discrezionalità tecnica e sindacato del giudice Il giudice accertata l’intrinseca irrazionalità/illogicità del giudizio di anomalia può disporre immediatamente l’annullamento dell’aggiudicazione e dichiarare l’inefficacia del contratto?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

No, il giudice, accertata l’irrazionalità del giudizio di anomalia, non può disporre immediatamente l’annullamento dell’aggiudicazione in luogo del rinvio degli atti all’Amministrazione, per la rinnovazione globale del subprocedimento di verifica dell’anomalia, da estendersi ad ogni aspetto riguardante l’attendibilità dell’offerta economica (Cons. Stato, sez. V, 21 ottobre 2024, n. 8437 (Offerte anomale, discrezionalità tecnica e sindacato del giudice).

I Giudici di Palazzo Spada evidenziano che il Giudice di prime cure, rilevando profili di criticità, non ha esorbitato dai limiti delle proprie attribuzioni. Nel far ciò, dunque, non si è in alcun modo sostituito alle valutazioni dell’Amministrazione, formulando un proprio giudizio di anomalia diverso da quello svolto in sede di gara – la qual cosa determinerebbe senz’altro uno straripamento del potere giurisdizionale in ambiti riservati alla discrezionalità amministrativa – bensì, si è limitato ad accertare i suddetti elementi di criticità riguardante la stima dei ricavi.

Il Giudice di prime cure si è dunque attenuto al principio giurisprudenziale secondo il quale: “Il procedimento di verifica dell’anomalia non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando piuttosto ad accertare se in concreto l’offerta, nel suo complesso, sia attendibile e affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell’appalto; pertanto la valutazione di congruità deve essere globale e sintetica, senza concentrarsi esclusivamente e in modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo” (Cons. Stato, sez. V, 2 maggio 2019, n. 2879).

Senonché, nella fattispecie in esame, il Giudice di prime cure dopo aver correttamente accertato l’intrinseca irrazionalità/illogicità del giudizio di anomalia, ha esorbitato le proprie attribuzioni, disponendo l’immediato annullamento dell’aggiudicazione e dichiarando altresì l’inefficacia del contratto eventualmente stipulato, in luogo di disporre rinvio degli atti all’Amministrazione, per la rinnovazione globale del sub-procedimento di verifica dell’anomalia, da estendersi ad ogni aspetto riguardante l’attendibilità dell’offerta economica.

La Sezione ha, dunque, aderito ad un precedente orientamento: “L’accertamento di una carenza di istruttoria da parte della stazione appaltante nella verifica di anomalia dell’offerta aggiudicataria comporta sempre la riapertura del relativo sub-procedimento e la valutazione anche delle giustificazioni degli altri concorrenti. Tale sindacato giurisdizionale non può incontrare pertanto un limite nell’art. 34, comma 2, Cod. proc. amm., in quanto, per il solo fatto di determinare un prosieguo procedimentale, non integra una pronuncia su poteri amministrativi non ancora esercitati, limitandosi piuttosto ad un effetto conformativo sulla riedizione del potere”.

Pertanto, l’accertamento di carenze istruttorie nel corso del sub-procedimento di verifica di anomalia non ridonda nel sindacato su poteri non ancora esercitati, poichè l’esito di tale accertamento è la riedizione del potere da parte dell’Amministrazione.

Dunque, solo a seguito di questa ulteriore e completa verifica sarà possibile considerare effettivamente consumata la discrezionalità tecnica dell’Amministrazione, con conseguente possibilità, da parte del giudice amministrativo, di un sindacato diretto sul modo di esercizio di detta discrezionalità da parte dell’Amministrazione.

(*Contributo in tema di “Offerte anomale, discrezionalità tecnica e sindacato del giudice”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Furto d’uso: connessione internet fraudolenta L’utilizzo di una connessione ad Internet fraudolenta può essere sussunta nella fattispecie di furto d’uso?

Quesito con risposta a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo

 

Integra furto d’uso la condotta di chi utilizza in modo fraudolento la connessione Internet intestata ad un altro soggetto. Nel momento in cui attraverso l’allaccio abusivo al box telefonico della persona offesa, l’imputato utilizza la connessione Internet che a tale linea fa capo, utilizza detto bene sottraendolo dalla disponibilità del titolare, il quale non riesce difatti a navigare. Pertanto, è evidente, in ragione della non riconducibilità al concetto di energia della connessione Internet, la perfetta corrispondenza del paradigma del furto d’uso di linea telefonica (Cass., sez. I, 15 novembre 2024, n. 42127).

La presente analisi della Corte di legittimità riguarda la sussunzione o meno di un utilizzo fraudolento ad una connessione Internet nelle maglie della fattispecie del furto d’uso (art. 626 c.p.).

Nel confermare la qualifica data dai precedenti gradi di giudizio, la Corte riprende la ricostruzione logico – sistematica fornita dalla Corte d’Appello; in particolare, nell’unico motivo di doglianza presentato dal difensore dell’imputato veniva contestata l’estensione della giurisprudenza in materia di peculato d’uso per l’utilizzo di apparecchiature telefoniche di servizio alla fattispecie in esame. Lo stesso contestava che la connessione Internet, connessione caratterizzata dal pagamento di un canone mensile non legato al consumo effettivo, potesse rientrare nella nozione di energia ex art. 624, comma 2 c.p. e conseguentemente essere oggetto di appropriazione, sottrazione o detenzione.

La Corte confermava la definizione fornita dalla Corte d’Appello di linea telefonica sulla base dei principi forniti nella sentenza Cass. pen., Sez. Un., 2 maggio 2013, n. 19054 (cd. Vattani) in materia di peculato d’uso e utilizzo del telefono d’ufficio per ragioni personali. La connessione Internet, infatti, non risultava per la Corte suscettibile di una condotta appropriativa e non poteva, pertanto, essere oggetto di furto, non rientrando nella nozione di energia, ma solo di furto d’uso. Si evidenziava come, nonostante non si fosse verificato alcun danno economicamente apprezzabile stante i costi in misura fissa, si fossero comunque verificati una serie di disagi, dati dall’impossibilità per la persona offesa di connettersi alla rete. In particolare, nel richiamo tratto dalla sentenza cd. Vattani, le energie suscettibili di condotta appropriativa ex art. 624 c.p. sono solo quelle possedenti una forza misurabile in denaro e che vengono captate dall’uomo mediante l’apprestamento di mezzi idonei, così da essere impiegate a fini pratici. Non è questo il caso: tali energie non possono essere oggetto di appropriazione, non preesistendo, ma vengono prodotte all’attivazione della connessione, propagandosi. Pertanto, è consequenziale la loro rispondenza al requisito previsto. Tali principi sono stati, poi, ripresi in materia di connessione a rete Internet dalle sentenze Cass. pen., sez. VI, 4 novembre 2014, n. 50944 e Cass. pen., sez. VI, 2 luglio 2013, n. 34524.

Alla luce della perfetta sovrapponibilità tra le due condotte materiali e una differenza solo in merito al soggetto – agente della condotta, i principi fino ad ora descritti in materia di peculato d’uso venivano ritenuti dai giudici di merito estendibili alla fattispecie del furto d’uso. A fortiori, veniva citata testualmente la stessa sentenza Vattani “Quanto in particolare al peculato d’uso, si osserva che tale figura replica strutturalmente lo schema del furto d’uso, mirando, da un lato, ad arginare arbitrarie dilatazioni interpretative del peculato comune e, dall’altro, a reprimere condotte che nel previgente sistema erano irrilevanti, con un temperamento del trattamento sanzionatorio in relazione al minor disvalore del fatto” (Cass. pen., Sez. Un., 2 maggio 2013, n. 19054). Si rammenti, inoltre, che per sua definizione codicistica il furto d’uso si contraddistingue per lo scopo di fare un uso momentaneo della cosa per poi essere immediatamente restituita, condotta perfettamente sovrapponibile a quella del peculato d’uso. Inoltre, le energie che si sviluppano da una connessione Internet non sono suscettibili di sottrazione: ad essere oggetto della condotta materiale è la linea telefonica in quanto mezzo attraverso il quale si realizza la connessione. Per questi motivi, la condotta tenuta dall’imputato veniva ritenuta perfettamente sussumibile nella fattispecie astratta del furto d’uso, considerando anche le modalità di allaccio e le conseguenze di tale condotta.

 

(*Contributo in tema di “Furto d’uso: connessione internet fraudolenta”, a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Atti persecutori in presenza di minori e circostanza aggravante L’applicazione della circostanza aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 11 quinquies, c.p., è compatibile con il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p. quando tale condotta viene perpetrata in presenza di un minore?

Quesito con risposta a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo

 

La Corte di cassazione, nella sentenza in esame, ha affrontato il tema dell’applicabilità della circostanza aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 11 quinquies, c.p., al delitto di atti persecutori. La Corte di Appello di Roma aveva confermato la condanna per atti persecutori aggravati, ritenendo correttamente contestata l’aggravante in considerazione della presenza del figlio minore durante la commissione del reato. Tuttavia, la Suprema Corte ha accolto il ricorso per cassazione limitatamente alla questione dell’aggravante, annullando la sentenza impugnata senza rinvio in quanto tale aggravante non è applicabile al reato di atti persecutori (Cass., sez. V, 31 ottobre 2024, n. 40301).

In particolare, la Corte ha richiamato la giurisprudenza consolidata, evidenziando che l’art. 61, comma 1, n. 11 quinquies, c.p., fa riferimento a delitti contro la vita e l’incolumità personale, escludendo esplicitamente il reato di atti persecutori, che è considerato un reato contro la libertà morale. La Corte ha sottolineato che la precisa formulazione della norma non lascia margini di interpretazione, confermando che la protezione offerta ai minori che assistono a condotte delittuose non si estende ai reati di atti persecutori.

Nel caso specifico, i giudici di merito non avevano affrontato adeguatamente il profilo giuridico sollevato dalla difesa riguardo all’applicabilità dell’aggravante, limitandosi a elencare gli episodi di atti persecutori assistiti dal minore, senza entrare nel merito dell’interpretazione della norma. Pertanto, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la sentenza impugnata dovesse essere annullata in relazione all’aggravante contestata, con conseguente necessità di una nuova valutazione del trattamento sanzionatorio, alla luce della caducazione dell’aggravante stessa.

In conclusione, la Corte ha ribadito che la circostanza aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 11 quinquies, c.p. non può essere applicata al delitto di atti persecutori, confermando una visione restrittiva della norma e garantendo così una corretta interpretazione della tutela giuridica in materia di reati contro la libertà morale.

 

(*Contributo a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

giurista risponde

Furto di energia elettrica e aggravante (art. 625, comma 1, n. 7, c.p.) È legittima la contestazione della circostanza aggravante di cui all’art. 625, comma 1, n. 7 c.p. al soggetto che, al fine di procurarsi un profitto e soddisfare il proprio fabbisogno elettrico, si impossessi di energia elettrica sottraendola dalla società fornitrice Servizio Elettrico Nazionale?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Serena Ramirez

 

 

In tema di furto di energia elettrica, può ritenersi legittimamente contestata la circostanza aggravante di cui all’art. 625, comma 1, n. 7, c.p., in quanto l’energia elettrica, su cui ricade la condotta di sottrazione, è un bene funzionalmente destinato a un pubblico servizio, essendo idoneo a raggiungere le utenze terminali di un numero indeterminato di persone e a soddisfare un’esigenza di rilevanza pubblica (Cass., sez. IV, 31 ottobre 2024, n. 40161).

La Suprema Corte di Cassazione è stata chiamata a valutare i confini e i limiti applicativi della circostanza aggravante del furto commesso su cose destinate a pubblico servizio. Ad un maggior grado di dettaglio, ai giudici di legittimità viene domandato se l’energia elettrica, oggetto di sottrazione e impossessamento, rappresenti un bene destinato a pubblico servizio.

I fatti di causa possono essere riassunti come segue. I giudici di merito non avevano riconosciuto l’aggravante in commento, sulla scorta dell’argomentazione che l’imputato si era limitato ad ottenere – con l’uso della fraudolenta esclusione della registrazione del consumo – l’illecito fine di usufruire dell’energia senza pagarne il prezzo. Non vi sarebbe, pertanto, pregiudizio per il servizio pubblico cui la risorsa è destinata in quanto detta condotta incide solo sul rapporto contrattuale tra utente e società distributrice della fornitura. Ne derivava la pronuncia ex art. 129 c.p.p. di non doversi procedere per mancanza di querela in relazione al delitto previsto e punito dagli artt. 624 e 625, comma 2, n. 1 c.p.

Avverso la sentenza proponeva ricorso per Cassazione il Procuratore della Repubblica per violazione di legge. Si deduceva, quindi, la sussistenza dell’aggravante in parola poiché l’allacciamento abusivo ai terminali collocati in una proprietà privata risultava incidente sulla destinazione della cosa al pubblico servizio. Il precipitato della contestazione dell’aggravante è rappresentato dalla procedibilità di ufficio del delitto, anche in seguito alla modifica apportata dall’art. 2 del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, recante “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”.

I giudici di legittimità rammentano la nozione di destinazione a pubblico servizio: questa non è data dalla fruizione pubblica del bene, bensì dalla qualità del servizio che viene organizzato anche attraverso la destinazione di risorse umane e materiali, e che viene destinato alla soddisfazione di un bisogno riferibile alla generalità dei consociati (Cass. 3 dicembre 2013, n. 698). La Corte, inoltre, ricorda come a fianco di una lettura soggettiva del concetto di servizio pubblico, si staglia una lettura oggettiva che riconosce rilevanza alle prestazioni dei servizi pubblici non in ragione del soggetto che ne assicura la fornitura quanto delle caratteristiche oggettive delle prestazioni erogate in considerazione del numero indeterminato dei destinatari che ne traggono giovamento.

Da tali considerazioni consegue che la destinazione del bene-energia, oggetto di furto, a pubblico servizio, legittima la punizione più severa dell’azione ablativa dell’agente in quanto pertinente ad un bene che, per volontà del proprietario, ovvero per la qualità ad essa inerente, serve ad un uso di pubblico vantaggio. Dalla corretta applicazione della circostanza aggravante di cui al comma settimo dell’art. 625 c.p. deriva la procedibilità d’ufficio del reato ascritto.

Per tali motivi, la Cassazione ha accolto il ricorso proposto dalla Pubblica Accusa, al quale consegue l’annullamento senza rinvio della sentenza cassata e la trasmissione degli atti al Tribunale competente per l’ulteriore corso del processo.

 

(*Contributo in tema di “Furto di energia elettrica e circostanza aggravante di cui all’art. 625, comma 1, n. 7, c.p.”, a cura di Mariarosaria Cristofaro e Serena Ramirez, estratto da Obiettivo Magistrato n. 80 / Dicembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)