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Tribunale online: come funziona Attivo dal 1° marzo 2024 il tribunale online. La sperimentazione coinvolge sette sedi: Catania, Catanzaro, L'Aquila, Marsala, Napoli Nord, Trento e Verona. Dal 1° luglio 2025 anche Roma

Tribunale online

Tribunali più smart per una giustizia più vicina ai bisogni dei cittadini. E’ questo l’obiettivo della sperimentazione del progetto “Tribunale online” attivo in sette sedi (Catania, Catanzaro, L’Aquila, Marsala, Napoli Nord, Trento e Verona) dal 1° marzo 2024.

Dal 1° luglio 2025 si entra nella seconda fase di sperimentazione con l’ampliamento dell’offerta di servizi con nuove tipologie di istanze disponibili online, tra cui la nomina del cancelliere o del notaio incaricato dell’inventario, l’autorizzazione alla vendita dei beni ereditari, l’istanza di proroga per l’inventario e le autorizzazioni del giudice tutelare per gli atti di straordinaria amministrazione.
Contestualmente, cresce anche la rete dei Tribunali coinvolti nella sperimentazione: alle sette sedi giudiziarie già attive – Catania, Catanzaro, L’Aquila, Marsala, Napoli Nord, Trento e Verona – si aggiunge il Tribunale di Roma.

L’iniziativa, realizzata dalla Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati del Dipartimento per la transizione digitale della giustizia, è stata finanziata nell’ambito del Pon Governance 2014-2020, in coerenza con le priorità indicate dal Pnrr.

Caratteristiche

Il portale, fruibile da qualsiasi dispositivo, è costituito da una sezione pubblica accessibile a tutti, di natura informativa, e da una sezione riservata, in cui i cittadini dotati di identità digitale (SPID, CIE o CNS) possono depositare autonomamente alcune istanze nei procedimenti di volontaria giurisdizione e monitorarne lo stato di avanzamento.

Il portale Tribunale Online è disponibile all’indirizzo https://smart.giustizia.it/to e raggiungibile dal portale dei Servizi Telematici del Ministero della giustizia https://pst.giustizia.it.

All’interno dell’area pubblica, liberamente accessibile, sono contenute informazioni su iter procedurali, attori, tempi e costi dei servizi, modulistica completa e istruzioni sul deposito presso i Tribunali, oltre a una sezione dedicata alle domande frequenti.

La sperimentazione del Tribunale Online ha reso possibile ad oggi, il deposito telematico delle istanze in alcuni procedimenti di volontaria giurisdizione, come l’amministrazione di sostegno, la gestione di eredità giacente e la nomina del curatore. Dal 1° luglio 2025, l’offerta di servizi si amplia ulteriormente. Con la seconda fase, infatti, la piattaforma si arricchisce di nuove funzionalità, offrendo ai cittadini la possibilità di svolgere un numero crescente di attività in modo sempre più semplice, rapido e digitale.

Nei prossimi mesi, il Tribunale Online continuerà ad evolversi con l’introduzione di ulteriori servizi e strumenti pensati per migliorare e ampliare l’esperienza d’uso, con l’obiettivo di estenderlo progressivamente a tutti i Tribunali sul territorio nazionale, per una giustizia sempre più accessibile e vicina alle persone.

Procedimenti ammessi

I procedimenti ammessi al deposito telematico attraverso la piattaforma sono: amministrazione di sostegno (art.473-bis.58 c.p.c.); gestione dell’eredità giacente e nomina del curatore (art.782 c.p.c.); richiesta di autorizzazione al compimento di atti di straordinaria amministrazione in favore di minori (art. 320, 374 c.p.c.); autorizzazione al rilascio di passaporto o documento valido per l’espatrio per figli minori (art 3, lett.a) della legge 21 novembre 1967, n. 1185).

La piattaforma è predisposta altresì per la consultazione di molteplici procedimenti nell’ambito della volontaria giurisdizione. Nei casi in cui il procedimento, o il Tribunale di riferimento, non sia tra quelli coinvolti nella sperimentazione, l’utente avrà la possibilità di recepire informazioni utili all’avvio dell’iter per l’atto di interesse, con indicazione e riferimenti dell’ufficio giudiziario di competenza territoriale.

Il deposito per l’utenza non qualificata sarà possibile attraverso la compilazione online con procedura guidata e l’invio della domanda direttamente dalla piattaforma.

Le notifiche cartacee da parte dell’ufficio giudiziario, spedite tramite raccomandata postale, saranno sostituite dalle notifiche di avvenuta consegna visualizzabili nell’area riservata del portale.

La modulistica eterogenea tra uffici giudiziari sarà sostituita da una modulistica standard, disponibile nell’Area pubblica del portale.

bagaglio a mano

Bagaglio a mano: nuove regole dall’UE per chi vola Bagaglio a mano senza costi aggiuntivi: questa una delle novità della proposta approvata dalla Commissione trasporti UE

Novità dall’UE: niente costi aggiuntivi per il bagaglio a mano

Per il bagaglio a mano in aereo niente costi aggiuntivi. Questa è solo una delle novità contenute nella proposta di riforma della normativa UE approvata dalla Commissione trasporti del Parlamento UE il 24 giugno 2025. La proposta deve essere ancora sottoposta all’esame della plenaria della Eurocamera per essere infine concordata con il Consiglio Europeo. Tra il 7 e il 10 luglio la proposta potrebbe ricevere l’approvazione del Parlamento UE.

Le nuove regole si pongono l’obiettivo, dietro la spinta delle associazioni dei consumatori, di tutelare i passeggeri dalla previsione di inutili costi aggiuntivi, con un occhio di riguardo per i soggetti più fragili e di garantire una maggiore trasparenza in fase di acquisto e di rimborso del biglietto aereo.

Vediamo quali sono le altre novità in arrivo per i passeggeri.

Nuovi servizi gratuiti per i passeggeri: bagaglio a mano gratis

Prevista la possibilità di prenotare gratuitamente un posto accanto ai minori di anni 12. Nessun costo aggiuntivo neppure per chi porta a bordo un piccolo bagaglio a mano (peso inferiore a 7 kg e dimensione complessiva di 100 cm) e un oggetto personale di piccole dimensioni (40x30x15 cm).

Gratuito anche l’accompagnatore del passeggero con mobilità ridotta. Previsto inoltre il risarcimento del danno qualora l’animale che assiste il disabile o la sedia a rotelle subiscano danni.

Prezzi più trasparenti e rimborsi più semplici

La proposta approvata prevede anche che gli intermediari indichino in modo trasparente e completo il costo di acquisto complessivo del biglietto, indicando eventuali commissioni aggiuntive e modalità per la richiesta di rimborso.

Per il rimborso è prevista l’introduzione di un modulo unico, anche in modalità precompilata, che deve essere inviato nel termine di 48 ore dal disservizio subito.

Gli intermediari che hanno venduto il biglietto hanno a disposizione 14 giorni di tempo per procedere al rimborso.

Viaggi con diversi mezzi di trasporto, coincidenze e ritardi

Per i viaggi che prevedono l’impiego di diversi mezzi di trasporti è previsto l’obbligo di informare l’utente sulla tipologia di biglietto da acquistare (unico, combinato, separato).

Qualora il biglietto sia unico il  cambio da un mezzo di trasporto a un altro non deve comportare la perdita del diritto all’assistenza in caso di mancata coincidenza.

In presenza di un ritardo minimo di 60 minuti causato dalla mancata coincidenza il passeggero dovrebbe avere diritto a bevande, pasto e alloggio gratuito in caso di necessità.

Risarcimento in caso di informazioni errate

In presenza di problemi provocati dal mancato rispetto dell’obbligo di informativa corretto da parte del venditore del biglietto, il passeggero potrebbe essere destinatario di un rimborso e di un risarcimento pari al 75%.

 

Leggi anche: Accompagnatori minori in aereo: niente più sovrapprezzo

associazioni non riconosciute

Associazioni non riconosciute: stop prescrizione per azioni contro amministratori La Corte costituzionale estende la sospensione della prescrizione delle azioni di responsabilità anche alle associazioni non riconosciute

Sospensione prescrizione per le associazioni non riconosciute

Con la sentenza n. 86 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’articolo 2941, primo comma, numero 7) del Codice civile. La norma, nella sua formulazione originaria, non prevedeva la sospensione del termine di prescrizione per le azioni di responsabilità promosse dalle associazioni non riconosciute contro i propri amministratori finché questi ultimi restano in carica.

Secondo i giudici costituzionali, questa esclusione si traduce in una disparità di trattamento irragionevole rispetto alle associazioni riconosciute e alle società di persone, per le quali la sospensione è già prevista.

La disparità rispetto ad associazioni riconosciute e società di persone

La Corte ha richiamato due precedenti pronunce: la sentenza n. 322 del 1998, che aveva riguardato le società in nome collettivo, e la sentenza n. 262 del 2015, relativa alle società in accomandita semplice. In entrambe le occasioni, era stata riconosciuta la necessità di sospendere la prescrizione delle azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori durante il periodo in cui questi esercitano la carica.

La ragione è la medesima anche nel caso delle associazioni non riconosciute: mentre gli amministratori sono in carica, risulta difficile per l’ente accertare eventuali illeciti gestori e promuovere tempestivamente le azioni per tutelare il proprio patrimonio.

La personalità giuridica non incide sui rapporti interni

La Consulta ha sottolineato che il riconoscimento della personalità giuridica non modifica la natura del rapporto interno fra l’ente associativo e i suoi amministratori.

Di conseguenza, non si giustifica una disciplina differente che svantaggi le associazioni prive di riconoscimento rispetto a quelle dotate di personalità giuridica, né tantomeno rispetto alle società di persone, per le quali il legislatore ha già previsto strumenti di controllo e la sospensione del termine prescrizionale.

Effetti della sentenza e tutela dell’ente

La decisione adegua la normativa ai principi di uguaglianza e ragionevolezza sanciti dall’articolo 3 della Costituzione. D’ora in avanti, anche le associazioni non riconosciute potranno beneficiare della sospensione della prescrizione delle azioni di responsabilità contro gli amministratori, finché questi restano in carica.

Questa pronuncia offre agli enti associativi un’effettiva tutela dei propri interessi patrimoniali e garantisce che la durata dell’incarico degli amministratori non diventi un ostacolo all’esercizio dei diritti di difesa e di controllo.

Leggi anche la guida Associazioni riconosciute

giurista risponde

L’azione revocatoria e la dolosa preordinazione In tema di azione revocatoria, quando l’atto di disposizione è anteriore al sorgere del credito, ad integrare la “dolosa preordinazione” richiesta dallo art. 2901, comma 1, c.c. è sufficiente il dolo generico?

Quesito con risposta a cura di Caterina D’Alessandro, Giulia Fanelli e Mariella Pascazio

 

In tema di azione revocatoria, quando l’atto di disposizione è anteriore al sorgere del credito, ad integrare la “dolosa preordinazione” richiesta dall’art. 2901, comma 1, c.c. non è sufficiente la mera consapevolezza, da parte del debitore, del pregiudizio che l’atto arreca alle ragioni dei creditori (c.d. dolo generico), ma è necessario che l’atto sia stato posto in essere dal debitore in funzione del sorgere dell’obbligazione, al fine d’impedire o rendere più difficile l’azione esecutiva o comunque di pregiudicare il soddisfacimento del credito, attraverso una modificazione della consistenza o della composizione del proprio patrimonio (c.d. dolo specifico), e che, trattandosi di atto a titolo oneroso, il terzo fosse a conoscenza dell’intento specificamente perseguito dal debitore rispetto al debito futuro (Cass., Sez. Un., 27 gennaio 2025, n. 1898).

Con la sentenza in commento, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, investite dalla questione dalla Terza Sezione Civile, sono intervenute per dirimere un contrasto giurisprudenziale riguardante la natura generica o specifica del dolo del debitore richiesto dall’art. 2901, comma 1, c.c. ai fini della revocatoria degli atti di disposizione patrimoniale anteriori al sorgere del credito.

Sul punto, infatti, coesistevano nella giurisprudenza di legittimità di due diversi orientamenti, che individuavano il consilium fraudis rispettivamente nella dolosa preordinazione dell’atto alla compromissione del soddisfacimento del credito e nella mera previsione del pregiudizio che l’atto arreca alle ragioni dei creditori.

Secondo le Sezioni Unite, ai fini della risoluzione della questione posta dall’ordinanza interlocutoria, occorre muovere dalla lettura del testo dell’art. 2901, comma 1, c.c., il quale subordina la dichiarazione di inefficacia degli atti di disposizione patrimoniale compiuti dal debitore in pregiudizio alle ragioni del creditore alle seguenti condizioni: 1) che il debitore conoscesse il pregiudizio che l’atto arrecava alle ragioni del creditore o, trattandosi di atto anteriore al sorgere del credito, l’atto fosse dolosamente preordinato al fine di pregiudicarne il soddisfacimento; 2) che, inoltre, trattandosi di atto a titolo oneroso, il terzo fosse consapevole del pregiudizio e, nel caso di atto anteriore al sorgere del credito, fosse partecipe della dolosa preordinazione.

La tesi del dolo generico attribuisce portata non decisiva alla differente formulazione delle due parti di cui si compone il n. 1 della norma in esame, osservando che la stessa non richiede, ai fini della configurabilità della dolosa preordinazione, che il debitore abbia agito con la specifica intenzione di danneggiare i creditori, ma solo che abbia posto in essere l’atto nella consapevolezza di pregiudicarne le ragioni, ed escludendo quindi, in entrambe le ipotesi da essa contemplate, la necessità sia dell’animus nocendi, ovverosia di “una callida volontà dell’obbligato di danneggiare il creditore”, sia, nel caso di atto a titolo oneroso, della conoscenza da parte del terzo dello specifico credito di cui l’atto dispositivo è volto a pregiudicare la soddisfazione.

In realtà, la mera considerazione del significato letterale delle espressioni utilizzate nell’art. 2901, comma 1, c.c. risulta di per sé sufficiente ad evidenziare l’intento del legislatore di subordinare l’accoglimento della revocatoria a presupposti soggettivi diversi, a seconda che la stessa abbia ad oggetto un atto posto in essere in epoca anteriore o successiva al sorgere del credito allegato a sostegno della domanda: mentre il verbo “conoscere” significa avere notizia o cognizione di una cosa o del suo modo di essere, per averne fatto direttamente o indirettamente esperienza o per averla appresa da altri, il sostantivo “preordinazione” fa riferimento alla predisposizione di un mezzo in funzione del raggiungimento di un risultato.

La seconda espressione implica, pertanto, una finalizzazione teleologica della condotta del debitore, il cui disvalore trova una particolare sottolineatura nell’aggiunta dell’aggettivo “dolosa”, che allude al carattere fraudolento o quanto meno intenzionale dell’azione, indirizzata ad impedire od ostacolare l’azione esecutiva del creditore o comunque il soddisfacimento del credito; tale finalizzazione è del tutto assente nella prima espressione, che fa invece riferimento alla mera coscienza del pregiudizio che l’atto oggettivamente arreca o può arrecare alle ragioni dei creditori, per la riduzione della garanzia patrimoniale che ne consegue, indipendentemente dalle finalità concretamente perseguite dal debitore attraverso il compimento dello stesso.

L’utilizzazione di due espressioni aventi un significato completamente differente nell’ambito della medesima disposizione appare tutt’altro che casuale, se solo si tiene conto del dibattito dottrinale e giurisprudenziale sviluppatosi, proprio con riguardo all’azione revocatoria, precedentemente all’entrata in vigore del Codice civile del 1942.

Nel Codice civile del 1865, la medesima azione era infatti disciplinata dall’art. 1235, il quale, oltre a prevedere (almeno secondo l’opinione prevalente) soltanto la revocabilità degli atti dispositivi posti in essere dal debitore in epoca successiva al sorgere del credito, la subordinava alla condizione che gli stessi fossero stati “fatti in frode” delle ragioni dei creditori.

Il significato di tale espressione era controverso, ritenendosi da parte di alcuni autori che con la stessa il legislatore avesse inteso fare riferimento all’intenzione di recare danno ai creditori (c.d. animus nocendi), e da parte di altri che avesse voluto invece richiedere, ai fini dell’accoglimento della domanda, la mera coscienza del pregiudizio arrecato ai creditori, attraverso la creazione o l’aggravamento di una situazione d’insolvibilità (c.d. scientia damni). Alla fine prevalse la seconda tesi, in virtù della considerazione che l’individuazione del presupposto soggettivo della revocatoria nell’animus nocendi avrebbe comportato un eccessivo restringimento dei limiti di operatività dell’azione, impedendo alla stessa di svolgere efficacemente la propria funzione di mezzo di conservazione della garanzia patrimoniale.

Tale indirizzo trovò accoglimento anche in sede di redazione del Codice vigente, il quale, tuttavia, ha ampliato l’ambito applicativo dell’azione, ammettendone l’esercizio anche nei confronti degli atti dispositivi posti in essere anteriormente al sorgere del credito, ma differenziandone il presupposto soggettivo da quello richiesto ai fini della revocatoria degli atti posti in essere successivamente, nel senso che, mentre per la dichiarazione d’inefficacia di questi ultimi è necessaria soltanto la prova della “conoscenza del pregiudizio” arrecato alle ragioni dei creditori, per quella dei primi occorre la prova della “dolosa preordinazione” al fine di pregiudicare il soddisfacimento del credito. In quanto adottata nella piena consapevolezza dei contrasti insorti in ordine all’interpretazione della disciplina previgente, la formulazione letterale dell’art. 2901, comma 1, c.c. non può dar luogo ad equivoci, testimoniando chiaramente la volontà del legislatore di regolare in maniera diversa il profilo soggettivo delle due fattispecie da esso contemplate, attraverso l’introduzione di una disciplina più restrittiva per la revocatoria degli atti compiuti in epoca anteriore al sorgere del credito: diversamente, infatti, la norma si sarebbe limitata a chiarire che l’azione era proponibile anche contro gli atti dispositivi compiuti in epoca anteriore al sorgere del credito, richiedendo per entrambe le ipotesi la prova della consapevolezza da parte del debitore della dell’incidenza dell’atto sulla consistenza quantitativa o qualitativa del proprio patrimonio, e quindi sulla garanzia generica dei creditori, senza fare alcun riferimento alla necessità di un disegno fraudolento, volto a sottrarre il bene alienato o vincolato all’azione esecutiva del creditore o a rendere più difficile il soddisfacimento del suo credito.

La differenza esistente tra la pura e semplice consapevolezza del pregiudizio arrecato ai creditori e la volontà di danneggiarli mediante il compimento dell’atto dispositivo era stata d’altronde già colta dalla dottrina in epoca anteriore all’entrata in vigore del Codice civile del 1942, anche se ne era stata sminuita la portata concreta: premesso infatti che il consilium fraudis presuppone ad un tempo la rappresentazione dell’effetto dannoso dell’atto e la volontà di porlo ugualmente in essere, si era osservato che nella gestione del proprio patrimonio il debitore non tiene normalmente conto dell’interesse del creditore, ma agisce come se lo stesso non esistesse, e si era pertanto concluso che, ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo della revocatoria, non era necessaria una specifica intenzione di danneggiare il creditore o determinati creditori, ma era sufficiente la coscienza, da parte del debitore, di determinare o accrescere la propria insolvenza, attraverso il compimento dell’atto dispositivo, mettendo quindi il proprio patrimonio in condizione di non poter offrire ai creditori la garanzia dell’adempimento delle obbligazioni contratte .

La necessità di un quid pluris, sotto il profilo soggettivo, era invece emersa in giurisprudenza, proprio nell’ambito di un orientamento volto a ricondurre nell’ambito applicativo dell’azione revocatoria anche gli atti dispositivi anteriori al sorgere del credito: nel dichiarare ammissibile la domanda proposta dal primo acquirente di un immobile a tutela del credito risarcitorio vantato nei confronti del venditore, il quale aveva successivamente alienato il medesimo bene ad un terzo, che aveva reso inattaccabile il proprio acquisto mediante la tempestiva trascrizione, la giurisprudenza di legittimità aveva infatti ritenuto che l’azione potesse essere esercitata anche nel caso in cui l’atto anteriore alla frode fosse stato compiuto “con l’obliquo intento di rendere vano il credito che stava per sorgere”, non essendovi ragione di negare tutela al soggetto rimasto danneggiato da questo più raffinato consilium fraudis. (cfr. Cass., Sez. Un., 22 dicembre 1930, n. 3669).

Al di là dei profili collegati all’interpretazione letterale e storico-sistematica della norma in esame, la scelta tra l’una e l’altra tesi impone peraltro d’interrogarsi anche in ordine alle conseguenze che l’accoglimento di una concezione più o meno restrittiva del consilium fraudis può produrre nei rapporti tra le parti dell’obbligazione ed in quelli con i terzi che siano entrati in contatto con le stesse, nonché, più in generale, sul piano della certezza e della rapidità dei traffici giuridici.

L’identificazione dell’elemento soggettivo della revocatoria nella mera consapevolezza da parte del debitore del pregiudizio arrecato i creditori comporta, infatti, un’indubbia dilatazione dei margini di operatività dell’istituto, già alquanto estesi per effetto dell’opinione comune, che ritiene configurabile il presupposto dell’eventus damni non solo in presenza di una compromissione totale della consistenza del patrimonio del debitore, ma anche a fronte di una variazione quantitativa o qualitativa dello stesso tale da rendere più incerta o difficile la soddisfazione del credito.

Tale dilatazione, che si traduce naturalmente in un rafforzamento della tutela dei diritti dei creditori, si pone, tuttavia, in contrasto con la natura eccezionale che l’azione revocatoria viene ad assumere nell’ipotesi in cui abbia ad oggetto atti dispositivi posti in essere in epoca anteriore al sorgere del credito: in quanto avente la funzione di consentire al creditore di soddisfarsi su beni che hanno cessato di far parte del patrimonio del debitore prima dell’insorgenza dell’obbligazione, essa costituisce una deroga al principio generale, sancito dall’art. 2740, comma 1, c.c., secondo cui il debitore risponde dell’adempimento “con tutti suoi beni presenti e futuri”, cioè con quelli esistenti nel suo patrimonio alla data in cui è sorta l’obbligazione e con quelli che abbia acquistato in epoca successiva, e non anche con quelli di cui alla predetta data avesse già cessato di essere titolare.

Questa esclusione trova giustificazione nella considerazione che, nel momento in cui entra in contatto con il debitore, il creditore è perfettamente in grado di rendersi conto dell’attuale consistenza e composizione del suo patrimonio, nonché di apprezzarne l’idoneità a garantire il soddisfacimento del credito in caso d’inadempimento: può quindi ritenersi ragionevole che l’esercizio dell’azione revocatoria resti limitato all’ipotesi, avente carattere ordinario, in cui il debitore abbia disposto dei propri beni in epoca successiva, nella consapevolezza del pregiudizio in tal modo arrecato al creditore, nonché a quella, eccezionale, in cui l’atto dispositivo, pur essendo stato posto in essere in epoca anteriore, costituisca attuazione di un disegno volto a disfarsi dei propri beni, proprio in vista dell’assunzione di quello specifico debito.

 

(*Contributo in tema di “L’azione revocatoria e la dolosa preordinazione”, a cura di Caterina D’Alessandro, Giulia Fanelli e Mariella Pascazio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

società semplice

Società semplice: la Corte Costituzionale sul fallimento in estensione dei soci La Consulta chiarisce che il fallimento di una società semplice non è opponibile ai soci se non sono stati convocati nella procedura. Ecco cosa prevede la sentenza n. 87/2025

Società semplice e rischio di fallimento in estensione

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 87 del 2025, ha precisato i limiti del cosiddetto fallimento in estensione dei soci illimitatamente responsabili di una società semplice.

In linea generale, la società semplice non è soggetta a fallimento. Tuttavia, quando si accerta che ha esercitato attività commerciale, può essere dichiarata fallita, con la conseguenza che anche i soci rispondono patrimonialmente e possono subire il fallimento in estensione.

La legge fallimentare (articolo 147 del regio decreto n. 267/1942) consente che il procedimento di fallimento dei soci sia separato da quello della società.

Il diritto di difesa dei soci e la convocazione nella procedura

La questione esaminata dalla Corte riguardava un caso in cui i soci non erano stati convocati nel giudizio che aveva dichiarato il fallimento della società semplice. La normativa vigente, secondo l’interpretazione consolidata, riteneva sufficiente garantire ai soci il diritto di proporre reclamo entro trenta giorni dalla trascrizione della sentenza nel registro delle imprese.

Tuttavia, i giudici costituzionali hanno osservato che questa garanzia non è adeguata nel caso di una società semplice, che normalmente non è soggetta a fallimento e i cui soci non hanno motivo di monitorare costantemente il registro delle imprese.

L’onere di verifica e i limiti dell’affidamento

La Consulta ha affermato che, per garantire l’effettività del diritto di difesa, non può gravare sui soci l’onere di controllare autonomamente l’eventuale fallimento della società.

Secondo la sentenza, su basi così deboli non si può fondare un accertamento che condiziona la possibilità di dichiarare il fallimento del socio, con pesanti ripercussioni anche sul piano personale.

Di conseguenza, i soci devono essere convocati non solo nel giudizio che decide sul loro fallimento in estensione, ma anche nel procedimento che accerta la fallibilità dell’ente.

Fallimento società semplice non è automaticamente opponibile ai soci

La Corte costituzionale ha stabilito che, se la convocazione manca, la sentenza dichiarativa del fallimento della società non è opponibile ai soci illimitatamente responsabili.

Nel giudizio sul fallimento in estensione, sarà quindi possibile discutere nuovamente la fallibilità dell’ente, a meno che non sia dimostrato che i soci hanno partecipato alla procedura oppure che abbiano esercitato il diritto di difesa mediante reclamo.

Questa interpretazione assicura un bilanciamento tra esigenze di tutela del ceto creditorio e diritti fondamentali dei soci.

amministratori di società

Amministratori di società: pec obbligatoria Gli amministratori di società costituite a partire dal 1° gennaio 2025 dovranno munirsi di una pec personale. Il MIMIT ha prorogato la scadenza al 31 dicembre 2025, ecco per chi

PEC obbligatoria per gli amministratori di società

Dal 1° gennaio 2025, una novità importante è entrata in vigore per le aziende italiane: tutti gli amministratori di società dovranno avere una casella di posta elettronica certificata (PEC) personale. Lo stabilisce la legge di bilancio 2025.

La PEC è come una raccomandata digitale: garantisce che un messaggio sia stato inviato e ricevuto, e funge da prova legale. L’obiettivo di questa nuova norma è rendere la comunicazione tra aziende e amministrazione pubblica più sicura e tracciabile.

Il MIMIT proroga al 31 dicembre 2025 l’obbligo per gli amministratori di società già costituite di comunicare la PEC al Registro Imprese. Vediamo per quali motivi e cosa cambia.

Proroga dell’obbligo PEC per gli amministratori di società

Il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (MIMIT), con una nuova comunicazione diffusa il 25 giugno 2025, ha ufficialmente prorogato il termine entro il quale gli amministratori delle imprese costituite in forma societaria dovranno comunicare il proprio domicilio digitale (PEC) al Registro delle Imprese. La nuova scadenza è fissata al 31 dicembre 2025.

La proroga si è resa necessaria dopo i numerosi dubbi interpretativi sorti in merito alla tempistica dell’adempimento, generando incertezze tra imprese, professionisti e Camere di Commercio.

L’obbligo introdotto dalla Legge di Bilancio

La Legge di Bilancio ha esteso agli amministratori delle società l’obbligo di possedere un domicilio digitale e di comunicarlo al Registro delle Imprese, al fine di garantire maggiore trasparenza e semplificazione dei rapporti con la Pubblica Amministrazione.

Per le società costituite dal 1° gennaio 2025 in poi, resta confermato che la comunicazione del domicilio digitale deve avvenire contestualmente alla domanda di iscrizione al Registro delle Imprese.

Il caos sulle scadenze e l’intervento di Unioncamere

In un primo momento, con la nota prot. n. 43836 del 12 marzo 2025, il MIMIT aveva fissato la scadenza per le imprese già esistenti al 30 giugno 2025.

Tuttavia, questa indicazione è stata smentita da Unioncamere, che ha chiarito come il termine non derivasse da alcuna norma di legge. Secondo Unioncamere, l’obbligo per le società già costituite dovrebbe essere adempiuto solo al momento del primo rinnovo o variazione degli amministratori successivo al 1° gennaio 2025.

Le Camere di Commercio si sono divise: alcune hanno seguito la linea di Unioncamere, altre hanno mantenuto un approccio prudenziale richiamando la scadenza ministeriale, mentre alcune hanno ritenuto che il termine fosse di carattere ordinatorio e non perentorio.

Il confronto con i commercialisti e la nuova proroga

A ridosso della scadenza originaria, anche il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili ha avviato un dialogo con il Ministero per chiarire la corretta applicazione dell’obbligo, evidenziando il rischio di sanzioni non legittime.

Alla luce delle difficoltà interpretative, il MIMIT è intervenuto nuovamente con la nota del 25 giugno 2025, stabilendo in via ufficiale la proroga del termine al 31 dicembre 2025.

Cosa devono fare le imprese costituite dal 1° gennaio 2025

Per le nuove società costituite dal 1° gennaio 2025, l’obbligo di indicare il domicilio digitale dell’amministratore rimane invariato: la comunicazione deve avvenire già al momento della domanda di iscrizione al Registro Imprese.

interrogatorio formale

Interrogatorio formale Interrogatorio formale: cos’è, quando è ammissibile, normativa, come si richiede, quale valore ha e giurisprudenza

Cos’è l’interrogatorio formale

L’interrogatorio formale è un mezzo di prova tipico del processo civile regolato dagli articoli 230 e seguenti del codice di procedura civile. Consiste in una serie di domande rivolte alla parte avversaria, su fatti rilevanti e controversi, idonea a produrre effetti vincolanti nel giudizio.

A differenza dell’interrogatorio libero, che ha funzione esplorativa, quello formale valore probatorio, in quanto può determinare una vera e propria prova legale.

Quando è ammissibile e quando no

Secondo l’art. 230 c.p.c., l’interrogatorio formale è ammissibile solo in relazione a fatti personali della parte e che essa possa conoscere direttamente. Non è quindi consentito proporre l’interrogatorio su fatti:

  • notori;
  • irrilevanti ai fini della decisione;
  • già pacifici tra le parti;
  • non riferibili direttamente alla parte stessa.

Inoltre, l’interrogatorio non può essere ammesso nei confronti di soggetti incapaci di rendere confessione, come i minori o gli interdetti, salve le eccezioni previste dalla legge.

Qual è la normativa di riferimento

La disciplina dell’istituto si rinviene principalmente nel codice di procedura civile, agli articoli:

  • Art. 230 c.p.c. – “Modo dell’interrogatorio”;
  • Art. 231 c.p.c. – “Risposta”;
  • Art. 232 c.p.c. – “Mancata risposta”.

Queste norme stabiliscono i presupposti, le modalità e gli effetti della confessione giudiziale resa in sede di interrogatorio formale.

Come si propone la richiesta di interrogatorio

La parte interessata deve chiedere l’ammissione dell’interrogatorio nell’atto introduttivo del giudizio, indicando specificamente i capitoli sui quali intende che la controparte venga interrogata. La richiesta può essere formulata anche successivamente, ma prima dell’apertura della fase istruttoria.

Se il giudice accoglie la richiesta, dispone l’interrogatorio mediante ordinanza, fissando un’udienza per l’assunzione della prova.

L’interrogatorio è assunto personalmente dal giudice, il quale formula le domande sui singoli capitoli previamente autorizzati. La parte interrogata ha l’obbligo di rispondere personalmente e direttamente.

Qual è il valore dell’interrogatorio formale

L’interrogatorio formale ha un elevato valore probatorio quando si conclude con confessione su fatti sfavorevoli alla parte che confessa e favorevoli alla controparte. In tal caso, la confessione giudiziale ex art. 2730 c.c ha efficacia vincolante, essendo considerata prova legale.

Se la parte non compare oppure rifiuta di rispondere senza giustificato motivo, il giudice può considerare come ammessi i fatti dedotti nell’interrogatorio ex art. 232 c.p.c.

Giurisprudenza

Cassazione n. 24799/2024: Quando una parte rilascia dichiarazioni a proprio favore durante un interrogatorio formale, il giudice non è obbligato ad accettarle in automatico. Spetta a lui valutarle liberamente, tenendo conto di tutte le altre prove raccolte. Solo così, infatti, possono diventare un elemento per formare la sua decisione finale.

Cassazione n. 29473/2023: L’interrogatorio formale ha un unico scopo: ottenere la confessione giudiziale di fatti che vanno contro chi li ammette, e che tornano a esclusivo vantaggio della parte che ha richiesto l’interrogatorio. Non può invece essere usato come prova di fatti che favoriscono la parte che sta rendendo la confessione.

Cassazione n. 2956/2018: La parte che ha richiesto l’interrogatorio formale della controparte può liberamente rinunciarvi in qualsiasi momento, senza bisogno del consenso della controparte o del giudice. Questo è il rovescio della medaglia del fatto che una parte non può mai chiedere il proprio interrogatorio formale.

 

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giurista risponde

Risoluzione del contratto e rilascio di immobile In caso di risoluzione del contratto per inadempimento del conduttore, il rilascio dell’immobile preclude l’azione di risarcimento per il mancato guadagno?

Quesito con risposta a cura di Caterina D’Alessandro, Giulia Fanelli, Mariella Pascazio

 

Il diritto del locatore a conseguire, ai sensi dell’art. 1223 c.c., il risarcimento del danno da mancato guadagno a causa della risoluzione del contratto per inadempimento del conduttore non viene meno, di per sé, in seguito alla restituzione del bene locato prima della naturale scadenza del contratto, ma richiede, normalmente, la dimostrazione da parte del locatore di essersi tempestivamente attivato, una volta ottenuta la disponibilità dell’immobile, per una nuova locazione a terzi, fermo l’apprezzamento del giudice delle circostanze del caso concreto anche in base al canone della buona fede e restando in ogni caso esclusa l’applicabilità dell’art. 1591 c.c. (Cass., Sez. Un., 25 febbraio 2025, n. 4892).

Con la sentenza in commento, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, investite dalla questione dalla Terza Sezione Civile, sono intervenute per dirimere un contrasto giurisprudenziale riguardante il diritto del locatore di conseguire il risarcimento del danno da mancato guadagno conseguente alla risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore, in relazione ai casi in cui la restituzione del bene locato avvenga in data antecedente alla scadenza naturale del contratto. In particolare, ci si interroga se il locatore possa ottenere un risarcimento per i canoni non percepiti tra la riconsegna dell’immobile e la naturale scadenza del contratto o, se anteriore, fino alla stipula di una nuova locazione.

In assenza di una disposizione normativa volta a regolare la fattispecie, sussistevano sul punto due orientamenti giurisprudenziali contrastanti.

Secondo un primo orientamento, prevalente seppur più risalente, risolto il contratto di locazione per inadempimento del conduttore riconsegnato l’immobile al locatore, questi avrebbe avuto anche diritto al risarcimento del danno per la anticipata cessazione del rapporto, da individuarsi nella mancata percezione dei canoni concordati fino al reperimento di un nuovo conduttore e il cui ammontare è riservato alla valutazione del giudice di merito sulla base di tutte le circostanze del caso concreto. (Cass. 5 gennaio 2023, n. 194; Cass. 5 maggio 2020, n. 8482; Cass. 13 febbraio 2015, n. 286; Cass. 3 settembre 2007, n. 18510 e Cass. 29 gennaio 1980, n. 676).

Secondo altro orientamento, recepito dalla sentenza di merito, il locatore, una volta rientrato nella materiale disponibilità dell’immobile, non avrebbe diritto ad ottenere alcun risarcimento correlato alla mancata percezione dei canoni, rappresentando i canoni il corrispettivo che il locatore percepisce per non potere godere direttamente dell’immobile. Invece, un danno correlato alla mancata percezione del canone dopo il rilascio può configurarsi se, per le concrete condizioni in cui si trova l’immobile, la restituzione del bene non abbia consentito al locatore di poter esercitare, né in via diretta né in via indiretta, il godimento di cui si era privato concedendo il bene in locazione, commisurandosi in tal caso la perdita al tempo occorrente per il relativo ripristino quale conseguenza dell’inesatto adempimento dell’obbligazione di rilascio nei sensi dell’art. 1590 c.c. (Cass. 20 gennaio 2017, n. 1426; Cass. 10 dicembre 2013, n. 27614).

Con la pronuncia in esame, pur con alcune puntualizzazioni, le Sezioni Unite si sono espresse in favore del primo orientamento, rilevando che la diversa tesi che individua la causa della locazione nella preliminare rinuncia al godimento diretto non considera che non necessariamente in capo al locatore risiede un interesse al godimento diretto del proprio immobile, compensato dal canone.

Tale impostazione, secondo le Sezioni Unite, sarebbe riduttiva e non aderente alla realtà contrattuale della locazione, atteso che non terrebbe conto di tutte quei casi, diffusi nella pratica, in cui chi loca un bene intende utilizzarlo al solo fine di trarne delle rendite o realizzare profitti (es. società commerciale orientata a realizzare profitti attraverso l’acquisto sistematico di immobili da destinare con immediatezza al godimento di terzi dietro compensi).

La tesi secondo cui il rilascio dell’immobile locato a seguito di risoluzione per inadempimento del conduttore non sarebbe di per sé tale da integrare un danno trascura la mancata realizzazione del programma negoziale originariamente convenuto tra le parti.

Attraverso la conclusione di un contratto, le parti non si propongano affatto di ricomporre, come conseguenza della realizzazione della causa contrattuale, il medesimo equilibrio economico originario astrattamente considerato (sia pure in una diversa composizione materiale: una somma di danaro al posto di un periodo di godimento dell’immobile, e viceversa), bensì a raggiungere un diverso e più avanzato assetto economico-giuridico della propria sfera patrimoniale, rivisto attraverso il prisma delle proprie prospettive d’interesse.

La frustrazione che il locatore è costretto a subire per effetto dell’inadempimento del conduttore, in relazione al compimento del programma contrattuale originariamente convenuto (e, dunque, in relazione al forzato sacrificio degli interessi negoziati), non potrà in tal senso mai essere reintegrata, sul piano risarcitorio, dalla ricollocazione dello stesso locatore nella medesima condizione economico-patrimoniale precedente la conclusione del contratto.

Muovendo da queste premesse, le Sezioni Unite ritengono di dover dar seguito all’orientamento secondo il quale “il locatore, il quale abbia chiesto e ottenuto la risoluzione anticipata del contratto di locazione per inadempimento del conduttore, ha diritto anche al risarcimento del danno per l’anticipata cessazione del rapporto, da individuare nella mancata percezione dei canoni concordati fino alla scadenza del contratto o al reperimento di un nuovo conduttore”.

Allo stesso tempo, deve essere escluso qualsiasi automatismo in ipotesi volto a identificare il danno del locatore nell’insieme dei canoni non percepiti. Non si deve confondere l’azione risarcitoria con l’azione di adempimento (solo grazie alla quale il locatore può esigere il mancato pagamento dei canoni convenuti fino alla scadenza del rapporto) e, dall’altro, occorre rammentare come l’operazione di liquidazione del danno si fondi necessariamente sulla preliminare distinzione fra danno-evento (qui coincidente con l’inadempimento e identificato dalla mancata percezione dei canoni di locazione concordati fino alla scadenza del contratto o al reperimento di un nuovo conduttore) e danno-conseguenza disciplinato dall’art. 1223 c.c., ai sensi del quale il “mancato guadagno” del locatore, in tanto potrà ritenersi risarcibile, in quanto appaia configurabile alla stregua di una “conseguenza immediata e diretta” dell’inadempimento.

Tale nesso di “causalità giuridica” tra l’evento di danno e le sue conseguenze pregiudizievoli (il carattere di derivazione immediata e diretta di queste ultime dal primo) costituisce materia di un onere probatorio (necessariamente) incombente sul locatore ai sensi dell’art. 2697 c.c.; e tanto, a prescindere da quanto il conduttore potrà eventualmente opporre ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c.

Da questa prospettiva, la circostanza dell’avvenuta restituzione anticipata dell’immobile da parte del conduttore inadempiente a seguito della risoluzione del contratto se, da un lato, non esclude di principio la risarcibilità delle possibili conseguenze dannose correlate alla mancata percezione dei canoni dovuti fino alla naturale scadenza del contratto (o alla conclusione di un’eventuale nuova locazione), dall’altro, non potrà non offrire al giudice del merito elementi utili (sul piano del ragionamento probatorio d’indole critica) ai fini della più corretta ricostruzione in fatto delle conseguenze dannose effettivamente ricollegabili al l’inadempimento, normalmente identificabili con la perdita dei canoni previsti fino alla naturale scadenza del contratto.

È in questo quadro che si colloca la giustificazione dell’attribuzione di un carattere ragionevolmente dirimente alla dimostrazione, da parte del locatore, d’essersi convenientemente attivato, non appena ottenuta la riconsegna del proprio immobile, al fine di rendere conoscibile con i mezzi ordinari la disponibilità dell’immobile per una nuova locazione.

Le Sezioni Unite, infine, hanno anche escluso in tali ipotesi la possibilità di fare applicazione in via analogica della disciplina prevista dalla regola dettata dall’art. 1591 c.c. (“Il conduttore in mora a restituire la cosa è tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto fino alla riconsegna, salvo l’obbligo di risarcire il maggior danno”), rimarcando che detta norma disciplina le sole conseguenze risarcitorie connesse al ritardo nella restituzione dell’immobile da parte del conduttore.

 

(*Contributo in tema di “Risoluzione del contratto e rilascio di immobile”, a cura di Caterina D’Alessandro, Giulia Fanelli e Mariella Pascazio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

interdizione

Interdizione: la guida Interdizione: cos'è, normativa, chi può essere interdetto e chi può chiedere l'interdizione, effetti e differenze con l'inabilitazione

Cos’è l’interdizione

L’interdizione è un istituto giuridico previsto dal Codice Civile che tutela le persone affette da gravi patologie psichiche, impedendo loro di compiere atti giuridicamente rilevanti. L’interdetto, infatti, viene privato della capacità di agire e sottoposto alla tutela di un tutore legale, che ne gestisce gli interessi.

Normativa di riferimento

L’istituto è disciplinato dagli articoli 414 e seguenti del Codice Civile, che stabiliscono:

  • chi può essere interdetto;
  • la procedura per ottenere l’interdizione;
  • gli effetti giuridici che ne derivano.

Chi può essere interdetto?

Possono essere dichiarate interdette le persone che:

  • sono affette da grave infermità mentale;
  • non sono in grado di provvedere autonomamente ai propri interessi;
  • possono arrecare danni a sé stessi o al proprio patrimonio.

Soggetti legittimati a richiedere l’interdizione

La richiesta di interdizione può essere presentata:

  • dal coniuge o dal convivente;
  • dai parenti entro il quarto grado;
  • dagli affini entro il secondo grado
  • dal Pubblico Ministero, quando la situazione lo richieda;
  • dal tutore o dal curatore in caso di necessità.

Procedura di interdizione

L’istituto segue una procedura giudiziaria ben definita.

  1. Presentazione del ricorso

    • il soggetto legittimato presenta il ricorso al Tribunale del luogo di residenza o domicilio della persona da interdire;
    • al ricorso è necessario allegare la documentazione medica che attesti la patologia del soggetto.
  1. Ascolto dell’interdicendo e valutazione delle condizioni

    • il giudice tutelare valuta lo stato mentale dell’interdicendo con l’intervento del Pubblico Ministero e se lo ritiene opportuno può nominare un consulente tecnico;
    • l’interessato viene quindi ascoltato per accertare le sue condizioni;
    • dopo l’esame il giudice può nominare un tutore provvisorio.
  1. Sentenza di interdizione

    • se il Tribunale accoglie la richiesta, dichiara l’interdizione con una sentenza, nominando un tutore legale;
    • la sentenza viene quindi annotata nei registri dello stato civile.

Cosa comporta l’interdizione?

L’interdizione ha effetti significativi sulla capacità giuridica del soggetto:

  • perdita della capacità di agire: l’interdetto non può compiere atti giuridici, come firmare contratti o amministrare il proprio patrimonio;
  • nomina di un tutore: il Tribunale assegna un tutore, che prende decisioni in nome e per conto dell’interdetto;
  • possibilità di revoca: se le condizioni dell’interdetto migliorano, è possibile chiedere la revoca dell’interdizione tramite apposito procedimento giudiziario.

Differenze tra interdizione e inabilitazione

Caratteristica Interdizione Inabilitazione
Requisito Grave infermità mentale Incapacità parziale di gestire i propri affari
Capacità di agire Completamente revocata Limitata agli atti di ordinaria amministrazione
Nomina di un tutore No, nomina di un curatore
Atti che può compiere Nessuno senza il tutore Può compiere atti quotidiani senza autorizzazione

Giurisprudenza

Cassazione n. 27691/2023: data la marcata differenza tra l’amministrazione di sostegno, che mira a rafforzare le capacità residue del soggetto vulnerabile, e l’interdizione, che invece limita l’autonomia per tutelare il patrimonio familiare, il divieto di sposarsi previsto dall’articolo 85 del codice civile per l’interdetto non si applica generalmente al beneficiario dell’amministrazione di sostegno. Tuttavia, il giudice tutelare può imporre tale divieto solo in casi di eccezionale gravità e se ciò è nell’esclusivo interesse del beneficiario.

Cassazione n. 34216/2022: il decreto con cui il giudice istruttore nomina un tutore o curatore provvisorio nell’ambito di un procedimento di interdizione o inabilitazione non è equiparabile a una sentenza. Questo perché si tratta di un provvedimento interinale e provvisorio, che può essere revocato dallo stesso giudice e perde la sua efficacia una volta che viene emessa la sentenza definitiva. Di conseguenza, non è possibile presentare ricorso per cassazione contro tale decreto ai sensi dell’articolo 111 della Costituzione.

Leggi anche: Addio a interdizione e inabilitazione?

appalti pubblici

Appalti pubblici: no a costi e sicurezza solo per il primo concorrente La Corte costituzionale boccia la norma della Provincia di Bolzano che richiede i costi della manodopera e sicurezza solo al primo classificato nelle gare pubbliche

Appalti pubblici: la bocciatura della Consulta

Appalti pubblici: con la sentenza n. 80/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 22, comma 13, della legge provinciale di Bolzano n. 2 del 2024. La norma prevedeva che soltanto il primo concorrente in graduatoria fosse tenuto a indicare i costi della manodopera e della sicurezza nei contratti pubblici.

Violazione del codice dei contratti pubblici

La Corte ha evidenziato il contrasto con gli articoli 108, comma 9, e 110, comma 1, del d.lgs. n. 36/2023 (nuovo codice dei contratti pubblici), i quali impongono:

  • l’indicazione obbligatoria dei costi della manodopera e degli oneri di sicurezza da parte di tutti i concorrenti, a pena di esclusione;

  • la verifica delle offerte sospettate di anomalia da parte della stazione appaltante in base a questi costi.

La norma provinciale, limitando l’obbligo al solo primo classificato, vanifica gli strumenti di controllo e trasparenza previsti a tutela del lavoro e della concorrenza.

Tutela del lavoro e trasparenza nelle gare

L’obbligo dichiarativo previsto dal codice ha una finalità precisa: garantire la protezione dei lavoratori, responsabilizzare gli operatori economici e facilitare i controlli della stazione appaltante. La violazione di questo impianto normativo compromette tali obiettivi, aprendo la strada a offerte opache e potenzialmente dannose per i diritti dei lavoratori.

Norme di riforma economico-sociale prevalenti

Secondo la Corte, le disposizioni del codice dei contratti pubblici rientrano nella materia della tutela della concorrenza e costituiscono norme fondamentali di riforma economico-sociale, con rilievo anche sovranazionale, in quanto attuative di obblighi derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea.

Pertanto, anche la Provincia autonoma di Bolzano, pur dotata di competenza legislativa primaria in materia di lavori pubblici di interesse provinciale, è tenuta a rispettarle in virtù dell’articolo 8 dello statuto speciale e del richiamo all’articolo 4.