pro soluto e pro solvendo

Cessione pro solvendo e pro soluto Cessione pro solvendo e pro soluto: definizioni, differenze e giurisprudenza rilevante

Cos’è la cessione del credito?

La cessione del credito è un istituto giuridico contemplato dal codice civile (artt. 1260-1267) e può avvenire nelle forme pro soluto e pro solvendo. Essa si caratterizza per la presenza di tre soggetti: un creditore (cedente), che trasferisce a un terzo (cessionario) il proprio diritto di credito nei confronti di un debitore (debitor debitoris). Il cessionario acquisisce così il diritto di riscuotere il credito, che può essere relativo a una somma di denaro o a un’altra prestazione, al posto del cedente.

La cessione del credito può avvenire pro solvendo o pro soluto, a seconda delle condizioni stabilite tra le parti.

Cessione pro solvendo

La cessione pro solvendo è una forma di cessione del credito mediante la quale il cedente si impegna a garantire il pagamento del credito da parte del debitore originario nel caso in cui il cessionario non riesca a incassare il credito ceduto. In altre parole, se il debitore non paga, il cedente sarà responsabile del pagamento del credito nei confronti del cessionario.

Questo tipo di cessione prevede che il rischio di insolvenza del debitore venga trasferito al cedente, anche se come ultima risorsa. Il cessionario, infatti, dovrà tentare di recuperare il credito direttamente dal debitore, se poi il recupero non avviene, potrà chiedere il risarcimento al cedente.

Normativa sulla cessione pro solvendo

Il riferimento normativo del Codice Civile italiano per la cessione pro solvendo è rinvenibile nella disciplina della cessione del credito. Essa si basa sul contratto di cessione, che regola in modo convenzionale le responsabilità tra cedente e cessionario. La cessione del credito è regolata dagli articoli 1260 e seguenti del Codice Civile. La forma pro-solvendo è un accordo negoziale, che deve essere espressamente previsto nel contratto di cessione.

Cessione pro soluto

La cessione pro soluto, al contrario, è una forma di cessione del credito in cui il cessionario acquista il credito senza che il cedente abbia alcuna responsabilità se il credito non viene pagato dal debitore. In questo caso, il rischio di insolvenza viene completamente trasferito al cessionario. Se il debitore non paga, è il cessionario che subisce la perdita, senza poter rivalersi sul cedente.

La cessione pro soluto è più vantaggiosa per il cessionario, poiché elimina il rischio di mancato pagamento da parte del debitore. D’altra parte, però, il cessionario potrebbe richiedere una valutazione più accurata del credito prima di accettare una cessione pro soluto, dato che dovrà farsi carico del rischio d’insolvenza.

Normativa sulla cessione pro soluto

Analogamente alla cessione pro solvendo, la cessione pro soluto si fonda sul contratto di cessione del credito, ma l’accordo esplicito tra le parti stabilisce che il rischio di insolvenza viene trasferito al cessionario. La normativa di riferimento è quella relativa alla cessione del credito.

Differenze tra cessione pro solvendo e pro soluto

La differenza fondamentale tra le due forme di cessione del credito risiede nella responsabilità per il pagamento del credito. Mentre nella cessione pro solvendo il cedente è responsabile del pagamento nel caso in cui il debitore non adempia, nella cessione pro soluto il rischio di insolvenza è completamente a carico del cessionario.

Caratteristica

Cessione pro solvendo

Cessione pro soluto

Responsabilità in caso di insolvenza

Il cedente è responsabile se il debitore non paga

Il cessionario assume il rischio di insolvenza

Rischio d’insolvenza

A carico del cedente in caso di mancato pagamento

A carico del cessionario

Garanzia di incasso

Il cessionario ha una garanzia implicita dalla responsabilità del cedente

Il cessionario non ha garanzie dal cedente

Utilizzo comune

Usato quando il cedente vuole mantenere una certa protezione

Usato quando il cessionario è disposto a prendere un rischio maggiore

Vantaggi e svantaggi

Ecco un riepilogo dei vantaggi e degli svantaggi delle due tipologie di cessione:

Vantaggi della cessione pro solvendo

  • Protezione per il cessionario: il rischio di insolvenza del debitore è mitigato dalla garanzia del cedente.
  • Maggiore sicurezza per il cessionario: poiché il cedente si fa carico del rischio, il cessionario può essere più incline ad accettare la cessione.

Svantaggi della cessione pro solvendo

  • Maggiore onere per il cedente: il cedente si assume una maggiore responsabilità, che può portare a complicazioni in caso di mancato pagamento da parte del debitore.

Vantaggi della cessione pro soluto

  • Rischio completamente a carico del cessionario: il cedente non è responsabile del mancato pagamento del debitore.
  • Possibile maggior margine di guadagno per il cessionario: il cessionario può acquistare il credito a un prezzo inferiore rispetto alla cessione pro solvendo.

Svantaggi della cessione pro soluto

  • Maggiore rischio per il cessionario: il cessionario non può rivalersi sul cedente in caso di insolvenza del debitore, ed è quindi esposto a un rischio maggiore.

Giurisprudenza sulla cessione del credito

La giurisprudenza ha chiarito alcuni aspetti importanti relativi alla cessione pro solvendo e pro soluto. Ecco alcune sentenze rilevanti:

Cassazione n. 8803/2024: la cessione del credito, quale negozio a causa variabile, può essere stipulata anche a fine di garanzia e senza che venga meno l’immediato effetto traslativo della titolarità del credito tipico di ogni cessione, in quanto è proprio mediante tale effetto traslativo che si attua la garanzia, pure quando la cessione sia pro solvendo e non già pro soluto, con mancato trasferimento al cessionario, pertanto, del rischio d’insolvenza del debitore ceduto; diversamente, qualora la cessione abbia ad oggetto crediti futuri, l’effetto traslativo si produce solamente quando il credito viene ad esistenza, mentre tale effetto non si produce affatto nell’ipotesi in cui sia desumibile dal contratto la volontà del cedente di non privarsi della titolarità del credito e di realizzare solamente effetti minori, quali l’attribuzione al cessionario della mera legittimazione alla riscossione del credito.

Tribunale di Viterbo sentenza 21/08/2019: Nella cessione pro soluto, l’esistenza del credito in capo al cedente è un presupposto fondamentale per il trasferimento della titolarità al cessionario. Un credito è considerato inesistente quando non appartiene al cedente ma a un terzo, oppure quando il titolo su cui si fonda è inesistente o affetto da nullità, o ancora se, pur essendo esistito, si è estinto prima del perfezionamento della cessione.

Leggi anche gli altri interessanti articoli di diritto civile 

privacy in condominio

Privacy in condominio: le nuove linee guida Privacy in condominio: avviata la consultazione sulle nuove Linee guida, focus su adempimenti, videosorveglianza e digitalizzazione

Privacy in condominio: consultazione pubblica

Novità in materia di privacy in condominio. Il Garante per la protezione dei dati personali ha infatti reso noto con la newsletter datata 8 maggio 2025, di aver avviato una consultazione pubblica per adottare nuove Linee guida sul trattamento dei dati personali in ambito condominiale.

Questa iniziativa è stata formalizzata con il provvedimento n. 209 del 10 aprile 2025 e il suo obiettivo consiste nel chiarire gli obblighi e le responsabilità in materia di privacy nelle relazioni condominiali, tenendo conto degli sviluppi normativi e giurisprudenziali in materia, in particolare del GDPR.

Linee guida privacy in condominio

Le Linee guida, che saranno oggetto della consultazione, intendono fornire indicazioni operative uniformi, rispondere a quesiti pratici, recepire gli orientamenti giurisprudenziali recenti e dare seguito alle richieste di chiarimento che sono pervenute al Garante.

Il documento si concentra su tre aree principali:

  • gli adempimenti privacy (responsabilità dell’amministratore, informative, raccolta e conservazione dati);
  • la videosorveglianza condominiale (liceità, informative, tempi di conservazione e accesso);
  • la digitalizzazione dei processi condominiali (piattaforme, gestione documentale, assemblee online).

Il documento non trascura di segnalare la necessità di coordinarsi con le disposizioni di natura civilistica, così come non dimentica di trattare le tematiche della privacy legate al condominio minimo, al super-Condominio e agli altri ambiti esclusi.

Non mancano precisazioni infine sul ruolo dell’amministratore di condominio in materia di privacy e sulle responsabilità conseguenti in caso di violazione delle normative.

Come inviare proposte e osservazioni

La consultazione è rivolta soprattutto ai professionisti del settore condominiale e alle associazioni di categoria.

Tutti i soggetti interessati potranno inviare le loro osservazioni e le loro proposte entro 30 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (avvenuta il 9 maggio 2025) agli indirizzi email indicati, specificando nell’oggetto “Consultazione pubblica sulle Linee guida sul trattamento dei dati personali nell’ambito del condominio“.

Il Garante, con le Linee guida, vuole creare un riferimento pratico per la corretta gestione dei dati personali nei condomini, con un focus sui compiti dell’amministratore.

Leggi anche gli altri articoli dedicati al tema della riservatezza in ambito condominiale

lavoratori smart working

Lavoratori smart working: geolocalizzazione vietata Lavoratori smart working: il Garante privacy sanziona azienda che geolocalizza i dipendenti con procedure illecite

Geolocalizzazione lavoratori smart working

Il Garante per la protezione dei dati personali condanna le pratiche di sorveglianza dei lavoratori in smart working con il provvedimento n. 135 del 13 marzo 2025. Una controversia portata all’attenzione dell’Autorità privacy è culminata infatti con una sanzione di 50mila euro ai danni di un’azienda.

La contestazione riguarda l’illecita geolocalizzazione di circa cento lavoratori durante la loro attività lavorative da remoto. L’intervento del Garante è stato innescato dal reclamo di una dipendente e da una segnalazione dell’Ispettorato della Funzione Pubblica. Dall’istruttoria sono emerse significative violazioni della normativa sulla privacy.

Geolocalizzazione illecita

L’istruttoria condotta dal Garante ha svelato che l’azienda attuava il monitoraggio sistematico della posizione geografica dei propri dipendenti. L’obiettivo era verificare la corrispondenza tra il luogo effettivo di lavoro e l’indirizzo dichiarato nell’accordo individuale di smart working.

Questo tipo di controllo avveniva anche attraverso procedure mirate: i dipendenti, selezionati a campione, venivano contattati telefonicamente e invitati ad attivare la geolocalizzazione dei propri dispositivi (pc o smartphone) per effettuare una timbratura tramite app.

Subito dopo veniva richiesta una dichiarazione via e-mail del luogo in cui i lavoratori si trovavano fisicamente. Queste verifiche potevano anche evolversi in procedimenti disciplinari. Il tutto però senza una valida base giuridica e senza un’informativa adeguata. Inammissibile quindi questa intrusione nella sfera privata dei lavoratori, che contravviene al Regolamento europeo e al Codice della privacy.

Dignità del lavoratore e controllo a distanza

Il Garante privacy ha ribadito le legittime esigenze di controllo sulla diligenza dei dipendenti che operano in smart working. Queste però non possono giustificare l’impiego di strumenti tecnologici che comprimono la libertà e la dignità della persona.

Queste pratiche configurano un monitoraggio diretto dell’attività lavorativa che non è consentito né dallo Statuto dei lavoratori né dai principi costituzionali.

Occorre un equilibrio tra le esigenze organizzative del datore di lavoro e la tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori, soprattutto in un contesto di lavoro agile dove il rispetto della privacy ha un’importanza ancora maggiore.

 

Leggi anche gli altri articoli dedicati allo smart working

Anonimizzazione delle sentenze

Anonimizzazione delle sentenze: il Tar dice no Il Tar Lazio dice no all’anonimizzazione delle sentenze automatica nella banca dati del Ministero

Anonimizzazione delle sentenze

Anonimizzazione delle sentenze: con la sentenza n. 7625/2025, il Tar del Lazio ha annullato la decisione del Ministero della Giustizia di oscurare in modo generalizzato i dati personali contenuti nelle sentenze civili pubblicate sul portale dei servizi telematici. Secondo il giudice amministrativo, tale prassi viola il Codice Privacy e compromette la funzione pubblica della giurisprudenza, che deve essere accessibile in forma integrale per garantire la trasparenza e la comprensione delle decisioni.

Il contenzioso

La controversia nasce dal reclamo di alcuni ricercatori e operatori giuridici che, dopo l’attivazione della nuova banca dati giurisprudenziale, si sono trovati nell’impossibilità di consultare le sentenze in forma completa, a causa della rimozione sistematica di nomi, date e riferimenti essenziali. Tale oscuramento, giustificato dall’amministrazione come misura a tutela della privacy, rendeva però impraticabile l’analisi e lo studio dei precedenti giudiziari.

Il principio espresso dal Tar

Il Tar ha chiarito che non è l’amministrazione, bensì l’autorità giudiziaria, a poter decidere caso per caso sull’anonimizzazione delle sentenze, bilanciando il diritto alla riservatezza con il principio di pubblicità della giurisdizione. L’oscuramento totale, infatti, pregiudica l’effettiva intelligibilità della sentenza, impedendo di comprendere a fondo la vicenda fattuale da cui deriva il ragionamento giuridico. Inoltre, la pubblicazione integrale delle decisioni, salvo eccezioni (come nel caso di minori o procedimenti di famiglia), è prevista dal sistema normativo vigente.

giurista risponde

Silenzio assenso in materia edilizia e fiscalizzazione dell’abuso edilizio Il contrasto tra la destinazione dell’immobile e la disciplina urbanistica a esso applicabile esclude la fiscalizzazione?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, il contrasto tra la destinazione dell’immobile e la disciplina urbanistica a esso applicabile esclude di per sé la fiscalizzazione. Di conseguenza non può assumere rilevanza sanante una disciplina urbanistica o edilizia sopravvenuta, non potendo il privato confidare in una modifica del quadro normativo che renda legittimo ciò che non lo era. – Cons. Stato, sez. II, 13 dicembre 2024, n. 10076 (Silenzio assenso in materia edilizia e cosiddetta fiscalizzazione dell’abuso edilizio).

I Giudici di Palazzo Spada, richiamando la costante giurisprudenza, ribadiscono che in materia edilizia l’istituto del silenzio assenso è assoggettato a una disciplina speciale e non direttamente all’art. 20 della L. 241/1990 che non è istituto di carattere generale destinato ad applicarsi in via residuale in mancanza di una diversa disciplina, in quanto la regola è quella secondo la quale le pubbliche Amministrazioni hanno il dovere di concludere il procedimento con un provvedimento espresso e nel rispetto dei principi di legalità e trasparenza, così come nell’istanza ex art. 38 del D.P.R. 380/2001, che non disciplina le conseguenze della mancata risposta dell’amministrazione sull’eventuale istanza del privato, per cui non può formarsi il silenzio assenso su di essa.

Sulla base di tali premesse, la Sezione ha rilevato che, l’art. 20, comma 8, D.P.R. 380/2001, da un lato, prevede che il diniego, per impedire la formazione dell’assenso tacito, deve essere motivato; dall’altro, esclude che l’istituto si applichi qualora l’immobile o l’area in cui si trova siano sottoposti a vincoli, o vi siano state richieste di integrazione documentale o istruttorie inevase. Inoltre, ciò lo si desume anche dalla disciplina in materia di silenzio assenso sull’istanza di condono che si forma solo se ricorrono tutti i requisiti soggettivi e oggettivi per l’accoglimento della stessa; e dal fatto che sull’istanza di accertamento di conformità, l’art. 36, comma 3 del D.P.R. 380/2001 prevede il meccanismo del silenzio diniego. Pertanto, laddove in materia edilizia, il legislatore, non abbia espressamente qualificato la mancata tempestiva risposta dell’amministrazione come silenzio assenso, ovvero come silenzio diniego, essa configura un’ipotesi di silenzio inadempimento, avverso la quale il privato, attraverso l’azione di cui agli artt. 31 e 117 c.p.a., può ottenere l’accertamento dell’obbligo di provvedere e, qualora ne ricorrano i presupposti, anche una pronuncia sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio.

Con riferimento all’art. 38 del D.P.R. 380/2001 si enucleano tre diverse fattispecie: i) una riferibile a un titolo edilizio annullato per un vizio di procedura emendabile e che pertanto è soggetto a convalida ordinaria; ii) la seconda, nella quale il vizio di procedura è insanabile, ma l’opera realizzata abusivamente è conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia, che può essere mantenuta previa applicazione di una sanzione pecuniaria, il cui integrale versamento produce gli stessi effetti del permesso di costruire in sanatoria; iii) la terza, nella quale il vizio che ha annullato il titolo edilizio è di natura sostanziale, quindi l’intervento è contrastante con la disciplina applicabile, ciò precludendo sia la convalida sia la fiscalizzazione e imponendo il ripristino dello stato dei luoghi. Pertanto, l’art. 38 D.P.R. 380/2001 va a disciplinare la convalida introducendo degli elementi di specialità rispetto all’art. 21nonies, comma 2, L. 241/1990 consentendo, da un lato, la convalida del provvedimento annullato (mentre la convalida è preclusa alla formazione del giudicato), e dall’altro, limita la convalida ai vizi di procedura (escludendo i vizi sostanziali).

Nel caso in esame è stato rilevato il contrasto tra la destinazione dell’immobile e la disciplina urbanistica a esso applicabile, che di per sé esclude la fiscalizzazione. Le società ricorrenti contestavano il diniego di fiscalizzazione e l’ordinanza di demolizione emessi rispetto a un capannone utilizzato come autofficina e realizzato in base a un permesso di costruire annullato per contrasto con la normativa urbanistica applicabile all’area. Successivamente, era stata approvata una variante urbanistica, che modificava le destinazioni ammissibili nella zona, includendo quelle utili all’attività dell’autofficina.

Ad ogni modo, non si può giungere ad esiti diversi qualora nel tempo intercorso tra il rilascio del permesso di costruire poi annullato e la presentazione dell’istanza di applicazione di una sanzione pecuniaria in luogo della demolizione, la disciplina urbanistica sia stata modificata.

I Giudici rilevano che l’art. 38 D.P.R. 380/2001 consente che si producano, in conseguenza del pagamento di una sanzione pecuniaria, i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria, ex art. 36 D.P.R. 380/2001, pur in presenza di un bene formalmente abusivo, in quanto il titolo avrebbe dovuto essere rilasciato, stante la sostanziale legittimità dell’opera alla disciplina urbanistica all’epoca vigente e a cui si correla l’affidamento del privato, con la conseguenza che non può assumere rilevanza sanante una disciplina urbanistica o edilizia sopravvenuta, non potendo il privato confidare in una modifica del quadro normativo che renda legittimo ciò che prima non lo era. Ciò al fine di scongiurare la sanabilità dell’immobile per conformità sopravvenuta, che è stata disattesa in mancanza di una base legale. Sul punto, i Giudici precisano, che non conduce a diversa soluzione il D.L. 69/2024, convertito con modificazioni in L. 105/2024, da un lato, perché non ancora vigente al momento dell’adozione del provvedimento impugnato, dall’altro, perché esso non ha inteso superare il requisito della c.d. doppia conformità, ma ha circoscritto l’ambito di applicazione agli abusi edilizi di maggiore gravità.

In conclusione, la modifica al piano regolatore generale del Comune, a prescindere dall’effettiva conformità del capannone alla nuova disciplina, non aveva rilevanza ai fini della concessione della fiscalizzazione, il cui diniego è stato ritenuto immune dai vizi dedotti dalle società ricorrenti.

 

(*Contributo in tema di “Silenzio assenso in materia edilizia e cosiddetta fiscalizzazione dell’abuso edilizio”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

convivenza more uxorio

Convivenza more uxorio: nessun rimborso per il mutuo dopo la separazione Convivenza more uxorio: i pagamenti per il mutuo sono un'obbligazione naturale, rimborso impossibile dopo la fine della relazione

Convivenza more uxorio e restituzione mutuo

L’ordinanza n. 11337/2025 della Cassazione ribadisce un principio chiave sui mutui per l’acquisto della casa quando finisce la convivenza more uxorio. I pagamenti effettuati da un partner all’altro durante la convivenza stabile sono adempimento di un’obbligazione naturale. Di conseguenza, una volta terminata la relazione, non è possibile chiedere la restituzione di queste somme. La Cassazione equipara infatti questi trasferimenti di denaro a un dovere morale e sociale insito nel rapporto di convivenza. La possibilità di un’azione di rimborso basata sull’ingiustificato arricchimento o su altre pretese restitutorie è quindi impossibile.

Obbligazione naturale nella convivenza more uxorio

Il Tribunale di Brescia condanna una donna a pagare 12.000 euro al suo ex convivente per lo “squilibrio economico” creatosi durante la loro convivenza more uxorio (dal 2012 al febbraio 2015). L’uomo sosteneva infatti di aver pagato le spese, le bollette e il mutuo della casa di proprietà della donna per tre anni (circa 28.800 euro), oltre ad aver comprato mobili e versato 10.000 euro per un’auto usata dalla compagna, la quale all’epoca era studentessa e non percepiva stipendio. L’uomo, rimasto senza abitazione dopo la fine della relazione, chiedeva la restituzione di 20.000 euro, invocando i principi di proporzionalità e adeguatezza e l’ingiustificato arricchimento.

Obbligazioni naturali? Nessun rimborso

La Corte d’appello di Brescia però riforma la sentenza, rigettando la domanda dell’uomo e condannandolo alle spese. I versamenti di denaro effettuati dall’uomo durante la convivenza costituiscono adempimento di un’obbligazione naturale e come tale non ripetibile.

Esborsi sproporzionati e indebito arricchimento

L’uomo ricorre quindi in Cassazione, sollevando due motivi di doglianza.

Obbligazioni naturali solo per le spese ordinarie

Con il primo lamenta la nullità della sentenza e la violazione di varie norme civilistiche (artt. 2 Cost., 2034, 2041, 2043 c.c. e artt. 116, 232 c.p.c.). La Corte d’appello ha dato per provate le sue elargizioni, ma non ha considerato la sproporzione tra i suoi esborsi (25.400 euro), le sue condizioni economiche di operaio e l’indebito arricchimento della compagna. La Corte erra quando afferma che i suoi versamenti rientravano nell’assistenza morale e materiale dovuta in un rapporto affettivo consolidato. Questa ricostruzione è valida solo per le spese ordinarie, ma non per i bonifici periodici destinati al pagamento del mutuo e per l’acquisto di beni che hanno arricchito la donna. E’ necessaria una disamina sulla proporzionalità delle attribuzioni patrimoniali tra conviventi.

Omesso esame della consistenza patrimoniale

Con il secondo motivo l’uomo denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo, ossia la sua consistenza patrimoniale. Afferma infatti di aver provato, tramite estratti conto, di percepire uno stipendio di circa 1.700 euro mensili, unica sua entrata, e che i bonifici non erano mensili, ma periodici, indicando una natura straordinaria e non di canone o spese di vita. Sottolinea inoltre che al termine della convivenza era rimasto senza risorse, mentre la compagna si era arricchita grazie al pagamento del mutuo e dei beni acquistati da lui.

Nessun rimborso per le obbligazioni naturali

La Corte di Cassazione però rigetta il ricorso. Quanto al primo motivo, ribadisce che l’azione di arricchimento senza causa non è invocabile quando l’arricchimento deriva dall’adempimento di un’obbligazione naturale. Dalla convivenza nascon0 infatti  doveri morali e sociali. I versamenti di denaro tra conviventi sono generalmente considerati adempimenti doverosi nell’ambito di un rapporto affettivo consolidato. Esso infatti implica collaborazione e assistenza materiale e morale. L’ingiustizia dell’arricchimento può configurarsi quando le prestazioni di un convivente a favore dell’altro esulano dal mero adempimento di tali obbligazioni, superando i limiti di proporzionalità e adeguatezza rispetto alle condizioni sociali e patrimoniali dei conviventi.

Nel caso di specie la Corte d’appello ha ritenuto che l’importo versato dall’uomo per il mutuo (circa 666 euro al mese) fosse proporzionato, equiparabile a un canone di locazione e quindi rientrante nella collaborazione e assistenza dovuta in un rapporto affettivo. La valutazione della Corte d’Appello è plausibile in relazione alla proporzionalità e all’adeguatezza del contributo, rimessa al suo esclusivo apprezzamento. Gli Ermellini confermano quindi il principio secondo cui l’attribuzione patrimoniale al convivente configura adempimento di obbligazione naturale se il giudice di merito, con un giudizio di fatto insindacabile in Cassazione, la ritiene adeguata e proporzionata alle circostanze e alle condizioni del solvens.

Estratti conto insufficienti come prova

Quanto al secondo motivo, la Cassazione lo dichiara inammissibile. Il ricorrente lamenta la mancata considerazione degli estratti conto attestanti il suo stipendio. La Cassazione però ha evidenziato che la Corte d’appello ha basato il suo giudizio di proporzionalità sull’ammontare non contestato dei versamenti per il mutuo. Nel caso di specie mancano “più compiute allegazioni” sulla situazione reddituale complessiva dell’uomo. La mera produzione di estratti conto, da cui si potrebbero desumere alcune entrate, non è sufficiente a provare l’esclusività di tali entrate ai fini della composizione del reddito. Pertanto, la doglianza sulla mancata considerazione dei soli estratti conto non superava la ratio decidendi della sentenza impugnata.

 

Leggi anche gli altri articoli dedicati alla convivenza more uxorio

Allegati

tributi locali

Tributi locali e federalismo fiscale: cosa prevede il decreto Tributi locali: il CdM ha approvato in via preliminare un decreto legislativo dedicato a imposte, tributi locali e federalismo fiscale

Tributi locali: maggiore autonomia fiscale

Il Consiglio dei Ministri ha approvato, al momento in via preliminare, un decreto legislativo che contempla una maggiore autonomia fiscale di regioni e comuni e semplifica gli adempimenti per cittadini e imprese. Lo Schema del decreto, composto al momento da 33 articoli, mira a potenziare le forme di collaborazione con il contribuente, incentivando anche l’adempimento spontaneo degli obblighi tributari e introducendo forme di definizione agevolata in materia di tributi regionale e locali.

Accertamento e riscossione tributi locali

Per quanto riguarda l’accertamento e la riscossione dei tributi il provvedimento prevede l’istituzione di un albo di soggetti privati abilitati a svolgere dette attività. Previste novità anche in materia di  accertamento esecutivo per i tributi regionali.

Tassa automobilistica e Irap

Anche l’apparato sanzionatorio amministrativo subisce profonde modifiche, così come le disposizioni sulla tassa automobilistica regionale, di cui viene semplificato il pagamento.

Le modifiche vanno a toccare anche la disciplina dell’imposta regionale sulle attività produttive e della addizionale regionale all’imposta sul reddito delle persone fisiche.

Tributi locali: imposte provinciali e comunali

Non mancano elementi di novità anche in materia di imposte provinciali (come quella di trascrizione) o in materia di imposte comunali (come l’Imposta municipale propria). I comuni avranno inoltre sanzioni più proporzionali su IMU, TARI, imposta di soggiorno e contributo di sbarco, e un modello telematico unico per l’IMU. Per il triennio 2025-2027, si raddoppia inoltre la quota comunale per il recupero dell’evasione.

Attuazione del federalismo fiscale

La terza parte del provvedimento, dedicata all’attuazione del federalismo fiscale, si occupa della compartecipazione al gettito dell’imposta sul reddito delle persone fisiche da parte delle regioni e consolo. Dal 2026 il decreto prevede inoltre un’importante novità: l’istituzione  della compartecipazione al gettito dell’imposta sul reddito delle persone fisiche anche per le province e per le città metropolitane.

 

Leggi anche gli altri articoli dedicati alla materia fiscale

bullismo e cyberbullismo

Bullismo e cyberbullismo: cosa prevede il decreto attuativo Bullismo e cyberbullismo: il Consiglio dei Ministri ha approvato, in via preliminare, un decreto legislativo che rafforza il 114

Bullismo e cyberbullismo: il decreto approvato

Il Consiglio dei Ministri ha approvato un decreto legislativo per rafforzare la prevenzione e il contrasto del bullismo e del cyberbullismo, in attuazione della legge n. 70/2024, con cui si pone quindi in una linea di continuità.

Bullismo e cyberbullismo: emergenza infanzia

Il nuovo decreto potenzia il servizio telefonico “emergenza infanzia 114”, estendendone l’operatività anche a questi fenomeni per tutelare i minori. Il 114, attivo 24 ore al giorno 7 giorni su 7, offrirà una prima assistenza psicologica e giuridica, oltreché una consulenza psicopedagogica e segnalerà i casi gravi alle autorità. L’app del 114 includerà anche la geolocalizzazione (previa acquisizione del consenso) e un servizio di messaggistica istantanea. Il tutto ovviamente nel rispetto della privacy. I dati anonimi sui fenomeni del bullismo e del cyberbullismo nelle scuole, raccolti dal 114, saranno trasmessi annualmente al Ministero dell’Istruzione e del Merito per programmare azioni di sensibilizzazione. Il sito web del 114 garantirà inoltre un’ ampia accessibilità ai servizi.

Indagini statistiche su bullismo e cyberbullismo

L’ISTAT condurrà rilevazioni biennali su questi fenomeni giovanili la fine di identificarne le caratteristiche, i soggetti a rischio, i fattori e le conseguenze psicologiche che producono. La Presidenza del Consiglio dei Ministri invierà alle Camere un rapporto di sintesi con i risultati ISTAT e lo stato di attuazione delle misure nelle scuole secondarie.

Più responsabilità genitoriale

Il decreto aggiorna inoltre le comunicazioni dei fornitori di servizi online, richiamando però sul punto anche la responsabilità genitoriale prevista dall’ articolo 2048 del codice civile per i danni causati dai figli minori nel mondo online.

Campagne su uso responsabile della rete

La Presidenza del Consiglio promuoverà campagne informative sull’uso consapevole della rete e sui suoi rischi. Il Ministero dell’Istruzione e le scuole promuoveranno infine la conoscenza del numero 114, strumento fondamentale per esternare il disagio e chiedere aiuto.

 

Leggi anche: Bullismo e cyberbullismo: cosa prevede la nuova legge

linee guida

Linee guida nella responsabilità medica Linee guida nella responsabilità medica: cosa sono, come incidono e applicazione nella legge Gelli-Bianco

Cosa sono le linee guida in ambito sanitario

Le linee guida nella responsabilità medica costituiscono un pilastro fondamentale nel moderno sistema di valutazione della condotta sanitaria. La loro funzione è quella di orientare l’operato dei professionisti della salute, delineando criteri scientificamente validati che possano fungere da parametro per la verifica della diligenza, perizia e prudenza del sanitario.

Tuttavia, il loro ruolo nella valutazione della responsabilità, civile e penale, del medico è stato oggetto di un’evoluzione normativa e giurisprudenziale complessa, culminata con l’emanazione della legge 8 marzo 2017, n. 24, nota come legge Gelli-Bianco.

Esso consistono in raccomandazioni redatte da enti scientifici accreditati, che individuano percorsi diagnostico-terapeutici basati sulle migliori evidenze disponibili. Esse servono a:

  • uniformare le pratiche cliniche;
  • migliorare la qualità dell’assistenza;
  • ridurre gli errori sanitari;
  • offrire uno standard oggettivo per la valutazione dell’attività sanitaria.

Sono pubblicate e aggiornate dall’Istituto Superiore di Sanità attraverso il Sistema Nazionale Linee Guida (SNLG), istituito con decreto ministeriale 27 febbraio 2018.

L’incidenza sulla responsabilità medica

L’introduzione delle linee guida nel contesto giuridico ha comportato un mutamento nell’accertamento della colpa medica. In precedenza, la responsabilità del sanitario veniva valutata caso per caso, secondo criteri soggettivi. Con il riferimento a queste invece, il giudizio tende a fondarsi su un parametro oggettivo e scientificamente accreditato.

Secondo l’impostazione attuale, il sanitario:

  • è tenuto a rispettare le linee guida accreditate, salvo casi specifici che giustifichino il discostamento;
  • non è punibile qualora l’evento si sia verificato per imperizia, se ha agito conformemente alle stesse (art. 590-sexies c.p.).

La legge Gelli-Bianco (l. 24/2017)

La legge n. 24/2017 ha sistematizzato la materia attraverso l’introduzione di queste due norme:

  • art. 5: stabilisce che i professionisti sanitari devono attenersi, nell’esercizio della propria attività, alle linee guida pubblicate nel SNLG. In assenza, si applicano le buone pratiche clinico-assistenziali;
  • art. 6 (nuovo art. 590-sexies c.p.): esclude la punibilità per imperizia in caso di rispetto delle linee guida o delle buone pratiche.

Quando non bastano

La giurisprudenza ha chiarito che le stesse:

  • non sostituiscono il giudizio clinico individuale del medico;
  • possono essere derogate in presenza di situazioni specifiche, clinicamente giustificate e documentate;
  • la responsabilità può sussistere anche in caso di rispetto formale delle linee guida, se la condotta è priva di personalizzazione sul paziente.

Secondo la Cassazione n. 10175/2020: il rispetto delle linee guida mediche non esclude automaticamente la colpa del medico, è sempre necessario valutare se le specifiche condizioni cliniche del paziente avrebbero richiesto un percorso terapeutico differente rispetto a quello standard indicato dalle linee guida. Il medico ha quindi il dovere di considerare la particolarità di ogni singolo caso e, se necessario, discostarsi dalle linee guida per adottare la soluzione più appropriata per quel determinato paziente. Il rispetto delle stesse è un elemento importante da considerare, ma non è l’unico e non esonera il medico dalla responsabilità se, nel caso concreto, un approccio diverso si sarebbe rivelato necessario e avrebbe potuto evitare l’evento lesivo.

Linee guida e responsabilità della struttura

La legge Gelli-Bianco ha differenziato anche la responsabilità tra sanitario e struttura:

  • il medico risponde ai sensi dell’art. 2043 c.c., quindi in base alla prova del dolo o della colpa  e comunque “salvo che abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente”;
  • la struttura sanitaria pubblica o privata “che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa” risponde contrattualmente, ex art. 1218 c.c., con conseguente onere della prova a suo carico e prescrizione decennale.

Le linee guida assumono rilevanza anche per la struttura, sia come parametro di organizzazione, sia come strumento difensivo nella valutazione dell’adeguatezza delle cure erogate.

 

Leggi anche gli altri articoli dedicati alla responsabilità medica

indennizzo commercianti

Indennizzo commercianti Indennizzo commercianti 2025: cos’è, natura e importo, a chi spetta, requisiti, come funziona, importo e casi di esclusione

Indennizzo cessazione dell’attività commerciale

L’indennizzo per la cessazione dell’attività commerciale, definito sinteticamente indennizzo commercianti, è una prestazione economica erogata dall’INPS a favore di determinati lavoratori autonomi del commercio, che decidono di chiudere definitivamente la propria attività prima di raggiungere i requisiti pensionistici ordinari. Si tratta di una misura pensata per tutelare i commercianti in età avanzata, che cessano anticipatamente il proprio lavoro. Vediamo nel dettaglio che cos’è l’indennizzo commercianti, chi può richiederlo, come funziona e cosa cambia nel 2025.

Natura e importo dell’indennizzo commercianti

L’indennizzo è una prestazione mensile di natura assistenziale, introdotta inizialmente in via sperimentale con il D.lgs. n. 207/1996 e poi resa strutturale dalla Legge n. 145/2018 (Legge di Bilancio 2019). La misura è gestita dall’INPS e destinata agli iscritti al fondo commercianti che cessano definitivamente l’attività. L’importo dell’indennizzo corrisponde al trattamento minimo di pensione previsto per ciascun anno.

Normativa di riferimento

Le principali fonti normative sono:

  • D.lgs. 28 marzo 1996, n. 207 (istituzione dell’indennizzo).
  • Legge 30 dicembre 2018, n. 145, art. 1, comma 283 (stabilizzazione della misura);
  • Circolare INPS n. 77/2019.

Chi ha diritto all’indennizzo commercianti

L’indennizzo INPS spetta ai:

  • titolari  o coadiutori/coadiutrici di attività commerciale al minuto, anche in forma di  somministrazione di alimenti e bevande e quali che esercitano du aree pubbliche;
  • gli esercenti di attività di somministrazione al pubblico di alimenti e di bevande;
  • gli agenti e i rappresentanti di commercio iscritti alla gestione commercianti INPS.

Requisiti principali:

  • Compimento
    • di 62 anni di età per gli uomini;
    • di 57 anni per le donne.
  • Contributi:
    • almeno 5 anni di iscrizione alla gestione commercianti INPS (anche non continuativi).
  • Cessazione definitiva dell’attività:
    • con chiusura della partita IVA e con cancellazione dal registro delle imprese e dal REA;
    • il richiedente infine non deve svolgere alcuna attività lavorativa successiva, nemmeno in forma occasionale o parasubordinata. Se si riprende l’attività occorre comunicarlo all’INPS entro 30 giorni.

Come funziona l’indennizzo

L’indennizzo è richiedibile tramite portale INPS, utilizzando le credenziali SPID, CIE o CNS. La procedura online prevede:

  1. Verifica dei requisiti anagrafici e contributivi;
  2. Presentazione telematica della domanda;
  3. Controllo da parte dell’INPS sull’effettiva cessazione dell’attività.

L’indennizzo decorre dal primo giorno del mese successivo alla cessazione dell’attività ed è erogato mensilmente fino al compimento dell’età prevista per la pensione di vecchiaia (attualmente 67 anni sia per gli uomini che per le donne).

Importo dell’indennizzo commercianti

L’importo mensile è pari al trattamento minimo INPS, aggiornato annualmente. Nel 2025, l’importo è di 603,40 euro

L’indennizzo non è cumulabile con altri redditi da lavoro, ma non è incompatibile con trattamenti pensionistici diretti e indiretti come la pensione anticipata, la pensione di inabilitò e l’assegno di invalidità.

Casi di esclusione

L’indennizzo non spetta se:

  • il richiedente continua a lavorare in qualsiasi forma;
  • non vi è cessazione definitiva dell’attività;
  • mancano i 5 anni di iscrizione alla gestione commercianti;
  • l’età è inferiore alla soglia minima.

 

Leggi anche gli altri articoli dedicati alla materia pensionistica