giurista risponde

Malpractice medica e danno da perdita capacità lavorativa Nei casi di malpractice sanitaria come agire in caso di danno da perdita di capacità lavorativa?

Quesito con risposta a cura di Enesia Ciampa, Giovanna de Feo, Giacomo Migliarini

 

Il danno alla capacità lavorativa specifica è di natura patrimoniale (lucro cessante) e riguarda una specifica attività in atto, mentre un danno alla capacità lavorativa generica non incide immediatamente sul reddito ed è una componente del danno biologico, non autonomamente liquidabile. – Cass. 20 gennaio 2023, n. 1752.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello con la quale i giudici di merito avevano condannato una struttura sanitaria al risarcimento dei danni da malpractice sanitaria nel corso di un parto, stabilendo un risarcimento per danno parentale a favore dei genitori e un risarcimento per danno patrimoniale per perdita da chance nei confronti del minore, tenendo conto della compromissione della capacità lavorativa.

Avverso la suddetta pronuncia è stato proposto ricorso per Cassazione, articolato in tre motivi di censura.

Con il primo motivo si eccepisce l’incompletezza della motivazione esposta in primo e secondo grado in merito al risarcimento del danno parentale. In particolare, la ricorrente sostiene che il danno riflesso dei parenti di una parte lesa deve essere qualificato come danno conseguenza, per cui deve essere allegato e provato. Inoltre, tale danno può essere riconosciuto soltanto nel caso in cui il congiunto danneggiato sia deceduto o abbia riportato lesioni di particolare gravità. Nel caso di specie, in base alla CTU, le lesioni riportate dal figlio minore erano di modesta entità.

Vi sarebbe stata, così, una palese violazione dell’orientamento costante nella giurisprudenza di legittimità in base al quale il risarcimento del danno da lesione del rapporto parentale richiede necessariamente la sussistenza di lesioni di particolare gravità e l’accertamento del danno provocato.

Con il secondo motivo di censura, la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1223 e 1226 c.c., essendo stato riconosciuto al minore un danno patrimoniale per lesione della capacità lavorativa specifica, qualificandolo però come danno patrimoniale da perdita di chance.

La ricorrente osserva che il danno alla capacità lavorativa specifica è di natura patrimoniale (lucro cessante) ed attiene ad una specifica attività, mentre il danno alla capacità lavorativa generica non incide immediatamente sul reddito ed è una componente del danno biologico, non liquidabile autonomamente.

Nel caso di specie il consulente tecnico d’ufficio ha riferito di alcune limitazioni di attività che sarebbero soltanto teoriche, per cui rientrerebbero nel danno non patrimoniale biologico qualificandole come limitazioni della capacità lavorativa generica. Pertanto, vi sarebbe stata una violazione di legge avendo la Corte di Appello concesso il risarcimento del danno “per una compromissione dell’attività lavorativa” non accertata però dal consulente tecnico.

Infine, con il terzo motivo di ricorso, si eccepisce nullità della sentenza per violazione degli artt. 100 e 112 c.p.c. per mancanza della domanda di risarcimento della perdita di chance, avendo i giudici di appello riqualificato il danno come perdita di chance.

Del resto, la chance è un’entità patrimoniale la cui domanda di risarcimento va espressamente proposta, non essendo sufficiente chiedere nell’atto introduttivo il risarcimento di tutti i danni.

Pertanto, alla luce di tali osservazioni, la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il primo motivo, mentre i residui due motivi vanno accolti nei limiti evidenziati con conseguente cassazione in relazione della sentenza impugnata e rinvio alla Corte di Appello in diversa composizione.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. III, 30 agosto 2022, n. 25541; Cass., sez. III, ord. 8 aprile 2020, n. 7748; Cass., sez. III, ord. 24 aprile 2019, n. 11212
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Responsabilità medica per omessa informazione terapie alternative Come accertare la responsabilità del medico a seguito di un intervento lesivo in caso di omessa informazione al paziente su tecniche terapeutiche alternative?

Quesito con risposta a cura di Enesia Ciampa, Giovanna de Feo, Giacomo Migliarini

 

In caso di omessa informazione da parte del medico al paziente sulle alternative terapeutiche, per condannare la struttura sanitaria al risarcimento del danno, è necessario accertare l’esistenza di un nesso causale intercorrente tra la suddetta condotta omissiva e il danno riportato dal paziente. In particolare, per affermare che l’omessa informazione fu causa materiale dell’evento dannoso occorre ricostruire il nesso di condizionamento fra l’omessa informazione e l’evento di danno attraverso un giudizio controfattuale. – Cass. 23 gennaio 2023, n. 1936.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sull’accertamento del nesso di causalità nell’ambito della responsabilità sanitaria, in particolare nel caso di omessa informazione da parte del medico nei confronti del paziente su delle tecniche terapeutiche alternative.

In primo e secondo grado la struttura sanitaria era stata condannata al risarcimento dei danni subiti da un paziente a seguito di un intervento chirurgico. I giudici di merito avevano ravvisato la responsabilità del medico sostenendo che, pur essendo stato l’intervento eseguito in maniera corretta e diligente, egli non aveva provveduto ad informare il paziente circa la possibilità di ricorrere ad una diversa e più moderna tecnica terapeutica, la quale avrebbe certamente evitato l’insorgere delle complicanze che si sono poi verificate.

La struttura sanitaria propone, così, ricorso per Cassazione eccependo l’erronea valutazione da parte dei giudici di merito del nesso di causalità intercorrente tra la condotta del medico e i danni subiti dal paziente.

La Suprema Corte ritiene la censura fondata, individuando nella sentenza impugnata una violazione dei principi delineati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di causalità materiale.

I giudici di merito hanno individuato quale unico profilo di colpa nella condotta del medico l’omessa informazione al paziente sull’esistenza di tecniche terapeutiche alternative. Pertanto, per pervenire ad una condanna della struttura sanitaria al risarcimento del danno, sarebbe stato necessario accertare il nesso causale tra tale omissione e la verificazione del danno patito dal paziente.

Tale giudizio non è stato effettuato dalla Corte d’Appello la quale si è limitata ad affermare che la tecnica terapeutica alternativa di cui il paziente non è stato informato avrebbe evitato l’evento, e di conseguenza, la condotta omissiva del medico è stata causa dei danni riportati dal paziente.

Bisognava, invece, accertare, attraverso un giudizio controfattuale, l’esistenza del nesso di causalità tra l’omessa informazione e l’evento di danno. Occorreva verificare, altresì, con giudizio di probabilità logica, quale scelta avrebbe fatto il paziente qualora fosse stato informato della possibilità di ricorrere ad una tecnica terapeutica alternativa rispetto a quella utilizzata.

Dunque, non avendo i giudici di merito proceduto a tale accertamento, limitandosi ad affermare che la tecnica alternativa avrebbe evitato l’evento, e che, pertanto, la condotta omissiva del medico fu causa del danno, la Corte di Cassazione ha ritenuto opportuno cassare la sentenza rinviando alla Corte d’appello per l’accertamento dell’eventuale sussistenza del nesso causale tra la violazione della regola cautelare e l’evento dannoso.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Corte cost. 23 dicembre 2008, n. 438; Cass., sez. III, 11 novembre 2019, n. 28985
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Migliorie del coerede e rimborso spese Il coerede che apporta delle migliorie al bene comune ha diritto al rimborso delle spese sostenute?

Quesito con risposta a cura di Enesia Ciampa, Giovanna de Feo, Giacomo Migliarini

 

Il coerede, il quale abbia apportato miglioramenti al bene ereditario da lui posseduto, non può invocare la disciplina dell’art. 1150 c.c. – la quale attribuisce al terzo possessore di buona fede una indennità pari all’aumento di valore della cosa per effetto dei miglioramenti – ma, quale mandatario o utile gestore degli altri compartecipi alla comunione ereditaria, ha unicamente il diritto di essere rimborsato delle spese fatte per la cosa comune, dal momento che lo stato di indivisione riconduce all’intera massa i miglioramenti apportati dal coerede; ne consegue che al momento dell’attribuzione delle quote l’apporto si ripartisce, insieme con le spese, tra i vari condividenti, secondo il principio nominalistico. – Cass., sez. VI, 17 gennaio 2023, n. 1207.

Il coerede, che sul bene comune da lui posseduto abbia apportato delle migliorie, può pretendere il rimborso delle spese sostenute, ex art. 1110 c.c., in sede di divisione. Non può, invece, secondo consolidato orientamento della Cassazione, chiedere un’indennità pari all’aumento del valore della cosa, in base all’art. 1150 c.c.

In applicazione di questo principio, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso proposto dal comunista che aveva apportato migliorie all’immobile in cui abitava, riconoscendogli il diritto, in sede di divisione, ad ottenere il rimborso dagli altri coeredi per le spese sostenute.

La comunione ereditaria è la situazione di contitolarità sui beni indivisi del de cuius che si perfeziona al momento dell’accettazione del patrimonio ereditario. Con la divisione, che può essere consensuale, testamentaria o giudiziale, i beni indivisi vengono ripartiti ed attribuiti a ciascun erede.

Prima di tale momento, tutti i comunisti hanno il diritto di concorrere nell’amministrazione della cosa in comune che deve essere gestita collettivamente. In ragione di ciò, se il coerede apporta dei miglioramenti al bene da lui posseduto non potrà invocare la disciplina di cui all’art. 1150 c.c. che riconosce al terzo possessore in buona fede una indennità pari all’aumento del valore della cosa per effetto del proprio intervento. Egli avrà, però, diritto, in qualità di mandatario degli altri compartecipi o utile gestore della comunione ereditaria, al rimborso delle spese sostenute (così anche Cass., sez. II, 17 luglio 2020, n. 15300).

Solo per i debiti di valore, al momento della liquidazione, viene riconosciuta la rivalutazione monetaria della somma da corrispondere al creditore. Pertanto, essendo l’obbligo di rimborso classificabile quale debito di valuta, in sede di determinazione del quantum da attribuire al comunista creditore, la somma non sarà sottoposta a maggiorazione in base alla rivalutazione del valore del bene (in tal senso anche Cass., sez. II, 21 dicembre 2019, n. 5135).

Tale diritto sorge anche nel caso di utilizzo esclusivo dell’immobile prima della divisione, dato che i miglioramenti apportati, per il principio di accessione, accrescono il valore del bene in comunione e se ne deve tenere conto ai fini della stima dello stesso, per la determinazione delle quote e la liquidazione dei conguagli. Rientrano nella nozione di “migliorie” quelle opere che abbiano accresciuto il godimento, la produttività e la redditività del bene, senza presentare una propria individualità rispetto alla “res” in cui vanno ad incorporarsi.

Quindi, il partecipante che, “in caso di trascuranza degli altri”, ex art. 1110 c.c., abbia sostenuto le spese necessarie per la conservazione della cosa comune, potrà rivolgersi a ciascuno degli altri coeredi per ottenere il rimborso in proporzione alle rispettive quote, fatta salva la quota di spesa di sua personale spettanza, che resterà a suo carico (sul punto si veda Cass., sez. II, 11 settembre 2013, n. 20841).

Concludendo, la Cassazione riconosce tale diritto al comunista, confermando il precedente indirizzo che configura come debito di valuta la somma spettante a colui che abbia apportato miglioramenti alla massa ereditaria e, cassando l’ordinanza impugnata, rinvia alla Corte di Appello, in diversa composizione, per una decisione che tenga conto del principio di diritto affermato in sede di legittimità

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. II, 17 luglio 2020, n. 15300; Cass., sez. II, 21 dicembre 2019, n. 5135; Cass., sez. II, 11 settembre 2013, n. 20841
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Iscrizione ipotecaria beni coniuge obbligato mantenimento Il giudice ha il potere di sindacare nel merito l’iscrizione ipotecaria sui beni immobili del coniuge obbligato al mantenimento, al fine di verificare la sussistenza del pericolo di inadempimento?

Quesito con risposta a cura di Enesia Ciampa, Giovanna de Feo, Giacomo Migliarini

 

In tema di iscrizione ipotecaria, il giudice avanti al quale è proposta una istanza di cancellazione dell’ipoteca, disposta ai sensi dell’art. 156, comma 5, c.c., è tenuto a verificare la sussistenza o meno del pericolo di inadempimento dell’obbligato e a disporre, in mancanza, l’emanazione del corrispondente ordine di cancellazione, ai sensi dell’art. 2884 c.c. – Cass., Sez. I, 16 gennaio 2023, n. 1076.

L’ipoteca è un diritto reale di garanzia che riconosce al creditore il potere di espropriazione e di soddisfazione, con preferenza, rispetto agli altri creditori (art. 2808 c.c.). Viene definita giudiziale l’ipoteca che abbia il proprio titolo in una sentenza di condanna (art. 2818 c.c.).

Con specifico riguardo ai procedimenti di separazione e divorzio, rispettivamente l’art. 156, comma 5, c.c. e l’art. 8, comma 2, della L. 898/1970 recano l’iscrizione ipotecaria giudiziale sui beni del soggetto obbligato.

La pronuncia in esame scaturisce dal contrasto, sorto in giurisprudenza, tra l’orientamento, seguito da numerose Corti di merito, che predilige un’interpretazione letterale delle norme sopra indicate e l’orientamento, prevalso in sede di legittimità, che ritiene opportuno leggere sistematicamente le disposizioni in commento.

In particolare, la Corte di Appello, nel caso di specie, aderisce all’indirizzo minoritario, sostenendo che tali norme non richiedano espressamente una valutazione preventiva circa la pericolosità attuale o potenziale dell’inadempimento. Alla stregua di tale indirizzo, l’ex coniuge creditore può iscrivere ipoteca giudiziale sui beni del soggetto obbligato al mantenimento dei figli minori, in forza, sic et sempliciter, della sentenza che ne costituisce il titolo, senza che sia necessariamente sussistente il periculum di inadempimento.

Ciò in perfetta coerenza con l’art. 2818 c.c. secondo cui ogni sentenza che porta la condanna al pagamento di una somma o all’adempimento di altra obbligazione, ovvero al risarcimento dei danni da liquidarsi successivamente, è titolo per iscrivere ipoteca.

L’unico rimedio a disposizione del debitore potrebbe essere quello di chiedere al giudice una riduzione dell’ipoteca nel caso di iscrizione per un valore eccedente rispetto all’ammontare complessivo del mantenimento da garantire.

Il secondo orientamento, cui aderisce la Corte di Cassazione, dando spazio ad un’interpretazione sistematica delle norme in commento, ritiene che il giudice, avanti al quale è stata proposta istanza di cancellazione dell’ipoteca, sia tenuto a verificare la sussistenza del pericolo di inadempimento dell’obbligato e a disporre, in mancanza, l’emanazione dell’ordine di cancellazione.

Sia l’art. 156 c.c. che l’art. 8 della legge sul divorzio, elencano, infatti, una serie di rimedi parametrati all’entità dell’inadempimento: il sequestro scaturisce dalla inadempienza effettiva, l’iscrizione ipotecaria, invece, può essere imposta dal giudice nel caso in cui esista il pericolo che il coniuge possa sottrarsi all’adempimento degli obblighi di mantenimento.

L’opposto orientamento esporrebbe il debitore ad abusi da parte del creditore che, al fine di assicurare l’adempimento al credito, potrebbe decidere di effettuare l’iscrizione ipotecaria in via preventiva sui beni dell’ex coniuge.

Lobbligazioni derivanti dai provvedimenti di famiglia sono solitamente periodiche e destinate a durare per un numero elevato di anni, per cui un’iscrizione ad ipoteca che non abbia l’effettiva funzione di garantire il credito, per mancanza del pericolo, potrebbe piuttosto diventare solo un vincolo perpetuo ed eccessivo per i beni del debitore.

Se l’intento del legislatore, nella previsione di molteplici rimedi all’inadempimento, è quello di tutelare il beneficiario dell’assegno, che ha diritto alla corresponsione delle somme determinate dalla sentenza, dall’altro non può non tutelarsi anche la posizione del debitore, il cui patrimonio potrebbe soggiacere, qualora si aderisse all’orientamento dei giudici di merito, ad un’iscrizione ipotecaria perpetua, senza alcun fondamento pratico.

Per tale motivo la valutazione del creditore circa la sussistenza di siffatto pericolo è sindacabile nel merito, onde la relativa mancanza, originaria o sopravvenuta, determina l’estinzione della garanzia e la nascita del diritto del debitore ad ottenere dal giudice l’ordine di cancellazione.

Alla luce delle considerazioni esposte, il Supremo Consesso ha accolto il ricorso e cassato la sentenza impugnata che, aderendo all’orientamento minoritario, aveva disposto l’iscrizione ipotecaria senza alcun apprezzamento circa il rischio che il ricorrente potesse sottrarsi o meno all’adempimento stesso.

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Trib. Milano 18 giugno 2009, n. 7941; Cass., sez. I, 6 luglio 2004, n. 12309
Difformi:      Corte App. Firenze, sez. II, 25 febbraio 2017; Corte App. Milano, 18 maggio 2020, n. 1154
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Decreto ingiuntivo supercondominio L’amministratore di un supercondominio può ottenere un decreto ingiuntivo per la riscossione degli oneri condominiali, unicamente nei confronti di ciascun partecipante, oppure può agire direttamente nei confronti dell’amministratore del singolo condominio?

Quesito con risposta a cura di Enesia Ciampa, Giovanna de Feo, Giacomo Migliarini

 

In presenza di un supercondominio ciascun condomino è obbligato a contribuire alle spese per la conservazione e per il godimento delle parti comuni e per la prestazione dei servizi comuni a più condomini di unità immobiliari o di edifici, in misura proporzionale al valore millesimale della proprietà del singolo partecipante, sicché l’amministratore del supercondominio può ottenere un decreto ingiuntivo per la riscossione degli oneri condominiali, ai sensi dell’art. 63, comma 1, disp. att. c.c., unicamente nei confronti di ciascun partecipante, mentre è esclusa un’azione diretta nei confronti dell’amministratore del singolo condominio in rappresentanza dei rispettivi condomini per il complessivo importo spettante a quest’ultimi. – Cass., sez. II, 16 gennaio 2023, n. 1141.

Nel caso di specie la Suprema Corte è chiamata a valutare se l’amministratore di un supercondominio possa ottenere il decreto ingiuntivo nei confronti dell’amministratore di un singolo condominio in rappresentanza dei rispettivi condomini e per l’importo globale delle somme oppure abbia l’obbligo di agire unicamente verso ogni singolo condomino.

Segnatamente, la vicenda processuale trae origine dall’opposizione a decreto ingiuntivo promossa dall’amministratore di un condominio – rientrante, a sua volta, in un supercondominio – il quale contestava la legittimità dell’ingiunzione di pagamento delle spese condominiali intimatagli dall’amministratore del supercondominio in virtù della mancanza, in capo a sé, della qualifica di condomino. Il Tribunale, chiamato a pronunciarsi sul caso, confermava il decreto ingiuntivo opposto, rilevando che l’opponente era effettivamente un condomino e che, in quanto tale, avrebbe dovuto far valere le proprie ragioni attraverso una tempestiva impugnazione della delibera assembleare posta alla base del decreto ingiuntivo. Sulla stessa linea, anche la Corte di Appello, pur dichiarando inammissibile il ricorso ai sensi dell’art. 348bis c.p.c., accertava la presenza del condominio nel supercondominio.

L’amministratore di condominio, dunque, interponeva ricorso per Cassazione avverso la pronuncia di primo grado, affidato a due motivi inerenti all’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e alla violazione e falsa applicazione di tredici norme di diritto, senza però, come afferma la Suprema Corte, dimostrare come le affermazioni contenute in sentenza fossero con queste contrastanti.

Nel dettaglio, con i due motivi di ricorso, analizzate le regole sul funzionamento del supercondominio, il ricorrente ribadiva che il condominio non fosse parte integrante il supercondominio: non esiste un rapporto di natura reale fra condominio e supercondominio in grado di escludere l’emissione di un decreto ingiuntivo ex art. 63 disp. att. c.c. in favore di quest’ultimo, stante la carenza della qualità di “condomino” in capo al ricorrente.

La Suprema Corte, in accoglimento del ricorso, si sofferma su alcuni interessanti profili giuridici riguardanti la soluzione della quaestio iuris e il rapporto tra condominio e supercondominio.

Anzitutto, benché il ricorrente non abbia specificamente argomentato in relazione ad alcun contrasto fra le norme richiamate e le affermazioni contenute nella sentenza gravata, la Corte ha ritenuto di dover comunque analizzare la fondatezza dei motivi di ricorso nell’esercizio del proprio potere di qualificazione in diritto della domanda definita e dei fatti già accertati nelle fasi di merito, individuando la questione giuridica nella verifica della sussistenza di una, legittimazione del supercondominio ad intimare all’amministratore di un condominio, a mezzo didecreto ingiuntivo, il versamento dei contributi non pagati dai singoli condomini.

Prima di entrare nel merito della questione giuridica, il Collegio ritiene doveroso svolgere due premesse: la prima riguardante la corretta individuazione della causa petendi in riferimento al contenuto della pronuncia impugnata; la seconda inerente all’impossibilità di estendere degli effetti del giudicato nei confronti dei singoli condomini ove non siano stati citati in giudizio.

Con riferimento alla prima considerazione, i giudici di legittimità rilevano che il Tribunale ha circoscritto l’oggetto del giudizio alla legittimazione passiva del condominio rispetto all’ingiunzione di pagamento ai sensi dell’art. 63 disp. att. c.c. richiesta dal supercondominio, sottolineando che la deliberazione assembleare alla base del decreto ingiuntivo non era stata impugnata ex art. 1137 c.c. dal ricorrente. Quanto precede produce un’inevitabile conseguenza anche in ordine alla seconda premessa: infatti, nel giudizio di opposizione volto alla riscossione dei contributi condominiali attivato unicamente contro l’amministratore, le questioni inerenti all’appartenenza o meno di una o più unità immobiliari di proprietà esclusiva ad un condominio, nonché la titolarità comune o individuale di una porzione dell’edificio costituiscono accertamenti meramente incidentali privi di efficacia di giudicato nei confronti dei diritti reali dei singoli condomini, i quali, per subirne gli effetti, dovrebbero essere legittimati passivi e litisconsorti necessari nel medesimo giudizio. Ne deriva che la statuizione del Tribunale relativa all’appartenenza di parti del condominio al supercondominio non può essere spesa in altre liti fra le stesse parti.

Compiute queste doverose premesse, la Suprema Corte richiama un proprio consolidato orientamento giurisprudenziale, formatosi per quelle fattispecie – come quella de quo – per cui non sono applicabili gli artt. 1117bis c.c. e 67 disp. att. c.c. commi 3 e 4, introdotti dalla L. 220/2012, in base al quale il c.d. supercondominio viene in essere “ipso iure et facto, ove il titolo non disponga altrimenti, in presenza di beni o servizi comuni a più condomìni autonomi, da cui rimane distinto. Da ciò deriva che il potere degli amministratori di ogni condominio di compiere gli atti indicati dagli artt. 1130 e 1131 c.c. è limitato alla facoltà di agire o resistere in giudizio con riferimento ai soli beni comuni all’edificio amministrato e non a quelli facenti parte del complesso immobiliare composto da più condomìni, che deve essere gestito unicamente attraverso le deliberazioni e gli atti assunti dai propri organi, quali l’assemblea di tutti i proprietari e l’amministratore del supercondominio, ove sia stato nominato (da ultimo Cass., sez. II, 20 dicembre 2021, n. 40857 e Cass., sez. II, 28 gennaio 2019, n. 2279).

La Corte sottolinea anche come recente giurisprudenza (Cass., sez. II, ord. 22 luglio 2022, n. 22954), si sia già pronunciata in merito ad analoga fattispecie ed abbia affermato come legittimati passivi al pagamento delle quote relative ai beni avvinti da vincolo supercondominiale siano non tanto i condomìni, quanto i singoli condòmini.

Ed è proprio sulla scorta di questa pronuncia che il Collegio si esprime.

Nello specifico, dopo aver richiamato il contenuto degli artt. 1118, 1123 c.c. e 67, comma 3 e 68 disp. att. c.c., afferma come, in presenza di un supercondominio trovano applicazione le disposizioni di cui al Libro Terzo, Titolo VII, Capo II, del codice civile, secondo le quali ciascun condomino ha l’obbligo di contribuire alle spese per la conservazione e il godimento delle parti comuni e per la prestazione dei servizi comuni a più condominii di unità immobiliari o di edifici in misura proporzionale al valore millesimale della proprietà del singolo partecipante. Nell’ipotesi in cui tale obbligo contributivo non venga adempiuto, l’amministratore del supercondominio può ottenere l’emissione di un decreto ingiuntivo volto alla riscossione dei suddetti contributi unicamente nei confronti di ciascun condomino per quanto da questo singolarmente dovuto, mentre, conclude la Corte, è esclusa ogni azione diretta verso l’amministratore del condominio in rappresentanza dei rispettivi condomini per l’importo globale delle somme da loro individualmente dovute.

Di qui l’accoglimento del ricorso e la cassazione della sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello, la quale dovrà attenersi al principio evidenziato in massima.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. II, 22 luglio 2022, n. 22954
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Revisione assegno divorzio e criteri di valutazione La richiesta di revisione dell’assegno di divorzio deve essere valutata sulla base di criteri giurisprudenziali vigenti all’epoca del divorzio o alla stregua del “diritto vivente” al momento della decisione sulla domanda di revisione?

Quesito con risposta a cura di Enesia Ciampa, Giovanna de Feo, Giacomo Migliarini

 

In tema di revisione dell’assegno divorzile, ai sensi dell’art. 9, L. 898/1970, una volta accertata, in fatto, la sopravvenienza di circostanze potenzialmente idonee, con riferimento alla fattispecie concreta, ad alterare l’assetto economico stabilito tra gli ex coniugi al momento della pronuncia sulle condizioni del divorzio, quale presupposto necessario per l’instaurazione del giudizio di revisione dell’assegno, il giudice deve procedere alla valutazione, in diritto, dei “giustificati motivi” che ne consentono la revisione sulla base del “diritto vivente”, tenendo conto della interpretazione giurisprudenziale delle norme applicabili corrente al momento della decisione. – Cass., sez. I, 19 gennaio 2023, n. 1645.

Nel caso di specie la Suprema Corte è chiamata a valutare se, una volta appurata la sopravvenienza di circostanze potenzialmente idonee a modificare la situazione di fatto e quindi ad alterare l’equilibrio economico esistente fra gli ex coniugi come accertato al momento della pronuncia di divorzio, la valutazione della domanda di revisione debba essere condotta sulla base dei criteri giurisprudenziali vigenti all’epoca del divorzio o alla stregua del “diritto vivente” al momento della decisione sulla domanda di revisione.

La vicenda processuale prende le mosse dal rigetto, in primo e in secondo grado, dell’istanza di modifica delle condizioni di divorzio presentata da uno degli ex coniugi ai sensi dell’art. 9, L. 898/1970. In particolare, secondo i giudici di merito, la revisione dell’assegno divorzile è possibile solo a fronte di un sopravvenuto mutamento delle condizioni economico-patrimoniali dell’uno e/o dell’altro coniuge; cambiamento, questo, che Secondo la Corte territoriale, non è avvenuto nel caso di specie.

Non solo. Anche il richiamo operato dal ricorrente ai principi sanciti in materia di assegno divorzile dalla recente giurisprudenza a Sezioni Unite (Cass. S.U. 18287/2018) sarebbe inconsistente, atteso che la presenza di un nuovo orientamento giurisprudenziale non può soddisfare il presupposto della sopravvenienza di “giustificati motivi” richiesto dall’art. 9, L. 898/1970.

Avverso la pronuncia del gravame, viene proposto ricorso per Cassazione, contestando, fra gli altri motivi, la violazione e falsa applicazione dell’art. 5, L. 898/1970, in ragione del mutamento interpretativo dei criteri a presidio del riconoscimento dell’assegno divorzile.

In particolare, il ricorrente, per il tramite del proprio difensore, ha rilevato che, posto che l’ermeneutica riconduce il requisito dei “giustificati motivi” richiesto dall’art. 9 ai soli “fatti” nuovi sopravvenuti, materialmente intesi, una volta accertati i richiamati mutamenti fattuali, la valutazione sulla persistenza dell’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge e della sua entità non può prescindere anche da un’analisi del diritto alla luce dei criteri espressi dal più recente orientamento delle Sezioni Unite, che ne mutano la base di concessione e permanenza.

In buona sostanza, sebbene la pronuncia della Corte Territoriale si fondasse su un precedente del Supremo Collegio, secondo cui il sopravvenuto mutamento delle condizioni patrimoniali attiene esclusivamente agli elementi di fatto – con la conseguenza che qualsiasi diversa interpretazione delle norme applicabili avallata dal diritto vivente giurisprudenziale sarebbe opzione esegetica non percorribile perché ricognitiva dell’esistenza e del contenuto di una “regola iuris”, e non creativa della stessa (Cass. S.U. 20 gennaio 2020, n. 1119) – non può ignorarsi che la funzione assistenziale e perequativa attribuita all’assegno divorzile incide inevitabilmente sulla considerazione e valutazione dei “fatti nuovi sopravvenuti”.

Esaminati i motivi in diritto e i propri precedenti giurisprudenziali, la Corte di Cassazione accoglie il ricorso considerando il motivo fondato e assorbente, in quanto la pronuncia della Corte di Cassazione alla base della sentenza impugnata non è pertinente al caso di specie, essendo la situazione di fatto differente rispetto vista la sopravvenienza di nuove circostanze di fatto, idonee ad alterare l’equilibrio economico precedentemente esistente tra gli ex coniugi.

Detto altrimenti, a fronte della sopravvenienza di nuove circostanze fattuali in grado di alterare l’equilibrio economico-patrimoniale degli ex coniugi, la valutazione della domanda di revisione deve essere condotta alla stregua del “diritto vivente” al momento della decisione sulla domanda di revisione medesima: infatti, una volta che il giudice abbia concretamente accertato in fatto il sopravvenuto mutamento delle condizioni patrimoniali delle parti, è possibile procedere al giudizio di revisione dell’assegno divorzile da rendersi proprio alla luce dei rinnovati principi giurisprudenziali e alla stregua della funzione assistenziale e perequativa attribuita ermeneuticamente a detto assegno.

La Corte, dunque, da un lato, ribadisce la natura sia assistenziale che perequativo-conservativa dell’assegno divorzile – intesa come funzione equilibratrice tra il riconoscimento del ruolo e del contributo effettivamente fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio familiare –, e la sopravvenuta inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, accompagnata dall’impossibilità oggettiva di procurarseli ex se, e, dall’altro lato, ricorda che gli orientamenti del giudice delle leggi hanno carattere retroattivo, in forza della natura dichiarativa dei propri enunciati.

Dalle considerazioni che precedono deriva che, in relazione al caso di specie, i fatti alla base della nozione di “giustificati motivi”, di cui all’art. 9, comma 1, L. 898/1970, rilevano non in senso naturalistico, ma in virtù dell’evidenza giuridica delle norme implicate, secondo la lettura fornita dal diritto vivente nel momento in cui la decisione viene assunta. In altri termini, uno stesso fatto può rilevare diversamente in virtù del mutamento dell’orientamento nomofilattico della giurisprudenza di legittimità, con la conseguenza che una volta dato legittimamente ingresso alla valutazione dei fatti sopravvenuti, il giudice di merito dovrà uniformarsi alla diversa lettura interpretativa maturata nel tempo.

Di qui l’accoglimento del ricorso e la cassazione della sentenza impugnata con rinvio alla Corte Territoriale.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. I, 20 gennaio 2020, n. 1119
giurista risponde

Formazione all’estero e validità in Italia I titoli di formazione professionale relativi a cicli di studi post-secondari conseguiti all’estero ai fini dell’esercizio della professione di docente sono validi in Italia?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. Plen., 29 dicembre 2022, n. 22.

La vicenda esaminata attiene al riconoscimento della validità del titolo di formazione professionale (denominato “Programului de studi psichopedagogice, Nivel I e Nivel II”) presso un’Università rumena, ai fini dell’esercizio della professione di docente conseguito in Romania.

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha confermato la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, a far data dalla nota sentenza “Morgenbesser” del 13 novembre 2003, in causa C-313/2001, ristabilendo il rispetto dei principi della Direttiva Europea n. 36/2005 in materia di mobilità delle professioni e conseguentemente il diritto alla libertà di circolazione e di stabilimento, previsti dagli artt. 45 e 49 del Trattato fondativo dell’Unione Europea.

Nel caso di specie rileva l’art. 13, comma 1, del D.Lgs. 206/2007, attuativo della Direttiva 2005/36/CE, per il quale: “Se, in uno Stato Membro ospitante, l’accesso ad una professione regolamentata o il suo esercizio sono subordinati al possesso di determinate qualifiche professionali, l’autorità competente di tale Stato Membro dà accesso alla professione e ne consente l’esercizio alle stesse condizioni dei suoi cittadini, ai richiedenti in possesso dell’attestato di competenza o del titolo di formazione di cui all’art. 11, prescritto da un altro Stato Membro per accedere alla stessa professione ed esercitarla sul suo territorio”.

Tale disposizione indica, dunque, il procedimento da seguire e dispone il riconoscimento con il solo possesso dell’attestato di competenza o del titolo di formazione, per accedere alla stessa professione, previsto da un altro Stato Membro.

Si afferma, quindi, che il Ministero italiano deve valutare la corrispondenza del corso di studi effettuato, e dell’eventuale tirocinio, con quello italiano, e all’esito dell’istruttoria può disporre
o il riconoscimento alle condizioni di cui all’art. 21 del D.Lgs. 206/2007 ovvero misure compensative di cui al successivo art. 22 del D.Lgs. 206/2007 cit.

In proposito, è importante evidenziare che la Commissione europea ha enunciato la non necessaria identità tra i titoli confrontati, essendo sufficiente una mera equivalenza per far scaturire il dovere di riconoscere il titolo conseguito all’estero.

Come affermato dai Giudici, il certificato va considerato secondo il sistema generale di riconoscimento, confrontando le qualifiche professionali attestate da altri Stati membri con quelle richieste dalla normativa italiana e disponendo, se del caso, misure compensative in applicazione dell’art. 14 della Direttiva 2005/36/CE.

Il Ministero dell’Istruzione riscontrata la possibile equivalenza deve, dunque, esaminare le istanze di riconoscimento del titolo formativo tenendo conto dell’intero compendio di competenze, conoscenze e capacità acquisite.

Sulla base di tali premesse, la VII Sezione del Consiglio di Stato ha rimesso la soluzione della questione all’Adunanza Plenaria, che in definitiva enuncia il seguente principio di diritto: “Spetta al Ministero competente verificare se, e in quale misura, si debba ritenere che le conoscenze attestate dal diploma rilasciato da altro Stato o la qualifica attestata da questo, nonché l’esperienza ottenuta nello Stato membro in cui il candidato chiede di essere iscritto, soddisfino, anche parzialmente, le condizioni per accedere all’insegnamento in Italia, salva l’adozione di opportune e proporzionate misure compensative ai sensi dell’art. 14 della Direttiva 2005/36/CE.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. VII, 14 luglio 2022, n. 5983; Id., 16 marzo 2022, n. 1850;
Cons. Stato, sez. VI, 3 novembre 2021, n. 7343; Id., 17 febbraio 2020, n. 1198
giurista risponde

Richieste assistenza giudiziaria internazionale È sindacabile l’atto con cui il Ministero della Giustizia provvede sulle richieste di assistenza giudiziaria internazionale (art. 723 c.p.p.)?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. Plen., 6 dicembre 2022, n. 15.

Il Consiglio di Stato enuncia che è sindacabile l’atto con cui il Ministero della Giustizia provvede sulle richieste di assistenza giudiziaria internazionale.

Si tratta, infatti, di un provvedimento amministrativo discrezionale che sotto il profilo del difetto di motivazione può essere sottoposto al vaglio del giudice amministrativo.

Con riguardo alla vicenda in esame, il collegio si è direttamente pronunciato nel merito degli appelli, accogliendoli, in specie annullando gli atti del Ministero per carenza di motivazione, con particolare riferimento alla possibile violazione del principio del ne bis in idem.

Nel caso di specie, la questione è partita da sei richieste dell’India di notificazione delle citazioni a giudizio ai vertici di una società per rispondere dei reati di corruzione e riciclaggio in pubbliche forniture al Governo straniero. I vertici della società, per i medesimi fatti, erano stati già processati in Italia e assolti in via definitiva. Il Consiglio di Stato ha annullato gli atti del Ministero di accoglimento delle richieste del Governo indiano, affermando che il Ministero non aveva motivato in ordine alle ragioni per cui non aveva esercitato il proprio potere di “blocco”.

L’Adunanza Plenaria evidenziava che, il Ministero esercita un potere discrezionale, in forza del quale è tenuto a valutare tutti i profili presi in considerazione dall’art. 723 c.p.p.”. Pertanto, la motivazione deve essere contenuta nell’atto di accoglimento della richiesta formulata dallo Stato estero o va desunta per relationem da un precedente atto infra-procedimentale.

Nel caso specifico, invece, non si è preso in considerazione il precedente “giudicato assolutorio” con il rischio concreto che “le medesime persone, già assolte, verrebbero nuovamente sottoposte ad un giudizio per i medesimi fatti, davanti all’autorità giudiziaria penale estera”, così ponendo in discussione la sovranità statale.

Nella medesima direzione va anche la possibile violazione della necessità della “doppia incriminazione”, con riguardo all’imputazione di riciclaggio formulata dall’autorità indiana, perché rivolta ai concorrenti nel reato di corruzione presupposta, in violazione dell’incompatibilità sancita invece da diritto penale interno (art. 648bis c.p.).

Tutte questioni sulle quali non si riscontra nei provvedimenti impugnati alcuna presa di posizione sul piano motivazionale.

Ciò premesso, per i Giudici va affermato che: “Il difetto di motivazione esplicita degli atti con cui è stato dato seguito alle richieste di assistenza giudiziaria internazionale è sindacabile, sotto il profilo del difetto di motivazione, poiché come nel caso di specie, si è in presenza di un provvedimento discrezionale, che va adeguatamente motivato”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 1° giugno 2022, n. 4487;
Cons. Stato, sez. VII, 16 marzo 2022, n. 1889;
Cons. Stato, sez. VI, 3 agosto 2021, n. 5727;
Cons. Stato, sez. IV, 21 febbraio 2020, n. 1341;
Cons. Stato, sez. V, 14 febbraio 2020, n. 1180
giurista risponde

Limite di età borse di studio Cassazionisti È legittima la scelta dell’Amministrazione di apporre un limite di età (fino al 45° anno di età) nel bando del CNF per l’erogazione delle borse di studio per l’acquisizione del titolo di cassazionista?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, lo precisa il Cons. Stato, sez. I, 21 dicembre 2022, n. 2057.

Il Consiglio di Stato ricorda che “tale limite d’età risponde alla ratio di “sostenere” e non “favorire” i giovani professionisti, vale a dire coloro che iniziano la professione” e che, pertanto, in considerazione della loro età anagrafica possono riscontrare maggiori difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro.

Ne discende la rispondenza ai criteri di proporzionalità e ragionevolezza di tale scelta che non sarebbe altrettanto ragionevole e proporzionata se dovesse utilizzare, per definire il giovane professionista, non l’età anagrafica ma l’età professionale, intesa – quest’ultima – quale lasso temporale dall’inizio della professione.

In proposito, l’art. 6 della direttiva 2000/78 prevede che le disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscano discriminazione là dove siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro e di formazione professionale con i relativi mezzi per il conseguimento necessario di tale finalità.

Ciò posto, occorre evidenziare che la fissazione del requisito risponde ad una logica che permea il Regolamento per l’erogazione dell’assistenza della Cassa di Previdenza e Assistenza, che mira a sostenere per i giovani professionisti l’avvio dell’attività.

In conclusione, la scelta operata dall’Amministrazione rientra nel margine di valutazione discrezionale di cui dispongono gli Stati membri nella scelta degli obiettivi di politica sociale da perseguire.

giurista risponde

Impugnazione delibera ANAC È impugnabile la delibera non vincolante dell’ANAC?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Le delibere ANAC possono essere impugnate qualora il provvedimento possa risultare lesivo, incidendo in concreto sulla sfera giuridica dei destinatari e arrecando, quindi, un vulnus diretto ed immediato. – Cons. Stato, sez. V, 22 dicembre 2022, n. 11200.

In senso generale, ai fini dell’impugnabilità di un provvedimento amministrativo, occorre valutare in concreto l’effetto che arreca nella sfera giuridica del destinatario e in che modo tale effetto possa arrecare pregiudizio alle posizioni giuridiche soggettive da quest’ultimo vantate.

I Giudici ricordano che, ai sensi dell’art. 213 del D.Lgs. 50/2016, l’ANAC: […] Garantisce la promozione dell’efficienza, della qualità dell’attività delle stazioni appaltanti, cui fornisce supporto […] nell’ambito dei poteri ad essa attribuiti, l’Autorità: a) vigila sui contratti pubblici, anche di interesse regionale, di lavori, servizi e forniture nei settori ordinari e nei settori speciali e sui contratti secretati o che esigono particolari misure di sicurezza ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. f-bis), della L. 6 novembre 2012, n.190, nonché sui contratti esclusi dall’ambito di applicazione del codice; b) vigila affinché sia garantita l’economicità dell’esecuzione dei contratti pubblici e accerta che dalla stessa non derivi pregiudizio per il pubblico erario […]”.

L’attività di vigilanza si sostanzia in una funzione di controllo sulla condotta delle amministrazioni e degli operatori, dunque, sulla regolarità della procedura di gara, sulla fase di esecuzione della commessa e sulla stipula dei protocolli d’intesa con le stazioni appaltanti.

La vicenda all’attenzione del Consiglio di Stato attiene ad un provvedimento che rilevava disfunzioni e irregolarità nell’esecuzione dell’appalto e che conseguentemente invitava l’amministrazione e l’operatore a comunicare le misure da adottare.

Nel caso specifico, la Delibera resa ai sensi dell’art. 213 del D.Lgs. 50/2016, contiene un evidente obbligo conformativo. L’ANAC ha reso una valutazione globale che ha investito l’intera procedura di gara, non limitandosi alla valutazione delle varianti, invitando stazione appaltante e operatore economico a conformarsi nella successiva attività alle modalità operative indicate, e contestualmente chiedendo di essere informato sulle azioni intraprese per l’allineamento con i rilievi espressi, nella sostanza, rappresentando un vincolo alle scelte che la pubblica amministrazione avrebbe inteso operare.

Orbene, la delibera risulta certamente suscettibile di ricorso.

Secondo il Consiglio di Stato: “L’impugnabilità di una delibera non vincolante dell’ANAC non è da escludersi in senso assoluto, atteso che tale provvedimento potrebbe assumere connotazione lesiva tutte le volte in cui, riferendosi alla fattispecie concreta, di fatto incide sulla sfera giuridica dei destinatari, essendo idonea ad arrecare un vulnus diretto ed immediato. Ne consegue che, la sua lesività non va valutata in astratto o sulla base dell’inquadramento dogmatico del provvedimento, dovendosi rilevare gli effetti conformativi che lo stesso produce, nell’immediato, nei confronti dei soggetti a cui è indirizzata”.

Sulla scorta di tanto, se le indicazioni dell’Autorità, nell’ambito del potere di vigilanza e controllo, assumono il ruolo di canoni oggettivi a cui conformarsi, determinano un effetto immediatamente lesivo nella sfera giuridica del destinatario e, pertanto, sono impugnabili: in sostanza, quando le deliberazioni dell’ANAC contengono vincoli conformativi puntuali alla successiva attività dei soggetti vigilati, in capo ai quali non residuano facoltà di modulazione quanto al contenuto e all’estensione, rappresentano provvedimenti lesivi nei confronti dei quali va garantita la tutela del diritto di difesa del destinatario ai sensi dell’art. 24 della Costituzione.

Inoltre, il ricorso è stato accolto anche con riferimento al superamento del termine di conclusione della delibera, secondo i criteri temporali individuati dal Regolamento dell’ANAC, che ne ha di fatto determinato l’illegittimità.

Non può applicarsi ai procedimenti che conducono all’adozione di provvedimenti lesivi o sanzionatori la regola della natura ordinatoria dei termini procedimentali non espressamente qualificati come perentori. A prescindere da un’espressa qualificazione normativa dei relativi provvedimenti, nei procedimenti che conducono a conseguenze pregiudizievoli, i termini sono sempre perentori, essendo la perentorietà imposta dal principio di effettività del diritto di difesa e dal principio di certezza dei rapporti giuridici.

Ad ogni modo, secondo i Giudici, l’esercizio di una potestà amministrativa che ha conseguenze pregiudizievoli, di qualsiasi natura, e a prescindere da una espressa qualificazione in tal senso nella legge o nel regolamento che la preveda, non può restare esposta sine die all’inerzia dell’autorità preposta.

Si conclude, pertanto che, quando le deliberazioni dell’ANAC contengono vincoli conformativi puntuali alla successiva attività dei soggetti vigilati, in capo ai quali non residuano facoltà di modulazione quanto al contenuto e all’estensione, rappresentano provvedimenti lesivi nei confronti dei quali va garantita la tutela del diritto di difesa del destinatario.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 19 agosto, 2020, n. 5097;
Cons. Stato, sez. VI, 11 marzo 2019, n. 1622;
Cons. Stato, sez. V, 23 aprile 2019, n. 2572