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Differimento del termine per l’esercizio del potere di autotutela È consentito il differimento del termine per l’esercizio del potere di autotutela in caso di inerzia dell’amministrazione nell’esaminare gli atti del procedimento?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il differimento del termine per l’esercizio del potere di autotutela in relazione a una denuncia di inizio attività è consentito nei casi in cui il soggetto richiedente ha rappresentato uno stato preesistente diverso da quello reale (Cons. Stato, sez. VI, 23 luglio 2024, n. 6636).

Preliminarmente è opportuno ricordare che il differimento del termine iniziale per l’esercizio del potere di autotutela, ai sensi dell’art. 21nonies della L. 241/1990, deve essere determinato dalla impossibilità per l’amministrazione, a causa del comportamento dell’istante, di svolgere un compiuto accertamento sulla spettanza del bene della vita nell’ambito della fase istruttoria del procedimento di primo grado. Viceversa, nel caso in cui l’amministrazione sia nelle condizioni di conoscere lo stato dei luoghi e la conformità documentale, l’inerzia nell’esaminare gli atti, come nella DIA, si rivela del tutto ingiustificata.

Il superamento del limite temporale per l’esercizio del potere di autotutela in relazione a una denuncia di inizio attività è, dunque, consentito nei casi in cui il soggetto richiedente ha rappresentato uno stato preesistente diverso da quello reale, con conseguente impossibilità per la P.A. di conoscere fatti e circostanze rilevanti, imputabile al soggetto che ha beneficiato del rilascio del titolo, non potendo la negligenza dell’amministrazione procedente tradursi in un vantaggio per la stessa. Pertanto, il dies a quo di decorrenza del termine per l’esercizio dell’autotutela deve essere individuato nel momento della scoperta, da parte dell’amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro.

Con riguardo alla vicenda in esame la Sezione ha riscontrato l’esercizio del potere di autotutela dopo oltre sei anni dalla presentazione della denuncia di inizio attività e pertanto tale tempo si configura come non ragionevole rispetto ai limiti posti all’esercizio dello ius poenitendi tratteggiato dalla disciplina dell’autotutela e rispetto alla posizione di affidamento del soggetto destinatario dell’atto di ritiro, in ragione del lungo tempo trascorso dall’adozione della DIA annullata.

(*Contributo in tema di “Differimento del termine per l’esercizio del potere di autotutela in caso di inerzia”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Omesso versamento ritenute in caso di situazione economica di difficoltà In materia di reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali può integrare una causa di esclusione della responsabilità penale l’assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta in presenza di una situazione economica di difficoltà?

Quesito con risposta a cura di Alessandra Fantauzzi e Viviana Guancini

 

Costituisce costante indirizzo di legittimità quello per cui, nel reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, l’imputato può invocare l’assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee, da valutarsi in concreto (Cass. pen., sez. III, 19 agosto 2024, n. 32682).

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la sussistenza dell’elemento soggettivo sul piano dell’effettiva rimproverabilità al ricorrente degli omessi versamenti previdenziali e assistenziali.

In primo e secondo grado era stata affermata la responsabilità penale dell’imputato in relazione al reato continuato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali per gli anni 2016 e 2017.

Avverso la sentenza l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione, contestando, per quanto qui di interesse, l’erronea individuazione dell’elemento soggettivo del reato. In particolare, la difesa ha lamentato l’omessa valutazione da parte dei giudici di merito di ogni apprezzamento in punto di esigibilità soggettiva non avendo considerato quanto dedotto nell’atto di appello in ordine alla crisi d’impresa.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, accogliendo il ricorso, ha ribadito un costante indirizzo di legittimità secondo cui nel reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, l’imputato può invocare l’assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee, da valutarsi in concreto.

Alla luce di tale principio di diritto i giudici di legittimità hanno affermato che correttamente la difesa ha lamentato la mancata valutazione delle allegazioni difensive, e della documentazione allegata, concernenti l’importante crisi preceduta dal crollo del fatturato che aveva colpito la società. In particolare, il ricorrente aveva evidenziato: che la società era stata costretta a lavorare in perdita in regime di mono-committenza per un unico cliente; l’impossibilità di accedere al credito bancario; la revoca degli affidamenti; gli elevati tassi applicati da altro istituto di credito.

Tali allegazioni sono ritenute dalla Corte potenzialmente idonee a incidere sulla complessiva valutazione della vicenda in termini di effettiva rimproverabilità al soggetto agente. Pertanto, il Collegio annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello.

 

(*Contributo in tema di “Omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali in caso di situazione economica di difficoltà”, a cura di Alessandra Fantauzzi e Viviana Guancini, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Bancarotta fraudolenta: individuazione dei soggetti di cui agli artt. 216 e 223 L.F. Con riferimento ai reati in materia fallimentare, quali elementi vanno valorizzati al fine di individuare i destinatari delle norme di cui agli artt. 216 e 223 della legge fallimentare (R.D. 16 marzo 1942, n. 267)?

Quesito con risposta a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti

 

In tema di bancarotta fraudolenta, i destinatari delle norme di cui agli artt. 216 e 223 l. fall. vanno individuati sulla base delle concrete funzioni esercitate, non già rapportandosi alle mere qualifiche formali ovvero alla rilevanza degli atti posti in essere in adempimento della qualifica ricoperta (Cass., sez. V, 2 ottobre 2024 n. 36582).

Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la correttezza della scelta di attribuire all’imputato la qualità di amministratore di fatto di una società poi fallita, alla quale è seguita, in primo e secondo grado, la condanna per i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione (art. 216 l. fall.), di bancarotta impropria (art. 223 l. fall), nonché di rilascio di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8 D.Lgs. 74/2000).

Viene quindi proposto ricorso per Cassazione, contestando l’erronea attribuzione all’imputato della qualità di amministratore di fatto della società fallita.

In particolare, si obiettava la mancata considerazione di elementi ritenuti di valore decisivo ai fini della esclusione del riconoscimento di tale qualità in capo all’imputato.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, rigettando il ricorso, ha ricordato gli elementi alla luce dei quali poter dedurre, in tema di reati fallimentari, la sussistenza in capo al reo della qualifica di amministratore di fatto, tutti fondati sulle funzioni e sulle attività concretamente esercitate dal soggetto agente, a prescindere dalla veste formalmente assunta.

Tra questi, a titolo esemplificativo, si è citato l’organico inserimento del soggetto, quale “intraneus” che svolge funzioni gerarchiche e direttive, nell’iter di organizzazione, produzione e commercializzazione di beni e servizi; la gestione dei rapporti di lavoro con i dipendenti, dei rapporti materiali e negoziali con i finanziatori, i fornitori e i clienti; ovvero, l’ideazione e l’organizzazione di un sistema fraudolento basato sull’utilizzo di una società quale schermo per realizzare condotte truffaldine, finalizzate al reperimento di risorse poi distratte.

La Suprema Corte ha, in primo luogo, ritenuto che il giudice di secondo grado abbia fatto buon governo degli elementi fin qui richiamati, attribuendo correttamente all’imputato la qualifica di amministratore di fatto della società poi fallita, e, in secondo luogo, ricordando un condivisibile orientamento della giurisprudenza di legittimità, ha affermato che non è censurabile in sede di legittimità la sentenza che indichi con adeguatezza e logicità le circostanze e le emergenze processuali che siano state determinanti per la formazione del convincimento del giudice e che consentano l’individuazione dell’iter logico-giuridico seguito per addivenire alla statuizione adottata.

Nel caso di specie, avendo ritenuto corretta l’attribuzione, operata dai giudici di merito, all’imputato della qualità di amministratore di fatto della società fallita, utilizzata quale schermo per commettere i reati fallimentari e tributari a lui ascritti, la Cassazione ha rigettato il ricorso.

 

(*Contributo in tema di “Bancarotta fraudolenta: individuazione dei soggetti di cui agli artt. 216 e 223 Legge Fallimentare”, a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Appropriazione indebita: quando si consuma il reato Ai fini della individuazione del tempus commissi delicti con riferimento al reato di appropriazione indebita, a rilevare è il momento in cui viene realizzata la prima condotta appropriativa o il momento in cui la persona offesa viene a conoscenza del comportamento illecito?

Quesito con risposta a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti

 

Il delitto di appropriazione indebita è reato istantaneo che si consuma con la prima condotta appropriativa, nel momento in cui l’agente compie un atto di dominio sulla cosa con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria, con la conseguenza che il momento in cui la persona offesa viene a conoscenza del comportamento illecito è irrilevante ai fini della individuazione della data di consumazione del reato e di inizio della decorrenza del termine di prescrizione (Cass., sez. II, 27 settembre 2024 n. 36177).

Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a valutare se il reato ascritto all’imputato si fosse estinto, prima dell’emanazione della sentenza di primo grado, per intervenuta prescrizione.

In primo e secondo grado i giudici di merito avevano considerato il reato non estinto per prescrizione, individuando quale data di commissione del medesimo quella in cui l’imputato aveva negato alle parti civili la restituzione delle somme di denaro richiestegli, ritenendo inoltre, alla luce di tale data, tempestiva la proposizione della querela.

Viene proposto quindi ricorso per Cassazione, contestando l’erronea individuazione del tempus commissi delicti, nonché la tardività nella proposizione della querela.

In particolare, si obiettava che il reato di appropriazione indebita doveva considerarsi perfezionato alla data della scadenza del contratto di deposito irregolare, dovendo ritenersi, in primo luogo, tardiva la proposizione della querela da parte dei titolari delle somme di denaro di cui si chiedeva la restituzione e, in secondo luogo, il reato estinto per intervenuta prescrizione, già prima della emanazione della sentenza di primo grado.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, dichiarando inammissibile il ricorso alla luce della manifesta infondatezza delle censure proposte, ha ricordato quando stabilito da una risalente ma sempre attuale pronunzia di legittimità (Cass. pen., sez. II, 2 febbraio 1972, n. 6872), secondo cui l’inutile scadenza del termine di adempimento di una obbligazione civilistica che imponga la restituzione di una cosa altrui non determina, né prova, di per sé, la consumazione del reato di appropriazione indebita; perché ciò avvenga è necessario che, in base a concludenti circostanze di fatto (che possono anche essere diverse dal dare alla cosa una destinazione incompatibile con il titolo del suo precedente e legittimo possesso, e possono consistere anche nel rifiuto ingiustificato della restituzione), sia rivelato il carattere intenzionale (caratterizzante l’elemento soggettivo del reato) della omessa restituzione, nel senso che in quest’ultima coincida, in uno con l’elemento materiale del reato (intrinsecamente inerente alla protrazione non più giustificata del possesso nella persona dell’agente), anche l’elemento soggettivo, inerente alla volontà di invertire il titolo del possesso medesimo appropriandosi della cosa al fine di trarne ingiusto profitto.

Nel caso di specie, il tempus commissi delicti, come correttamente valutato dai giudici di merito, era coinciso con la data in cui l’imputato aveva spedito una lettera raccomandata alle parti civili, ricusando la loro richiesta di restituzione degli importi detenuti e con la quale veniva di fatto esteriorizzato l’animus domini dell’odierno imputato in merito alle somme di denaro detenute, restando del tutto irrilevante, ai fini penalistici, la scadenza del termine entro la quale andava adempiuta l’obbligazione civilistica restitutoria.

Ritenendo quindi corrette le valutazioni operate dai giudici di merito, la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso e infondate le censure prospettate.

(*Contributo in tema di “Appropriazione indebita: quando si consuma il reato”, a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Procedure di gara: il termine per ricorrere Quali i termini per ricorrere nelle procedure di gara?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Nell’ambito delle procedure di gara, ai fine dell’esperibilità del ricorso, trova applicazione il termine decadenziale dei trenta giorni, laddove la comunicazione degli esiti di gara abbia esaustivamente soddisfatto l’interesse sostanziale conoscitivo; nel caso contrario trova applicazione il termine di quarantacinque giorni (T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 25 settembre 2024, n. 1721).

Preliminarmente, è opportuno ricordare che l’art. 120 del codice del processo amministrativo prevede che il termine decorre, per il ricorso principale ed i motivi aggiunti, dalla ricezione della comunicazione di cui all’art. 90 del D.Lgs. 36/2023 oppure dal momento in cui gli atti sono messi a disposizione per tutti i concorrenti non esclusi, ai sensi dell’art. 36 del medesimo codice dei contratti pubblici.

Dunque, la decorrenza del termine per ricorrere differisce che si tratti di ricezione della comunicazione ex art. 90 oppure della messa a disposizione degli atti ex art. 36, mediante la procedura dell’accesso.

A tal proposito soccorrono le regole cardine della pienezza conoscitiva strumentali all’inviolabilità del diritto di difesa, costituzionalmente tutelato.

Pertanto, nell’ambito delle controversie ex art. 120 c.p.a., laddove la comunicazione degli esiti di gara (ex art. 90) abbia esaustivamente soddisfatto l’interesse sostanziale conoscitivo e non sia necessario attendere la messa a disposizione per tutti i concorrenti non esclusi, trova applicazione il tradizionale termine decadenziale dei trenta giorni ai fini dell’esperibilità del ricorso avverso gli atti di gara. Nel caso contrario in cui la conoscenza di atti ulteriori e diversi assurga a condizione ineludibile per poter acquisire una pienezza conoscitiva, rintracciabile mediante l’istituto dell’accesso formale, allora opera la logica della dilazione temporale con un’estensione fino ai quarantacinque giorni.

 

(*Contributo in tema di “Procedure di gara: il termine per ricorrere”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Diniego di accesso e segreto professionale È legittimo il diniego di accesso ad atti coperti dal segreto professionale?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, è legittimo il diniego di accesso ad atti coperti dal segreto professionale che rientra tra i casi di esclusione previsti dall’art. 24, comma 1, lett. a), della L. 241/1990 (Cons. Stato, sez. VII, 19 settembre 2024, n. 7658).

È opportuno preliminarmente ricordare che l’art. 24 della legge sul procedimento amministrativo disciplina i casi di esclusione del diritto di accesso: a) per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi della L. 801/1977, e successive modificazioni, e nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge, dal regolamento governativo di cui al comma 6 e dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del comma 2 del presente articolo; b) nei procedimenti tributari; c) nei confronti dell’attività della pubblica amministrazione diretta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione; d) nei procedimenti selettivi, nei confronti dei documenti amministrativi contenenti informazioni di carattere psicoattitudinale relativi a terzi.

Il secondo comma dell’art. 24 prevede che, le singole pubbliche amministrazioni individuano le categorie di documenti da esse formati o comunque rientranti nella loro disponibilità sottratti all’accesso ai sensi del comma 1.

Il Consiglio di Stato ha ritenuto legittimo il diniego di accesso ad atti coperti dal segreto professionale facendolo rientrare tra i casi di esclusione previsti dall’art. 24, comma 1, lett. a), della L. 241/1990, rendendo, pertanto, superflua la mancata formalizzazione della opposizione del professionista interessato.

Infatti, il segreto professionale è posto a tutela, oltre che degli assistiti, anche della libertà di scienza che, nell’esercizio dell’attività professionale, deve essere garantita ai prestatori d’opera intellettuale ai sensi dell’art. 2239 c.c. e dell’art. 33 Cost. Tale libertà potrebbe risultare gravemente compromessa qualora non si garantisse la riservatezza delle valutazioni, dei giudizi e delle opinioni espresse nel corso dell’attività professionale.

(*Contributo in tema di “Procedure di gara: il termine per ricorrere”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Condizione sospensiva nella disposizione testamentaria Quali effetti si producono sul testamento in caso di apposizione di onere o condizione sospensiva non avveratasi per esclusiva volontà del disponente?

Quesito con risposta a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo

 

In materia successoria, ove il testatore, dopo avere apposto una condizione sospensiva alla disposizione testamentaria, dipendente anche dalla sua volontà, ne impedisca l’avveramento, la disposizione testamentaria, ove non revocata, resta pienamente efficace (Cass., sez. II, ord. 18 settembre 2024, n. 25116).

Il caso di specie origina da un testamento olografo con cui il testatore istituisce come eredi universali due nipoti chiedendo loro di occuparsi del suo accudimento, nel paese natio, fintantoché in vita.

A seguito di impugnazione dell’anzidetto atto mortis causa, l’adito Tribunale, nel rigettare le domande principali e quelle riconvenzionali, escluse che con il testamento fosse stato istituito un patto successorio vietato dalla legge e che lo stesso fosse viziato da errore, violenza o dolo.

Quanto all’impegno per l’accudimento, sostenne che si ebbe a trattare di un mero desiderio, privo d’efficacia condizionante e che la conclusione non sarebbe mutata pur ove lo si fosse considerato come onere, trattandosi di adempimento, originariamente possibile, successivamente divenuto impossibile per decisione del testatore, il quale aveva categoricamente rifiutato di trasferirsi nel paese natio e di essere accudito dai nipoti.

Anche la Corte di appello territoriale rigettò l’impugnazione, sia pure modificando e integrando la motivazione del giudice di primo grado: non può trattarsi di onere per la ragione decisiva che esso presuppone l’avvenuta delazione. Invero, nel caso in esame, si trattava di prestare assistenza al testatore in vita.

Dal complessivo vaglio probatorio doveva escludersi che il testatore volesse esprimere un mero desiderio privo di rilevanza giuridica. Si trattava, invece, di condizione sospensiva, divenuta impossibile per successivo volere dello stesso disponente, ma non originariamente tale; da qui la non applicabilità dell’art. 634, comma 2, c.c., con il risultato che doveva trovare applicazione l’art. 1359 c.c., riferibile anche alla condotta di colui che abbia dimostrato, con una condotta successiva, di non avere più interesse al verificarsi della condizione, con la conseguenza che la stessa deve ritenersi adempiuta (così anche Cass., sez. II, 18 novembre 2011, n. 24325; Cass. 20 luglio 2004, n. 13457).

Viene proposto ricorso per Cassazione in cui i ricorrenti assumono che la Corte aveva violato la regola ermeneutica sopra richiamata.

In materia testamentaria, secondo i ricorrenti, con i dovuti adattamenti era applicabile l’art. 1362 c.c., così da evitare che la volontà del testatore venisse prevaricata dall’interprete.

In altri termini, il contenuto letterale deve confrontarsi con il comportamento tenuto dal testatore successivamente alla stesura della scheda: seguendo gli indicati criteri, in alcun modo si sarebbe potuti giungere ad affermare la soddisfazione del disponente col solo e mero fatto dell’assunzione dell’obbligazione di assistenza, non seguita dall’effettiva prestazione, cioè il materiale accudimento.

Con il secondo motivo viene denunciata errata applicazione dell’art. 1359 c.c. in quanto non attinente alla fattispecie in esame, trattandosi di evento possibile, futuro e incerto alla data di redazione del testamento, norma posta a tutela di posizioni giuridiche attive, quali l’aspettativa dell’altro contraente, situazione che non ricorreva affatto nel caso di specie.

La censura è stata rigettata: la previsione normativa anzidetta dispone che la condizione debba considerarsi avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all’avveramento di essa; regola i rapporti fra le parti di un contratto, così da impedire che la parte che resterebbe favorita dal non avveramento, si adoperi, ai danni dell’altra parte, perché ciò avvenga.

La natura di negozio giuridico unilaterale del testamento rende impraticabile l’estensione della regola.

Il Codice civile ha raccolto l’eredità della cd. regola sabiniana, diretta a salvaguardare la volontà testamentaria. L’art. 634 c.c., invero, prevede una disciplina diversa rispetto a quella contemplata per i contratti dall’art. 1354 c.c., diretta a salvaguardare la volontà del disponente; volontà che deve soccombere nel solo caso preveduto dall’art. 626 c.c. (motivo illecito che è stato causa esclusiva della disposizione testamentaria).

L’art. 634 c.c. salvaguarda la volontà del testatore, considerando come non apposte le condizioni impossibili e quelle contrarie a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume.

La condizione apposta al testamento in oggetto non rientra in alcuna delle anzidette categorie e se ne distingue nettamente sotto altro profilo: il mancato avveramento della condizione si è verificato per volere dello stesso disponente, il quale non ha voluto essere assistito in vita dai nominati nipoti. Trattasi, pertanto, di una condizione revocata per volontà dello stesso testatore. È stato proprio il testatore a impedire l’avveramento della condizione e, nonostante ciò, ha mantenuto ferma la nomina a eredi universali dei nipoti: proprio il “favor testamenti” impone comunque la salvezza dell’istituzione testamentaria non revocata, nonostante la revoca, per condotta incompatibile del disponente, della condizione sospensiva apposta.

In ragione delle motivazioni esposte, il ricorso è stato rigettato.

(*Contributo in tema di “Condizione sospensiva nella disposizione testamentaria”, a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Chiamata in causa del terzo costruttore Si può chiamare in causa il terzo costruttore per vizi del bene venduto?

Quesito con risposta a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo

 

Il venditore di un immobile può chiamare in causa il terzo costruttore solo per essere sollevato dalla responsabilità derivante da gravi difetti presenti nella costruzione e non anche per la mancata comunicazione all’acquirente dei vizi della cosa di cui era a conoscenza, poiché si tratta di responsabilità per violazione del principio di correttezza e buona fede nei rapporti contrattuali, di cui all’art. 1175 c.c., che non coinvolge il terzo (Cass., sez. II, 28 agosto 2024, n. 23233).

La Corte di Cassazione, con la sentenza in disamina ha affrontato questioni relative alla responsabilità del costruttore e del venditore per vizi dell’immobile.

Il caso di specie riguarda l’acquisto di un immobile affetto da gravi problemi di umidità e allagamenti dovuti a difetti nel sistema fognario.

L’acquirente dell’immobile aveva citato in giudizio l’alienante per ottenere l’eliminazione dei vizi presenti nello stesso immobile, il rimborso parziale del prezzo ed inoltre il risarcimento dei danni. Il venditore si costituiva chiamando in causa la società costruttrice del fabbricato.

Il Tribunale condannava il solo venditore e non la società costruttrice poiché la domanda era formulata in modo generico e non con l’esperimento di un’azione ex art. 1669 c.c.

Invero, il venditore appellava la sentenza per ottenere la condanna del costruttore.

La Corte d’Appello accertava la responsabilità del costruttore ex art. 1669 c.c. e quella del venditore ex art. 1175 c.c., per non aver comunicato all’acquirente l’esistenza dei vizi dell’immobile di cui era a conoscenza. Condannava, quindi, la società costruttrice a tenere indenne l’appellante da tutte le conseguenze economiche derivanti dal fatto.

La società costruttrice ricorreva per Cassazione ed il ricorso veniva accolto.

La Corte ha, innanzitutto, ribadito che, a norma dell’art. 1669 c.c., la responsabilità del costruttore per gravi difetti dell’immobile sussiste se la scoperta del vizio avviene entro 10 anni dal completamento dell’opera. Il termine decorre dal collaudo e non dalla vendita dell’immobile. La responsabilità dell’appaltatore ai sensi dell’art. 1669 c.c. è “speciale” rispetto a quella generica contemplata dall’art. 2043 c.c.: quest’ultima ricorre in via residuale, qualora non sussistano in concreto le condizioni giuridiche per l’applicabilità della prima (ad esempio, in caso di danno manifestatosi oltre il decennio dal compimento dell’opera).

La Cassazione chiarisce che il termine di un anno per la denuncia del pericolo di rovina o di gravi difetti nella costruzione di un immobile, previsto dall’art. 1669 c.c. a pena di decadenza, può essere postergato all’esito degli accertamenti tecnici che si rendano necessari per comprendere la gravità dei vizi e stabilire il corretto collegamento causale (così anche Cass. 24 aprile 201, n. 10048; Cass. 23 gennaio 2008, n. 1463).

Nel caso di specie il venditore aveva avuto una conoscenza solo imperfetta dei vizi, pertanto, si era esperita una consulenza tecnica grazie alla quale era stata possibile l’imputazione delle cause; pertanto, dalla stessa consulenza occorreva far decorrere il termine di cui all’art. 1669 c.c.

Affinché possa essere fatta valere la responsabilità di cui all’art. 1669 c.c. è necessaria la sussistenza di determinati elementi quali: un bene immobile destinato a lunga durata, la rovina dell’opera già avvenuta (sia nella forma totale che parziale), o anche l’attuale pericolo di rovina nell’immediato futuro; da ultimo l’esistenza di gravi difetti (nozione molto dibattuta in giurisprudenza e nella quale sembrerebbero rientrare tutti i vizi che incidono sugli elementi essenziali dell’immobile) della costruzione che pregiudicano la caratteristica della lunga durata.

Inoltre, la Cassazione ha chiarito che il momento della “scoperta” del vizio coincide con l’acquisizione della piena consapevolezza della sua gravità e delle sue cause, anche attraverso accertamenti tecnici.

Nel caso specifico, tale momento è stato individuato nel deposito della CTU.

La Suprema Corte non ritiene fondati i motivi per cui a fronte di una chiamata in causa del terzo formulata in modo generico in primo grado, la richiesta di risarcimento ex art. 1669 c.c., rivolta allo stesso terzo in secondo grado, deve essere considerata domanda nuova.

Secondo la Suprema Corte il titolo della responsabilità del terzo era già compreso nella ragione che aveva indotto il convenuto a chiamarlo in causa in primo grado, anche in assenza di esplicita domanda in tal senso, poiché la chiamata era rivolta a liberarsi dalla pretesa attorea (Cass. 29 dicembre 2009, n. 27525).

Un importante principio affermato dalla Corte riguarda l’estensione automatica al terzo chiamato (il costruttore) della domanda principale dell’attore contro il convenuto (il venditore), quando la chiamata in causa sia finalizzata a individuare il terzo come unico responsabile.

Ciò in virtù della comunanza del fatto costitutivo delle due fattispecie di responsabilità.

La sentenza ha anche ribadito che una domanda generica di risarcimento danni comprende tutte le possibili voci di danno, incluso quello non patrimoniale, purché siano stati allegati i fatti materiali lesivi. È ammissibile la produzione di documenti anche in fase successiva, se relativi a fatti collegati a quelli originariamente dedotti.

Un passaggio cruciale della decisione riguarda la responsabilità del venditore per violazione dei doveri di buona fede e correttezza.

La Corte ha censurato la sentenza d’Appello nella parte in cui aveva addossato al costruttore anche le conseguenze economiche derivanti dal comportamento scorretto del venditore, che era a conoscenza dei problemi ma non li aveva comunicati all’acquirente. Su questo punto la causa è stata rinviata per un nuovo esame.

Infine, la Cassazione ha confermato che il termine annuale per la denuncia dei vizi ex art. 1669 c.c. decorre solo dall’acquisizione di una “sicura conoscenza” dei difetti e delle loro cause, potendo essere postergato all’esito di accertamenti tecnici necessari.

In conclusione, la sentenza offre importanti chiarimenti su temi quali i termini dell’azione di responsabilità contro il costruttore, l’estensione della domanda al terzo chiamato, l’onere di allegazione dei danni e i doveri di correttezza del venditore.

(*Contributo in tema di “Chiamata in causa del terzo costruttore”, a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Danno del bene custodito e responsabilità del custode Il custode per il danno del bene custodito può essere esonerato dalla responsabilità ove provi la mancanza di colpa?

Quesito con risposta a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo

 

Ai sensi dell’art. 2051 c.c. non è sufficiente – ed è anzi del tutto irrilevante – la dimostrazione dell’assenza di colpa da parte del custode, ma si richiede la prova positiva della causa esterna (fatto materiale, fatto del terzo, fatto dello stesso danneggiato) che – quanto ai fatti materiali e del terzo, per imprevedibilità, eccezionalità, inevitabilità, nonché, quanto a quelli del danneggiato, per anche sola sua colpa – sia completamente estranea alla sfera di controllo del custode, restando così a carico di quest’ultimo anche il danno derivante da causa rimasta ignota (Cass., sez. III, 19 settembre 2024, n. 25200).

La vicenda prende le mosse dalla morte di un ragazzo rimasto folgorato su un lampione cui si era appoggiato per andare a recuperare un pallone da calcio. In particolare, un gruppo di giovani giocava a calcetto, nel corso della partita un ragazzo scavalcava la recinzione per recuperare il pallone finito oltre e, nel rientro appoggiandosi ad un lampione privo di corpo illuminante, decedeva per folgorazione.

Tralasciando, in questa sede la responsabilità penale, procediamo nell’analisi della responsabilità civile ex art. 2051 c.c., in quanto essa trova applicazione anche in situazioni in cui vi è assoluzione in sede penale delle autorità preposte. Invero, la Suprema Corte ricorda che, in materia di rapporti tra giudizio penale e civile, l’assoluzione dell’imputato non preclude la possibilità di affermare la sua responsabilità civile nel giudizio di risarcimento dei danni. Questo perché l’elemento della colpa e del nesso di causalità materiale nel processo civile è valutato dal giudice in modo differente rispetto alla valenza che assume nel processo penale.

Dunque, nel caso di specie sul fronte penale per omicidio colposo, vi sono tre procedimenti: uno nei confronti del responsabile dell’ufficio tecnico del Comune, un altro nei confronti del direttore dei lavori titolare della ditta esecutrice dell’impianto di illuminazione che serviva il piazzale, ed un terzo nei confronti della ditta con cui il Comune aveva stipulato una convenzione avente ad oggetto la manutenzione degli impianti di illuminazione siti sul territorio comunale. I primi due procedimenti si concludevano con pronuncia assolutoria, mentre il terzo si concludeva con una condanna per omicidio colposo.

Sul fronte civile, invece, il Tribunale dichiarava inammissibile la domanda.

La Corte di Appello, accogliendo la domanda dei parenti della vittima, riformava la decisione e condannava il Comune al risarcimento dei danni.

La questione principale riguarda l’individuazione della responsabilità ex art. 2051c.c. del Comune, anche in relazione all’eventuale giudicato penale di assoluzione.

La colpa dei singoli dipendenti del Comune è irrilevante ai fini del titolo di responsabilità di quest’ultimo, la quale è pressoché obiettiva e prescinde dalle condotte negligenti dei singoli.

Così, in materia di rapporti tra giudizio penale e civile, l’assoluzione dell’imputato non preclude la possibilità di pervenire, nel giudizio di risarcimento dei danni intentato a carico dello stesso, all’affermazione della sua responsabilità civile, considerato il diverso atteggiarsi, in tale ambito, sia dell’elemento della colpa che delle modalità di accertamento del nesso di causalità materiale.

La sentenza penale irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste implica che nessuno degli elementi integrativi della fattispecie criminosa sia stato provato e, entro questi limiti, esplica efficacia di giudicato nel giudizio civile, sempreché la parte nei cui confronti l’imputato intende farla valere si sia costituita, quale parte civile, nel processo penale, dovendosi far riferimento, per delineare l’ambito di operatività della sentenza penale e la sua idoneità a provocare gli effetti preclusivi di cui agli artt. 652, 653 e 654 c.p.p. non solo al dispositivo, ma anche alla motivazione.

Nel caso di specie, nel processo penale il Comune, citato come responsabile civile, era chiamato a rispondere del fatto penalmente illecito contestato al funzionario, mentre nel processo civile l’ente è stato chiamato a rispondere per il fatto proprio in relazione alla custodia di un bene di proprietà comunale.

Inoltre, ai sensi dell’art. 2051 c.c. non è sufficiente – ed è anzi del tutto irrilevante – la dimostrazione dell’assenza di colpa da parte del custode, ma si richiede la prova positiva della causa esterna (fatto materiale, fatto del terzo, fatto dello stesso danneggiato) che – quanto ai fatti materiali e del terzo, per imprevedibilità, eccezionalità, inevitabilità, nonché, quanto a quelli del danneggiato, per anche sola sua colpa – sia completamente estranea alla sfera di controllo del custode, restando così a carico di quest’ultimo anche il danno derivante da causa rimasta ignota.

Ai fini della configurabilità di responsabilità, è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e l’evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità attuale o potenziale della cosa stessa e senza che rilevi a riguardo la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza.

Nel caso di specie risulta provato che il giovane fosse morto per folgorazione e i lampioni non erano in sicurezza o recintati.

La Cassazione è consolidata nell’affermazione della responsabilità della Pubblica Amministrazione ai sensi dell’art. 2051 c.c. in quanto custode dell’immobile e dei suoi impianti fissi e come tale responsabile oggettivamente. È, inoltre, responsabile per i danni causati dalle condizioni in cui versa la res in custodia anche quando questa sia modificata, tranne il solo caso in cui la modifica sia avvenuta con modalità tali (immediatamente prima, ad esempio) da escludere una qualsiasi pronta reazione; occorre, perciò, stabilire se il danno è causato dai lavori alla res in custodia in costanza dei medesimi (ipotesi nella quale la simultaneità della condotta dell’esecutore dei lavori elide il nesso causale con la cosa, questa regredendo a mera occasione del sinistro). Permane, invece, la responsabilità, se il danno è causato dalla res come modificata dai lavori e questi siano cessati da un tempo idoneo a consentire un intervento o adeguamento da parte del custode.

Non giova, pertanto, a un Comune la circostanza che le condizioni dell’impianto potessero essere ascritte all’esecutore dei lavori ove già consolidate, per cui l’ente ne risponde nei confronti dei terzi che ne fossero danneggiati.

 

(*Contributo in tema di “Danno del bene custodito: esonero di responsabilità del custode”, a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

giurista risponde

Permesso di costruire: annullamento d’ufficio a seguito di comunicazione antimafia Può intervenire l’annullamento d’ufficio di un permesso di costruire a seguito di comunicazione antimafia?

Quesito con risposta a cura di Michela Pignatelli

 

Sì, l’annullamento d’ufficio di un permesso di costruire per intervenuta comunicazione antimafia è un atto vincolato che accerta la temporanea incapacità giuridica del destinatario ad essere titolare di provvedimenti amministrativi ampliativi (T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 18 settembre 2024, n. 5036).

Il Consiglio ha ritenuto che l’annullamento d’ufficio di un permesso di costruire disposto dal Comune, per intervenuta comunicazione antimafia, è un atto vincolato che accerta la temporanea incapacità giuridica del soggetto ad essere destinatario di provvedimenti amministrativi ampliativi della propria sfera giuridica, inoltre prescinde, dunque, dall’operatività dei presupposti nonché dei limiti applicativi dell’art. 21novies, L. 241/990.

Pertanto, a seguito della comunicazione antimafia, la P.A. non può rilasciare alcun titolo che legittimi lo svolgimento di attività economiche o commerciali e, qualora fosse già stato emesso, è legittimo il suo ritiro, configurandosi la sua sostanziale incompatibilità con lo status di destinatario di una interdittiva antimafia.

Sul punto, la Sezione richiama la precedente giurisprudenza dello stesso Tribunale che evidenziava come le conseguenze decadenziali sulle autorizzazioni dei provvedimenti interdittivi antimafia discendono dall’esigenza di elevare il livello della tutela dell’economia legale dall’aggressione criminale. Ciò attraverso la sottoposizione a controllo non solo dei rapporti amministrativi che danno accesso a risorse pubbliche, ma anche di quelli che consentono l’esercizio di attività economiche, subordinandole al controllo preventivo della P.A. e stabilendo che anche in ipotesi di attività private soggette a mera autorizzazione l’esistenza di infiltrazioni mafiose inquina l’economia legale, altera il funzionamento della concorrenza e costituisce una minaccia per l’ordine e la sicurezza pubblica.

 

(*Contributo in tema di “Permesso di costruire: annullamento d’ufficio a seguito di comunicazione antimafia”, a cura di Michela Pignatelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)