Prostituzione minorile: reato art. 600 bis c.p. Il reato di prostituzione minorile è contemplato dall’art. 600-bis del codice penale a tutela della salute fisica e psichica dei minori

Il reato di prostituzione minorile

La prostituzione minorile contemplata dall’articolo 600 bis è un reato che il nostro legislatore ha inserito nel codice penale con la legge n. 269 del 3 agosto 1998 per adeguare la normativa italiana agli impegni assunti nelle sedi internazionali, finalizzati a tutelare il minore nella sua salute fisica e psichica.

L’art. 600-bis del codice penale

Passando all’analisi della norma, l’articolo 600 bis del codice penale, al primo comma, punisce chiunque recluta o induce, ossia arruola o spinge alla prostituzione una persona che non ha ancora compiuto i diciotto anni di età.

Il reato si configura però anche quando un soggetto qualsiasi favorisca, sfrutti, gestisca, organizzi o controlli la prostituzione di una persona che ancora non ha compiuto diciotto anni o ne trae profitto in altro modo.

La norma punisce pertanto sia le condotte finalizzate a convincere un minore a prostituirsi sia quelle che facilitano in qualche modo l’esercizio dell’attività di prostituzione da parte del minore.

Emerge pertanto che si tratta di un reato:

  • di pura condotta, è sufficiente infatti che il soggetto agente tenga una delle condotte previste dalla norma affinché si configuri il reato;
  • comune, ossia che chiunque può commettere.

Reclusione e pene pecuniarie

Chi tiene una delle condotte sopra elencate è punito con la pena della reclusione, che varia da un minimo di sei anni fino a una massimo di dodici anni e con una pena pecuniaria il cui importo varia da un minimo di 15.000 euro fino a un massimo di 150.000 euro. 

Atti sessuali con i minori

L’art. 600 bis del codice penale al comma 2 punisce anche chi compie atti sessuali con un minore, di età compresa tra i 14 anni e i 18 anni, offrendo o promettendo in cambio denaro o altre utilità, a meno che il suo comportamento non configuri un reato più grave.

Del resto, come ha chiarito anche la Cassazione nella SU n. 4616/2021, non c’è alcun dubbio che la volontà del minore venga fortemente condizionata dall’offerta di un corrispettivo in denaro o di qualsiasi altra utilità, anche solo promessa.

Da chiarire in ogni caso che, in questa ipotesi, affinché si configuri il reato, non è necessario che il soggetto abbia un rapporto sessuale completo con il minore. E’ sufficiente infatti un semplice contatto con la sfera sessuale del minore.

L’ignoranza dell’età della persona offesa

E’ necessario ricordare che, in relazione ai delitti contro la personalità individuale, nei quali è ricompreso la prostituzione minorile, l’articolo 602 quater del codice penale dispone che, quando gli stessi vengono commessi ai danni di un soggetto che non abbia ancora compiuto i 18 anni di età, il colpevole non può invocare a propria discolpa di non conoscere l’età della persona offesa, a meno che si tratti di ignoranza inevitabile, ossia non rimproverabile.

Su questa scusante la Cassazione nella sentenza n. 13312/2023 ha chiarito che: “il principio per cui, in tema di prostituzione minorile, il fatto tipico scusante previsto dall’art. 602-quater cod. pen. in relazione all’ignoranza inevitabile circa l’età della persona offesa è configurabile solo se l’agente, pur avendo diligentemente proceduto ai dovuti accertamenti, sia stato indotto a ritenere, sulla base di elementi univoci, che il minorenne fosse maggiorenne; ne consegue che non sono sufficienti, al fine di ritenere fondata la causa di non punibilità, elementi quali la presenza nel soggetto di tratti fisici di sviluppo tipici di maggiorenni o rassicurazioni verbali circa l’età, provenienti dal minore o da terzi, nemmeno se contemporaneamente sussistenti; così Sez. 3, n. 12475 del 18/12/2015, dep. 2016, G., Rv. 266484 – 01, che ha anche precisato che l’imputato ha l’onere di provare non solo la non conoscenza dell’età della persona offesa, ma anche di aver fatto tutto il possibile al fine di uniformarsi ai suoi doveri di attenzione, di conoscenza, di informazione e di controllo, attenendosi a uno standard di diligenza direttamente proporzionale alla rilevanza dell’interesse per il libero sviluppo psicofisico dei minori”.

regolamento condominiale

Regolamento condominiale contrattuale nullo Il regolamento condominiale può essere deliberato a maggioranza o all’unanimità. In quest’ultimo caso si parla di regolamento contrattuale: i casi di nullità

Cos’è il regolamento condominiale

Il regolamento condominiale è il complesso di norme con cui i condomini intendono disciplinare la pacifica convivenza all’interno dell’edificio.

Al suo interno possono rinvenirsi regole che riguardano i più disparati aspetti della vita in condominio, come la pulizia dei locali comuni, la gestione delle spese, l’individuazione di fasce orarie in cui evitare attività rumorose etc.

Come vedremo tra breve, vi sono alcuni limiti alla libertà dei condomini di decidere il contenuto del regolamento condominiale. Prima di esaminarli, però, è opportuno premettere che il regolamento condominiale può essere di due tipi: assembleare o contrattuale.

Regolamento assembleare e regolamento contrattuale

Un valido regolamento condominiale può essere approvato con una deliberazione assembleare adottata con il voto della maggioranza dei presenti alla riunione.

In particolare, per l’approvazione del regolamento condominiale assembleare è necessario un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio (cfr. art. 1336 secondo comma del codice civile, richiamato dall’art. 1338 c.c. terzo comma).

Quando, invece, il regolamento è approvato all’unanimità da tutti i condomini, si parla di regolamento condominiale contrattuale.

L’unanimità può essere raggiunta in due modi diversi: o con una deliberazione assembleare adottata con il voto favorevole di tutti i condomini (e con tutti i condomini presenti) oppure con l’approvazione del regolamento all’atto dell’acquisto dell’immobile dal costruttore. Quest’ultima ipotesi si verifica quando il costruttore predispone egli stesso il regolamento condominiale: l’unanimità viene raggiunta attraverso i diversi acquisti delle unità immobiliari da parte dei proprietari.

Il contenuto del regolamento approvato all’unanimità

Il regolamento condominiale contrattuale può avere un contenuto più ampio rispetto a quello assembleare. Quest’ultimo, infatti, non può in alcun modo limitare il libero godimento della proprietà esclusiva di ciascun condomino, né prevedere un criterio di riparto delle spese condominiali diverso da quello previsto dalle tabelle millesimali.

Invece, il regolamento approvato all’unanimità può prevedere limiti relativi alla proprietà esclusiva di ciascun condomino (ad esempio, vietando la possibilità di destinare le unità immobiliari all’esercizio di determinate attività professionali) o prevedere un riparto differente delle spese.

Entrambi i tipi di regolamento, però, devono rispettare il limite previsto dal quarto comma dell’art. 1338 c.c., che individua alcune norme del codice civile alle quali in nessun caso il regolamento condominiale può derogare.

Regolamento condominiale contrattuale nullo e impugnazione

In base a quanto appena esaminato, si è in presenza di regolamento condominiale nullo ogni qual volta le clausole di un regolamento approvato solo con la maggioranza di cui sopra si è detto deroghino ai criteri di ripartizione millesimale delle spese o dispongano una limitazione del libero godimento della proprietà esclusiva del singolo condomino.

Il regolamento condominiale nullo può essere impugnato davanti al tribunale per richiederne l’annullamento.

A tal riguardo, va notato che, se si tratta di regolamento approvato all’unanimità (quindi di regolamento contrattuale), la nullità di una clausola in esso contenuta va contestata in giudizio a tutti gli altri condomini (in qualità di controparti del contratto) e non invece nei confronti dell’amministratore del condominio, che resta parte terza rispetto al regolamento contrattuale.

Quanto appena detto è confermato da autorevole giurisprudenza: cfr., tra tante, Cass. Civ., VI sez., ord. n. 6656/2021, secondo cui “il regolamento di condominio cosiddetto “contrattuale”, quali ne siano il meccanismo di produzione ed il momento della sua efficacia, si configura, allora, dal punto di vista strutturale, come un contratto plurilaterale, avente cioè pluralità di parti e scopo comune; ne consegue che l’azione di nullità del regolamento medesimo è esperibile non nei confronti del condominio (e quindi dell’amministratore), il quale è carente di legittimazione in ordine ad una siffatta domanda, ma da uno o più condomini nei confronti di tutti gli altri, in situazione di litisconsorzio necessario”.

gps auto ex moglie

Marito installa gps nell’auto dell’ex: non è lesa la sua vita privata L’auto, in quanto spazio destinato al trasporto dell’uomo o di oggetti, non è luogo di privata dimora, per cui non può ritenersi configurato il reato ex art. 615- bis c.p.

Installazione di un gps nell’auto dell’ex moglie

La vicenda in esame vede protagonista un uomo che aveva installato nell’auto dell’ex moglie un gps, dotato di microfono, per procurarsi notizie attinenti alla vita privata della stessa. Tale apparecchio consentiva all’ex marito di ascoltare le conversazioni intervenute all’interno del veicolo.

Rispetto a tali eventi, il Tribunale di Taranto aveva condannato l’ex marito alla pena di sei mesi di reclusione per il reato di cui all’art. 615-bis c.p., oltre al risarcimento del danno subito dalla parte civile. Tale decisione veniva poi riformata nel secondo grado di giudizio, nell’ambito del quale la Corte distrettuale aveva assolto l’imputato perché il fatto non sussiste.

Avverso la decisione del Giudice di seconde cure, l’ex moglie aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di cassazione.

Concetto di privata dimora

La ricorrente, con un unico motivo d’impugnazione, ha dedotto il vizio di erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 615-bis c.p. Invero, la moglie ha sostenuto che “la giurisprudenza più recente avrebbe recepito una nozione più ampia del concetto di privata dimora e, con specifico riferimento al reato di cui all’art. 615-bis cod. pen., avrebbe espressamente ritenuto rilevante, al fine della configurazione del reato, l’installazione di una microspia all’interno di un’automobile. Nel caso in esame, l’autovettura della persona offesa andrebbe sicuramente ritenuta quale luogo di privata dimora, atteso che all’interno di essa la vittima intratteneva colloqui non solo personali, ma anche di carattere professionale, legati all’attività, di avvocato svolta dalla medesima”.

La Corte di cassazione, investita della suddetta questione, con sentenza n. 3446-2024, ha rigettato il ricorso, ritenendo il motivo proposto dalla ricorrente non fondato.

Sul punto, la Corte ha ritenuto che “L’abitacolo di un’autovettura, in quanto spazio destinato naturalmente al trasporto dell’uomo o al trasferimento di oggetti da un posto all’altro e non ad abitazione, non può essere considerato luogo di privata dimora, salvo che, a differenza di quanto dedotto nel caso in esame (…) esso, sin dall’origine, sia strutturato (…) come tale, o sia destinato, in difformità dalla sua naturale funzione, ad uso di privata abitazione”.

Il Giudice di legittimità ha proseguito, ricordando che, in un caso analogo a quello oggetto del ricorso in esame, la Corte stessa aveva già affermato che “non integra il reato di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis cod. pen.) la condotta di colui che installi nell’auto di un soggetto (nella specie ex fidanzata) un telefono cellulaere (…) in modo da consentire la ripresa sonora di quanto accade nella predetta auto, in quanto, oggetto della tutela di cui all’art. 615-bis cod. pen. è la riservatezza della persona in rapporto ai luoghi indicati nell’art. 614 cod. pen. (…) tra i quali non rientra l’autovettura che si trovi in pubblica via”.

Sulla scorta di quanto sopra rappresentato, la Corte ha dunque rigettato il ricorso proposto dalla moglie.

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nullità notifica decreto ingiuntivo

Nullità della notifica del decreto ingiuntivo La nullità della notifica del decreto ingiuntivo va fatta valere in sede di opposizione al decreto. Differenze tra nullità e inesistenza della notifica

Il termine per la notifica del decreto ingiuntivo

Il decreto ingiuntivo emesso dal giudice ai sensi dell’art. 641 c.p.c. dev’essere notificato unitamente al ricorso (entrambi gli atti in forma di copia autentica) al debitore entro il termine di sessanta giorni a pena di inefficacia dello stesso (art. 644 c.p.c.).

L’eventuale nullità della notifica del decreto ingiuntivo può essere fatta valere dal debitore con l’opposizione al decreto ex art. 645 c.p.c. o con l’opposizione tardiva di cui all’art. 650, fornendo la dimostrazione che non si è avuta la tempestiva conoscenza del decreto ingiuntivo in conseguenza della nullità della notifica.

Inesistenza e nullità della notifica del decreto ingiuntivo

È importante distinguere tra nullità della notifica del decreto ingiuntivo e inesistenza della stessa. Solo in quest’ultimo caso, infatti, il destinatario dell’atto può agire per far dichiarare l’inefficacia del decreto stesso.

In particolare, l’inesistenza della notifica si ha quando il vizio della notifica sia talmente grave da privarla dei suoi caratteri essenziali (ad esempio, quando sia compiuta da soggetto non legittimato, oppure in caso di mancanza totale della notifica), mentre in tutti gli altri casi (ad esempio, consegna in un luogo diverso da quelli individuati dalla legge, ma comunque ricollegabile alla persona del destinatario) si deve parlare di nullità.

Solo in caso di inesistenza della notifica il soggetto interessato può agire per far dichiarare l’inefficacia del decreto, ex art. 188 disp. att. c.p.c. In caso contrario, la nullità dev’essere fatta valere solo in sede di opposizione.

Infatti, le cause di nullità della notifica integrano ipotesi in cui l’attività posta in essere dal creditore, pur irregolare, vale come manifestazione dell’intenzione di quest’ultimo di far valere il decreto ingiuntivo precedentemente ottenuto dal giudice, a differenza di quanto succede in caso di inesistenza della notifica.

Nullità della notifica ed effetto sanante della costituzione

Altro aspetto da evidenziare è che la nullità della notifica del decreto ingiuntivo non può essere fatta valere in sede di opposizione all’esecuzione o di opposizione agli atti esecutivi (di cui agli artt. 615 e 617 c.p.c.), potendo essere rilevata solo davanti al giudice competente per l’opposizione a decreto ingiuntivo ex art. 645 o per l’opposizione tardiva ex art. 650.

In tal senso, la Corte di Cassazione ha rilevato che la nullità della notificazione del decreto ingiuntivo non determina in sé l’inesistenza del titolo esecutivo e, pertanto, non può essere dedotta mediante opposizione a precetto o all’esecuzione, “con la conseguenza che, qualora l’ingiunto, opponente tardivo, non abbia, con l’opposizione proposta ai sensi dell’art. 650 c.p.c., dedotto altre ragioni ulteriori rispetto a quelle della nullità della notificazione, quest’ultima risulta sanata per effetto dell’opposizione stessa” (v. Cass., sez. VI Civ., ord. n. 29729/19).

richiesta di riesame

Richiesta di riesame ex art. 309 c.p.p. La richiesta di riesame è un rimedio a disposizione dell’imputato e del suo difensore per impugnare l’ordinanza con cui sia stata disposta una misura cautelare

Misure cautelari e richiesta di riesame

Le misure cautelari si sostanziano in limitazioni di carattere personale o reale, che vengono disposte dal giudice con ordinanza, in presenza di gravi indizi di colpevolezza o di pericolo di compromissione delle indagini.

Le misure cautelari personali si dividono in misure coercitive (come, ad esempio, il divieto di espatrio, l’obbligo di dimora o gli arresti domiciliari) e misure interdittive (ad es., la sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o il divieto temporaneo di esercitare una professione).

Le misure cautelari reali, invece, sono il sequestro conservativo (previsto a garanzia del pagamento delle spese del processo) e il sequestro preventivo di cose pertinenti al reato.

Contro l’ordinanza che dispone una misura cautelare (limitatamente a determinati tipi, come vedremo tra breve), l’imputato e il suo difensore possono fare richiesta di riesame. Al pubblico ministero, invece, residua la possibilità di proporre appello contro la decisione del giudice relativa all’applicazione della misura cautelare (a condizione che si tratti di misura di carattere personale, cfr. art. 310 c.p.p., primo comma).

Richiesta di riesame e appello: differenze

Il riesame, quindi, rappresenta un rimedio più rapido, e per ciò stesso più efficace, rispetto all’appello, a disposizione dell’imputato.

La richiesta di riesame prevista dall’art. 309 c.p.p. può essere proposta solo contro misure cautelari personali a carattere coercitivo.

La richiesta va proposta entro dieci giorni dall’esecuzione o notificazione del provvedimento, presso la cancelleria del tribunale di competenza.

È importante notare che, in base al comma sesto dell’articolo citato, l’indicazione dei motivi in base ai quali si propone la richiesta è solo facoltativa, a differenza di quanto avviene quando si propone appello contro l’ordinanza in materia di misure cautelari, ipotesi nella quale l’indicazione dei motivi è invece obbligatoria, a pena di inammissibilità.

Con la richiesta di riesame, inoltre, l’imputato può anche chiedere di comparire personalmente davanti al giudice competente.

La decisione sulla richiesta di riesame

Il tribunale decide sulla richiesta di riesame in composizione collegiale, entro dieci giorni dalla ricezione della stessa e con procedimento svolto in camera di consiglio, a cui può partecipare il pubblico ministero che aveva richiesto l’applicazione della misura.

Il collegio non è vincolato alle motivazioni contenute nell’ordinanza impugnata, né ai motivi indicati dall’imputato nella richiesta di riesame. Ciò significa che la misura può anche essere confermata per motivi diversi da quelli originari, o annullata per motivi diversi da quelli indicati dall’imputato.

La decisione del collegio può essere di tre tipi: conferma del provvedimento, riforma o annullamento.

Il mancato rispetto dei termini previsti dall’art. 309 c.p.p. comporta la perdita di efficacia dell’ordinanza che ha disposto la misura cautelare, che non può essere rinnovata salve eccezionali esigenze cautelari.

Riesame delle misure cautelari reali

La disciplina della richiesta di riesame si completa con la previsione dell’art. 324 c.p.p., che prevede la possibilità di avanzare analoga richiesta in caso di applicazione di misure cautelari reali.

In particolare, il procedimento previsto da tale articolo si applica in caso di richiesta di riesame contro l’ordinanza che dispone il sequestro conservativo (art. 318), che può essere avanzata da chiunque ne abbia interesse, e contro l’ordinanza che dispone il sequestro preventivo (art. 322), che può essere proposta dall’imputato, dal suo difensore, dalla persona alla quale le cose sono state sequestrate o da quella che avrebbe diritto alla loro restituzione.

In entrambi i casi, la richiesta di riesame non sospende l’esecuzione del provvedimento.

particolare tenuità del fatto

Punibile la madre che impedisce al padre di vedere i figli Per la Cassazione, l'impedimento sistematico impedisce l'applicazione della non punibilità ex art. 131-bis c.p.

Particolare tenuità del fatto

Non si può applicare la particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p. nei confrontoi della madre che impedisce al padre in modo sistematico di vedere i figli. Così la seconda sezione penale della Cassazione, nella sentenza n. 47882-2023.

La vicenda

Nella vicenda, la donna ricorreva al Palazzaccio avverso la sentenza della Corte d’Appello di Salerno che, in funzione di giudice del rinvio, dichiarava l’imputata colpevole del reato ex art. 388, comma 2, c.p., per non aver consentito per quattro mesi al marito separato di vedere i figli a lei affidati, in violazione degli accordi fra coniugi recepiti nel decreto di omologa della consensuale, condannandola alla pena di trecento euro di multa oltre al risarcimento del danno subito dalla parte civile.

La donna proponeva ricorso chiedendo l’annullamento della sentenza in particolare per l’omessa applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis c.p. Lamentava, nello specifico, che la sentenza impugnata non aveva indicato le ragioni per cui il reato era stato ritenuto sussistente, avendo valorizzato soltanto le dichiarazioni della parte civile e ignorando quelle rese dalla stessa, ed escludendo “la causa di non punibilità sulla base di due indimostrate circostanze, costituite dagli impegni di lavoro che avrebbero impedito al marito di essere puntuale agli appuntamenti fissati e dal presunto interesse della stessa a privilegiare il rapporto con il nuovo compagno a discapito del diritto del padre di incontrare i figli, in assenza di episodi indicativi di tale fatto, non riferiti neppure dalla persona offesa”.

La decisione

Per la Cassazione, tuttavia, il ricorso è inammissibile perchè proposto con motivi non consentiti o manifestamente infondati. Già nella sentenza di appello, sostengono i giudici della S.C., era stato già accertato che la donna, “con sistematicità” aveva impedito l’incontro tra l’ex marito e i figli “in termini del tutto ingiustificati” rispetto a quanto previsto nel provvedimento giudiziale di omologazione della separazione (così la sentenza rescindente). Il giudice del rinvio, successivamente, “ha escluso che le modalità della condotta elusiva, protrattasi per un periodo apprezzabile, nonchè il danno cagionato al padre dei figli minori consentissero di ritenere l’offesa di particolare tenuità”.

Per cui, affermano ancora da piazza Cavour, la motivazione, seppur sintetica “risulta immune dai vizi denunciati dalla ricorrente”. All’inammissibilità dell’impugnazione, segue di conseguenza anche la condanna della donna al pagamento delle spese del procedimento nonchè, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, di tremila euro in favore della Cassa delle Ammende.

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nullità avviso accertamento

Nullità dell’avviso di accertamento La nullità dell’avviso di accertamento può derivare dal mancato rispetto dei requisiti di forma e di sostanza che l’atto dell’ente impositore deve avere

Avviso di accertamento, quando è nullo

L’avviso di accertamento è l’atto con cui l’Agenzia delle Entrate avvisa il contribuente di aver rideterminato l’imposta dovuta e di conseguenza ingiunge a questi di versare una determinata somma a titolo di tributo e di pagare la corrispondente sanzione e gli interessi maturati.

Dal 2011, l’avviso di accertamento è un atto direttamente esecutivo e perciò ha valore di titolo esecutivo: ciò vuol dire che, se il destinatario non ottempera al pagamento ivi indicato nei termini stabiliti dalla legge, l’ente impositore può avviare la conseguente azione esecutiva, senza necessità di eseguire ulteriori comunicazioni (non è quindi necessaria la notifica di una cartella esattoriale).

L’atto in esame deve rispondere a determinati requisiti previsti dalla legge, la cui mancanza può comportare la nullità dell’avviso di accertamento stesso. In tal caso, il contribuente ha la possibilità di impugnare l’avviso davanti agli organi di giustizia tributaria per farne dichiarare l’annullamento.

I rimedi per la nullità dell’avviso di accertamento

Per far valere i vizi dell’avviso di accertamento, il contribuente ha a disposizione diversi rimedi.

Oltre ad esperire il ricorso davanti alle Commissioni Tributarie, infatti, il destinatario dell’atto ha facoltà di richiedere l’annullamento dell’atto in autotutela, indirizzando tale richiesta allo stesso ente impositore, con l’indicazione delle relative motivazioni.

Inoltre, con una proposta di accertamento in adesione, da svolgersi in contraddittorio, egli ha la possibilità di ottenere uno sconto sulle sanzioni previste. Altre vie percorribili sono il reclamo, la mediazione e la conciliazione giudiziale.

Avviso di accertamento requisiti

Tra i dati che l’avviso di accertamento deve necessariamente contenere a pena di nullità, vi è innanzitutto l’indicazione degli imponibili accertati, delle aliquote applicate e dell’imposta liquidata, oltre all’intimazione a pagare entro 60 giorni dal ricevimento dell’atto.

Inoltre, il contribuente deve essere messo in condizioni di conoscere non solo quale sia l’organo giurisdizionale presso cui presentare l’eventuale ricorso, ma anche quale sia l’ufficio presso cui poter ottenere informazioni, nonché il funzionario responsabile del procedimento amministrativo che ha portato all’adozione dell’atto.

Nullità avviso accertamento giurisprudenza

La nullità dell’avviso di accertamento può derivare dalle più disparate difformità dell’atto rispetto ai requisiti di legge.

Ad esempio, une recente ordinanza della Corte di Cassazione (Cass. sez. V trib., ord. n. 13620/2023) ha focalizzato l’attenzione sulla necessità che l’avviso di accertamento sia motivato per garantire il diritto di difesa del contribuente, chiarendo, in particolare, che “l’avviso di accertamento non può essere supportato da motivazione contraddittoria, poiché in tal caso esso non consente al contribuente di avere certezza degli elementi fondanti le ragioni della pretesa; e ha specificato che tale vizio si configura anche laddove vengano indicate ragioni concorrenti ma contraddistinte da assoluta eterogeneità e, come tali, inidonee a fungere da complessivo presupposto della pretese“.

Quando poi, l’accertamento derivi da una precedente ispezione presso gli uffici del contribuente, l’ente deve necessariamente attivare il contraddittorio preventivo col contribuente, che ha a disposizione sessanta giorni per presentare le proprie osservazioni, di cui l’ente deve necessariamente tener conto. Se manca l’attivazione di tale fase, l’atto è inficiato da nullità (cfr. Cass., ord. n. 2135/2021). La nullità dell’avviso di accertamento, inoltre, è stata dichiarata anche in casi in cui l’Agenzia delle Entrate non ha, più semplicemente, dato prova dell’avvenuto invio dell’invito al contradittorio (cfr. CTP Prato, sent. n. 212/2019).

In una diversa ipotesi, l’avviso di accertamento è stato annullato perché era stato firmato digitalmente dal funzionario incaricato, ma poi recapitato solo via posta cartacea (cfr. sent. n. 3848/26/2019 – Comm. Trib. Reg. Campania).

Importante è anche il rispetto dei limiti di competenza, nei casi in cui l’atto venga firmato da un funzionario con delega di firma: con ordinanza numero 32386/2022, la Corte di Cassazione ha dichiarato nullo l’avviso firmato dal funzionario avente una delega di firma per avvisi relativi a importi inferiori rispetto all’importo dell’atto da lui firmato.

tempus regit actum

Il principio “tempus regit actum” nel procedimento amministrativo In ambito amministrativo, si discute se debba rispettarsi sempre la regola tempus regit actum o se occorra considerare il procedimento nel suo complesso

Che significa la regola tempus regit actum

Con la locuzione latina tempus regit actum si suole indicare la circostanza per cui, in diritto, un atto è regolato dalla legge vigente nel momento in cui è compiuto.

Questo principio trova applicazione in vari ambiti, e principalmente in campo processuale. Ma è nel diritto amministrativo che la regola tempus regit actum si trova al centro di un vivace dibattito, poiché una parte della dottrina e molte recenti pronunce giurisprudenziali ritengono che, in tale settore, debba valere il diverso principio del tempus regit actionem, specialmente con riferimento alle regole che disciplinano il procedimento amministrativo.

Tempus regit actum e procedimento amministrativo

Per comprendere appieno le differenze tra le due regole sopra citate, è opportuno ricordare brevemente in cosa consiste il procedimento amministrativo.

Esso rappresenta il normale strumento attraverso cui la pubblica amministrazione addiviene ad una decisione in cui si sostanzia la sua azione. In concreto, il procedimento amministrativo si sostanzia in una serie concatenata di atti amministrativi che sfociano in un atto conclusivo, chiamato provvedimento amministrativo.

Ebbene, i fautori della tesi secondo cui anche in ambito amministrativo procedimentale vige la regola tempus regit actum, sostengono che ogni singolo atto del procedimento amministrativo rimane regolato dalla disciplina normativa vigente al momento in cui esso è stato adottato.

Ciò significa che, se sopravviene una nuova normativa astrattamente applicabile alla fattispecie oggetto del procedimento amministrativo, quest’ultima dovrà essere osservata solo in relazione agli atti di quel procedimento ancora da compiere, mentre la regolarità degli atti endoprocedimentali già compiuti in quel medesimo procedimento continuerebbe a dover essere valutata in base alle norme della previgente disciplina.

In realtà, tale principio è stato per lungo tempo pacificamente osservato anche in tale ambito, ma di recente numerose pronunce degli organi giurisdizionali amministrativi hanno abbracciato la tesi di quella parte della dottrina che ritiene applicabile al procedimento amministrativo il principio tempus regit actionem.

Bandi di gara e principio tempus regit actionem

In buona sostanza, tale tesi sposta l’attenzione dall’atto singolarmente considerato all’azione amministrativa complessivamente identificata dal singolo procedimento.

Per fare un esempio, quando un ente pubblico bandisce una gara di appalto, fissa una serie di requisiti per la partecipazione e una serie di regole che garantiscono la parità tra i concorrenti e la trasparenza delle condizioni.

Se la normativa di riferimento mutasse in pendenza della scadenza dei termini per la partecipazione a quella gara, si rischierebbe di pregiudicare il rispetto di tali canoni di parità e trasparenza, finendo per inquinare la correttezza e la regolarità della gara.

Per questo motivo, in ambito di aggiudicazioni e, più in generale di procedure selettive in ambito amministrativo, si ritiene che debba rispettarsi la regola “tempus regit actionem”, e che, pertanto, l’intera gara debba rimanere disciplinata dalla normativa vigente al momento della pubblicazione del bando.

Al riguardo, cfr. tra tante, la sentenza del Consiglio di Stato n. 2521/2021, secondo cui “occorre ribadire il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui nelle gare pubbliche la procedura di affidamento di un contratto pubblico è soggetta alla normativa vigente alla data di pubblicazione del bando (…); pertanto, anche per ragioni di tutela dell’affidamento (…), deve escludersi che lo ius superveniens possa avere alcun effetto diretto sul procedimento di gara, altrimenti venendo sacrificati i principi di certezza e buon andamento, con sconcerto delle stesse ed assoluta imprevedibilità di esiti, ove si imponesse alle amministrazioni di modificare in corso di procedimento le regole di gara per seguire le modificazioni normative o fattuali intervenute successivamente all’adozione del bando (tra le tante, Cons. Stato, V, 7 giugno 2016, n. 2433; V, 12 maggio 2017, n. 2222). Si può forse sostenere che nei procedimenti di gara il criterio informatore sia quello del tempus regit actionem”.

Allo stesso modo, anche in altri ambiti del diritto amministrativo si fa largo l’idea che debba osservarsi la legge vigente al momento in cui l’amministrazione procedente avvia la fase istruttoria del procedimento amministrativo. In tal modo, da un lato viene valorizzata l’idea che il procedimento amministrativo sia un unicum in cui si sostanzia l’azione amministrativa e in cui confluiscono i vari atti che hanno rilevanza esclusivamente endoprocedimentale. Dall’altro, si valorizza l’esigenza di rispetto degli interessi legittimi esistenti in capo ai soggetti interessati dal procedimento, che possono ritenersi davvero tutelati solo se valutati in relazione alla legge vigente all’inizio del procedimento che li coinvolge.

In altri ambiti, come ad esempio quello delle concessioni edilizie, rimane invece ancora pacificamente osservata la regola del tempus regit actum: il provvedimento finale, cioè, deve rispondere alla normativa sopravvenuta nel corso del procedimento e non a quella vigente all’inizio dello stesso.

spese rifacimento balconi

Balconi: spese di rifacimento a carico dei soli proprietari Per la Cassazione, è nulla la delibera assembleare che dispone il rifacimento dei balconi di natura individuale ripartendo le spese tra i condomini in parti uguali

Riparto spese manutenzione balconi

Il riparto delle spese di manutenzione dei balconi è tematica sovente foriera di contrasti in assemblea. Ciò anche in considerazione del fatto che il codice civile non fornisce alcuna nozione di balcone, limitandosi solo a non menzionarlo nell’elenco delle “parti comuni”. Questa lacuna è stata colmata dall’opera della dottrina e della giurisprudenza, chiamate in più occasioni a fare chiarezza sul punto.

In base alle caratteristiche esteriori dei balconi, questi possono suddividersi in due macro-categorie:

1- “balconi aggettanti”, che sporgono rispetto alla facciata e sono di proprietà esclusiva del proprietario dell’appartamento dal quale vi si accede costituendone un prolungamento.

Il proprietario dell’immobile è, dunque, titolare del diritto di proprietà (e dei relativi obblighi di manutenzione e custodia) anche della pavimentazione, elemento fondamentale nella soluzione al caso in commento risolto dalla Cassazione.

Quanto detto non vale per gli elementi decorativi del balcone (parapetti, cielini o sottobalconi) per il caso in cui gli stessi siano idonei a svolgere funzione di decoro caratterizzanti l’estetica dell’edificio e che, in simili fattispecie, rientrano nel novero delle parti comuni, precisamente della facciata (Cass. civ. II n. 30071/2017).

Questa è una valutazione che deve effettuarsi in riferimento a ciascun caso concreto tenendo presenti le caratteristiche del singolo fabbricato in questione.

Una delle conseguenze di quanto detto è che il proprietario di un piano inferiore non vanta diritti sulla parte inferiore del balcone aggettante del piano sovrastante e quindi, ad esempio, non potrà agganciare una tenda alla soletta del balcone superiore senza acquisire il preventivo consenso del proprietario dello stesso.

2- “balconi incassati” (detti anche “loggia”), viceversa, sono quelli che non sporgono rispetto alla facciata. L’accesso ai medesimi si raggiunge dai locali interni e tale tipologia di balconi (detti anche “terrazze incassate”) presentano uno o più “lati aperti” (rispettivamente avremo balconi “incassati a U” ovvero balconi “incassati a L”). La pavimentazione è parte integrante del locale da cui vi si accede e, di norma, funge da copertura per l’appartamento sottostante, individuandosi così due soggetti interessati per il riparto delle spese di manutenzione.

Recente giurisprudenza ha, tuttavia, sottolineato che anche una terrazza incassata può essere considerata di proprietà esclusiva del condomino-proprietario dell’appartamento da cui si accede a condizione che così risulti dal titolo (diritto di proprietà) o anche nell’ipotesi in cui la predetta loggia si configuri – funzionalmente e strutturalmente – quale parte integrante del piano cui è  annessa, in modo tale per cui la funzione di copertura del piano sottostante risulti meramente sussidiaria.

Anche in questo caso occorrerebbe un’indagine tecnico-valutativa sulla singola fattispecie concreta.

Per la parte ”aperta” di tale tipologia di balconi, ove rientrante nella facciata (parte comune ex art. 1117 c.c., salvo titolo contrario), può riprendersi lo stesso discorso già effettuato sopra circa la funzione di decoro che può, a seconda dei casi, venire in rilievo.

Balconi di proprietà esclusiva e riparto spese: il caso

Nella vicenda decisa dalla Cassazione (con ordinanza n. 7042/2020), un condomino citava in giudizio il Condominio per sentirsi dichiarare esonerato dalle spese relative al rifacimento dei balconi degli altri condomini, chiedendo il rimborso delle spese sostenute o, in subordine, la condanna del Condominio alla restituzione delle somme pagate per i balconi di proprietà esclusiva degli altri partecipanti.

Sia il Tribunale di Forlì (rectius la Sez. distaccata di Cesena) che la Corte d’Appello di Bologna rigettavano la domanda dell’attore evidenziando il difetto di legittimazione attiva in quanto la delibera impugnata aveva disposto che “ogni condomino avrebbe ristrutturato il pavimento dei balconi a proprie spese”.

Mancava, poi, a dire dei Giudici di primo e secondo grado la prova che la delibera di approvazione dei lavori avesse posto a carico dell’attore (anche in quota-parte) le spese di ristrutturazione dei balconi degli altri condomini. Prova ne era che l’impresa appaltatrice incaricata della ristrutturazione aveva emesso fattura nei confronti dei singoli proprietari.

L’istante ricorre per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Bologna denunciando l’omesso esame di un fatto decisivo in relazione alla circostanza che la predetta deliberazione approvativa dei lavori limitava l’obbligo di contribuzione per le spese di manutenzione a carico dei singoli proprietari alla sola “pavimentazione dei balconi”.

Denunciava, altresì la violazione e/o falsa applicazione – ex multis – dell’art. 1117 c.c. (“parti comuni dell’edificio”) e dell’art. 1123 c.c. (“ripartizione delle spese”).

Balconi: spese a carico del proprietario

La Sez. VI/II della Suprema Corte di Cassazione accoglie il ricorso, in particolare facendo riferimento – si faccia attenzione – alla circostanza che, in via subordinata, il ricorrente chiedeva la condanna del Condominio alla restituzione delle somme corrisposte indebitamente ex art. 2033 c.c.

Nelle proprie difese l’istante aveva, infatti, più volte posto riferimento alla nullità della delibera che aveva statuito in ordine a beni di natura individuale.

In tema di Condominio negli edifici, i balconi aggettanti, in quanto prolungamento della corrispondente unità immobiliare appartengono in via esclusiva al proprietario di questa, dovendosi considerare beni comuni a tutti i condomini solamente i rivestimenti e gli elementi decorativi della parte frontale e di quella inferiore, quando si inseriscono nel prospetto dell’edificio e contribuiscono a renderlo esteticamente gradevole.

Ne deriva, dunque, che le spese relative alla manutenzione dei balconi, comprensive non soltanto delle opere di pavimentazione, ma anche di quelle relative alla piattaforma o soletta, all’intonaco, alla tinta ed alla decorazione del soffitto restano a carico del solo proprietario che vi accede e non possono essere ripartite – come invece era stato fatto nel caso in questione – tra tutti i condomini in base al valore della proprietà di ciascuno.

tabelle millesimali

Tabelle millesimali: approvazione e revisione I quorum necessari per l’approvazione e per la revisione delle tabelle millesimali in condominio

Art. 1118 c.c.

L’art. 1118 c.c., come sostituito dall’art. 3 della l. 11 dicembre 2012, stabilisce espressamente che:

“1. Il diritto di ciascun condomino sulle parti comuni, salvo che il titolo non disponga altrimenti, è proporzionale al valore dell’unità immobiliare che gli appartiene.

  1. Il condomino non può rinunziare al suo diritto sulle parti comuni.
  2. Il condomino non può sottrarsi all’obbligo di contribuire alle spese per la conservazione delle parti comuni, neanche modificando la destinazione d’uso della propria unità immobiliare, salvo quanto disposto da leggi speciali.
  3. Il condomino può rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, se dal suo distacco non derivano notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per altri condomini. In tal caso il rinunziante resta tenuto a concorrere al pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria dell’impianto e per la sua conservazione e messa a norma”.

Premesso doverosamente il dato normativo, è opportuno sin da subito ribadire che le tabelle millesimali rappresentano lo strumento per procedere all’esatta ripartizione degli oneri condominiali ordinari e straordinari, stabilendo il valore di contribuzione delle singole unità immobiliari in relazione alle parti comuni.

In altri termini, hanno natura valutativa della proprietà ed esprimono, a un tempo, l’ampiezza del diritto spettante a ciascun condomino sulle parti comuni ed il potere di voto nelle deliberazioni assembleari, in cui si ragiona alla stregua del parametro della “doppia maggioranza”, con riferimento, da un lato, agli intervenuti e, dall’altro, ai millesimi.

Quorum per l’approvazione delle tabelle millesimali

È da premettere che fino al leading case delle Sezioni Unite del 2010 (Cass. civ.. SS.UU. n. 18477/2010), dottrina e giurisprudenza operavano una netta demarcazione tra la maggioranza necessaria per approvare la tabella generale di proprietà (cd. Tabella A) e tutte le altre Tabelle millesimali (scale, ascensori ecc.) La prima veniva, infatti, considerata quale risultato di un accordo negoziale tale da richiedere l’unanimità dei condomini per poterla modificare. Per tutte le altre era sufficiente la maggioranza degli intervenuti all’assemblea che rappresentasse la metà del valore del fabbricato (art. 1136, comma 2 c.c.). Con la sopra menzionata sentenza, tuttavia, tale netta demarcazione viene meno in quanto la tabella generale di proprietà viene considerata come mera espressione matematica della forza del voto in assemblea e misura di partecipazione alle spese di cui all’art. 1123, comma 1 c.c.. L’atto di approvazione assembleare delle tabelle viene inteso non più come accordo negoziale (per cui si necessitava di unanimità) bensì come “mera documentazione ricognitiva … dove la tabella altro non era che l’espressione della forza del voto in assemblea e del peso relativo agli obblighi”.

Ne derivava che, in forza della lettura in combinato disposto degli artt. 1138 c.c. – che richiede per l’approvazione del regolamento cd. assembleare la maggioranza di cui al secondo comma dell’art. 1136 c.c., e 68 disp. att. c.c. – si necessitava del medesimo quorum per l’approvazione e per la modifica delle tabelle millesimali.

Successivamente, entrata in vigore la l. 220/2012, la stessa modificava l’art. 69 delle disposizioni attuative del codice civile prevedendo la regola generale che i valori proporzionali delle unità immobiliari espressi nelle tabelle millesimali di cui all’art. 68 disp. att. c.c. potessero essere modificati o rettificati all’unanimità.

A tale regola era possibile derogare, prevedendosi l’applicazione della maggioranza di cui all’art. 1136 comma 2 c.c. (maggioranza degli intervenuti in assemblea che rappresentino la metà del valore dell’edificio), anche nell’interesse di un solo condomino, in due casi:

1) quando risulti che le tabelle sono conseguenza di un errore

2) quando per le mutate condizioni di parte dell’edificio, in conseguenza di sopraelevazione, incremento di superfici, incremento o diminuzioni delle unità immobiliari, è alterato per più di un quinto il valore proporzionale dell’unità immobiliare anche di un solo condomino.

La disposizione previgente, prevedeva, in riferimento al secondo requisito indicato, il generico requisito della “notevole alterazione” del rapporto originario tra i valori dei singoli piani o porzioni di piano.

Ora, la “nuova” disciplina prevede requisiti stringenti per la rettifica o modifica delle tabelle millesimali, con approvazione delle relative deliberazioni all’unanimità. Essa, tuttavia, non può essere estesa anche all’approvazione delle stesse, rimanendo ferme, dunque, per tale diversa fattispecie le risultanze raggiunte dalla costante opera di dottrina e giurisprudenza sul punto. (ex multis Cass. n. 11837/2013, Cass. n. 10762/2012).