giurista risponde

Permesso di costruire: annullamento d’ufficio a seguito di comunicazione antimafia Può intervenire l’annullamento d’ufficio di un permesso di costruire a seguito di comunicazione antimafia?

Quesito con risposta a cura di Michela Pignatelli

 

Sì, l’annullamento d’ufficio di un permesso di costruire per intervenuta comunicazione antimafia è un atto vincolato che accerta la temporanea incapacità giuridica del destinatario ad essere titolare di provvedimenti amministrativi ampliativi (T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 18 settembre 2024, n. 5036).

Il Consiglio ha ritenuto che l’annullamento d’ufficio di un permesso di costruire disposto dal Comune, per intervenuta comunicazione antimafia, è un atto vincolato che accerta la temporanea incapacità giuridica del soggetto ad essere destinatario di provvedimenti amministrativi ampliativi della propria sfera giuridica, inoltre prescinde, dunque, dall’operatività dei presupposti nonché dei limiti applicativi dell’art. 21novies, L. 241/990.

Pertanto, a seguito della comunicazione antimafia, la P.A. non può rilasciare alcun titolo che legittimi lo svolgimento di attività economiche o commerciali e, qualora fosse già stato emesso, è legittimo il suo ritiro, configurandosi la sua sostanziale incompatibilità con lo status di destinatario di una interdittiva antimafia.

Sul punto, la Sezione richiama la precedente giurisprudenza dello stesso Tribunale che evidenziava come le conseguenze decadenziali sulle autorizzazioni dei provvedimenti interdittivi antimafia discendono dall’esigenza di elevare il livello della tutela dell’economia legale dall’aggressione criminale. Ciò attraverso la sottoposizione a controllo non solo dei rapporti amministrativi che danno accesso a risorse pubbliche, ma anche di quelli che consentono l’esercizio di attività economiche, subordinandole al controllo preventivo della P.A. e stabilendo che anche in ipotesi di attività private soggette a mera autorizzazione l’esistenza di infiltrazioni mafiose inquina l’economia legale, altera il funzionamento della concorrenza e costituisce una minaccia per l’ordine e la sicurezza pubblica.

 

(*Contributo in tema di “Permesso di costruire: annullamento d’ufficio a seguito di comunicazione antimafia”, a cura di Michela Pignatelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

sospeso l'avvocato

Sospeso l’avvocato che non controlla la pec Il CNF sull'inadempimento al mandato e la responsabilità disciplinare per negligenza nel controllo della propria pec

Notifiche via pec “ignorate”

Può essere sospeso l’avvocato che non controlla la pec. “Costituisce – infatti – violazione dei doveri professionali il mancato, ritardato o negligente compimento di atti inerenti al mandato o alla nomina, quando derivi da non scusabile e rilevante trascuratezza degli interessi della parte assistita (art. 26 cdf), come nel caso di negligente ovvero omessa verifica delle comunicazioni o notifiche ricevute nella propria casella di posta elettronica certificata”. Così il Consiglio Nazionale Forense nella sentenza n. 134/2024 confermando la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio professionale inflitta a un avvocato dal Consiglio distrettuale di disciplina.

La vicenda

Nel caso di specie, il professionista non si era accorto della notifica PEC dell’opposizione a decreto ingiuntivo, il cui giudizio si era concluso nella contumacia dell’opposto. All’esito del procedimento disciplinare, il CDD gli infliggeva la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio professionale per otto mesi.

L’avvocato adiva il CNF lamentando che “avere ignorato la PEC di notifica, potrebbe al più comportare responsabilità civile ma, in assenza di specifica motivazione sulla trascuratezza degli interessi della parte assistita, non potrebbe comportare responsabilità disciplinare”.

La decisione

Per il CNF, il ricorso è infondato e pertanto va rigettato confermando la decisione assunta dal CDD, le cui motivazioni il Consiglio condivide anche con riguardo alla scelta della sanzione comminata. L’argomentare logico del ricorrente secondo il quale, la mancata visione della pec di notifica sarebbe stata “una mera svista” non convince il Collegio il quale ritiene invece che tale definizione rappresenti “un artificio linguistico dietro cui celare il comportamento negligente, documentalmente provato”.

Non verificare la PEC, “nella consapevolezza, anche solo per la vicenda in oggetto, del periodo nel quale potesse maturare un’opposizione ad un decreto ingiuntivo, è circostanza che di per sé denota negligenza con le dirette conseguenze in termini di configurabilità della violazione di cui all’art. 26 comma 3” aggiunge il CNF. Si tratta, di una negligenza che nasce dal “disinteresse” nei confronti delle sorti del cliente, “ed è certamente rilevante e si pone al di sotto della diligenza media, proprio perché al ricorrente era chiaro che si sarebbe potuto trovare innanzi ad una opposizione e per tanto avrebbe dovuto usare il massimo della diligenza nella verifica di eventuali PEC. Tutto ciò configura – prosegue ancora il Consiglio – anche la violazione degli articoli 9,10 e 12 in quanto nella vicenda in oggetto il disvalore del comportamento negligente è fornito proprio dalla mancata costituzione nel giudizio di opposizione”.

Per cui, il ricorso è rigettato e la sanzione ritenuta congrua.

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bonus prima casa

Bonus prima casa under 36: le precisazioni del fisco L’Agenzia delle Entrate precisa, con un principio di diritto, il perimetro temporale dell’agevolazione prorogata col Milleproroghe 2023

Bonus prima casa under 36

Il bonus prima casa under 36, dopo il Milleproroighe 2023, si applica anche ai contratti preliminari sottoscritti e registrati prima dell’entrata in vigore dell’art. 64 del dl 73/2023, purchè i definitivi siano stipulati entro la data del 31 dicembre 2024. Questo in estrema sintesi quanto affermato dall’Agenzia delle Entrate nel principio di diritto n. 5/2024.

Cos’è il bonus prima casa under 36

È stato l’articolo 64, comma 6, del decreto-legge 25 maggio 2021, n. 73 (convertito, con modificazioni, con la legge 23 luglio 2021, n. 106) a prevedere l’esenzione dalle imposte di registro, ipotecaria e catastale per gli atti traslativi a titolo oneroso della proprietà di “prime case” e per gli atti traslativi o costitutivi della nuda proprietà, dell’usufrutto, dell’uso e dell’abitazione relativi alle stesse stipulati a favore di soggetti che non hanno ancora compiuto trentasei anni di età nell’anno in cui l’atto è rogato e che hanno un valore ISEE non superiore a 40.000 euro annui.

Cosa si intende per “prime case”

Ai fini dell’agevolazione, per “prime case”, specificano le Entrate, “si intendono quelle definite ai sensi della nota II-bis all’articolo 1 della tariffa, parte prima, allegata al testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131”.

L’orizzonte temporale dopo il Milleproroghe

A norma del comma 9 dell’articolo 64 citato, l’agevolazione si applica agli atti stipulati nel periodo compreso tra la data di entrata in vigore del decreto- legge 73 del 2021 e il 31 dicembre 2023 (temine così sostituito dall’articolo 1, comma 74, della legge n. 197 del 2022).

Successivamente, il Milleproroghe 2023 ha ampliato il perimetro temporale dell’agevolazione “prima casa under 36” stabilendo che la stessa si applica “anche nei casi in cui, entro il termine indicato al comma 9 del citato articolo 64, sia stato sottoscritto e registrato il contratto preliminare di acquisto della casa di abitazione, a condizione che l’atto definitivo, anche nei casi di trasferimento della proprietà da cooperative edilizie ai soci, sia stipulato entro il 31 dicembre 2024”.

La possibilità di applicare il bonus anche in relazione agli atti definitivi stipulati entro il 31 dicembre 2024 è subordinata alla condizione che sia stato sottoscritto e registrato il contratto preliminare di acquisto della casa di abitazione entro il termine del 31 dicembre 2023 (cfr., in tal senso, Circolare n. 14/E del 18 giugno 2024).

In altre parole, conclude l’Agenzia, sulla base del tenore letterale della disposizione che ha ampliato l’ambito temporale di applicazione del beneficio, l’agevolazione “prima casa under 36” può trovare applicazione, “al ricorrere delle altre condizioni previste dalla norma, in relazione agli atti definitivi stipulati entro la data del 31 dicembre 2024 anche relativi a contratti preliminari sottoscritti e registrati prima dell’entrata in vigore dell’articolo 64 del decreto-legge 73 del 2021”.

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giurista risponde

Sinistro stradale e risarcimento del terzo trasportato Il passeggero terzo, vittima di un sinistro stradale, ha diritto ad ottenere il risarcimento dell’assicurazione se il conducente dell’auto ha bevuto alcolici?

Quesito con risposta a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo

 

L’accertamento dell’esistenza e del grado della colpa della persona che, accettando di farsi trasportare da un conducente in stato di ebbrezza, patisca danno in conseguenza d’un sinistro stradale, è apprezzamento riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità. La colpa non è sempre imputabile in capo a chi, dopo aver accettato di essere trasportato a bordo di un veicolo con una persona ubriaca alla guida, rimane coinvolto in un sinistro stradale di cui la responsabilità è rinvenibile a capo del conducente. È il giudice che deve valutare, caso per caso, l’esistenza e il grado della colpa del trasportato nel causare il sinistro (Cass., sez. III, 17 settembre 2024, n. 24920).

Il caso in oggetto prende le mosse dalle lesioni riportate da un soggetto trasportato a bordo di un autoveicolo. Di tale danno il terzo trasportato chiese il risarcimento al vettore ed al suo assicuratore.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello attribuirono alla vittima un concorso di colpa del 50%, in quanto il terzo trasportato aveva fornito un contributo causale all’avverarsi del da lui stesso sofferto, accettando di essere trasportato a bordo di un veicolo condotto da una persona in evidente stato di ebbrezza.

Il soggetto trasportato ricorre in Cassazione e questa dichiara improcedibile il ricorso.

Tuttavia, la Corte affronta la questione prendendo le mosse dal principio sancito dall’art. 1227 c.c. il quale prevede che, se il comportamento colpevole della vittima ha concorso a causare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate. È quindi possibile escludere o ridurre il diritto al risarcimento del danno di persona trasportata su un veicolo condotto in stato di ebrezza.

In quest’ottica la Suprema Corte si occupa della questione concernente la compatibilità tra il diritto comunitario e l’art. 1227, comma 1, c.c. Sul punto, la Corte, nel richiamare la normativa comunitaria in materia, preliminarmente fa riferimento alla sentenza della Corte di Giustizia 30 giugno 2005, che ha affermato due principi. Secondo il primo, il diritto comunitario, in tema di assicurazione, sarebbe “privato del suo effetto utile” in presenza d’una normativa nazionale che negasse al passeggero il diritto al risarcimento – ovvero lo limitasse in misura sproporzionata – “in base a criteri generali ed astratti”. Per il secondo, il diritto comunitario consente, invece, agli Stati membri di limitare il risarcimento dovuto al trasportato “in base ad una valutazione caso per caso” di circostanze eccezionali. Pertanto, mentre contrasterebbe con l’art. 13 Direttiva 2009/103 una norma di diritto interno che escludesse o limitasse ipso facto il diritto al risarcimento del passeggero, per il solo fatto di avere preso posto a bordo d’un veicolo condotto da persona ubriaca, non viola per contro il diritto comunitario una norma di diritto nazionale che, senza fissare decadenze o esclusioni in linea generale, consente al giudice di valutare caso per caso, secondo le regole della responsabilità civile, se la condotta della vittima possa o meno ritenersi colposamente concorrente alla produzione del danno.

Alla luce di quanto sopra premesso, la Corte enuncia dei principi fondamentali di diritto.

In primo luogo, afferma che l’art. 1227, comma 1, c.c., interpretato in senso coerente con la Direttiva 2009/103, non consente di ritenere, in via generale e astratta, che sia sempre e necessariamente in colpa la persona la quale, dopo aver accettato di essere trasportata a bordo d’un veicolo a motore condotto da persona in stato di ebbrezza, rimanga coinvolta in un sinistro stradale ascrivibile a responsabilità del conducente; una simile interpretazione infatti contrasterebbe con l’art. 13, par. 3, della Direttiva 2009/103, nella parte in cui vieta agli Stati membri di considerare “senza effetto”, rispetto all’azione risarcitoria spettante al trasportato, qualsiasi disposizione di legge […] che escluda un passeggero dalla copertura assicurativa in base alla circostanza che sapeva o avrebbe dovuto sapere che il conducente del veicolo era sotto gli effetti dell’alcol.

Spetterà, quindi, al giudice di merito valutare in concreto, secondo tutte le circostanze del caso, se ed in che misura la condotta della vittima possa dirsi concausa del sinistro, fermo restando il divieto di valutazioni che escludano interamente il diritto al risarcimento spettante al trasportato nei confronti dell’assicuratore del vettore. Da ultimo l’accertamento dell’esistenza e del grado della colpa della persona che, accettando di farsi trasportare da un conducente in stato di ebbrezza, patisca danno in conseguenza d’un sinistro stradale, è apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, se rispettoso dei parametri dettati dal primo comma dell’art. 1227 c.c.

(*Contributo in tema di “Sinistro stradale e risarcimento del terzo trasportato”, a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

foto di minori

Foto di minori sui social: serve il consenso di entrambi i genitori Il Garante Privacy ammonisce un padre che aveva pubblicato la foto del figlio minore di 14 anni sui social senza il consenso della madre

Foto dei minori sui social

No alle foto di minori sui social senza il consenso di entrambi i genitori. Per postare sui social network immagini che ritraggono minori di 14 anni è necessario il preventivo consenso di entrambi i genitori. Invece se il minore ha compiuto quattordici anni la normativa italiana gli riconosce la facoltà di decidere autonomamente sulla pubblicazione. Questo è ciò che ha ribadito il Garante Privacy intervenuto a seguito del reclamo di una madre, che lamentava la pubblicazione di una foto del figlio, minore di quattordici anni, da parte del padre sul proprio profilo Facebook.

Immagine lesiva riservatezza del figlio

La donna aveva già chiesto all’uomo, senza alcun risultato, la rimozione dell’immagine, ritenendola lesiva della riservatezza e della reputazione del figlio.

Il bambino era ritratto insieme al fratello, anch’egli minore e la foto era accompagnata da un commento del padre sulla loro somiglianza pur essendo nati da madri diverse.

Necessario consenso di entrambi i genitori

Nel provvedimento l’Autorità ha precisato che il consenso di entrambi i genitori alla pubblicazione di immagini di minori di quattordici anni è richiesto anche se al padre e alla madre, benché non più conviventi, sia stato riconosciuto l’affidamento condiviso dei figli. Per cui, ha concluso il Garante, “la pubblicazione della foto del minore sulla ‘piazza virtuale’ dei social è da considerarsi illecita”.

L’Autorità perciò ha ammonito il padre, tenendo conto del fatto che non avesse precedenti analoghi, ed ha disposto il divieto di pubblicazione dell’immagine del figlio senza il consenso di entrambi i genitori. L’uomo dovrà anche comunicare (entro 30 giorni dalla data di ricezione del provvedimento) le iniziative intraprese per adempiere alle prescrizioni del Garante.

autonomia differenziata

Autonomia differenziata: parziale bocciatura della Consulta La Corte Costituzionale ha ritenuto illegittime diverse disposizioni della legge sull'autonomia differenziata pur non bocciando l'intero provvedimento

Autonomia differenziata: l’intervento della Consulta

La Corte Costituzionale ha deciso in merito alle questioni di costituzionalità sollevate sulla Legge n. 86 del 2024 riguardante l’autonomia differenziata delle regioni ordinarie. La sentenza n. 192/2024, il cui contenuto era stato anticipato con comunicato stampa lo scorso 14 novembre, è stata depositata in cancelleria il 3 dicembre 2024.

Il provvedimento conferma che la legge nel suo complesso non è stata giudicata incostituzionale. Tuttavia sono stati rilevati diversi profili di illegittimità legati a specifiche disposizioni del testo legislativo.

Interpretazione dell’art. 116, comma 3, della Costituzione

La Corte ha esaminato in dettaglio l’articolo 116, terzo comma della Costituzione italiana, che permette alle regioni ordinarie di acquisire forme di autonomia differenziata. I giudici hanno sottolineato che tale norma deve essere interpretata nel contesto della struttura dello Stato italiano, che riconosce alle regioni un ruolo fondamentale ma in un quadro che rispetti i principi di unità della Repubblica, solidarietà tra le regioni, eguaglianza e garanzia dei diritti dei cittadini. Inoltre, la Corte ha ribadito che la distribuzione delle funzioni tra Stato e regioni, in applicazione di tale articolo, non deve rispondere a un semplice riparto di potere, ma deve essere finalizzata al bene comune e alla tutela dei diritti costituzionali.

Autonomia differenziata: finalità e funzionalità

La Corte ha inoltre chiarito che l’autonomia differenziata dovrebbe mirare a migliorare l’efficienza degli apparati pubblici, a garantire maggiore responsabilità politica e a rispondere meglio alle esigenze dei cittadini. Tuttavia, sono state evidenziate delle problematiche in merito alla forma e alle modalità con cui le autonomie vengono differenziate.

I profili di incostituzionalità

Nell’analizzare i ricorsi presentati dalle Regioni Puglia, Toscana, Sardegna e Campania, la Corte ha individuato alcune disposizioni della legge sull’autonomia differenziata che risultano incostituzionali.

In particolare, sono state bocciate le seguenti previsioni:

  1. Devoluzione di materie e funzioni: La legge consente che l’intesa tra lo Stato e la regione possa trasferire materie intere o ambiti di materie. La Corte, però, ritiene che la devoluzione debba riguardare solo funzioni specifiche, giustificate in relazione al principio costituzionale di sussidiarietà, che regola la distribuzione dei compiti tra Stato e regioni.
  2. Delega legislativa sui livelli essenziali delle prestazioni (LEP): La legge conferisce una delega legislativa per definire i LEP (diritti civili e sociali), ma la Corte ha sottolineato l’assenza di criteri direttivi adeguati. In tal modo, la decisione sulle prestazioni fondamentali verrebbe rimessa al Governo, limitando il ruolo del Parlamento.
  3. Determinazione dei LEP tramite dPCM: La Corte ha ritenuto illegittima la previsione che affida al Presidente del Consiglio dei Ministri la responsabilità di aggiornare i LEP tramite decreto (dPCM), poiché tale modalità non garantisce sufficiente partecipazione parlamentare.
  4. Modifica delle aliquote tributarie: La legge consente di modificare, tramite decreto interministeriale, le aliquote della compartecipazione al gettito dei tributi erariali destinati a finanziare le funzioni trasferite. Secondo la Corte, questa disposizione potrebbe premiare le regioni inefficienti, che non riescono a garantire l’efficacia dei servizi nonostante i fondi ricevuti.
  5. Concorso obbligatorio agli obiettivi di finanza pubblica: La Corte ha rilevato che la legge prevede la facoltatività del concorso delle regioni agli obiettivi di finanza pubblica, compromettendo i vincoli di solidarietà e l’unità della Repubblica.
  6. Estensione dell’autonomia alle regioni a statuto speciale: La Corte ha escluso che l’autonomia differenziata possa essere applicata anche alle regioni a statuto speciale. Tali regioni hanno già procedure autonome per richiedere forme di maggiore autonomia, quindi l’estensione della legge non è costituzionalmente corretta.

Interpretazioni costituzionalmente orientate

Nonostante le criticità riscontrate, la Corte ha dato un’interpretazione positiva ad alcune altre disposizioni della legge:

  1. Iniziativa legislativa: L’iniziativa per l’approvazione della legge di differenziazione non è riservata esclusivamente al Governo, ma deve coinvolgere anche il Parlamento.
  2. Emendamento dell’intesa: La legge di differenziazione non è un atto “prendere o lasciare”, ma implica che il Parlamento possa apportare modifiche all’intesa, con la possibilità di rinegoziarla.
  3. Definizione dei LEP: La legge deve chiarire meglio quali materie siano soggette alla determinazione dei LEP. In particolare, se una materia non rientra nei LEP, non potranno essere trasferite funzioni che riguardano i diritti civili e sociali.
  4. Compartecipazione tributaria: La Corte ha sottolineato che le risorse per le funzioni trasferite devono essere determinati non sulla base della spesa storica, ma utilizzando criteri di efficienza e fabbisogni standard, in modo da garantire una corretta copertura delle funzioni trasferite.
  5. Clausola di invarianza finanziaria: L’intesa e l’individuazione delle risorse per le funzioni devolute dovranno tener conto del quadro economico generale e degli obblighi finanziari europei.

Ruolo del Parlamento

La Corte ha lasciato al Parlamento il compito di correggere le incongruenze riscontrate, in modo da garantire che la legge rispetti pienamente i principi costituzionali. Spetterà al Parlamento, nell’esercizio della sua discrezionalità, colmare i vuoti normativi derivanti dalle questioni sollevate, assicurando che la legge sia pienamente funzionale e conforme alla Costituzione.

Infine, la Corte rimarrà competente a valutare la costituzionalità delle singole leggi di differenziazione che dovessero essere adottate, qualora venissero impugnate da altre regioni o in via incidentale.

 

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contratto a tutele crescenti

Contratto a tutele crescenti: guida breve Contratto a tutele crescenti: come funziona, cosa lo distingue dal contratto tradizionale e quali impatti ha per le imprese e i lavoratori

Contratto a tutele crescenti: cos’è

Il contratto a tutele crescenti rappresenta una delle innovazioni chiave introdotte dal Decreto Legislativo n. 23/2015, noto come Jobs Act, una riforma del lavoro promossa dal governo Renzi. Questo nuovo tipo di contratto ha avuto un notevole impatto sulle pratiche di assunzione e gestione del lavoro in Italia, implementando un sistema di protezioni per i lavoratori che aumenta con lanzianità. Esso però riduce parzialmente i diritti in caso di licenziamento, soprattutto nelle fasi iniziali del contratto. La misura promuove la flessibilità nel mercato del lavoro italiano e segna un cambiamento significativo nelle norme sui licenziamenti, stabilendo specifiche protezioni per chi è stato assunto dopo l’entrata in vigore della legge o per coloro il cui contratto viene trasformato in uno a tempo indeterminato.

Regolamentazione dei licenziamenti

Il decreto si applica ai lavoratori subordinati assunti con contratti a tempo indeterminato dalla sua entrata in vigore, includendo anche le conversioni da contratti precedenti. La normativa riguarda principalmente operai, impiegati e quadri e introduce un regime di tutele crescenti basato sull’anzianità di servizio. Questo sistema assicura protezioni economiche progressive e limita il reintegro sul lavoro solo in casi specifici di licenziamenti nulli, discriminatori o disciplinari ingiustificati. Approfondiamo nei dettagli.

Licenziamento discriminatorio e nullo

In caso di licenziamento discriminatorio, nullo o comunicato oralmente, il giudice ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro indipendentemente dal motivo formale indicato dal datore. Inoltre, è previsto un risarcimento minimo pari a cinque mensilità dell’ultima retribuzione oltre al pagamento dei contributi previdenziali per il periodo di esclusione. Tuttavia, il lavoratore può scegliere un’indennità sostitutiva pari a quindici mensilità terminando così il rapporto lavorativo.

Licenziamento per giustificato motivo e giusta causa

Il decreto distingue i licenziamenti per giustificato motivo soggettivo o oggettivo e per giusta causa. Se il giudice verifica l’assenza dei motivi giustificativi del licenziamento, dichiara estinto il rapporto lavorativo riconoscendo al lavoratore un’indennità economica proporzionale all’anzianità di servizio variabile tra sei e trentasei mensilità. Quando viene dimostrata l’insussistenza del fatto contestato, il giudice ordina la reintegrazione con un risarcimento massimo di dodici mensilità.

Licenziamenti collettivi

In caso di licenziamenti collettivi, il decreto prevede sanzioni per irregolarità procedurali o violazioni nei criteri di selezione. Se non comunicato in forma scritta, si applica lo stesso regime dei licenziamenti discriminatori o nulli con possibilità di reintegro e risarcimento. In altre situazioni, spetta al lavoratore un’indennità calcolata sull’anzianità.

Funzionamento del contratto a tutele crescenti

Il principale vantaggio del contratto a tutele crescenti è l’indennizzo previsto in caso di licenziamento illegittimo che aumenta con l’anzianità dopo il periodo iniziale. Se si verifica un licenziamento senza giusta causa o motivo valido:

  • nei primi tre anni: il lavoratore ha diritto a un’indennità tra 1 e 6 mensilità secondo l’anzianità, ma fino a 36 mesi massimo;
  • oltre tre anni: le protezioni aumentano significativamente col tempo sino a 36 mensilità. Per i motivi economici o aziendali non vi è reintegrazione, ma solo indennizzo economico variabile secondo durata contrattuale e circostanze.

Differenze rispetto al contratto tradizionale

Rispetto al contratto tradizionale a tempo indeterminato dove il lavoratore ha diritto sia all’indennizzo che alla reintegrazione senza giusta causa se non ci sono validi motivi economici; nel sistema delle tutele crescenti la reintegrazione avviene solo in casi discriminatori o violazione dei diritti inviolabili (come nel caso della donna incinta), negli altri casi c’è solo un’indennità economica.

Vantaggi per aziende e dipendenti

Il contratto offre vantaggi sia alle aziende che ai dipendenti. Per le imprese è una soluzione più flessibile permettendo una gestione più agevole delle risorse umane senza costosi esborsi economici. Ai dipendenti garantisce invece una maggiore stabilità col passare degli anni grazie alle crescenti tutele sebbene inizialmente limitate.

Critiche e preoccupazioni

Nonostante i benefici ci sono critiche poiché alcune parti ritengono che questo sistema possa ridurre la protezione dei lavoratori nei primi anni favorendo una maggiore flessibilità. La limitazione della reintegrazione potrebbe diminuire la tutela contro i licenziamenti ingiusti portando minor sicurezza soprattutto ai giovani meno esperti, esposti maggiormente nei primi anni contrattuali.

 

Leggi anche: Jobs Act: nuovo intervento della Consulta

messa alla prova

Messa alla prova La messa alla prova è un istituto giuridico di diritto penale che permette di evitare la condanna se si rispetta il programma di recupero

Messa alla prova: analisi della disciplina

La messa alla prova è un istituto giuridico che consente a un imputato di affrontare un processo penale senza la condanna, purché dimostri il proprio impegno nel seguire un programma di recupero sociale. Questo strumento ha come obiettivo la rieducazione e il reinserimento del reo nella società, riducendo così il ricorso alla pena detentiva. In Italia, la messa alla prova è disciplinata dalla Legge 67/2014, modificata dal D.Lgs. n. 150/2022, con l’intento di rafforzare e migliorare l’efficacia di questa misura alternativa alla pena.

Introduzione della messa alla prova

La Legge 67/2014 ha introdotto nel sistema penale italiano l’istituto della messa alla prova, applicabile a imputati per reati di natura non grave. L’idea alla base di questa legge è quella di offrire a chi ha commesso un reato l’opportunità di evitare la pena detentiva a condizione che accetti di intraprendere un percorso di recupero e di reintegrazione sociale, sotto il controllo delle autorità competenti.

L’istituto può essere richiesto per reati punibili con pene inferiori a 4 anni di reclusione, salvo specifiche esclusioni. Esso è applicabile in particolare a persone con un’età inferiore ai 21 anni al momento del reato, a chi ha compiuto 70 anni, o a chi è affetto da patologie che ne rendono incompatibile l’esecuzione della pena.

Durante il periodo della messa alla prova, l’imputato può essere obbligato a svolgere attività socialmente utili, partecipare a corsi di formazione o seguire programmi terapeutici, a seconda del tipo di reato commesso e della valutazione del giudice. Se l’imputato completa con successo il programma, il processo penale si conclude con un esito positivo, evitando la condanna.

Novità del decreto legislativo n. 150/2022

Il D.Lgs. n. 150/2022, entrato in vigore il 17 ottobre 2022, ha apportato rilevanti modifiche alla Legge 67/2014, per rendere l’istituto uno strumento ancora più efficace e accessibile, mirando a una maggiore personalizzazione del trattamento e alla riduzione dei tempi processuali.

Una delle principali novità riguarda l’ampliamento delle categorie di reati per cui è possibile richiedere la messa alla prova. Il decreto legislativo 150/2022 ha esteso l’istituto anche a reati che, pur non essendo di particolare gravità, erano precedentemente esclusi da questa misura alternativa. Inoltre, il decreto ha reso più flessibile la durata dell’istituto, permettendo di adattarla alle necessità del singolo individuo e al tipo di programma scelto.

Una novità significativa riguarda anche l’introduzione di meccanismi di monitoraggio più efficienti. La legge 150/2022 ha reso più stringente il sistema di controllo sull’osservanza degli impegni assunti dall’imputato, con un maggiore coinvolgimento dei servizi sociali e delle agenzie di recupero. Ciò permette di garantire che il processo di rieducazione e reintegrazione sia effettivamente seguito e che venga rispettato dagli imputati.

Come funziona la messa alla prova

Il funzionamento della messa alla prova prevede che il giudice verifichi, su richiesta dell’imputato, se sussistono le condizioni per l’applicazione di questa misura. In caso positivo, il giudice stabilisce le modalità e le condizioni specifiche per il programma di recupero. Il periodo di messa alla prova varia in base alla tipologia di reato e alle esigenze di recupero dell’imputato. L’articolo 168 c.p stabilisce in ogni caso che “La prestazione è svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato e la sua durata giornaliera non può superare le otto ore. La sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato non può essere concessa più di una volta.”

Nel periodo stabilito, l’imputato è tenuto a completare attività lavorative o socialmente utili, attività educative, corsi di formazione o di terapia, a seconda del piano stabilito. Se al termine del programma il giudice ritiene che l’imputato abbia adempiuto agli obblighi previsti, il procedimento penale viene archiviato e non viene inflitta alcuna condanna.

Se, invece, l’imputato non rispetta le condizioni della messa alla prova, il giudice può decidere di revocarla, con conseguente ripristino del processo penale. In tal caso, l’imputato viene giudicato secondo le modalità ordinarie.

I benefici della misura

La messa alla prova offre numerosi vantaggi sia per l’imputato che per la società. Tra i benefici principali della misura ci sono i seguenti:

  • evitare il carcere: la messa alla prova consente di evitare la pena detentiva, che può essere particolarmente gravosa per il reo e dannosa per il suo reinserimento sociale;
  • promuovere la rieducazione: attraverso attività socialmente utili e programmi di formazione, l’imputato ha l’opportunità di recuperare e reintegrarsi nella società;
  • decongestionare il sistema penale: la messa alla prova riduce il carico di lavoro per i tribunali e le carceri, contribuendo a snellire i processi e a garantire una giustizia più rapida;
  • risparmio di risorse: il sistema di messa alla prova, che prevede l’utilizzo di risorse esterne come associazioni di volontariato, è anche un modo per ottimizzare i costi del sistema giudiziario e penitenziario.

 

Leggi anche: Messa alla prova e domiciliari sono compatibili

giurista risponde

Delitto di concussione e mancanza di coercizione psicologica È configurabile il delitto di concussione nel caso in cui la condotta intimidatoria del pubblico agente non determini uno stato di coercizione psicologica nel soggetto passivo?

Quesito con risposta a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti

 

Non è configurabile il delitto di concussione nel caso in cui la condotta del pubblico agente si risolva in un mero condizionamento, o in un’attività di generica persuasione, che non si estrinsechi in una forma di intimidazione obiettivamente idonea a determinare uno stato di coercizione psicologica nel soggetto passivo (Cass., sez. VI, 4 ottobre 2024, n. 36951).

Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a valutare l’applicazione del regime dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni ex art. 393 c.p., in luogo della fattispecie di concussione ex art. 317 c.p.

La Corte d’Appello territoriale, invero, aveva confermato la condanna del ricorrente per i delitti di concussione tentata e consumata, dichiarando inammissibile l’appello proposto dalla parte civile. L’imputato, all’epoca dei fatti appuntato scelto dai Carabinieri, era stato ritenuto responsabile di detti reati in relazione alle condotte tenute al fine di ottenere il risarcimento dei danni della propria autovettura, commessi da minori non identificati. Tali condotte sono consistite nel convocare i genitori dei minori sospettati di essere tra i possibili autori del danneggiamento, presentandosi, in una occasione, in divisa, nel chiedere loro con insistenza di individuare i colpevoli o di contribuire tutti alla riparazione dell’auto, sulla base di preventivi presentati dallo stesso ricorrente, richiesta cui aderivano solo alcuni dei genitori, raccogliendo una somma di danaro che, tuttavia, veniva rifiutata dall’imputato, poiché inferiore all’importo richiesto dallo stesso nei preventivi predetti.

Avverso la sentenza della Corte territoriale, l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione deducendo, in primo luogo, la mancanza della condizione di coazione psicologica delle vittime. Egli, infatti, aveva agito in qualità di privato cittadino e senza provocare nei genitori – come riferito da un teste – alcuna forma di timore riverenziale.

La Suprema Corte ha ritenuto fondati il primo e il terzo motivo, cui assorbiva gli altri.

La Corte, preliminarmente, evidenziava che il delitto di concussione richiede una condotta di prevaricazione abusiva del funzionario pubblico, commessa con abuso dei suoi poteri o delle sue qualità, che incida in modo significativo sulla libertà di autodeterminazione del destinatario, costringendolo alla dazione o alla promessa indebita.

È fondamentale, dunque, ai fini della configurabilità del reato, che l’agente pubblico si sia avvalso della posizione di preminenza sul privato, per cercare di prevaricarne le scelte e le decisioni (Cass., sez. VI, 4 giugno 2021, n. 24560), atteso che l’avverbio “indebitamente”, utilizzato nell’art. 317 c.p., qualifica non già l’oggetto della pretesa del pubblico ufficiale, la quale può anche non essere oggettivamente illecita, quanto le modalità della sua richiesta e della sua realizzazione (Cass., sez. VI, 1° febbraio 2011, n. 27444).

Le Sezioni Unite hanno chiarito che il delitto di concussione è caratterizzato, dal punto di vista oggettivo, da un abuso costrittivo del pubblico agente che si attua mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno “contra ius”, da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che, senza alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all’alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita; inoltre, si distingue dal delitto di induzione indebita, previsto dall’art. 319quater c.p., la cui condotta si configura come persuasione, suggestione, inganno (sempre che quest’ultimo non si risolva in un’induzione in errore), pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivato dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico (Cass., Sez. Un., 24 ottobre 2013, n. 12228).

Le Sezioni Unite hanno, inoltre, perimetrato il confine tra le due modalità di realizzazione della condotta del pubblico agente chiarendo, in primo luogo, che l’abuso della qualità – c.d. abuso soggettivoconsiste nell’uso indebito della posizione personale rivestita dal pubblico funzionario e, quindi, nella strumentalizzazione da parte di costui non di una sua attribuzione specifica, bensì della propria qualifica soggettiva – senza alcuna correlazione con atti dell’ufficio o del servizio – così da fare sorgere nel privato rappresentazioni costrittive o induttive di prestazioni non dovute. In secondo luogo, le Sezioni Unite evidenziavano che tale abuso della qualità, per assumere rilievo come condotta costrittiva o induttiva (rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 319quater c.p.), deve sempre concretizzarsi in un facere” (non è configurabile in forma omissiva) e deve avere una efficacia psicologicamente motivante per il soggetto privato che deve comunque avvertire la possibile estrinsecazione dei poteri del pubblico agente, con conseguenze per sé pregiudizievoli o anche ingiustamente favorevoli e, proprio per scongiurare le prime o assicurarsi le seconde, decide di aderire all’indebita richiesta. In terzo luogo, l’abuso dei poteri – c.d. abuso oggettivo – consiste invece nella strumentalizzazione da parte del pubblico agente dei poteri a lui conferiti, nel senso che questi sono esercitati in modo distorto, vale a dire per uno scopo oggettivamente diverso da quello per cui sono stati conferiti e in violazione delle regole giuridiche di legalità, imparzialità e buon andamento dell’attività amministrativa. Infine, tale abuso può essere realizzato in forma sia commissiva che omissiva, potendo il pubblico funzionario deliberatamente astenersi dall’esercizio dei propri poteri, ricorrendo a sistemi defatigatori di ritardo o di ostruzionismo volti a conseguire la dazione o la promessa di denaro o di altre utilità in cambio del sollecito compimento dell’atto richiesto.

Affinché possa configurarsi il delitto di concussione, occorre, dunque, che, attraverso tale abuso, dei poteri o delle qualità, il pubblico ufficiale, o l’incaricato di un pubblico servizio, eserciti forme di pressione di tale intensità da non lasciare margine alla libertà di autodeterminazione del destinatario della pretesa illecita, che, di conseguenza, si determina alla dazione o alla promessa esclusivamente per evitare il danno minacciato.

Nel caso di specie, pertanto, ad avviso dei giudici di legittimità, la Corte territoriale, formulando una valutazione che esulava da tali coordinate ermeneutiche, si era limitata a porre l’accento su alcuni particolari di per sé non determinanti, quali la qualifica pubblicistica del ricorrente -indipendentemente da una sua effettiva strumentalizzazione, ma solo in quanto nota a tutti i genitori – e il fatto che lo stesso si sia presentato ad una riunione in divisa.

Invero, secondo quanto emerge dalle due sentenze di merito, l’imputato si era sostanzialmente limitato ad una generica pressione, prospettando le possibili ragioni di convenienza legate a eventuali indagini sui danneggiamenti o di carattere socio-familiare da parte dei servizi sociali, qualora non fossero stati individuati gli autori dei danneggiamenti ovvero non si fosse provveduto, in ogni caso, alla riparazione dell’auto privata del ricorrente.

Tale richiesta, sebbene posta in essere nei confronti di soggetti che ne conoscevano l’appartenenza all’Arma dei Carabinieri, non appare in alcun modo attuata con modalità tali da configurare quella indebita strumentalizzazione della qualifica o del potere idonea a coartare la volontà dei destinatari. Egli, infatti, si era limitato a chiedere loro di individuare i colpevoli o, comunque, di attivarsi al fine di risarcirlo del danno, pretesa quest’ultima che, sebbene censurabile sotto un profilo civilistico, non risulta accompagnata da alcuna prospettazione di un male ingiusto che ne giustifichi una rilevanza agli effetti penali (tale non potendosi intendere il generico riferimento alle indagini che sarebbero state svolte in caso di denuncia riguardante minorenni).

Siffatta condotta esorbita dal perimetro della “costrizione”, come sopra definita, trattandosi di una mera pressione che, oltre a non apparire correlata ad un abuso né dei poteri né della qualità del ricorrente, per le modalità con le quali è stata esercita non appare idonea ad incidere sulla libertà di autodeterminazione dei destinatari della richiesta.

Deve, dunque, ribadirsi che non è configurabile il delitto di concussione nel caso in cui la condotta del pubblico agente si risolva in un mero condizionamento, o in un’attività di generica persuasione, che non si estrinsechi in una forma di intimidazione obiettivamente idonea a determinare uno stato di coercizione psicologica nel soggetto passivo.

 

(*Contributo in tema di “Sinistro stradale e risarcimento del terzo trasportato”, a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

definizione agevolata

Definizione agevolata liti tributarie: legittima per la Consulta La Corte Costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità sollevate sulla legge che disciplina la definizione agevolata delle controversie tributarie

Definizione liti tributarie

Definizione agevolata delle controversie tributarie: non sono lesi i principi costituzionali. Così, la Consulta, con la sentenza n. 189/2024 ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 198, della legge n. 197 del 2022, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 53 e 111 Cost., dalle Corti di giustizia tributaria di secondo grado della Calabria e del Lazio.

“La declaratoria di estinzione del processo, che la disposizione censurata correla al deposito di copia della domanda di definizione e del versamento degli importi dovuti o della prima rata, è frutto di una scelta del Parlamento non irragionevole, volta a favorire l’immediata chiusura delle controversie tributarie pendenti e a incentivare i pagamenti non ancora eseguiti, senza determinare alcun effetto preclusivo del diritto di azione o difesa, né una lesione della parità delle parti nel processo” ha affermato la Corte.

Con specifico riferimento all’ipotesi in cui la dichiarazione di estinzione avvenga a seguito del pagamento della sola prima rata, la Corte ha escluso che ne discenda il venir meno del credito tributario residuo, poiché l’art. 1, comma 194, della stessa legge n. 197 del 2022 rinvia ad altre disposizioni che consentono la nuova iscrizione a ruolo degli importi non pagati, maggiorati di interessi e sanzioni.

La sentenza ha altresì escluso “una violazione del principio di capacità contributiva, in quanto la disciplina della definizione agevolata risulta coerente con i presupposti economici cui le rispettive imposizioni sono collegate e non si riduce a un intervento contrario al valore costituzionale del dovere tributario, né tale da recare pregiudizio al sistema dei diritti civili e sociali tutelati dalla Costituzione”.

La Corte ha, infine, dichiarato inammissibili, per difetto di rilevanza, le questioni concernenti i commi 200 e 201 dell’art. 1 della stessa legge n. 197 del 2022, “relativi al caso in cui il procedimento amministrativo avviato con la richiesta di definizione agevolata si chiuda con un provvedimento di diniego”.