bagaglio a mano

Bagaglio a mano: nuove regole dall’UE per chi vola Bagaglio a mano senza costi aggiuntivi: questa una delle novità della proposta approvata dalla Commissione trasporti UE

Novità dall’UE: niente costi aggiuntivi per il bagaglio a mano

Per il bagaglio a mano in aereo niente costi aggiuntivi. Questa è solo una delle novità contenute nella proposta di riforma della normativa UE approvata dalla Commissione trasporti del Parlamento UE il 24 giugno 2025. La proposta deve essere ancora sottoposta all’esame della plenaria della Eurocamera per essere infine concordata con il Consiglio Europeo. Tra il 7 e il 10 luglio la proposta potrebbe ricevere l’approvazione del Parlamento UE.

Le nuove regole si pongono l’obiettivo, dietro la spinta delle associazioni dei consumatori, di tutelare i passeggeri dalla previsione di inutili costi aggiuntivi, con un occhio di riguardo per i soggetti più fragili e di garantire una maggiore trasparenza in fase di acquisto e di rimborso del biglietto aereo.

Vediamo quali sono le altre novità in arrivo per i passeggeri.

Nuovi servizi gratuiti per i passeggeri: bagaglio a mano gratis

Prevista la possibilità di prenotare gratuitamente un posto accanto ai minori di anni 12. Nessun costo aggiuntivo neppure per chi porta a bordo un piccolo bagaglio a mano (peso inferiore a 7 kg e dimensione complessiva di 100 cm) e un oggetto personale di piccole dimensioni (40x30x15 cm).

Gratuito anche l’accompagnatore del passeggero con mobilità ridotta. Previsto inoltre il risarcimento del danno qualora l’animale che assiste il disabile o la sedia a rotelle subiscano danni.

Prezzi più trasparenti e rimborsi più semplici

La proposta approvata prevede anche che gli intermediari indichino in modo trasparente e completo il costo di acquisto complessivo del biglietto, indicando eventuali commissioni aggiuntive e modalità per la richiesta di rimborso.

Per il rimborso è prevista l’introduzione di un modulo unico, anche in modalità precompilata, che deve essere inviato nel termine di 48 ore dal disservizio subito.

Gli intermediari che hanno venduto il biglietto hanno a disposizione 14 giorni di tempo per procedere al rimborso.

Viaggi con diversi mezzi di trasporto, coincidenze e ritardi

Per i viaggi che prevedono l’impiego di diversi mezzi di trasporti è previsto l’obbligo di informare l’utente sulla tipologia di biglietto da acquistare (unico, combinato, separato).

Qualora il biglietto sia unico il  cambio da un mezzo di trasporto a un altro non deve comportare la perdita del diritto all’assistenza in caso di mancata coincidenza.

In presenza di un ritardo minimo di 60 minuti causato dalla mancata coincidenza il passeggero dovrebbe avere diritto a bevande, pasto e alloggio gratuito in caso di necessità.

Risarcimento in caso di informazioni errate

In presenza di problemi provocati dal mancato rispetto dell’obbligo di informativa corretto da parte del venditore del biglietto, il passeggero potrebbe essere destinatario di un rimborso e di un risarcimento pari al 75%.

 

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attestato opere d'arte

Attestato opere d’arte: il termine annuale non viola la Costituzione La Consulta conferma la legittimità del limite di un anno per l’annullamento d’ufficio di un’autorizzazione all’esportazione di un’opera d’arte

Attestato opere d’arte: termine annuale non viola la Costituzione

Attestato opere d’arte: con la sentenza n. 88/2025, la Corte costituzionale ha escluso che il termine di un anno previsto dall’articolo 21-nonies della legge n. 241/1990 per l’annullamento d’ufficio di un provvedimento amministrativo illegittimo sia in contrasto con i principi costituzionali.

Nel caso concreto, l’amministrazione aveva annullato, a distanza di sei anni, un attestato di libera circolazione rilasciato per un quadro poi riconosciuto come opera d’autore di particolare interesse culturale. La tardività del provvedimento era stata contestata in giudizio. Sollevando dubbi di legittimità costituzionale sul limite temporale, considerato troppo rigido a fronte dell’obiettivo di protezione del patrimonio culturale.

Tutela del patrimonio culturale garantita nel procedimento originario

La Consulta ha chiarito che l’interesse culturale è ampiamente protetto nella fase di primo grado. Sia grazie alle previsioni della legge sul procedimento amministrativo che attribuiscono specifiche cautele agli “interessi sensibili”, sia in virtù delle regole del Codice dei beni culturali.

Pertanto, il termine annuale per l’annullamento d’ufficio non compromette la tutela del patrimonio storico e artistico. Ciò in quanto la disciplina è già adeguata a prevenire illegittimità nel momento in cui l’autorizzazione viene rilasciata.

Ragionevolezza e certezza giuridica: un bilanciamento necessario

La Corte ha ribadito che il potere di annullamento è distinto dal potere originario di rilascio dell’autorizzazione e si caratterizza per finalità diverse. Nel valutare se revocare l’atto, l’amministrazione deve considerare non solo l’interesse pubblico al ripristino della legalità, ma anche l’affidamento del destinatario purché meritevole di tutela.

Di conseguenza, non è irragionevole che anche gli atti relativi a interessi di rango costituzionale, come la protezione del patrimonio culturale, siano soggetti al termine ordinario di decadenza. La disciplina mira infatti a bilanciare l’efficienza amministrativa con la stabilità dei rapporti giuridici.

Termine di decadenza garanzia di buon andamento e sicurezza giuridica

Secondo la Corte, la previsione di un termine certo rafforza il principio di buon andamento dell’amministrazione, stimolando una maggiore attenzione nella fase di rilascio del provvedimento e garantendo la certezza delle relazioni tra cittadini e pubblici poteri.

In quest’ottica, il limite temporale tutela sia l’interesse pubblico al corretto esercizio dell’azione amministrativa sia l’esigenza di affidabilità giuridica per i destinatari degli atti e i terzi che su questi fanno legittimo affidamento.

fringe benefit

Fringe benefit Fringe benefit: cosa sono, normativa di riferimento, destinatari, modalità di riconoscimento, novità 2025 e vantaggi

Cosa sono i fringe benefit

I fringe benefit rappresentano un insieme di utilità e beni corrisposti dal datore di lavoro al dipendente in aggiunta alla retribuzione ordinaria. Si tratta di una componente importante del welfare aziendale, finalizzata a migliorare il benessere dei lavoratori e a incentivare la produttività.

Il termine fringe benefit indica letteralmente i “benefici accessori” concessi ai lavoratori. Rientrano in questa categoria, a titolo esemplificativo:

  • l’uso promiscuo dell’autovettura aziendale (anche per fini personali);
  • i buoni acquisto e i buoni carburante;
  • i dispositivi tecnologici aziendali utilizzabili fuori dall’orario di lavoro;
  • la concessione di alloggi;
  • i prestiti agevolati;
  • l’assistenza sanitaria integrativa.

Il trattamento fiscale di questi benefici è disciplinato principalmente dall’art. 51 del D.P.R. n. 917/1986 (TUIR), che stabilisce i criteri di valutazione e tassazione.

Normativa vigente

Ai sensi dell’art. 51, comma 3, TUIR, i fringe benefit concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente per il valore normale dei beni o servizi erogati, con alcune soglie di esenzione che variano in base alla normativa di volta in volta emanata.
In via ordinaria, il limite di esenzione è pari a 258,23 euro annui per ciascun dipendente; tuttavia, normative emergenziali e leggi di bilancio hanno spesso innalzato temporaneamente tale soglia. Ad esempio, la Legge di Bilancio 2024 e i successivi interventi normativi hanno previsto limiti maggiorati per i lavoratori con figli a carico.

Per determinare il valore dei fringe benefit:

  • si utilizza il criterio del valore normale ai sensi dell’art. 9 TUIR;
  • per l’uso dell’auto aziendale (veicoli immatricolati dal 1à luglio 2020 fino al 31.12.2024) concessa ad uso promiscuo si applicano criteri forfetari in funzione delle emissioni di CO e delle tabelle ACI pubblicate annualmente (vedi il sito dell’ACI: aci.it).

A chi spettano i fringe benefit

I fringe benefit possono essere riconosciuti a:

  • lavoratori subordinati;
  • collaboratori coordinati e continuativi, se previsto dal contratto;
  • dirigenti, quadri e personale direttivo.

La concessione non è obbligatoria, ma costituisce una facoltà del datore di lavoro, spesso regolata da contratti collettivi, contratti individuali o piani di welfare aziendale. I benefici devono comunque avere una finalità retributiva o di incentivazione e devono risultare da apposita documentazione aziendale.

Come si ottengono

L’erogazione dei fringe benefit avviene attraverso diverse modalità:

  • consegna diretta del bene o servizio (ad es. auto aziendale),
  • accredito di buoni spesa o voucher,
  • pagamento di servizi per conto del dipendente (ad esempio le bollette o le rette scolastiche, ove previsto).

Il datore di lavoro deve tenere idonea documentazione per dimostrare la natura e il valore dei benefit erogati, ai fini fiscali e contributivi. La valorizzazione viene indicata nella certificazione unica (CU) rilasciata annualmente al lavoratore.

Regole e novità 2025

La legge di bilancio 2025 ha introdotto e confermato alcune novità in materia di Fringe benefit.

Modificato dal 1° gennaio 2025, il fringe benefit per le auto aziendali in uso promiscuo. Il valore imponibile si calcola sul 50% del costo chilometrico ACI per 15.000 km annui, meno eventuali trattenute al dipendente. Questa percentuale è però ridotta: al 10% per i veicoli completamente elettrici e al 20% per gli ibridi plug-in. L’obiettivo è incentivare l’adozione di veicoli a basse emissioni, penalizzando le auto tradizionali con una tassazione sul fringe benefit più elevata rispetto al passato. Le tabelle ACI continueranno a essere il riferimento per i costi chilometrici.

Nuova agevolazione valida solo per il 2025: i datori di lavoro possono erogare o rimborsare fino a 5.000 euro annui per i canoni di locazione e le spese di manutenzione di immobili affittati da nuovi dipendenti a tempo indeterminato. Per beneficiare di questa esenzione fiscale, i dipendenti devono essere assunti tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2025, avere un reddito 2024 non superiore a 35.000 euro e trasferirsi in una nuova residenza distante oltre 100 km dalla precedente. Queste somme, esenti fiscalmente, saranno considerate ai fini ISEE e per l’accesso a prestazioni previdenziali e assistenziali.

La legge di bilancio 2025 proroga fino al 2027 due diverse soglie di esenzione fiscale:

  • per i dipendenti con figli a carico: il limite esente è 2.000 euro annui;
  • per i dipendenti senza figli a carico: il limite è di 1.000 euro annui (rispetto al precedente limite ordinario di 258,23 euro).

Vantaggi dei fringe benefit

I fringe benefit offrono numerosi vantaggi sia per il lavoratore sia per il datore di lavoro:

  • incremento del potere d’acquisto del dipendente;
  • maggiore motivazione e fidelizzazione;
  • risparmi fiscali e contributivi, nei limiti di legge;
  • miglioramento del clima aziendale.

 

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giurista risponde

L’azione revocatoria e la dolosa preordinazione In tema di azione revocatoria, quando l’atto di disposizione è anteriore al sorgere del credito, ad integrare la “dolosa preordinazione” richiesta dallo art. 2901, comma 1, c.c. è sufficiente il dolo generico?

Quesito con risposta a cura di Caterina D’Alessandro, Giulia Fanelli e Mariella Pascazio

 

In tema di azione revocatoria, quando l’atto di disposizione è anteriore al sorgere del credito, ad integrare la “dolosa preordinazione” richiesta dall’art. 2901, comma 1, c.c. non è sufficiente la mera consapevolezza, da parte del debitore, del pregiudizio che l’atto arreca alle ragioni dei creditori (c.d. dolo generico), ma è necessario che l’atto sia stato posto in essere dal debitore in funzione del sorgere dell’obbligazione, al fine d’impedire o rendere più difficile l’azione esecutiva o comunque di pregiudicare il soddisfacimento del credito, attraverso una modificazione della consistenza o della composizione del proprio patrimonio (c.d. dolo specifico), e che, trattandosi di atto a titolo oneroso, il terzo fosse a conoscenza dell’intento specificamente perseguito dal debitore rispetto al debito futuro (Cass., Sez. Un., 27 gennaio 2025, n. 1898).

Con la sentenza in commento, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, investite dalla questione dalla Terza Sezione Civile, sono intervenute per dirimere un contrasto giurisprudenziale riguardante la natura generica o specifica del dolo del debitore richiesto dall’art. 2901, comma 1, c.c. ai fini della revocatoria degli atti di disposizione patrimoniale anteriori al sorgere del credito.

Sul punto, infatti, coesistevano nella giurisprudenza di legittimità di due diversi orientamenti, che individuavano il consilium fraudis rispettivamente nella dolosa preordinazione dell’atto alla compromissione del soddisfacimento del credito e nella mera previsione del pregiudizio che l’atto arreca alle ragioni dei creditori.

Secondo le Sezioni Unite, ai fini della risoluzione della questione posta dall’ordinanza interlocutoria, occorre muovere dalla lettura del testo dell’art. 2901, comma 1, c.c., il quale subordina la dichiarazione di inefficacia degli atti di disposizione patrimoniale compiuti dal debitore in pregiudizio alle ragioni del creditore alle seguenti condizioni: 1) che il debitore conoscesse il pregiudizio che l’atto arrecava alle ragioni del creditore o, trattandosi di atto anteriore al sorgere del credito, l’atto fosse dolosamente preordinato al fine di pregiudicarne il soddisfacimento; 2) che, inoltre, trattandosi di atto a titolo oneroso, il terzo fosse consapevole del pregiudizio e, nel caso di atto anteriore al sorgere del credito, fosse partecipe della dolosa preordinazione.

La tesi del dolo generico attribuisce portata non decisiva alla differente formulazione delle due parti di cui si compone il n. 1 della norma in esame, osservando che la stessa non richiede, ai fini della configurabilità della dolosa preordinazione, che il debitore abbia agito con la specifica intenzione di danneggiare i creditori, ma solo che abbia posto in essere l’atto nella consapevolezza di pregiudicarne le ragioni, ed escludendo quindi, in entrambe le ipotesi da essa contemplate, la necessità sia dell’animus nocendi, ovverosia di “una callida volontà dell’obbligato di danneggiare il creditore”, sia, nel caso di atto a titolo oneroso, della conoscenza da parte del terzo dello specifico credito di cui l’atto dispositivo è volto a pregiudicare la soddisfazione.

In realtà, la mera considerazione del significato letterale delle espressioni utilizzate nell’art. 2901, comma 1, c.c. risulta di per sé sufficiente ad evidenziare l’intento del legislatore di subordinare l’accoglimento della revocatoria a presupposti soggettivi diversi, a seconda che la stessa abbia ad oggetto un atto posto in essere in epoca anteriore o successiva al sorgere del credito allegato a sostegno della domanda: mentre il verbo “conoscere” significa avere notizia o cognizione di una cosa o del suo modo di essere, per averne fatto direttamente o indirettamente esperienza o per averla appresa da altri, il sostantivo “preordinazione” fa riferimento alla predisposizione di un mezzo in funzione del raggiungimento di un risultato.

La seconda espressione implica, pertanto, una finalizzazione teleologica della condotta del debitore, il cui disvalore trova una particolare sottolineatura nell’aggiunta dell’aggettivo “dolosa”, che allude al carattere fraudolento o quanto meno intenzionale dell’azione, indirizzata ad impedire od ostacolare l’azione esecutiva del creditore o comunque il soddisfacimento del credito; tale finalizzazione è del tutto assente nella prima espressione, che fa invece riferimento alla mera coscienza del pregiudizio che l’atto oggettivamente arreca o può arrecare alle ragioni dei creditori, per la riduzione della garanzia patrimoniale che ne consegue, indipendentemente dalle finalità concretamente perseguite dal debitore attraverso il compimento dello stesso.

L’utilizzazione di due espressioni aventi un significato completamente differente nell’ambito della medesima disposizione appare tutt’altro che casuale, se solo si tiene conto del dibattito dottrinale e giurisprudenziale sviluppatosi, proprio con riguardo all’azione revocatoria, precedentemente all’entrata in vigore del Codice civile del 1942.

Nel Codice civile del 1865, la medesima azione era infatti disciplinata dall’art. 1235, il quale, oltre a prevedere (almeno secondo l’opinione prevalente) soltanto la revocabilità degli atti dispositivi posti in essere dal debitore in epoca successiva al sorgere del credito, la subordinava alla condizione che gli stessi fossero stati “fatti in frode” delle ragioni dei creditori.

Il significato di tale espressione era controverso, ritenendosi da parte di alcuni autori che con la stessa il legislatore avesse inteso fare riferimento all’intenzione di recare danno ai creditori (c.d. animus nocendi), e da parte di altri che avesse voluto invece richiedere, ai fini dell’accoglimento della domanda, la mera coscienza del pregiudizio arrecato ai creditori, attraverso la creazione o l’aggravamento di una situazione d’insolvibilità (c.d. scientia damni). Alla fine prevalse la seconda tesi, in virtù della considerazione che l’individuazione del presupposto soggettivo della revocatoria nell’animus nocendi avrebbe comportato un eccessivo restringimento dei limiti di operatività dell’azione, impedendo alla stessa di svolgere efficacemente la propria funzione di mezzo di conservazione della garanzia patrimoniale.

Tale indirizzo trovò accoglimento anche in sede di redazione del Codice vigente, il quale, tuttavia, ha ampliato l’ambito applicativo dell’azione, ammettendone l’esercizio anche nei confronti degli atti dispositivi posti in essere anteriormente al sorgere del credito, ma differenziandone il presupposto soggettivo da quello richiesto ai fini della revocatoria degli atti posti in essere successivamente, nel senso che, mentre per la dichiarazione d’inefficacia di questi ultimi è necessaria soltanto la prova della “conoscenza del pregiudizio” arrecato alle ragioni dei creditori, per quella dei primi occorre la prova della “dolosa preordinazione” al fine di pregiudicare il soddisfacimento del credito. In quanto adottata nella piena consapevolezza dei contrasti insorti in ordine all’interpretazione della disciplina previgente, la formulazione letterale dell’art. 2901, comma 1, c.c. non può dar luogo ad equivoci, testimoniando chiaramente la volontà del legislatore di regolare in maniera diversa il profilo soggettivo delle due fattispecie da esso contemplate, attraverso l’introduzione di una disciplina più restrittiva per la revocatoria degli atti compiuti in epoca anteriore al sorgere del credito: diversamente, infatti, la norma si sarebbe limitata a chiarire che l’azione era proponibile anche contro gli atti dispositivi compiuti in epoca anteriore al sorgere del credito, richiedendo per entrambe le ipotesi la prova della consapevolezza da parte del debitore della dell’incidenza dell’atto sulla consistenza quantitativa o qualitativa del proprio patrimonio, e quindi sulla garanzia generica dei creditori, senza fare alcun riferimento alla necessità di un disegno fraudolento, volto a sottrarre il bene alienato o vincolato all’azione esecutiva del creditore o a rendere più difficile il soddisfacimento del suo credito.

La differenza esistente tra la pura e semplice consapevolezza del pregiudizio arrecato ai creditori e la volontà di danneggiarli mediante il compimento dell’atto dispositivo era stata d’altronde già colta dalla dottrina in epoca anteriore all’entrata in vigore del Codice civile del 1942, anche se ne era stata sminuita la portata concreta: premesso infatti che il consilium fraudis presuppone ad un tempo la rappresentazione dell’effetto dannoso dell’atto e la volontà di porlo ugualmente in essere, si era osservato che nella gestione del proprio patrimonio il debitore non tiene normalmente conto dell’interesse del creditore, ma agisce come se lo stesso non esistesse, e si era pertanto concluso che, ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo della revocatoria, non era necessaria una specifica intenzione di danneggiare il creditore o determinati creditori, ma era sufficiente la coscienza, da parte del debitore, di determinare o accrescere la propria insolvenza, attraverso il compimento dell’atto dispositivo, mettendo quindi il proprio patrimonio in condizione di non poter offrire ai creditori la garanzia dell’adempimento delle obbligazioni contratte .

La necessità di un quid pluris, sotto il profilo soggettivo, era invece emersa in giurisprudenza, proprio nell’ambito di un orientamento volto a ricondurre nell’ambito applicativo dell’azione revocatoria anche gli atti dispositivi anteriori al sorgere del credito: nel dichiarare ammissibile la domanda proposta dal primo acquirente di un immobile a tutela del credito risarcitorio vantato nei confronti del venditore, il quale aveva successivamente alienato il medesimo bene ad un terzo, che aveva reso inattaccabile il proprio acquisto mediante la tempestiva trascrizione, la giurisprudenza di legittimità aveva infatti ritenuto che l’azione potesse essere esercitata anche nel caso in cui l’atto anteriore alla frode fosse stato compiuto “con l’obliquo intento di rendere vano il credito che stava per sorgere”, non essendovi ragione di negare tutela al soggetto rimasto danneggiato da questo più raffinato consilium fraudis. (cfr. Cass., Sez. Un., 22 dicembre 1930, n. 3669).

Al di là dei profili collegati all’interpretazione letterale e storico-sistematica della norma in esame, la scelta tra l’una e l’altra tesi impone peraltro d’interrogarsi anche in ordine alle conseguenze che l’accoglimento di una concezione più o meno restrittiva del consilium fraudis può produrre nei rapporti tra le parti dell’obbligazione ed in quelli con i terzi che siano entrati in contatto con le stesse, nonché, più in generale, sul piano della certezza e della rapidità dei traffici giuridici.

L’identificazione dell’elemento soggettivo della revocatoria nella mera consapevolezza da parte del debitore del pregiudizio arrecato i creditori comporta, infatti, un’indubbia dilatazione dei margini di operatività dell’istituto, già alquanto estesi per effetto dell’opinione comune, che ritiene configurabile il presupposto dell’eventus damni non solo in presenza di una compromissione totale della consistenza del patrimonio del debitore, ma anche a fronte di una variazione quantitativa o qualitativa dello stesso tale da rendere più incerta o difficile la soddisfazione del credito.

Tale dilatazione, che si traduce naturalmente in un rafforzamento della tutela dei diritti dei creditori, si pone, tuttavia, in contrasto con la natura eccezionale che l’azione revocatoria viene ad assumere nell’ipotesi in cui abbia ad oggetto atti dispositivi posti in essere in epoca anteriore al sorgere del credito: in quanto avente la funzione di consentire al creditore di soddisfarsi su beni che hanno cessato di far parte del patrimonio del debitore prima dell’insorgenza dell’obbligazione, essa costituisce una deroga al principio generale, sancito dall’art. 2740, comma 1, c.c., secondo cui il debitore risponde dell’adempimento “con tutti suoi beni presenti e futuri”, cioè con quelli esistenti nel suo patrimonio alla data in cui è sorta l’obbligazione e con quelli che abbia acquistato in epoca successiva, e non anche con quelli di cui alla predetta data avesse già cessato di essere titolare.

Questa esclusione trova giustificazione nella considerazione che, nel momento in cui entra in contatto con il debitore, il creditore è perfettamente in grado di rendersi conto dell’attuale consistenza e composizione del suo patrimonio, nonché di apprezzarne l’idoneità a garantire il soddisfacimento del credito in caso d’inadempimento: può quindi ritenersi ragionevole che l’esercizio dell’azione revocatoria resti limitato all’ipotesi, avente carattere ordinario, in cui il debitore abbia disposto dei propri beni in epoca successiva, nella consapevolezza del pregiudizio in tal modo arrecato al creditore, nonché a quella, eccezionale, in cui l’atto dispositivo, pur essendo stato posto in essere in epoca anteriore, costituisca attuazione di un disegno volto a disfarsi dei propri beni, proprio in vista dell’assunzione di quello specifico debito.

 

(*Contributo in tema di “L’azione revocatoria e la dolosa preordinazione”, a cura di Caterina D’Alessandro, Giulia Fanelli e Mariella Pascazio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

decreto sicurezza

Il Decreto Sicurezza secondo la Cassazione Decreto Sicurezza: la relazione dell'Ufficio del Massimario della Cassazione solleva dubbi di legittimità costituzionale sul testo e problemi di merito e metodo

Decreto Sicurezza: dubbi di legittimità costituzionale

L’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione ha pubblicato una relazione di studio sul Decreto Sicurezza n. 48/2025, convertito nella legge n. 80/2025 e in vigore dal 10 giugno 2025.  L’Ufficio ha sollevato dubbi di legittimità costituzionale e problemi di merito e metodo. La relazione è una “base di analisi” orientativa e non vincola decisioni future. Il documento tuttavia si rivela molto importante perché fornisce ai magistrati uno strumento per comprendere la nuova normativa.

Utilizzo anomalo della decretazione d’urgenza

Il documento di 129 pagine segnala la presenza di diverse problematiche. Sul fronte del metodo, i giudici della Cassazione condividono il parere dei giuristi: la trasformazione del disegno di legge in decreto-legge manca del requisito di “necessità e urgenza”, come previsto dalla Costituzione. Criticato anche il ricorso anomalo alla decretazione d’urgenza in materia penale, che svilisce il ruolo del Parlamento.

Analizzando il testo articolo per articolo, vengono individuati profili di incostituzionalità in molti reati a causa dell’abbassamento della soglia di punibilità e dell’innalzamento delle pene. Le critiche degne di segnalazione riguardano principalmente il reato di detenzione di materiale con finalità di terrorismo, la resistenza passiva in carcere, la vendita della cannabis light. Il contenuto del testo di legge infine è ritenuto troppo “eterogeneo” perché si occupa di materie troppo diverse.

Decreto Sicurezza: critiche alla relazione

La relazione ha subito sollevato critiche e perplessità. L’azione della Cassazione è stata giudicata come una “invasione di campo”; una “provocazione”.

Dura la reazione del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che si è detto “incredulo” delle notizie diffuse dalla stampa sulla relazione e ha dato mandato di acquisire la relazione per verificarne il regime di divulgazione, per appurare che la pubblicazione non risulti dannosa per il Governo.

Anche il ministro Piantedosi in un’intervista si è espresso negativamente sulla relazione della Suprema Corte, ritenendola “ideologica”.

 

Leggi anche: Dl Sicurezza: legge in vigore

illecito condominiale

Illecito condominiale: tutti responsabili La Cassazione stabilisce che in caso di illecito condominiale ciascun autore risponde integralmente, senza rilievo della priorità dell’intervento

Con l’ordinanza n. 17237/2025, la Cassazione ha chiarito un principio fondamentale in tema di responsabilità per illecito condominiale. Quando più soggetti intervengono sulla cosa comune, ciascuno può essere chiamato a rispondere per l’intero danno, indipendentemente dall’ordine cronologico dei loro comportamenti.

La vicenda oggetto di giudizio

Un condomino aveva convenuto in giudizio la proprietaria di un’unità immobiliare, lamentando che l’apposizione di pannelli in cartongesso su una vetrata comune avesse ridotto la luce naturale nella scala.
La Corte d’appello aveva respinto in parte la domanda, ritenendo che l’oscuramento derivasse prevalentemente da pannelli precedentemente collocati da un altro condomino confinante. Il controsoffitto installato successivamente non sarebbe stato idoneo ad aggravare in modo apprezzabile la situazione.

Il ricorrente aveva contestato questa ricostruzione, affermando che la Corte di merito avesse trascurato la circostanza che l’illecito concorresse con quello precedente e che la responsabilità non dipendesse dalla priorità temporale del comportamento.

La responsabilità solidale nel danno condominiale

Accogliendo il ricorso, la Cassazione ha ricordato che in tema di illecito condominiale il criterio fondamentale è l’articolo 2043 del codice civile, che impone l’obbligo di risarcire il danno ingiusto cagionato da fatto doloso o colposo.
Ai sensi dell’articolo 2055 c.c., quando il danno è prodotto da più soggetti, tutti rispondono in solido verso il danneggiato.

Di conseguenza, chi interviene successivamente su una situazione già compromessa non può invocare la condotta anteriore di terzi per escludere la propria responsabilità. Il danneggiato può rivolgersi indifferentemente a ciascun autore, senza che assuma rilievo chi abbia compiuto per primo l’abuso.

Il principio di diritto affermato

La Corte ha enunciato un principio chiaro e destinato a trovare applicazione in casi analoghi: “Anche in tema di rapporti condominiali, del fatto illecito di un condomino che si aggiunga al fatto illecito di altro condomino nei confronti della cosa comune può essere chiamato a rispondere indifferentemente l’uno o l’altro degli autori, senza che debba aversi riguardo alla priorità nella commissione del fatto”. 

Si tratta di un orientamento coerente con la giurisprudenza precedente (Cass. n. 1757/1987 e n. 6041/2010), secondo cui ciascun condomino può agire autonomamente a tutela del bene comune e ciascun autore risponde per l’intero danno.

Gli altri motivi accolti dalla Suprema Corte

Oltre alla questione della responsabilità solidale, la Cassazione ha accolto ulteriori motivi di ricorso del condomino danneggiato.
In particolare, la Corte di merito aveva omesso di pronunciarsi:

  • sulla violazione del regolamento condominiale,

  • sulle modifiche apportate agli infissi senza autorizzazione.

La decisione è stata dunque cassata con rinvio, per un nuovo esame di tutti i profili di illegittimità dedotti.

Allegati

società semplice

Società semplice: la Corte Costituzionale sul fallimento in estensione dei soci La Consulta chiarisce che il fallimento di una società semplice non è opponibile ai soci se non sono stati convocati nella procedura. Ecco cosa prevede la sentenza n. 87/2025

Società semplice e rischio di fallimento in estensione

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 87 del 2025, ha precisato i limiti del cosiddetto fallimento in estensione dei soci illimitatamente responsabili di una società semplice.

In linea generale, la società semplice non è soggetta a fallimento. Tuttavia, quando si accerta che ha esercitato attività commerciale, può essere dichiarata fallita, con la conseguenza che anche i soci rispondono patrimonialmente e possono subire il fallimento in estensione.

La legge fallimentare (articolo 147 del regio decreto n. 267/1942) consente che il procedimento di fallimento dei soci sia separato da quello della società.

Il diritto di difesa dei soci e la convocazione nella procedura

La questione esaminata dalla Corte riguardava un caso in cui i soci non erano stati convocati nel giudizio che aveva dichiarato il fallimento della società semplice. La normativa vigente, secondo l’interpretazione consolidata, riteneva sufficiente garantire ai soci il diritto di proporre reclamo entro trenta giorni dalla trascrizione della sentenza nel registro delle imprese.

Tuttavia, i giudici costituzionali hanno osservato che questa garanzia non è adeguata nel caso di una società semplice, che normalmente non è soggetta a fallimento e i cui soci non hanno motivo di monitorare costantemente il registro delle imprese.

L’onere di verifica e i limiti dell’affidamento

La Consulta ha affermato che, per garantire l’effettività del diritto di difesa, non può gravare sui soci l’onere di controllare autonomamente l’eventuale fallimento della società.

Secondo la sentenza, su basi così deboli non si può fondare un accertamento che condiziona la possibilità di dichiarare il fallimento del socio, con pesanti ripercussioni anche sul piano personale.

Di conseguenza, i soci devono essere convocati non solo nel giudizio che decide sul loro fallimento in estensione, ma anche nel procedimento che accerta la fallibilità dell’ente.

Fallimento società semplice non è automaticamente opponibile ai soci

La Corte costituzionale ha stabilito che, se la convocazione manca, la sentenza dichiarativa del fallimento della società non è opponibile ai soci illimitatamente responsabili.

Nel giudizio sul fallimento in estensione, sarà quindi possibile discutere nuovamente la fallibilità dell’ente, a meno che non sia dimostrato che i soci hanno partecipato alla procedura oppure che abbiano esercitato il diritto di difesa mediante reclamo.

Questa interpretazione assicura un bilanciamento tra esigenze di tutela del ceto creditorio e diritti fondamentali dei soci.

responsabilità per danno erariale

Giudice in ritardo: scatta la responsabilità per danno erariale La Corte dei conti conferma che per il giudice che prolunga il processo per negligenza scatta la responsabilità per danno erariale

Responsabilità del giudice e danno erariale indiretto

Responsabilità per danno erariale: secondo un recente pronunciamento della Corte dei conti (sentenza n. 83/2025), anche i magistrati possono essere chiamati a rispondere per danno erariale quando un comportamento gravemente negligente causi ritardi ingiustificati nel processo. L’indipendenza della funzione giurisdizionale, infatti, non comporta un’assoluta irresponsabilità: il giudice resta tenuto al rispetto di regole di diligenza e correttezza nella conduzione delle cause.

In particolare, nel caso esaminato, un magistrato d’appello è stato condannato a risarcire parzialmente l’amministrazione per aver rimesso la causa al collegio senza controllare che il fascicolo di primo grado fosse disponibile, determinando un ritardo di circa due anni.

Il quadro normativo: tra equa riparazione e azione di rivalsa

La vicenda trae origine dalla condanna del Ministero della giustizia al pagamento dell’equa riparazione prevista dalla legge Pinto (legge n. 89/2001), riconosciuta a due cittadini per l’eccessiva durata del procedimento. Successivamente, la Procura contabile ha promosso l’azione di responsabilità amministrativa nei confronti del magistrato istruttore.

L’articolo 5, comma 4, della stessa legge prevede infatti la trasmissione del decreto di equa riparazione alla Procura della Corte dei conti per l’accertamento di eventuali responsabilità. La normativa si coordina con la legge n. 117/1988 sulla responsabilità civile dei magistrati, che individua la negligenza inescusabile quale parametro per qualificare la colpa grave.

Gli argomenti difensivi del magistrato e il rigetto dell’appello

Nel giudizio di appello, il magistrato ha sostenuto che la normativa all’epoca vigente non attribuiva al consigliere istruttore l’obbligo di verificare la completezza degli atti prima del rinvio al collegio e che tale controllo spettava alla cancelleria. Inoltre, ha richiamato la giurisprudenza sul limite alla sindacabilità delle valutazioni di merito compiute dal giudice.

La Corte dei conti ha però ribadito che la condotta omissiva integra una violazione degli obblighi di vigilanza, con conseguenze dannose per l’Erario, e che la responsabilità contabile può riguardare anche l’attività strettamente giurisdizionale quando il danno deriva da un comportamento macroscopicamente negligente.

La riduzione della condanna per concorso della cancelleria

Pur confermando la responsabilità del magistrato, i giudici contabili hanno riconosciuto che la condotta omissiva della cancelleria ha inciso nella causazione dell’evento dannoso. Di conseguenza, l’importo risarcitorio è stato ridotto in misura proporzionale alla corresponsabilità accertata.

Responsabilità per danno erariale e principio di indipendenza

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 385/1996, ha già chiarito che l’indipendenza della funzione giurisdizionale è pienamente compatibile con la responsabilità civile, penale e amministrativo-contabile dei magistrati. Un orientamento condiviso anche dalle Sezioni Unite della Cassazione (ordinanza n. 2370/2023), che hanno affermato la possibilità di chiamare il magistrato a rispondere per danno erariale, sia per l’attività amministrativa, sia per quella giurisdizionale, se caratterizzata da colpa grave o dolo.

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Morso di cane randagio: quando la PA deve risarcire La Cassazione chiarisce: per ottenere il risarcimento da morso di cane randagio serve la prova del nesso di causalità e dell’omesso controllo della PA

La sentenza n. 16788/2025 della Cassazione fornisce importanti chiarimenti sulla responsabilità della pubblica amministrazione in caso di danni causati da cani randagi. Il risarcimento spetta solo se il danneggiato dimostra che il morso è conseguenza diretta dell’omesso controllo sul territorio e che esiste un nesso di causalità tra la condotta inadeguata dell’ente e il danno subito.

I tre criteri fissati dalla Cassazione

Prima di stabilire il principio di diritto, i giudici di legittimità hanno individuato tre regole fondamentali per questo tipo di controversie:

Onere della prova sulla condotta omissiva

Il danneggiato deve dimostrare che la pubblica amministrazione non ha predisposto adeguati strumenti e risorse per prevenire il fenomeno del randagismo.

Dimostrazione del nesso causale

Il cittadino deve provare che l’omessa attività di controllo sia stata la causa del morso. Questa prova può avvenire anche in via presuntiva, evidenziando che si è realizzato proprio quel rischio che l’amministrazione avrebbe dovuto evitare.

Prova contraria da parte della PA

L’ente pubblico può liberarsi dalla responsabilità dimostrando il caso fortuito, ossia un evento imprevedibile e inevitabile.

Il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte

I giudici hanno ribadito che la responsabilità dell’amministrazione si fonda sull’articolo 2043 del codice civile, che disciplina il risarcimento del danno ingiusto causato da fatto illecito.

Il principio affermato è chiaro: “La responsabilità della pubblica amministrazione per i danni causati da cani randagi è soggetta alle regole dell’art. 2043 c.c.; pertanto, la persona danneggiata da un cane randagio che intenda agire per il risarcimento ha l’onere di provare la colpa della pubblica amministrazione ed il nesso di causa tra questa e il danno patito.”

Non basta dimostrare che un cane randagio abbia causato la lesione: occorre provare la carenza organizzativa del servizio di prevenzione del randagismo e che un’adeguata attività avrebbe impedito il danno.

Il criterio della concretizzazione del rischio

La Cassazione ha precisato che, solo dopo aver dimostrato la colpa della pubblica amministrazione, è possibile ricorrere al criterio della concretizzazione del rischio.
Questo criterio permette di ritenere provato il nesso causale se l’evento lesivo coincide con il rischio che la norma violata era destinata a prevenire. In altre parole, se l’ente avesse adottato un’azione corretta di controllo e cattura dei randagi, l’aggressione non si sarebbe verificata.

Quando il risarcimento non spetta

Se manca la prova dell’insufficienza dei controlli o il collegamento diretto tra omissione e danno, il risarcimento non può essere riconosciuto. La sola presenza del cane randagio sul territorio non è sufficiente a far scattare la responsabilità dell’amministrazione.

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Amministratori di società: pec obbligatoria Gli amministratori di società costituite a partire dal 1° gennaio 2025 dovranno munirsi di una pec personale. Il MIMIT ha prorogato la scadenza al 31 dicembre 2025, ecco per chi

PEC obbligatoria per gli amministratori di società

Dal 1° gennaio 2025, una novità importante è entrata in vigore per le aziende italiane: tutti gli amministratori di società dovranno avere una casella di posta elettronica certificata (PEC) personale. Lo stabilisce la legge di bilancio 2025.

La PEC è come una raccomandata digitale: garantisce che un messaggio sia stato inviato e ricevuto, e funge da prova legale. L’obiettivo di questa nuova norma è rendere la comunicazione tra aziende e amministrazione pubblica più sicura e tracciabile.

Il MIMIT proroga al 31 dicembre 2025 l’obbligo per gli amministratori di società già costituite di comunicare la PEC al Registro Imprese. Vediamo per quali motivi e cosa cambia.

Proroga dell’obbligo PEC per gli amministratori di società

Il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (MIMIT), con una nuova comunicazione diffusa il 25 giugno 2025, ha ufficialmente prorogato il termine entro il quale gli amministratori delle imprese costituite in forma societaria dovranno comunicare il proprio domicilio digitale (PEC) al Registro delle Imprese. La nuova scadenza è fissata al 31 dicembre 2025.

La proroga si è resa necessaria dopo i numerosi dubbi interpretativi sorti in merito alla tempistica dell’adempimento, generando incertezze tra imprese, professionisti e Camere di Commercio.

L’obbligo introdotto dalla Legge di Bilancio

La Legge di Bilancio ha esteso agli amministratori delle società l’obbligo di possedere un domicilio digitale e di comunicarlo al Registro delle Imprese, al fine di garantire maggiore trasparenza e semplificazione dei rapporti con la Pubblica Amministrazione.

Per le società costituite dal 1° gennaio 2025 in poi, resta confermato che la comunicazione del domicilio digitale deve avvenire contestualmente alla domanda di iscrizione al Registro delle Imprese.

Il caos sulle scadenze e l’intervento di Unioncamere

In un primo momento, con la nota prot. n. 43836 del 12 marzo 2025, il MIMIT aveva fissato la scadenza per le imprese già esistenti al 30 giugno 2025.

Tuttavia, questa indicazione è stata smentita da Unioncamere, che ha chiarito come il termine non derivasse da alcuna norma di legge. Secondo Unioncamere, l’obbligo per le società già costituite dovrebbe essere adempiuto solo al momento del primo rinnovo o variazione degli amministratori successivo al 1° gennaio 2025.

Le Camere di Commercio si sono divise: alcune hanno seguito la linea di Unioncamere, altre hanno mantenuto un approccio prudenziale richiamando la scadenza ministeriale, mentre alcune hanno ritenuto che il termine fosse di carattere ordinatorio e non perentorio.

Il confronto con i commercialisti e la nuova proroga

A ridosso della scadenza originaria, anche il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili ha avviato un dialogo con il Ministero per chiarire la corretta applicazione dell’obbligo, evidenziando il rischio di sanzioni non legittime.

Alla luce delle difficoltà interpretative, il MIMIT è intervenuto nuovamente con la nota del 25 giugno 2025, stabilendo in via ufficiale la proroga del termine al 31 dicembre 2025.

Cosa devono fare le imprese costituite dal 1° gennaio 2025

Per le nuove società costituite dal 1° gennaio 2025, l’obbligo di indicare il domicilio digitale dell’amministratore rimane invariato: la comunicazione deve avvenire già al momento della domanda di iscrizione al Registro Imprese.