corte ue conferma multa

La Corte UE conferma la multa di 2,4 miliardi a Google Conclusa la questione aperta fin dal 2017 con Google Alphabet. Per i giudici di Lussemburgo si è trattato di abuso della propria posizione dominante

Confermata multa a Google

La Corte UE conferma la multa di 2,4 miliardi a Google, per aver abusato della propria posizione dominante favorendo il serrvizio di prodotti. La sentenza è resa dalla Corte nella causa C-48/22 P | Google e Alphabet/Commissione (Google Shopping).

La vicenda

La vicenda ha inizio nel 2017, quando la Commissione aveva inflitto un’ammenda di circa 2,4 miliardi di euro a Google per aver abusato della sua posizione dominante su vari mercati nazionali della ricerca su Internet favorendo il proprio servizio di comparazione di prodotti rispetto a quello dei suoi concorrenti.

Poiché il Tribunale ha, in sostanza, confermato tale decisione e mantenuto l’ammenda di cui sopra, Google e Alphabet hanno proposto un’impugnazione dinanzi alla Corte, che è stata respinta da quest’ultima confermando così la sentenza del Tribunale.

La Commissione

Con decisione del 27 giugno 2017, la Commissione aveva constatato che, in tredici paesi dello Spazio economico europeo (SEE), “Google aveva privilegiato, sulla sua pagina di risultati di ricerca generale, i risultati del proprio comparatore di prodotti rispetto a quelli dei comparatori di prodotti concorrenti. Google aveva infatti presentato i risultati di ricerca del suo comparatore di prodotti in prima posizione e li aveva valorizzati all’interno di «boxes», accompagnandoli con informazioni visive e testuali attraenti”.

Per contro, i risultati di ricerca dei comparatori di prodotti concorrenti “apparivano soltanto come semplici risultati generici (presentati sotto forma di link blu) ed erano, per tale motivo, contrariamente ai risultati del comparatore di prodotti di Google, suscettibili di essere retrocessi da algoritmi di aggiustamento nelle pagine di risultati generali di Google”.

La Commissione ha concluso che Google aveva abusato della propria posizione dominante sul mercato dei servizi di ricerca generale su Internet nonché su quello dei servizi di ricerca specializzata di prodotti e le ha inflitto un’ammenda di EUR 2 424 495 000, per il pagamento della quale Alphabet, in quanto socia unica di Google, è stata ritenuta responsabile in solido per un importo di EUR 523 518 000.

Il tribunale e la Corte

La questione era approdata innanzi al tribunale UE, il quale aveva respinto il ricorso e confermato l’ammenda.

Google e Alphabet hanno allora proposto un’impugnazione dinanzi alla Corte, la quale con la sentenza in parola ha rigettato l’impugnazione e confermato la sentenza del Tribunale.

La decisione

Nella sentenza, la Corte ricorda che “il diritto dell’Unione sanziona non l’esistenza stessa di una posizione dominante, bensì soltanto lo sfruttamento abusivo di quest’ultima. In particolare, sono vietati i comportamenti di imprese in posizione dominante che restringano la concorrenza basata sui meriti e siano dunque suscettibili di causare un pregiudizio alle singole imprese e ai consumatori”.

Tra tali comportamenti rientrano quelli che, con mezzi diversi dalla concorrenza basata sui meriti, “ostacolano il mantenimento o lo sviluppo della concorrenza su un mercato in cui il grado di concorrenza è già indebolito, proprio in ragione della presenza di una o più imprese in posizione dominante”.

Non si può certo ritenere, in generale, “che un’impresa dominante che applichi ai propri prodotti o ai propri servizi un trattamento più favorevole di quello che essa accorda a quelli dei suoi concorrenti tenga, indipendentemente dalle circostanze del caso di specie, un comportamento che si discosta dalla concorrenza basata sui meriti” precisa la Corte. La stessa constata tuttavia che nella fattispecie, “il Tribunale ha effettivamente stabilito che, alla luce delle caratteristiche del mercato e delle circostanze specifiche del caso in esame, il comportamento di Google era discriminatorio e non rientrava nell’ambito della concorrenza basata sui meriti”.

mediazione familiare

Mediazione familiare: cos’è e chi la conduce La mediazione familiare è un percorso finalizzato al raggiungimento di un accordo in presenza di una crisi familiare

Mediazione familiare: definizione e finalità

La mediazione familiare consiste in una procedura rivolta alle coppie in crisi al fine di risolvere situazioni conflittuali che vengono manifestate con la volontà di procedere a una separazione o un divorzio.

La mediazione familiare prevede la collaborazione delle parti coinvolte per la risoluzione del conflitto. In questo percorso la coppia è assistita da un soggetto terzo e imparziale, che prende il nome di mediatore familiare. Il suo ruolo è quello di comunicare con le parti per aiutarle a trovare una soluzione positiva per entrambe.

Uno degli obiettivi principali nel processo di mediazione è la realizzazione della cogenitorialità per tutelare la responsabilità genitoriale di ciascun genitore nei confronti dei figli, soprattutto se minori di età.

Mediazione familiare e mediazione civile

Le differenze con la mediazione civile sono evidenti. La mediazione familiare è finalizzata a favorire gli accordi tra coniugi per risolvere problematiche soprattutto di carattere “emotivo” che possono riguardare anche il rapporto con i figli. La mediazione civile invece è finalizzata al raggiungimento di un accordo tra parti in conflitto in relazione a una controversia insorta in materia di diritti disponibili.

Mediazione familiare: l’art. 473 bis 10 c.c.

La Riforma Cartabia ha valorizzato la mediazione familiare, dedicandole un articolo specifico del codice di procedura civile nella parte dedicata ai procedimenti per le persone, i minorenni e le famiglie.

L’articolo 473 bis 10 prevede che il giudice, durante il procedimento, possa informare le parti, della possibilità di avvalersi della mediazione familiare e invitarle a rivolgersi a un mediatore familiare. Questo soggetto, che le parti possono scegliere liberamente, deve spiegare alle parti finalità, contenuto e modalità di svolgimento del percorso per consentire loro di decidere se intraprenderlo o meno.

Il giudice può decidere anche di rinviare l’adozione dei provvedimenti temporanei e urgenti se, ottenuto il consenso dei coniugi, ritiene che la mediazione familiare possa essere utile alle parti per trovare un accordo, soprattutto nell’interesse materiale e morale dei figli.

Il mediatore familiare: disciplina

La Riforma Cartabia ha anche regolato la disciplina professionale del mediatore familiare. Il DM n. 151/2023 contenente il regolamento sulla disciplina professionale del mediatore familiare compie l’attuazione del decreto legislativo n. 149/2022, che a sua volta ha attuato la legge delega n. 206/2021.

Alla luce di questa regolamentazione il soggetto che vuole esercitare la professione di mediatore familiare deve richiedere l’iscrizione in un elenco apposito. All’elenco si possono iscrive i mediatori familiari che sono iscritti da almeno 5 anni a una delle associazioni professionali, che a loro volta, devono essere inserite nell’elenco del Ministero dello sviluppo economico.

Mediatore familiare: definizione normativa

L’articolo 2 del DM n. 151/2023 definisce il mediatore familiare come: la figura  professionale  terza  e imparziale, con una formazione specifica, che interviene nei casi  di cessazione o di oggettive difficoltà relazionali di un rapporto di coppia, prima, durante o dopo l’evento separativo. Il mediatore opera al fine di facilitare i soggetti coinvolti nell’elaborazione di un percorso di riorganizzazione di  una  relazione, anche mediante il raggiungimento di un accordo   direttamente e responsabilmente negoziato e con riferimento alla salvaguardia dei rapporti familiari e della relazione genitoriale, ove presente.”

Competenze

Il mediatore familiare deve essere in possesso di conoscenze specifiche in materia di diritto di famiglia, tutela dei minori, violenza domestica e violenza di genere.

Il mediatore acquisisce queste competenze attraverso la frequentazione di un percorso di formazione iniziale a cui ne segue uno continuo nel tempo con acquisizione dei relativi crediti formativi periodici.

Requisiti morali

Il mediatore familiare per esercitare la professione deve possedere anche precisi requisiti di onorabilità. Non deve aver subito condanne penali e non deve essere stato sottoposto a specifiche misure di prevenzione e di sicurezza personali.

Deontologia

Il mediatore familiare è tenuto al rispetto anche di precise regole deontologiche, la cui violazione comporta   relative sanzioni.

Ai sensi dell’art. 6 del DM n 151/2023 il mediatore familiare deve esercitare la professione con libertà, autonomia, indipendenza di giudizio intellettuale e tecnico, buona fede,  affidamento della clientela, correttezza, responsabilità e riservatezza.

Il mediatore familiare esercita l’attività di  mediazione  con imparzialità, neutralità e assenza di giudizio  nei  confronti  dei mediandi, promuovendo fra loro un processo equilibrato e incoraggiandoli a confrontarsi in modo costruttivo.”

correttivo crisi di impresa

Correttivo crisi d’impresa: approvazione definitiva Il Codice della crisi di impresa subisce ulteriori modifiche da parte del terzo correttivo approvato in via definitiva dal Governo

Correttivo Codice della crisi

Mercoledì 4 settembre 2024 il Consiglio dei Ministri ha approvato in via definitiva il correttivo della crisi d’impresa, che aveva approvato in via preliminare nella seduta del 10 giugno u.s., su proposta del Ministro della Giustizia. Il decreto legislativo contiene le disposizioni integrative e correttive al Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza di cui al decreto legislativo 12 gennaio 2019 n. 14.

Di cosa si occupa il correttivo al Codice della crisi

Il decreto legislativo in esame introduce il terzo correttivo al Codice e si prefigge l’obiettivo di correggere alcuni difetti di coordinamento normativo venuti in rilievo dopo i precedenti correttivi, di porre rimedio ad alcuni errori materiali, di aggiornare la normativa di riferimento, nonché di fornire chiarimenti di natura interpretativa.

Le novità più importanti

Poche ma rilevanti le modifiche apportate durante il controllo del testo da parte del Consiglio di Stato e delle Commissioni parlamentari.

Diverse le novità che interessano la composizione negoziata della crisi:

  • Alla procedura possono accedere anche l’imprenditore agricolo e commerciale che si trovino in stato di insolvenza.
  • Un chiarimento importante riguarda il trasferimento dell’azienda o di rami della stessa. In questi casi, nell’ottica di perseguire il risanamento, è necessario preservare, ovviamente per quanto possibile, i posti di lavoro dei dipendenti.
  • Le misure protettive del patrimonio possono essere richieste in relazione a certi creditori o certe categorie di creditori.
  • Il compenso dell’esperto viene aumentato del 100% se dopo la relazione finale, grazie al suo intervento, si concludono accordi, contratto o convenzione.

In relazione al concordato semplificato il testo prevede invece la possibilità di accesso anche con riserva di deposito, sia della proposta che del piano.

Si prevede altresì l’applicazione delle disposizioni che regolano la crisi o l’insolvenza di gruppo ai PRO di gruppo.

Le altre modifiche interessano il procedimento di accertamento dello stato passivo (art. 270) il procedimento di esdebitazione (art. 281) e l’aggiornamento dei professionisti (art. 356).

Transazione fiscale e contributiva

Il testo correttivo conserva l’ innalzamento delle soglie per il cram down fiscale, che consiste nello stralcio forzoso dei debiti anche se gli enti pubblici non aderiscono. Cambiano però le percentuali di soddisfazione dei crediti tributari e fiscali per procedere al cram down, procedura che viene esclusa totalmente nei casi in cui il debito tributario rappresenta almeno l’80% dell’intero debito dell’impresa.

Codice della crisi: ruolo centrale dei professionisti

Nel decreto legislativo in esame, i professionisti assumono un ruolo centrale nel processo di gestione e risanamento delle imprese in crisi. Diverse le novità di interesse.

La prima riguarda la prededucibilià dei crediti professionali, che viene garantita anche quando la prestazione viene richiesta direttamente dal debitore, per l’esito positivo dello strumento.

Semplificati gli obblighi formativi e di iscrizione per gli avvocati così come per i commercialisti e i consulenti del lavoro che devono procedere all’iscrizione all’albo dei gestori della crisi.

Segnalazione anticipata delle crisi di impresa

Il testo rivede il meccanismo di segnalazione anticipata delle crisi di impresa. L’organo di controllo societario e il revisore legale terzo segnalano in forma scritta, nell’esercizio delle loro funzioni, i presupposti per presentare l’istanza. La segnalazione deve essere motivata e trasmessa con mezzi idonei ad assicurare la ricezione. Essa deve contenere inoltre la determinazione di un termine non superiore a 30 giorni entro il quale l’organo amministrativo della società deve rendere note le iniziative intraprese.

 

Leggi anche: “Bancarotta fraudolenta

mediazione civile

Mediazione civile: cos’è e come funziona La mediazione civile è una procedura stragiudiziale delle controversie disciplinata dal decreto legislativo n. 28/2010

Mediazione civile: che cos’è

La mediazione civile è una procedura stragiudiziale definita dalla lettera a) dell’articolo 1 del decreto legislativo n. 28/2010. Si tratta nello specifico in un’attività, che viene svolta da un soggetto terzo e imparziale, che prende il nome di mediatore. Il mediatore nell’assistere due o più soggetti in contrasto tra di loro, si pone l’obiettivo di ricercare una soluzione amichevole per comporre la controversia, con la possibilità di formulare una proposta di accordo.

Mediazione obbligatoria e facoltativa

La mediazione può essere obbligatoria o facoltativa. La mediazione è obbligatoria nei casi previsti dall’articolo 5 del decreto legislativo n. 28/2010, ossia quando il preventivo svolgimento di questa procedura rappresenta la condizione per poter procedere in giudizio.

La mediazione è facoltativa quando le parti non sono vincolate ad avviare la mediazione per poter  avviare eventualmente una causa giudiziaria, ma decidono volontariamente di farsi assistere da un mediatore per risolvere una controversia.

Domanda riconvenzionale

La condizione di procedibilità appena vista per la mediazione obbligatoria riguarda solo la domanda principale, non quella riconvenzionale. Lo hanno precisato le SU della Corte di Cassazione nella sentenza n. 3452/2024, dopo aver spiegato la differenza tra domanda riconvenzionale collegata all’oggetto della lite e domanda riconvenzionale “eccentrica”, non subordinata cioè alla comunanza del titolo della domanda attorea. In presenza di questo tipo di domanda riconvenzionale, che allarga   l’oggetto del giudizio, la condizione di procedibilità del preventivo esperimento della mediazione non contemplato. La condizione di procedibilità della mediazione nelle materie obbligatorie vale quindi solo per gli atti introduttivi e non per le domande riconvenzionali, che tuttavia devono essere discusse in sede di mediazione.

Leggi anche “Domanda riconvenzionale e mediazione

Materie mediazione civile obbligatoria

Tornando alla mediazione obbligatoria essa è contemplata dall’articolo 5 del decreto legislativo n. 28/2010 quando le controversie vertono su determinate materie.

Chi vuole esercitare in giudizio un’azione per risolvere una controversia in una delle materie indicate dalla norma, deve quindi avviare, in via preliminare, la procedura di mediazione.

Queste le materie che richiedono il preventivo esperimento della mediazione se si vuole poi agire in giudizio:

  • condominio;
  • diritti reali;
  • divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia;
  • locazione, comodato, affitto di aziende;
  • risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità;
  • contratti assicurativi, bancari e finanziari;
  • associazione in partecipazione, consorzio, franchising, opera, rete, somministrazione, società di persone e subfornitura.

Procedimento di mediazione

Il procedimento di mediazione presenta il primario vantaggio della durata. Essa non può superare la durata complessiva di tre mesi prorogabili di altri tre se le parti si accordano in forma scritta.

Per avviare la procedura è necessario fare domanda presso un organismo di mediazione, che provvede a fissare la data del primo incontro. Il procedimento richiede la partecipazione personale delle parti (e dei loro avvocati se la mediazione è obbligatoria o domandata dal giudice). In presenza di giustificati motivi tuttavia le parti possono delegare un rappresentante purché munito di procura e a conoscenza dei fatti. La  partecipazione personale è molto importante, il mancato rispetto di questa regola produce  effetti processuali negativi per le parti.

Del primo, così come degli incontri successivi, il mediatore redige apposito verbale.

Alla mediazione possono prendere parte anche degli esperti se la materia da trattare è moto tecnica.

La Riforma Cartabia ha previsto la possibilità di svolgere il procedimento di mediazione anche in modalità telematica. La disciplina di questa procedura particolare è contenuta nell’articolo 8 bis del decreto legislativo n. 28/2010.

Possibili esiti della mediazione civile

La  procedura di mediazione civile può avere diversi esiti. Se le parti raggiungono un accordo il mediatore ne da atto nel verbale. L’accordo è quindi redatto in formato analogico o digitale in tanti originali quanti sono le parti, a cui si aggiunge un originale da depositare presso l’organismo. Se con l’accordo le parti compiono uno degli atti contemplati dall’art. 2643 c.c. lo stesso va trascritto, ma un notaio deve prima autenticare le firme dell’accordo. Il verbale che contiene l’accordo inoltre, nei casi e nei modi previsti dall’articolo 12 del decreto legislativo n. 28/2010, costituisce un titolo esecutivo per l’espropriazione forzata.

La mediazione ha invece un esito negativo se le parti non raggiungono l’accordo. Anche in questo caso il mediatore deve darne atto nel verbale.

Costi della mediazione

La mediazione civile presenta un ulteriore vantaggio rispetto alla durata ridotta. Si tratta di una procedura che comporta costi nettamente inferiori rispetto a quelli necessari per avviare e proseguire una causa giudiziale.

Se si avvia ad esempio una mediazione in una controversia che presenta un valore non superiore ai 5000 euro la partecipazione al primo incontro e il raggiungimento dell’accordo comportano un esborso di poche centinaia di euro. Ovviamente se il valore della controversia sale salirà anche il costo della mediazione. In ogni caso il risparmio rispetto a un procedimento giudiziale è notevole, grazie anche ai numerosi benefici fiscali rappresentati dai crediti di imposta descritti nell’articolo 20 del decreto legislativo n. 28/2010.

Negoziazione assistita e mediazione: differenze

La mediazione civile, così come la negoziazione, rappresenta un metodo alternativo di risoluzione delle controversie rispetto ai processi. Nella mediazione però le parti, assistite dai loro avvocati, devono negoziare direttamente tra loro. Nella mediazione invece è il mediatore che aiuta le parti, eventualmente assistite dai loro avvocati, per fargli raggiungere un accordo.

Diverse sono anche le materie nelle quali si deve avviare una negoziazione o una mediazione così come è diversa la procedura, il rapporto con il processo, i costi e i benefici fiscali.

nuovi limiti contante

Nuovi limiti contante anche per le prepagate Nuovi limiti contante per chi entra ed esce dai paesi UE, per chi li supera e non lo dichiara sequestro e sanzioni

Denaro contante: limiti per chi entra ed esce dall’UE

Nuovi limiti contante, novità in arrivo. Il limite attuale per l’utilizzo del denaro contante nelle transazioni in Italia è di 5.000 euro. Nessun limite di importo invece è previsto per chi desidera tenere in casa dei contanti per affrontare delle spese che ha in programma. Il discorso cambia ancora quando ci si reca all’estero. Per chi entra o esce dall’Europa è infatti previsto il divieto di detenere importi superiori a 10.000 euro.

Adeguamento alla normativa UE

Il Governo ha infatti approvato un decreto legislativo finalizzato ad adeguare la normativa interna al Regolamento UE 2018/1672, che riguarda i controlli sul denaro contante in entrata o in uscita dell’UE.

Il testo però prevede dei limiti che, ad essere ben precisi, non si riferiscono solo al denaro contante, ma anche alle carte prepagate e ad altri mezzi di pagamento.

Chi decide quindi di recarsi in un paese UE deve quindi tenere conto di questo limite. Chi detiene ad esempio dei contanti e una carta prepagata e superi il valore di superiore ai 10.000 euro ha l’obbligo di farne denuncia alla dogana.

Denaro contante e altri valori da dichiarare

I imiti di valore imposti per il passaggio in entrata e in uscita dai paesi UE è previsto al fine di scongiurare la commissione del reato di riciclaggio e di reati strumentali al finanziamento di attività criminali.

Detto questo, il limite dei 10.000 euro previsto dal Regolamento UE a cosa si riferisce?

Senza dubbio al denaro contante, a seguire agli assegni turistici come i traveller’s chèque, agli assegni, ai vaglia cambiari, agli ordini di pagamento al portatore emessi senza indicazione specifica del nome del beneficiario, a quelli emessi in favore di un beneficiario fittizio, o a quelli che richiedono la sola consegna per il passaggio del titolo.

Il soggetto che porti con sé uno o più dei suddetti strumenti di pagamento per un valore superiore ai 10.000 euro deve dichiararlo all’Agenzia dei Monopoli e delle Dogane entro 30 giorni.

Il limite di importo deve essere rispettato anche se il denaro o uno degli altri strumenti di pagamento interessati vengono inviati in un plico a mezzo posta. Non occorre cioè che la persona li porti con sé.

Mancata dichiarazione denaro contante

Lo schema del decreto legislativo prevede il sequestro e l’applicazione di sanzioni piuttosto elevate nei confronti di coloro che non dichiarano il superamento del limite di importo dei 10.000 euro. Vediamo in che termini e in che misura.

Sequestro percentuale

Per quanto riguarda la parte di importo non dichiarato il decreto prevede

  • il sequestro nella misura del 50% se il valore supera la soglia dei 10.000 euro fino ai 20.000 euro;
  • la percentuale del sequestro sale al 70% per importi fino a 100.000,00 euro;
  • il sequestro infine è totale se, al netto della soglia, l’importo supera i 100.000 euro.

Nei casi in cui il soggetto fornisca informazioni inesatte sull’importo è previsto il sequestro:

  • nella misura 25% se la differenza tra quanto dichiarato e quanto si vuole trasferire non supera i 10.000 euro;
  • la percentuale sale al 35% per importi fino a 30.000,00 euro;
  • passa al 70% se la differenza non supera i 100.000,00 euro;
  • è totale infine se si supera l’importo di 100.000,00 euro.

Sanzioni amministrative

Previste inoltre sanzioni amministrative quantificate nelle seguenti misure percentuali:

  • 15% per valori soglia fino a 20.000,00euro;
  • 30% per importi non superiori a 40.000,00 euro;
  • 100% se si supera la soglia di 40.000,00 euro.

Le sanzioni previste per le informazioni inesatte vengono applicate invece con aliquote variabili dal 10 al 100%.

 

Leggi anche “Antiriciclaggio: al via il “grande fratello” europeo

Allegati

affitti brevi

Affitti brevi: cos’è il CIN e come ottenerlo Dal primo settembre al via la banca dati nazionale per gli affitti brevi con l'entrata in vigore in tutta Italia del Codice Identificativo Nazionale (CIN)

Affitti brevi: le ragioni del CIN

Affitti brevi: dal primo settembre entra in vigore in tutta Italia il CIN, il “codice identificativo nazionale”. Dopo le sperimentazioni in alcune regioni, come Veneto e Puglia, il CIN – che diverrà obbligatorio, di volta in volta per ciascuna regione, entro il 1 novembre 2024 – sostituirà i sistemi di riconoscimento regionali, (CIR) allo scopo di censire e tracciare su scala nazionale le locazioni turistiche inferiori a 30 giorni al fine di contrastare l’abusivismo sugli affitti e tenere sotto controllo la loro diffusione soprattutto nelle città con maggiori presenze di turisti.

Infatti, a maggior ragione in seguito alla diffusione di sistemi e applicazioni come Airbnb, che hanno semplificato molto la gestione degli affitti brevi, l’offerta di case in affitto in Italia è aumentata molto e molto velocemente, rendendo talvolta più difficile la loro tracciabilità e favorendo indirettamente alcune forme di abusivismo.

Nelle città con un intenso turismo il fenomeno ha anche portato a una riduzione delle case in affitto per i residenti, con conseguenze sull’offerta e sul costo degli affitti di lunga durata.

Leggi anche Affitti brevi: cosa cambia con il nuovo decreto

In cosa consiste il CIN

Il “decreto anticipi” n. 145/2023 convertito in l. 191/2023, all’articolo 13-ter, prevede nuovi obblighi per i proprietari di unità abitative destinate alle locazioni turistiche. Tra questi, appunto, l’obbligo del codice identificativo nazionale (CIN).

Del Codice, che verrà assegnato mediante procedura telematica, come contemplato dallo stesso art. 13 ter del citato decreto – si deve dotare chi mette un immobile in affitto per periodi brevi.

Esso dovrà essere esposto in ogni annuncio e fuori dall’edificio in cui è collocato l’immobile.

Il CIN si richiede tramite l’iscrizione alla Banca dati nazionale delle strutture ricettive e degli immobili in locazione breve e per finalità turistica (BDSR), gestita dal ministero del Turismo e raccoglierà sia le informazioni sugli immobili – come quelle catastali, le certificazioni sugli impianti, la capacità ricettiva, l’ubicazione – sia i dati di chi mette in affitto.

Le sanzioni

È comunque previsto un periodo di 60 giorni dalla data di pubblicazione in G.U. nel quale non saranno emesse multe nei confronti di chi non lo avrà ancora ottenuto. Oltre questo termine chi mettesse in affitto una casa per tempi brevi senza un CIN rischierà: una multa tra gli 800 e gli 8mila euro, mentre chi non esporrà il codice all’esterno dell’abitazione e negli annunci potrà ricevere multe tra i 500 e i 5mila euro. 

Un’evoluzione del CIR

Secondo il governo il nuovo sistema renderà più semplice e omogenea la gestione burocratica degli affitti brevi, evitando che ogni regione ed ente locale facciano da sé con regole diverse e talvolta in contraddizione tra loro.

Il CIN è infatti una sorta di evoluzione su scala nazionale del CIR, cioè il “codice identificativo di riferimento” che diverse regioni avevano attivato negli anni scorsi per tenere sotto controllo gli affitti brevi. Gli accordi legati alla BDSR prevedono che gli enti locali già in possesso di un CIR comunichino i dati alla piattaforma, in modo da semplificare l’attivazione del CIN da parte di chi mette in affitto le case.

Il CIN sarà fondamentale anche per l’identificazione degli immobili destinati alla locazione turistica all’interno della banca dati unica.   

Come ottenere il CIN

Il titolare o gestore di una struttura ricettiva o di un immobile destinato alla locazione breve o per finalità turistica, per poter ottenere il CIN dovrà registrarsi sul sito sito ufficiale della BIRDS (Banca Dati Nazionale Strutture Ricettive degli immobili destinati a locazione breve o per finalità turistiche) del Ministero del Turismo e accedere tramite SPID o CIE, e seguendo le direttive, farne richiesta.

La comunicazione del codice dovrà arrivare entro 60 giorni. I termini decorrono dal momento di effettiva applicazione delle disposizioni sul CIN (Decreto-legge n. 145/2023, art. 13-ter), cioè dopo 60 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dell’avviso attestante l’entrata in funzione della BDSR su tutto il territorio nazionale.

Chi ha già ottenuto il codice identificativo regionale o provinciale prima dell’applicazione delle nuove disposizioni, ha ulteriori 60 giorni di tempo per ottenere il CIN. Quindi, si hanno complessivamente 120 giorni dalla pubblicazione dell’avviso. Una volta decorsi questi termini, si sarà suscettibili di sanzione.

giurista risponde

Vendita immobile oggetto di locazione e pagamento quote condominiali In presenza di un contratto di compravendita di un immobile oggetto di locazione, il cessionario acquirente dell’immobile subentra nell’obbligo di pagamento delle quote condominiali?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis, Maurizio Della Ventura e Federica Florio

 

In mancanza di una contraria volontà dei contraenti, la vendita di immobile oggetto di locazione (vale anche per la donazione o cessione) determina, ai sensi degli artt. 1599 e 1602 c.c., la surrogazione del terzo acquirente (o donatario o cessionario) nei diritti e nelle obbligazioni del venditore (o donante o cedente) che sia anche locatore senza necessità del consenso del conduttore, perciò anche il subentro nell’obbligo di pagamento delle quote condominiali del condominio di cui fa parte l’immobile locato. – Cass., sez. II, 4 marzo 2024, n. 5704.

 Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a scrutinare il ricorso per cassazione con cui si richiedeva di definire gli effetti rinvenienti dalla stipula di un contratto di compravendita avente ad oggetto un immobile locato.

La pronuncia in esergo prende le mosse da un’articolata vicenda processuale in cui un Condominio – dopo aver infruttuosamente esperito due procedure di espropriazione mobiliare nei confronti del titolare di un immobile per il mancato pagamento di contributi condominiali negli anni dal 2008 al 2014 – agiva in giudizio per chiedere l’emissione di un provvedimento monitorio nei confronti della società (ex proprietaria-cedente) che aveva ceduto gli immobili al soggetto moroso, e da cui, medio tempore, aveva riacquistato gli stessi, salvo poi cederli in locazione.

La società ingiunta ricorreva in giudizio promuovendo opposizione a decreto ingiuntivo, anche in virtù della tempestiva comunicazione che era stata al Condominio circa l’avvenuta cessione, al soggetto moroso) delle due unità immobiliari interessate.

Il giudice di prime cure, con una sentenza poi confermata in appello, rigettava la domanda dell’opponente.

Viene proposto, quindi, ricorso per Cassazione, articolato in una pluralità di motivi di gravame.

In particolare, con il primo motivo si denunciava la violazione degli artt. 112 c.p.c., 1118 e 1123 c.c., nonché dell’art. 63 disp. att. c.c., in quanto il giudice di appello, muovendo da una non corretta qualificazione in sede monitoria della domanda del condominio, sarebbe incorso in un’errata applicazione delle norme sul pagamento del quantum debeatur.

Nel secondo argomento di censura si eccepivano due questioni intrinsecamente connesse: per un verso, la violazione dei criteri di ripartizione degli oneri probatori (artt. 2697 c.c. e 116 c.p.c.), nella parte in cui i giudici di appello avevano imputato all’opponente (i.e. la società) l’obbligo di esibire il contratto da cui rilevare il trasferimento dell’immobile al cessionario inadempiente, trattandosi di elemento fattuale pacificamente ammesso; per altro verso, la violazione del principio di irretroattività della legge in relazione all’applicazione dell’art. 63 disp. att. c.c., avendo applicato tale disposizione nella formulazione introdotta nel 2012, ad una fattispecie anteriore a tale data.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, accogliendo il ricorso di parte denuncia l’illegittima inversione dell’onere della prova in sede di gravame, nella parte in cui era stato imputato erroneamente alla società l’onere di dimostrare l’inesistenza in capo a sé della qualità di condomina con riferimento al periodo della morosità e non già al Condominio, anche tenuto conto di tutte le vicende di cessione e di successivo riacquisto degli immobili.

Ne consegue, in punto di diritto, che l’ingiunto destinatario del ricorso per decreto ingiuntivo andava individuato nel cessionario e non già nella società cedente, la quale – tutt’al più – avrebbe potuto rispondere, per effetto della sopravvenuta entrata in vigore della modifica apportata al citato art. 63 disp. att. c.c., solo delle ultime due annualità.

Alla luce del summenzionato iter argomentativo, la Cassazione, in accoglimento del ricorso, cassa la sentenza rinviando la causa al Tribunale, il quale dovrà attenersi ai principi di diritto evidenziati in massima.

(*Contributo in tema di “Vendita di immobile oggetto di locazione e obbligo di pagamento delle quote condominiali”, a cura di Umberto De Rasis, Maurizio Della Ventura e Federica Florio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 76 / Luglio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

intelligenza artificiale

Intelligenza artificiale: divieti e sanzioni Intelligenza artificiale: le disposizioni del Regolamento UE 2024/1689 prevedono anche divieti e sanzioni non allineati dal punto di vista temporale

Intelligenza Artificiale: i divieti del regolamento UE

Divieti e sanzioni in materia di intelligenza artificiale. Il regolamento UE 2024/1689 che stabilisce le regole di armonizzazione sull’intelligenza artificiale contiene anche disposizioni dedicate alle pratiche vietate e alle sanzioni. Occorre tuttavia segnalare un certo disallineamento temporale tra i sistemi AI vietati e le sanzioni amministrative. I divieti dei sistemi di intelligenza artificiale più pericolosi sono infatti vietati a partire dal 2 febbraio del 2025, mentre le sanzioni potranno essere applicate dal 5 agosto 2025.

Pratiche di intelligenza artificiale vietate

I divieti relativi alle pratiche di intelligenza artificiale sono contenuti nell’articolo 5 del Regolamento.

Tutela dei diritti fondamentali

I divieti sono finalizzati a tutelare tutte quelle pratiche che possono ledere i diritti fondamentali delle persone.

  • È vietato utilizzare l’IA per manipolare le persone a loro insaputa, influenzando le loro decisioni in modo da causare danni significativi.
  • Non è permesso sfruttare le vulnerabilità di alcuni gruppi specifici (anziani, disabili o persone in situazioni economiche difficili) per manipolarne il comportamento.
  • È proibito creare sistemi che assegnano punteggi sociali alle persone. Questo potrebbe dare vita a discriminazioni.
  • Non si può utilizzare l’IA per predire la commissione di un reato basandosi solo su un profilo personale.
  • È fatto divieto di creare o ampliare banche dati di riconoscimento facciale tramite la raccolta indiscriminata di immagini da internet.
  • Non è consentito utilizzare l’IA per inferire le emozioni delle persone in ambienti lavorativi o scolastici. Le uniche eccezioni sono rappresentate da motivi medici o di sicurezza.
  • È proibito classificare le persone in base ai dati biometrici per trarre conclusioni su caratteristiche sensibili come la razza, le opinioni politiche o la sessualità.
  • L’impiego della biometria in tempo reale in spazi pubblici per finalità di sorveglianza è in genere vietato. Poche le eccezioni specifiche, come la ricerca di persone scomparse o la prevenzione di attacchi di stampo terroristico.

In base a quanto sancito dall’articolo 113 del Regolamento il capo II del Regolamento, che contiene anche il suddetto articolo 5 sulle pratiche vietate, si applica a partire dal 2 febbraio 2025.

Sanzioni amministrative

Il regolamento prevede l’applicazione di sanzioni amministrative qualora vengano violate le pratiche di AI vietate dall’articolo 5 appena analizzato, all’articolo 99 paragrafo 3.

La disposizione prevede nello specifico l’applicazione di sanzioni amministrative di importo fino a 35.000 euro. Qualora il responsabile del reato sia un’impresa, la sanzione viene applicata nella misura fino al 7% del fatturato annuo mondiale relativo all’anno precedente, se superiore.

In base a quanto previsto dall’articolo 113 del Regolamento l’articolo 99, compreso nel capo XII e dedicato appunto alle sanzioni applicabili in caso di violazione delle pratiche vietate, è applicabile a partire dal 2 agosto 2025.

 

Leggi anche: “AI Act: la legge europea sull’intelligenza artificiale

class action

Class action Le class action sono azioni collettive a tutela degli interessi omogenei di una serie di soggetti. la disciplina codicistica e le azioni a tutela dei consumatori

In che cosa consiste una class action

La class action è un’azione collettiva con cui un insieme di soggetti (ad es.: consumatori) può chiedere contro un unico soggetto il risarcimento di un danno o altra misura analoga oppure la cessazione di un comportamento lesivo dei propri diritti o interessi.

Quando si può fare una class action

Negli ultimi anni, la class action è stata oggetto di alcune rilevanti innovazioni normative, sia nel nostro ordinamento che a livello europeo, tese a rendere questo strumento ancora più vantaggioso, rispetto all’azione esercitabile singolarmente, per il soggetto che si ritiene danneggiato.

Tali novità legislative mirano, dunque, a favorire l’utilizzo delle azioni collettive, finora ancora poco sperimentate nelle aule dei nostri tribunali.

I procedimenti collettivi di cui al codice di procedura civile

Gli interventi normativi di cui sopra si  è detto disciplinano due diversi istituti, tra loro affini ma che riguardano situazioni differenti.

La legge n. 31/2019, introducendo gli artt. 840-bis e seguenti del codice di procedura civile, individua la disciplina dei procedimenti collettivi, azionabili anche da un singolo utente, oltre che da associazioni iscritte in un apposito elenco tenuto dal Ministero della Giustizia, che tutelino gli interessi di quanti si ritengano lesi da un comportamento tenuto dall’impresa o dal gestore di pubblici servizi.

Quante persone servono per fare una class action

Va notato, quindi, che nel caso dei procedimenti collettivi di cui alla disciplina codicistica, il comportamento lesivo può essere tutelato sia con l’azione individuale di un singolo soggetto (art. 840-bis c.p.c., quarto comma), sia come azione di classe; quest’ultima può essere azionata, a sua volta, da ciascun componente della classe (persona fisica o giuridica) oppure da un’organizzazione o associazione senza scopo di lucro, che abbia tra i suoi fini statutari la tutela dei diritti di cui si lamenta la lesione.

Se un’azione di classe, il cui avvio viene reso conoscibile attraverso appositi portali web, viene avviata da più componenti della medesima classe, si dispone la riunione dei vari ricorsi in un unico procedimento.

Il procedimento collettivo mira all’accertamento della condotta lesiva e può portare alla condanna di risarcimento del danno, alle restituzioni o all’inibizione o divieto di prosecuzione di una determinata condotta.

Una caratteristica da sottolineare propria dei procedimenti collettivi disciplinati dal codice di procedura civile è rappresentata dal fatto che non vi sono particolari limitazioni di materia riguardo all’oggetto degli stessi, a differenza, come vedremo tra breve, delle class action disciplinate dal Codice del Consumo.

Class action: le azioni rappresentative del Codice del consumo

Il d.lgs. 28/2023, recependo la Direttiva UE 1828 del 2020, ha introdotto gli artt. 140-ter e ss. del Codice del consumo (d.lgs. 206/2005).

Le azioni rappresentative a tutela degli interessi collettivi dei consumatori possono essere avviate dalle associazioni dei consumatori iscritte in un elenco tenuto dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy, oppure da organismi pubblici indipendenti (ad esempio, il Garante della Privacy) o da enti designato da altri Stati membri dell’Unione Europea.

A differenza dei procedimenti collettivi disciplinati dal codice di procedura civile, quindi, nelle azioni rappresentative disciplinate dal Codice del Consumo non  è prevista la possibilità che la class action origini dall’azione individualmente avviata da una singola persona (fisica o giuridica) componente della classe.

La class action dei consumatori può essere azionata solo in determinate materie che comportino la lesione di interessi collettivi dei consumatori, come ad esempio in presenza di pratiche commerciali scorrette o di pubblicità ingannevole.

Come nei procedimenti collettivi sopra esaminati, anche le azioni rappresentative a tutela dei consumatori possono portare a provvedimenti inibitori o compensativi a carico del professionista/impresa che ha posto in atto il comportamento lesivo.

Ciò significa che il giudice può vietare a quest’ultimo di tenere un determinato comportamento o condannarlo a restituzioni in favore dei danneggiati o al risarcimento del danno a questi arrecato.

Come aderire alla class action

Tra i vantaggi propri delle class action vi è la possibilità, per gli enti legittimati a proporla, di agire senza necessità di raccogliere preventivamente il mandato di ogni interessato. Gli interessati, inoltre, possono manifestare la propria adesione all’azione anche dopo l’emanazione del provvedimento che chiude il giudizio, per beneficiare delle disposizioni risarcitorie in esso contenute.

Inoltre, la disciplina prevede, a favore dei ricorrenti, agevolazioni istruttorie, anche attraverso misure sanzionatorie a carico dell’impresa che non metta a disposizione materiale probatorio in suo possesso; circostanze, quelle appena descritte, che contribuiscono a rendere più favorevole l’azione collettiva rispetto a quella che potrebbe avviare il singolo danneggiato.

trattamento dati sanitari

Trattamento dati sanitari: le regole del Garante Il Garante ha promosso l'adozione di nuove regole deontologiche per i trattamenti a fini statistici o di ricerca scientifica, pubblicate in GU il 5 giugno 2024

Regole deontologiche trattamento dati sanitari

Sul trattamento dei dati sanitari per fini statistici o di ricerca, il Garante Privacy ha predisposto delle regole deontologiche pubblicate in Gazzetta Ufficiale il 5 giugno scorso.

Le regole muovono dalla recente riforma dell’articolo 110 del Codice privacy, a seguito della quale il Garante Privacy ha individuato le prime garanzie da adottare per il trattamento dei dati personali a scopo di ricerca medica, biomedica e epidemiologica, riferiti a pazienti deceduti o non contattabili.

La modifica dell’art. 110 Codice Privacy

Con la modifica dell’art. 110, infatti, chi effettua attività di ricerca medica – quando risulta impossibile informare gli interessati o l’obbligo implica uno sforzo sproporzionato, oppure rischia di pregiudicare gravemente i risultati dello studio – non deve più sottoporre il progetto di ricerca e la relativa valutazione di impatto alla consultazione preventiva, essendo sufficiente rispettare le specifiche garanzie previste dal Garante.

L’Autorità ha infatti stabilito che in tutti questi casi i titolari del trattamento – oltre ad acquisire, come già previsto, il parere favorevole del competente Comitato etico a livello territoriale sul progetto di ricerca – dovranno motivare e documentare le ragioni etiche o organizzative in base alle quali non hanno potuto acquisire il consenso dei pazienti nonché, effettuare e pubblicare la valutazione di impatto, dandone comunicazione al Garante.

Con lo stesso provvedimento l’Autorità, alla luce della riforma normativa e considerato il rilevante impatto delle nuove tecnologie nelle modalità di realizzazione dell’attività di ricerca, ha promosso l’adozione delle nuove regole deontologiche per trattamenti a fini statistici o di ricerca scientifica.

Le faq del Garante

Sullo stesso tema il Garante ha fornito chiarimenti sul trattamento dei dati da parte degli IRCCS, ossia “quegli enti del Servizio sanitario nazionale che, secondo standard di eccellenza, perseguono finalità di ricerca nel campo biomedico e in quello dell’organizzazione e gestione dei servizi sanitari ed effettuano prestazioni di ricovero e cura di alta specialità”, pubblicando apposite faq sul proprio sito.