interessi moratori

Interessi moratori Interessi di mora: cosa sono, l'articolo 1224 c.c., differenze con quelli compensativi e corrispettivi, calcolo e transazioni commerciali

Cosa sono gli interessi moratori

Gli interessi moratori o di mora rappresentano una forma di risarcimento che il debitore deve al creditore quando ritarda nell’adempimento di un’obbligazione pecuniaria, ovvero nel pagamento di una somma di denaro. La loro funzione principale è quindi di compensare il creditore per il danno subito a causa del mancato tempestivo incasso, danno che si presume esistere automaticamente con il ritardo.

Normativa di riferimento: l’articolo 1224 c.c.

Il principale riferimento normativo per  questi interessi è l’articolo 1224 c.c. Questo articolo stabilisce che, dal giorno in cui il debitore è in ritardo, ossia in mora, con il pagamento di una somma di denaro, sono dovuti gli interessi legali, anche se non erano previsti interessi prima del ritardo. Se, invece, prima della mora erano già dovuti interessi a un tasso superiore a quello legale, gli interessi moratori saranno calcolati su questa misura più alta.

Essi svolgono una funzione risarcitoria automatica. Il creditore infatti non deve dimostrare di aver subito un danno riconducibile al ritardo. E’ sufficiente la condizione di mora a far scattare il diritto agli interessi.

Onere probatorio

Come accennato, questi interessi si applicano dal giorno del ritardo senza che il creditore debba provare di aver subito un danno. Tuttavia, se il creditore ritiene di aver subito un danno maggiore rispetto a quello automaticamente risarcito dagli interessi moratori, ha il diritto di richiedere un ulteriore risarcimento.

L’articolo 1224 c.c precisa però che questo risarcimento aggiuntivo non spetta se le parti hanno già convenuto la misura degli interessi moratori. La presunzione legale di danno da ritardo soccorre proprio quando le parti non hanno stabilito diversamente.

Interessi moratori: come si calcolano?

Il calcolo di questi interessi dipende da quanto stabilito tra le parti.

  • Se non sono stati concordati, gli interessi di mora corrispondono al tasso di interesse legale, che viene aggiornato annualmente dal Ministero dell’Economia e delle Finanze.
  • Se invece le parti hanno concordato un tasso, questo deve essere applicato, a condizione che non superi i limiti dell’usura.

Transazioni commerciali e interessi moratori

Se il ritardo nel pagamento riguarda le transazioni commerciali (incluse quelle con professionisti o lavoratori autonomi), è previsto un regime speciale (Dlgs 9 ottobre 2002, n. 231 “Attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”).

Gli interessi di mora decorrono automaticamente dal giorno successivo alla scadenza del termine per il pagamento. Il diritto a  questi interessi viene meno per il creditore solo se il debitore riesce a dimostrare che il ritardo nell’adempimento non è riconducibile a una causa a lui imputabile.

Tasso interessi di mora 2° semestre 2025

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze con il comunicato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 14 luglio 2025 ha reso noto il tasso degli interessi di mora per i ritardi nei pagamenti delle transazioni commerciali. Il nuovo tasso di riferimento, valido dal 1° luglio al 31 dicembre 2025, è fissato al 2,15% (in luogo del 3,15% del 1° semestre).

Interessi moratori, corrispettivi e compensativi: differenze

È importante distinguere infine gli interessi di mora da altre tipologie di interessi:

  • interessi corrispettivi: sono dovuti sui crediti liquidi ed esigibili (cioè determinati nel loro ammontare e immediatamente richiedibili). Rappresentano una sorta di “prezzo” per l’utilizzo del denaro altrui e sono un’obbligazione accessoria rispetto a quella principale;
  • interessi compensativi: sono dovuti in caso di “debiti di valore”, ovvero quando l’obbligazione non riguarda direttamente una somma di denaro e servono a compensare il ritardo nella messa a disposizione di tale valore.

Gli interessi di mora, a differenza dei corrispettivi e dei compensativi, nascono invece dal ritardo nell’adempimento di un’obbligazione pecuniaria già determinata.

 

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giurista risponde

Adozione internazionale e persone singole È costituzionalmente legittima la disciplina di cui agli artt. 29bis, comma 1, e 30, comma 1, L. 184/2983 che esclude le persone singole dalla procedura di adozione internazionale?

Quesito con risposta a cura di Caterina D’Alessandro, Giulia Fanelli e Mariella Pascazio

 

Va dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 29bis, comma 1, L. 4 maggio 1983, n. 184, nella parte in cui, facendo rinvio all’art. 6 della medesima legge, non include le persone singole residenti in Italia fra coloro che possono presentare dichiarazione di disponibilità a adottare un minore straniero residente all’estero e chiedere così al tribunale per i minorenni, del distretto in cui hanno la residenza, che lo stesso dichiari la loro idoneità all’adozione (Corte cost. 21 marzo 2025, n. 33 – Adozione internazionale e persone singole).

Dinanzi alla censura di legittimità costituzionale mossa dal Tribunale fiorentino e riguardante sia l’art. 29bis, comma 1, sia l’art. 30, comma 1, L. 184/2983, la Corte costituzionale ha deciso di investire la sua attenzione solo sulla prima delle due disposizioni.

L’evoluzione storica della normativa che ha riguardato l’adottabilità dei minori e che affonda le sue radici nel periodo successivo alla prima guerra mondiale evidenzia come il legislatore abbia nel tempo sempre più precluso la possibilità di adozione da parte di persone singole. A dispetto di questo approccio legislativo, la Consulta ha ritenuto di dover richiamare e valorizzare le disposizioni previste dall’ordinamento che permettono alle persone singole di adottare dei minori. Ai sensi dell’art. 25, comma 4, L. 184/1983, si consente l’inserimento del minore in un nucleo monoparentale, e quindi l’adozione da parte di un genitore singolo, se durante l’affidamento preadottivo uno dei due coniugi muore o diventa incapace. Il medesimo effetto lo si rinviene, ex art. 25, comma 5, L. 184/1983, anche nell’ipotesi in cui nell’affidamento preadottivo intervenga la separazione tra i coniugi affidatari. Altresì, ai sensi dell’art. 44, comma 3, L. 184/1983 si consente l’adozione in casi particolari da parte di persone singole. In tutte le ipotesi citate l’obiettivo del legislatore è quello di garantire la continuità del rapporto affettivo, obiettivo che, ad avviso della Consulta, si rinviene tutt’oggi anche nelle ipotesi di adozione da parte di coppie coniugate in seguito a un prolungato periodo di affidamento, e che può sussistere anche nell’ipotesi di adottabilità da parte di una singola.

In seguito ad una ricognizione della disciplina attuale, la Consulta ha evidenziato come l’aspirazione alla genitorialità, quindi la scelta di adottare o meno un minore, sia un’estrinsecazione della libertà di autodeterminazione di ciascun individuo di cui all’art. 8 Cedu e agli artt. 2, 3, 31 Cost. (Corte EDU 27 maggio 2021, Marchi c. Italia; Corte EDU 16 gennaio 2018, Nedescu c. Romania; Corte cost. 162/2014; Corte. cost. 332/2000) e che tale libertà non è suscettibile di ingiustificate limitazioni. Non possono, infatti, sussistere irragionevoli compressioni della scelta della genitorialità sia quando una persona può accedere all’adozione di minori in quanto soddisfa i requisiti previsti dalla legge sia quando non vi può accedere perché persona singola.

Sulla scorta di questa premessa la Corte ha pertanto ritenuto che l’esclusione della persona singola dall’accesso all’adozione internazionale sia lesiva degli artt. 2 e 117, comma 1, Cost. e questo in relazione all’art. 8 Cedu. Infatti, la normativa censurata lede la persona singola che abbia aspirazioni genitoriali e contestualmente non trova legittimazione in esigenze che sociali che fondino una ragionevole esclusione di queste persone dall’accesso all’adozione di minore straniero. A sostegno dell’irragionevolezza del divieto sussistono altre due argomentazioni. Da un lato, infatti, si evidenzia come a seguito della riforma del 2013 esista un unico stato di figlio ex art. 315 c.c. e non vi sia più nemmeno la distinzione tra figlio nato in costanza o meno di matrimonio. Dall’altro lato, invece, non vi è alcuna fondata ragione di ritenere che l’esclusione aprioristica delle persone singole dall’accesso alla genitorialità garantisca maggiormente al minore un ambiente stabile e armonioso (Corte cost. 16 maggio 1994, n. 183). Infatti, l’interesse del minore è comunque preservato dal giudizio di idoneità dell’adottante da parte dell’autorità giudiziaria, la quale guarderà alla rete familiare di riferimento.

Infine, la Corte ha sottolineato come il divieto alla persona singola di accedere alla genitorialità mediante l’adozione internazionale si riverbera negativamente, oltre che sul diritto all’autodeterminazione della persona singola, sul diritto del minore ad essere accolto in un ambiente stabile e armonioso.

 

 

(*Contributo in tema di “Adozione internazionale e persone singole”, a cura di Caterina D’Alessandro, Giulia Fanelli e Mariella Pascazio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

canone libero

Locazioni: canone libero non registrato, scatta l’adeguamento La Cassazione chiarisce: i contratti di locazione a canone libero non registrati prima del 2016 devono essere ricondotti a congruità solo da tale data, entro i limiti dei canoni concordati dalle associazioni

Locazioni canone libero: cosa dice la Cassazione

Con l’ordinanza n. 15891 del 2025, la Corte di Cassazione ha precisato che un contratto di locazione a canone libero, scritto ma non registrato, stipulato prima del 1° gennaio 2016, è soggetto alla cosiddetta “riconduzione a congruità” soltanto a partire da tale data.

Il canone che il giudice potrà stabilire, in sostituzione di quello pattuito, non potrà superare i limiti definiti dalle associazioni di categoria. Questo vale sia per i contratti a canone libero che per quelli a canone concordato.

Le tre ipotesi interpretative della Corte

I giudici hanno ricostruito il quadro normativo incrociando l’articolo 13, comma 6, della legge n. 431/1998 (nullità dei patti contrari alla legge) con l’articolo 2 della stessa legge (tipologie contrattuali). Le tre principali situazioni sono:

1. Contratto registrato ma con canone simulato

Se il contratto è registrato a canone libero, ma il canone effettivo supera quello dichiarato, il patto è nullo. È dovuto solo il canone risultante dal contratto registrato.

2. Contratto a canone concordato con canone eccedente

Nel caso di contratto a canone concordato, se il canone pattuito è superiore a quello stabilito dalle associazioni di categoria, il patto è nullo. Vale il canone concordato ufficialmente.

3. Contratto scritto e non simulato, ma non registrato

Questa è l’ipotesi affrontata dalla Cassazione. In mancanza di registrazione, il contratto è nullo. Il canone viene stabilito dal giudice entro il limite dei valori concordati dalle associazioni, a prescindere dal tipo di contratto (libero o concordato).

Effetti limitati al periodo post-2016

La Suprema Corte ha evidenziato che la riconduzione a congruità si applica esclusivamente a partire dal 1° gennaio 2016, data di entrata in vigore della disciplina che ha previsto tale meccanismo.

In precedenza, l’assenza di registrazione comportava l’inefficacia del contratto, senza possibilità di adeguamento ex lege.

patrocinio a spese dello stato

Patrocinio a spese dello Stato 2025: sale il limite di reddito Patrocinio a spese dello Stato: in Gazzetta Ufficiale il decreto del Ministero della Giustizia che fissa il nuovo limite di reddito

Nuovo limite di reddito per il patrocinio a spese dello Stato

Sale il limite di reddito per il patrocinio a spese dello Stato. Una novità importante per tutti coloro che potrebbero aver bisogno di assistenza legale, ma si trovano in difficoltà economiche.

Il Ministero della Giustizia ha infatti pubblicato il Decreto del 22 aprile 2025, che aggiorna i limiti di reddito per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato. Questo significa che un numero maggiore di cittadini avrà la possibilità di accedere gratuitamente all’assistenza di un avvocato e di beneficiare della copertura delle spese legali.

Il patrocinio a spese dello Stato

Si ricorda in breve che il patrocinio a spese dello Stato è un diritto fondamentale garantito dalla Costituzione. Esso assicura a chi non ha i mezzi economici sufficienti di essere difeso in giudizio. In pratica, lo Stato si fa carico delle spese legali, permettendo a tutti, indipendentemente dalla propria situazione finanziaria, di far valere i propri diritti in tribunale o di difendersi da accuse. Questo servizio è cruciale per garantire la parità di accesso alla giustizia, principio cardine del nostro sistema democratico.

Limite di reddito adeguato all’inflazione

L’aggiornamento dei limiti di reddito è un meccanismo automatico previsto dalla legge. L’articolo 77 del Testo Unico delle spese di giustizia (D.P.R. 115/2002) stabilisce infatti che questi limiti vengano adeguati ogni due anni.

Il calcolo si basa sulla variazione dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati (FOI), accertata dall’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) nel biennio precedente.

Questo adeguamento periodico è fondamentale per tenere conto dell’inflazione e del costo della vita. Se i limiti rimanessero invariati, con l’aumento dei prezzi, sempre meno persone riuscirebbero a rientrare nei requisiti.

Il nuovo limite di reddito 2025

Il precedente limite, fissato con decreto del 10 maggio 2023, era pari a 12.838,01 euro. Questo importo era stato calcolato tenendo conto della variazione dell’indice dei prezzi al consumo nel periodo dal 1° luglio 2020 al 30 giugno 2022.

Per il biennio successivo, ovvero dal 1° luglio 2022 al 30 giugno 2024, l’ISTAT ha rilevato un aumento dell’indice dei prezzi al consumo pari al 6,4%. In virtù di questo incremento, il Ministero della Giustizia, di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, ha decretato il nuovo limite.

A partire dall’11 luglio 2025, data di pubblicazione del decreto sulla Gazzetta Ufficiale, il reddito massimo annuale per poter accedere al patrocinio a spese dello Stato è stato aggiornato a 13.659,64 euro.

 

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interessi di mora

Interessi di mora: tasso secondo semestre 2025 Interessi di mora: pubblicato in GU il comunicato del MEF che indica la percentuale del tasso del secondo semestre 2025

Interessi di mora: tasso 2° semestre 2025

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 14 luglio 2025 il tasso degli interessi di mora per i ritardi nei pagamenti delle transazioni commerciali. Il nuovo tasso di riferimento, valido dal 1° luglio al 31 dicembre 2025, è fissato al 2,15% (in luogo del 3,15% del 1° semestre).

Cosa sono gli interessi di mora?

L’interesse di mora è l’importo che il debitore deve versare al creditore in caso di ritardo nel pagamento di un’obbligazione pecuniaria derivante da una transazione commerciale. Questa misura ha lo scopo di compensare il creditore per il mancato incasso nei tempi previsti.

Aggiornamento semestrale del tasso

Il tasso di riferimento viene stabilito ogni sei mesi dal MEF, in base all’art. 5 del D.Lgs. n. 231/2002 (come modificato dalla lett. e) del comma 1 dell’art. 1 del D.Lgs. n. 192/2012).

Il nuovo valore del 2,15% segna una riduzione rispetto al 4,50% e al 4,25% applicati nei due semestri del 2024 e a quello del 3,15% applicato nel primo semestre 2025.

Regole per l’applicazione

Gli interessi di mora si applicano automaticamente nei contratti tra imprese o tra imprese e Pubblica Amministrazione, salvo diversa pattuizione tra le parti.

Se il ritardo si verifica nel secondo semestre del 2025, il tasso verrà aggiornato a partire dal 1° luglio dello stesso anno.

Obiettivo della normativa

La disciplina sugli interessi di mora mira a contrastare i ritardi nei pagamenti, garantendo maggiore tutela ai creditori. Questo meccanismo incentiva il rispetto delle scadenze e contribuisce a mantenere la liquidità nel sistema economico.

 

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Allegati

cessione d'azienda

Cessione d’azienda Cessione d’azienda: come funziona secondo il Codice civile, differenze rispetto alla vendita, conseguenze per le parti e regime fiscale

Cos’è la cessione d’azienda

La cessione d’azienda è un contratto con cui un imprenditore trasferisce a terzi l’azienda, intesa come complesso di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa (art. 2555 c.c.). Si tratta di un atto di trasferimento oneroso o gratuito che può riguardare l’intera azienda o un singolo ramo della stessa.

L’operazione può avere diverse finalità: la ristrutturazione societaria, la liquidazione, il trasferimento dell’attività per motivi strategici o familiari.

La disciplina normativa: articoli del Codice civile

La materia è regolata principalmente dagli articoli 2556-2562 del Codice civile. In particolare:

  • Art. 2556 c.c.: stabilisce la forma scritta ad probationem per la cessione d’azienda;
  • Art. 2557 c.c.: pone un divieto di concorrenza per il cedente;
  • Art. 2558 c.c.: dispone il subentro nei contratti;
  • Art. 2559 c.c.: regola il trasferimento dei crediti;
  • Art. 2560 c.c.: disciplina il passaggio dei debiti aziendali.

È inoltre fondamentale rispettare le norme sulla pubblicità nel Registro delle imprese. L’art. 2556, al co. 2 c.c. prevede infatti che i contratti con i quali si verifica il trasferimento della proprietà o il godimento dell’azienda, se questa è soggetta a registrazione, devono essere redatti nella forma pubblica o per scrittura privata autenticata e poi devono essere depositati presso il registro delle imprese, per procedere all’iscrizione, nel termine di 30 giorni a cura del notaio o del soggetto che ha autenticato la scrittura.

Differenza tra cessione e vendita d’azienda

Spesso si tende a usare i termini cessione e vendita d’azienda come sinonimi. Tuttavia, vi è una distinzione tecnica:

  • la cessione è un concetto diverso che comprende anche la cessione di un solo ramo dell’azienda, ossia di una parte della stessa e che si riferisce anche a trasferimenti di contratti, partecipazioni aziendali, non solo quindi dei beni o dei diritti dell’azienda;
  • la vendita d’azienda invece comporta il trasferimento del complesso aziendale nella sua interezza.

Il conferimento d’azienda p di un suo ramo è invece una forma di apporto da una società a un’altra in cambio di quote o azioni di quest’ultima.

Effetti della cessione d’azienda

Vediamo ora quali sono gli effetti principali del trasferimento aziendale.

  1. Continuità dei rapporti contrattuali: ai sensi dell’art. 2558 c.c., i contratti in corso passano al cessionario, salvo patto contrario o se intuitu personae.
  2. Trasferimento dei debiti: ex art. 2560 c.c., il cessionario risponde dei debiti anteriori se i creditori non hanno acconsentito alla sua liberazione.
  3. Crediti aziendali: la cessione dei crediti dell’azienda ceduta ha affetti nei confronti dei terzi anche in assenza di notifica o accettazione del debitore ceduto, dal momento in cui il trasferimento è stato iscritto nel registro delle imprese. Il debitore ceduto però è liberato se paga in buona fede all’alienante.
  4. Divieto di concorrenza: il cedente non può iniziare una nuova attività in concorrenza, salvo patto contrario (art. 2557 c.c.).
  5. Mantenimento dei rapporti di lavoro: ex art. 2112 c.c., i rapporti proseguono con il cessionario, che ne assume diritti e obblighi.

La cessione di ramo d’azienda

La cessione di ramo d’azienda riguarda una parte funzionalmente autonoma dell’impresa, in grado di operare in modo indipendente. Anche in questo caso si applicano le norme generali sulla cessione d’azienda, purché il ramo ceduto sia identificabile e organizzato.

Occorre che il ramo abbia un’autonomia gestionale, economica e funzionale, riconosciuta anche ai fini lavoristici e fiscali.

Aspetti fiscali 

Dal punto di vista fiscale, la cessione d’azienda genera plusvalenze tassabili per il cedente ai sensi dell’art. 86 TUIR, se il valore di cessione è superiore al valore contabile.

L’operazione è soggetta a:

  • imposta di registro: si applicano le aliquote distinte a cui sono assoggettati i diversi  beni e diritti che costituiscono l’azienda se dall’atto o dai suoi allegati risulta per ogni bene una imputazione distinta di una quota parte del corrispettivo. In assenza di tale distinzione si applica l’aliquota più alta. La base imponibile si ottiene sommando i valori delle attività e sottraendo le passività che risultano dalle scritture contabili;
  • IVA: ai sensi del comma 3 lettera b) dell’art. 2 del DPR n. 633/1972 Non sono considerate cessioni di beni le cessioni e i conferimenti in società o altri enti, compresi i consorzi e le associazioni o altre organizzazioni, che hanno per oggetto aziende o rami di azienda (ovvero un complesso unitario di attività materiali e immateriali, inclusa la clientela e ogni altro elemento immateriale, nonché di passività, organizzato per l’esercizio dell’attività artistica o professionale)”, di conseguenza non sono soggette al campo di applicazione Iva, fatte salve alcune situazioni particolari;
  • imposte ipotecarie e catastali: previste in presenza di beni immobili.

 

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giochi online

Giochi online nei locali pubblici: illegittimo il divieto assoluto Per la Corte Costituzionale è illegittimo il decreto Balduzzi nella parte in cui vieta in modo assoluto i giochi online nei locali pubblici

Giochi online e locali pubblici

Con la sentenza n. 104/2025, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 7, comma 3-quater, del cosiddetto “decreto Balduzzi” (d.l. 158/2012), che vietava l’installazione nei locali pubblici di dispositivi che consentono l’accesso a piattaforme di giochi online, sia legali sia illegali.

Il divieto imposto dal decreto Balduzzi

La norma censurata vietava espressamente la disponibilità, all’interno di qualsiasi esercizio pubblico, di apparecchiature che permettessero ai clienti di accedere a giochi d’azzardo online, anche se erogati da concessionari autorizzati. Il divieto si applicava in modo indifferenziato, sia in caso di utilizzo esclusivo delle apparecchiature a fini di gioco, sia nel caso di utilizzo occasionale o accessorio.

I motivi della declaratoria di illegittimità

La Corte ha riconosciuto che l’intento della norma – il contrasto alla ludopatia – è senz’altro legittimo e costituzionalmente rilevante. Tuttavia, la disposizione è stata ritenuta irragionevole e sproporzionata, poiché colpisce comportamenti eterogenei, con differenti livelli di offensività, senza alcuna distinzione o graduazione.

In particolare, la Corte ha sottolineato che:

  • la norma è eccessivamente generica e inclusiva;

  • equipara situazioni profondamente diverse (uso occasionale vs. strutturato);

  • non distingue tra gioco legale e illegale, trattandoli alla stessa stregua;

  • non rispetta il principio di proporzionalità, essendo troppo penalizzante rispetto agli obiettivi.

Illegittima anche la sanzione da 20.000 euro

A seguito della declaratoria di illegittimità della norma primaria, la Corte ha esteso l’incostituzionalità anche alla sanzione amministrativa prevista dall’art. 1, comma 923, primo periodo, della legge 208/2015, che comminava una sanzione fissa di 20.000 euro per la violazione del divieto.

La sanzione, priva ora di base legale, non potrà più essere applicata.

Compiti futuri del legislatore

La Corte ha concluso invitando il legislatore a intervenire con misure più equilibrate ed efficaci per contrastare la dipendenza dal gioco d’azzardo. Le strategie future dovranno rispettare i principi costituzionali di ragionevolezza e proporzionalità, graduando le restrizioni in base alla reale pericolosità delle condotte.

incapacità di testare

Incapacità di testare Incapacità di testare: cos’è, in quali casi è presente, effetti e cosa prevede l’art. 591 del codice civile

Cos’è l’incapacità di testare?

L’incapacità di testare è una condizione giuridica che impedisce a una persona di disporre del proprio patrimonio tramite testamento. Il Codice Civile, all’articolo 591, disciplina i casi in cui un soggetto non può redigere un testamento valido, garantendo la tutela degli interessi degli eredi e della volontà testamentaria.

L’incapacità di testare si verifica quando un soggetto non è in grado, per legge o per condizioni personali, di esprimere una volontà testamentaria valida. Il testamento redatto da un soggetto incapace può essere pertanto impugnato da chiunque vi abbia interesse, nel termine di prescrizione di 5 anni che dicono dal momento in cui è stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie.

Casi di incapacità di testare previsti dall’art. 591 c.c.

L’art. 591 c.c individua tre categorie principali di soggetti incapaci di testare:

1. Minori di età

I minori di 18 anni non possono fare testamento, anche se emancipati. La ratio della norma è che i minori non abbiano la maturità sufficiente per disporre consapevolmente del proprio patrimonio.

2. Interdetti per infermità di mente

Le persone dichiarate interdette giudizialmente a causa di una grave patologia mentale non possono testare. L’interdizione viene pronunciata dal tribunale e comporta la totale incapacità legale di agire.

3. Incapaci di intendere e di volere al momento del testamento

Anche se una persona non è formalmente interdetta, il testamento può essere impugnato se il testatore, al momento della redazione, si trovava in uno stato di incapacità di intendere e di volere dovuto, ad esempio, a:

  • malattie psichiatriche;
  • intossicazione da farmaci o sostanze stupefacenti;
  • grave infermità fisica che comprometta la lucidità mentale.

Effetti della dichiarazione di incapacità di testare

Se viene accertata l’incapacità del testatore, il testamento può essere dichiarato nullo su richiesta di chiunque vi abbia interesse (eredi legittimi o altri aventi diritto). La nullità comporta:

  • l’invalidità delle disposizioni testamentarie;
  • il ritorno all’eredità secondo le regole della successione legittima;
  • l’esclusione degli eredi nominati nel testamento invalido.

Giurisprudenza sull’incapacità di testare

Cassazione n. 9534/2025: Il fatto che una persona si esprima a monosillabi o con gesti del capo non invalida il testamento, a patto che queste siano le uniche modalità di comunicazione possibili a causa di un deficit motorio che non compromette la sua capacità di intendere e di volere, né la possibilità di esprimere in modo comprensibile le sue intenzioni. Non si può negare la validità di un consenso manifestato in questo modo, né contestare l’autenticità e la completezza dell’espressione di volontà, soprattutto se il giudice ha riscontrato queste condizioni in concreto e la sua motivazione è priva di vizi.

Corte Appello Milano n. 2731/2024: Anche senza una documentazione medica chiara e lineare che attesti le condizioni mentali del testatore, per annullare un testamento ai sensi dell’articolo 591, comma 3, del codice civile, l’incapacità del defunto può essere desunta dal contenuto del testamento stesso e, in particolare, dalle modalità con cui è stato redatto

Cassazione n. 42124/2021: Quando si tratta di dimostrare l’incapacità di un testatore al momento della stesura del testamento, l’articolo 591, comma 2, n. 3, del codice civile stabilisce che tale incapacità deve essere provata proprio in quel momento specifico. Tuttavia, questa norma non significa che le prove debbano limitarsi esclusivamente a quel frangente. Al contrario, il giudice può considerare le condizioni mentali del testatore sia prima che dopo la redazione del testamento, utilizzando queste informazioni come base per una presunzione. In definitiva, l’incapacità può essere dimostrata attraverso qualsiasi mezzo di prova disponibile.

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equa riparazione

Equa riparazione anche per le persone giuridiche La Cassazione conferma che anche le società hanno diritto all’indennizzo per la durata irragionevole del processo

L’equa riparazione spetta anche a società ed enti collettivi

Con l’ordinanza n. 14749/2025, la Cassazione ribadisce che il diritto all’equa riparazione per la durata eccessiva di un processo riguarda anche le persone giuridiche, come società ed enti collettivi.
La violazione del termine ragionevole di durata del giudizio, stabilito dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e recepito in Italia dalla legge Pinto (L. n. 89/2001), genera un danno non patrimoniale che si presume esistente, salvo prova contraria.

Il caso concreto

La vicenda trae origine dal fallimento di una società, durato oltre quattordici anni, a fronte di un termine di sei previsto per tali procedure. Due società creditrici, dopo aver presentato istanza di ammissione al passivo, avevano chiesto l’indennizzo per il ritardo.
La Corte d’appello aveva riconosciuto il diritto al risarcimento, ma solo per il periodo coincidente con la permanenza in carica dei legali rappresentanti, ritenendo che il danno si identificasse nel disagio psicologico degli amministratori.
Questa impostazione è stata censurata dalla Cassazione, che ha chiarito che il danno appartiene alla società in quanto soggetto titolare del diritto, non ai suoi organi.

La natura del danno non patrimoniale per le persone giuridiche

Secondo la Suprema Corte, il danno non patrimoniale derivante da un processo eccessivamente lungo ha una componente oggettiva, diversa dallo stress o dall’ansia che possono colpire le persone fisiche.
Il pregiudizio consiste nella “deminutio” dell’immagine e della sfera giuridica dell’ente, che subisce una compromissione della sua posizione a causa del protrarsi dello stato di incertezza.
Proprio per questa ragione, la Cassazione ha ribadito che la durata della carica dell’amministratore è irrilevante ai fini della quantificazione del danno, che si radica nel patrimonio e nella dimensione giuridica della persona collettiva.

La presunzione del danno e l’onere della prova contraria

La decisione ripercorre un orientamento consolidato secondo cui il danno extrapatrimoniale, pur non essendo un danno “automatico”, si presume normalmente in base all’id quod plerumque accidit, ossia all’evento che di regola si verifica.
Questa presunzione è superabile soltanto se l’amministrazione resistente dimostra circostanze particolari che escludano la sussistenza del pregiudizio (ad esempio, l’infondatezza manifesta della pretesa azionata o altri elementi che dimostrino l’assenza di danno concreto).
Tuttavia, la Cassazione precisa che il mutamento degli organi societari durante la procedura non incide sulla spettanza dell’indennizzo alla persona giuridica.

I limiti soggettivi dell’indennizzo per la durata irragionevole

L’ordinanza si sofferma anche su un altro aspetto rilevante: il diritto all’equa riparazione spetta esclusivamente al soggetto che ha partecipato al giudizio che si è protratto oltre il termine ragionevole.
Di conseguenza, gli amministratori o i soci, se non hanno assunto la veste di parte processuale, non possono richiedere in proprio l’indennizzo per la durata del procedimento.
Questo principio, già affermato in altre decisioni, garantisce una corretta delimitazione dei soggetti legittimati a pretendere il risarcimento.

procedure concorsuali

Durata procedure concorsuali: legittimo il limite di sei anni La Corte costituzionale conferma la legittimità del termine di sei anni per la durata delle procedure concorsuali previsto dalla legge n. 89/2001

Durata ragionevole delle procedure concorsuali è legittima

Con la sentenza n. 102/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità sollevate dalla Corte d’appello di Venezia in merito alla previsione normativa sul termine di ragionevole durata delle procedure concorsuali.

Il limite temporale previsto dalla legge è compatibile con la CEDU

La norma oggetto di scrutinio è l’articolo 2, comma 2-bis, della legge n. 89/2001, che stabilisce un limite di sei anni, estensibile a sette nei casi di particolare complessità, per il riconoscimento dell’equa riparazione.
Secondo la Consulta, tale previsione è coerente con lo standard di ragionevolezza richiesto dall’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), come costantemente interpretato dalla Corte EDU.

Il giudice conserva il potere di valutazione concreta

La Corte ha inoltre sottolineato che la predeterminazione del termine da parte del legislatore non comporta automatismi, poiché resta in capo al giudice il potere-dovere di valutare la fattispecie concreta nel procedimento per equa riparazione.
Tale interpretazione è conforme all’impianto della stessa legge n. 89/2001, che regola la tutela del diritto alla ragionevole durata del processo anche nelle procedure concorsuali.

Nessuna violazione del giusto processo

La sentenza della Corte costituzionale ribadisce che la previsione normativa di un termine ragionevole non viola il principio del “giusto processo”, in quanto si inserisce in un sistema equilibrato che consente comunque al giudice di tenere conto della complessità del singolo caso.

In sintesi, la durata delle procedure concorsuali fino a sei anni (estensibile a sette) è costituzionalmente legittima, purché il giudice continui a esercitare una valutazione individualizzata, nel rispetto dei diritti garantiti dalla CEDU.