intercettazioni telefoniche

Intercettazioni telefoniche: per legge fino a 45 giorni Intercettazioni telefoniche: in vigore dal 24 aprile la legge che ha fissato a 45 giorni il termine di durata massimo, salvo eccezioni

Intercettazioni telefoniche: durata

In vigore dal 24 aprile 2025, la legge n. 47/2025 che impone il limite massimo di 45 giorni per le intercettazioni telefoniche. Il testo era stato approvato in via definitiva dalla Camera dei deputati nella giornata di mercoledì 19 marzo 2025 con 147 voti favorevoli, 67 contrari e un astenuto.

Durata limitata con eccezioni

La nuova norma stabilisce che le intercettazioni non possano superare il tetto di 45 giorni. Tuttavia, se emergono elementi concreti e specifici che ne rendano indispensabile la prosecuzione, il limite può essere esteso con un’esplicita motivazione. Questa regola si applica a tutte le operazioni di ascolto, salvo specifiche eccezioni previste dalla legge.

Il provvedimento prevede deroghe infatti per i reati di criminalità organizzata  e minacce telefoniche.

Modifiche al codice di procedura penale

Il provvedimento modifica l’articolo 267 del codice di procedura penale, introducendo il limite temporale alle intercettazioni. Inoltre, l’articolo 13 del decreto-legge n. 152 del 1991 viene aggiornato per escludere dall’applicazione del nuovo limite a reati gravi.

Cosa cambia nelle intercettazioni telefoniche

La nuova legge rappresenta un cambiamento significativo nella disciplina delle intercettazioni. Se da un lato introduce un controllo più stringente sulle operazioni investigative, dall’altro solleva dubbi sulla sua efficacia nel contrastare i reati più gravi. Il dibattito resta aperto tra chi la considera una misura di garanzia e chi, invece, teme un indebolimento delle indagini giudiziarie.

 

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misure interdittive

Le misure interdittive Le misure interdittive: definizione, normativa di riferimento, durata e giurisprudenza della Cassazione

Cosa sono le misure interdittive?

Le misure interdittive rappresentano una categoria di misure cautelari personali applicate in ambito penale per impedire a un soggetto di svolgere determinate attività quando sussistono gravi indizi di reato. Si tratta di restrizioni che limitano temporaneamente i diritti dell’indagato o dell’imputato, senza comportare la detenzione, ma incidendo sulla sua attività professionale o sulla sua capacità di esercitare funzioni pubbliche.

Le misure interdittive sono provvedimenti restrittivi adottati dal giudice su richiesta del pubblico ministero per impedire a una persona di continuare a esercitare determinati ruoli, incarichi o attività professionali che potrebbero facilitare la commissione di nuovi reati o l’inquinamento delle prove.

Queste misure vengono applicate quando si ritiene che la libertà d’azione dell’indagato possa compromettere l’esito delle indagini o rappresentare un pericolo per la collettività.

Le misure interdittive si distinguono dalle misure coercitive (come la custodia cautelare in carcere o gli arresti domiciliari) perché non incidono direttamente sulla libertà personale, ma limitano specifiche facoltà dell’indagato.

Quali sono le misure interdittive?

Le principali misure interdittive previste dall’art. 290 del Codice di Procedura Penale (CPP) sono:

  • Sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio
    • Si applica a funzionari pubblici e impedisce loro di esercitare temporaneamente il proprio incarico.
    • È utilizzata in caso di reati contro la pubblica amministrazione (es. corruzione, abuso d’ufficio).
  • Sospensione dall’esercizio di una professione o arte
    • Impedisce all’indagato di esercitare la propria attività professionale (es. medici, avvocati, ingegneri) per il periodo stabilito dal giudice.
    • Applicata quando vi è il rischio che l’indagato possa reiterare il reato nell’ambito della sua professione.
  • Divieto temporaneo di contrattare con la Pubblica Amministrazione
    • Esclude un’azienda o un professionista dalla possibilità di stipulare contratti con enti pubblici.
    • Spesso adottata in casi di turbativa d’asta o frode negli appalti.
  • Interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese
    • Impedisce a un soggetto di ricoprire ruoli dirigenziali in aziende o enti per un periodo determinato.
    • Applicata nei reati societari o finanziari (es. bancarotta fraudolenta).
  • Sospensione temporanea dell’esercizio di attività imprenditoriale
    • Vieta all’indagato di gestire o dirigere un’attività economica, soprattutto in caso di reati economici o fallimentari.
  • Divieto di esercitare determinate funzioni o attività professionali
    • Impone una restrizione parziale nell’ambito lavorativo, consentendo all’indagato di continuare a lavorare con limiti imposti dal giudice.

Normativa di riferimento

Le misure interdittive trovano fondamento in diversi articoli del Codice di Procedura Penale e del Codice Penale, tra cui:

  • Art. 287 CPP – Definisce le condizioni per l’applicazione delle misure interdittive.
  • Art. 289 CPP – Regola la sospensione dall’esercizio di una professione o arte.
  • Art. 290 CPP – regola il divieto temporaneo di esercitare determinate attività imprenditoriali o professionali

Le misure interdittive possono essere adottate in fase cautelare (durante il processo) o come sanzioni accessorie in caso di condanna definitiva.

Quanto durano le misure interdittive?

La durata delle misure interdittive varia in base alla gravità del reato e al tipo di provvedimento adottato

La norma di riferimento è l’articolo 308 c.p.p. il comma 2 in particolare stabilisce un termine generale di 12 mesi. Scaduto il termine le stesse perdono efficacia, ma se sussistono esigenze probatorie le stesse possono essere rinnovate.

L’estinzione delle misure interdittive comunque, in base a quanto previsto dal comma 3 dell’articolo 308 c.p.p, non pregiudica il potere del giudice di applicare le pene accessorie (art. 28-37 cp) o altre misure interdittive.

Il soggetto colpito da una misura interdittiva può impugnare il provvedimento davanti al Tribunale del Riesame per chiederne la revoca o la modifica.

Giurisprudenza della Cassazione

La Corte di Cassazione ha più volte ribadito l’importanza delle misure interdittive nel prevenire la reiterazione del reato e proteggere l’interesse pubblico.

Cassazione n. 39752/2021: la legge, quando parla di “professioni” che possono essere sospese, non si riferisce unicamente a quelle che richiedono un’iscrizione a un albo, un permesso specifico o un’autorizzazione da parte delle autorità. In altre parole, anche se una persona non è iscritta a un albo professionale, la misura della sospensione dall’esercizio di una professione può comunque essere applicata. 

Cassazione n. 10940/2017:  È illegale applicare la misura cautelare della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio a chi ricopre una carica elettiva ottenuta direttamente dal voto popolare. Questo divieto è espressamente stabilito dall’articolo 289, comma terzo, del codice di procedura penale.

Cassazione n. 42588/2011: per decidere se applicare una misura interdittiva (come la sospensione temporanea dall’esercizio della professione a un medico accusato di omicidio colposo), il giudice deve analizzare attentamente come è stato commesso il reato e valutare la personalità dell’accusato basandosi sui criteri indicati nell’articolo 133 del codice penale. È fondamentale considerare anche il livello di colpa, valutando quanto la condotta del medico si sia discostata dalle regole di prudenza violate, quanto l’evento fosse evitabile e quanto fosse ragionevole aspettarsi che il medico seguisse la condotta corretta.

 

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reato di cattiva conservazione

Reato di cattiva conservazione degli alimenti: basta il rischio anche senza danno La Cassazione ribadisce che è sufficiente la potenziale pericolosità di prodotto per integrare il reato di cattiva conservazione degli alimenti

Reato di cattiva conservazione degli alimenti

Reato di cattiva conservazione degli alimenti: basta il rischio per la salute, anche senza danno concreto. In ambito alimentare, infatti, la semplice potenziale pericolosità di un prodotto è sufficiente a configurare il reato anche in assenza di danni effettivi ai consumatori. È quanto ha ribadito la terza sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 13826/2025, confermando la condanna nei confronti del titolare di una macelleria all’interno di un supermercato per la vendita di carni e salumi conservati in ambienti igienicamente inadeguati.

Quando si configura il reato ex art. 5 l. 283/1962

Secondo quanto previsto dall’articolo 5, lettere b) e d), della legge n. 283/1962, rammentano innanzitutto dal Palazzaccio, la violazione si concretizza quando gli alimenti risultano:

  • in cattivo stato di conservazione;

  • alterati o insudiciati;

  • non conformi alle norme igienico-sanitarie stabilite dalla legge.

Non è necessario che il prodotto abbia causato un danno alla salute del consumatore. È sufficiente che si accerti la propensione oggettiva dell’alimento a costituire un pericolo, in virtù del suo deterioramento o della sua contaminazione.

Il principio espresso dalla Cassazione

I giudici di legittimità hanno chiarito che ciò che rileva ai fini della responsabilità penale è l’assenza delle condizioni igieniche minime richieste per la sicurezza del prodotto alimentare.

La tracciabilità carente, la mancata adozione di misure preventive, o anche il non rispetto delle norme di comune esperienza in materia di conservazione, sono elementi sufficienti a configurare il reato.

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domiciliari al padre

Domiciliari al padre se la madre non c’è La Consulta conferma l'ammissione dei domiciliari per il padre condannato se la madre è deceduta o non può occuparsi dei figli

Domiciliari al padre condannato

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 52/2025, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del divieto di concessione dei domiciliari al padre condannato quando la madre è assente o inidonea, anche se i minori potrebbero essere affidati a terzi.

Secondo la Consulta, negare al genitore padre la possibilità di accedere alla detenzione domiciliare in presenza di figli minori – solo perché questi possono essere assistiti da altre persone – lede l’interesse del minore a mantenere una relazione stabile con almeno uno dei genitori. Questo principio è stato affermato nella sentenza n. 52 del 2025, a seguito di ordinanze di rimessione emesse dai Tribunali di sorveglianza di Bologna e Venezia.

I casi esaminati

Nel primo procedimento, un detenuto aveva chiesto il beneficio della detenzione domiciliare per accudire i propri figli minori, temporaneamente assistiti dalla sorella maggiore. Nel secondo, la richiesta proveniva da un padre con un figlio affetto da grave disabilità, la cui assistenza era interamente affidata alla madre.

La norma in questione e la decisione della Corte

La disciplina prevista dall’articolo 47-quinquies della legge sull’ordinamento penitenziario consente alla madre condannata di accedere alla detenzione domiciliare anche se il padre è disponibile ad occuparsi dei figli. Al contrario, al padre condannato tale possibilità è concessa solo se la madre è deceduta, irreperibile o completamente inidonea, e non vi siano altri soggetti disponibili all’affidamento.

Questa asimmetria normativa è stata oggetto di censura da parte dei giudici rimettenti, che ne hanno rilevato il potenziale contrasto con:

  • l’articolo 3 della Costituzione (principio di uguaglianza),

  • l’articolo 30 (diritti e doveri dei genitori),

  • l’interesse superiore del minore sancito anche a livello internazionale.

La Corte costituzionale, pur riconoscendo la valenza storica e sociale della protezione della maternità (ex art. 31 Cost.), ha dichiarato non irragionevole il trattamento differenziato previsto per la madre detenuta, in quanto coerente con le finalità di tutela del rapporto madre-figlio nei primi anni di vita. Tuttavia, ha ritenuto illegittimo limitare l’accesso alla misura per il padre nei casi in cui la madre non sia più in grado di garantire l’accudimento dei figli e vi sia un interesse concreto del minore a convivere con il padre.

Equilibrio tra esecuzione pena e tutela del minore

La Consulta ha sottolineato che la priorità resta sempre l’interesse del minore, anche rispetto alla funzione punitiva dello Stato. Pertanto, l’automatica esclusione del padre detenuto dalla possibilità di accedere alla detenzione domiciliare, solo perché i figli possono essere affidati a terzi, non può prevalere sull’esigenza di assicurare continuità nel legame familiare.

Resta fermo che il Tribunale di sorveglianza dovrà verificare, caso per caso:

  • l’assenza di pericolo di recidiva,

  • la reale idoneità del genitore a prendersi cura dei figli,

  • l’effettivo vantaggio che la convivenza potrebbe garantire al benessere psicofisico del minore.

reato di incendio

Il reato di incendio Reato di incendio (art. 423 c.p.): disciplina, fattispecie, profili sanzionatori e giurisprudenza

Reato di incendio art. 423 c.p. 

Il reato di incendio è disciplinato dall’articolo 423 del Codice penale, collocato all’interno del Titolo VI, Capo I, dedicato ai delitti contro la pubblica incolumità. La norma punisce con la pena della reclusione da tre a 7 anni chiunque cagioni un incendio e anche quando l’incendio riguardi una cosa propria del soggetto agente, se dal fatto deriva un pericolo per la pubblica incolumità

L’incendio presuppone un fuoco di ampie dimensioni, che tende a diffondersi e che sia difficile da spegnere,

Differenza tra incendio doloso e colposo

L’incendio doloso richiede il dolo, ossia la volontà dell’agente di causare l’incendio e di accettarne le conseguenze.  In tal caso, il soggetto è punibile ai sensi dell’art. 423 c.p. (dolo generico); 423 bis comma 1 (incendio boschivo doloso);.

L’incendio colposo è disciplinato da diverse norme:

art. 423 bis c.p comma 2: incendio boschivo colposo;

dall’art. 449 c.p., che prevede pene meno gravi. La condotta infatti è punita con la reclusione da uno a cinque  anniAnche in questa forma colposa il reato si configura solo se l’incendio è tale da costituire pericolo per l’incolumità pubblica.

Normativa di riferimento

  • Art. 423 c.p.: incendio;
  • Art 424 bis c.p. incendio boschivo;
  • Art. 424 c.p.: danneggiamento seguito da incendio;
  • Art. 449 c.p.: delitti colposi di danni tra cui figura l’incendio.

Elementi costitutivi del reato di incendio

Per la configurazione del reato ex art. 423 c.p. occorrono:

  • Condotta attiva: accensione del fuoco su cose proprie o altrui;
  • Pericolo concreato o astratto;
  • Nesso causale tra condotta e pericolo;
  • Elemento soggettivo: dolo generico;
  • Pericolo per la pubblica incolumità: anche potenziale.

Pena prevista

Il delitto di incendio, ai sensi dell’art. 423 c.p., è punito con:

  • la reclusione da tre a sette anni.

Se dall’incendio deriva un danno grave a  edifici pubblici, navi, edifici abitati, monumenti, cimiteri, navi, cantieri, ecc. trovano applicazione le aggravanti dell’art. 425 c.p., che comportano un aumento di pena.

Aspetti procedurali

  • Procedibilità d’ufficio.
  • Competenza del tribunale in composizione monocratica.

Giurisprudenza sul reato di incendio

La giurisprudenza ha è intervenuta in diverse occasioni per specificar gli aspetti più importanti del reato di incendio.

Cassazione n. 8598/2024: la sentenza distingue tra la definizione comune di incendio e la definizione giuridica del reato di incendio boschivo (art. 423-bis c.p.).

  • L’incendio comune si verifica solo quando il fuoco divampa in modo incontrollabile e su vasta scala, con fiamme distruttive che si propagano e mettono in pericolo un numero indeterminato di persone.
  • L’incendio boschivo (art. 423-bis c.p.): è un reato di pericolo presunto. Non è necessario che l’incendio si sviluppi completamente con le caratteristiche descritte sopra. È sufficiente che il fuoco appiccato abbia la potenzialità di diventare un incendio, manifestando la tendenza a diffondersi, la difficoltà di essere spento e la possibilità di creare pericolo per la pubblica incolumità.

Cassazione n. 5527/2024: ciò che distingue il reato di incendio doloso (art. 423 c.p.) dal reato di danneggiamento seguito da incendio (art. 424 c.p.) è l’elemento psicologico dell’autore.

  • L’incendio doloso (art. 423 c.p.) richiede il dolo generico, ovvero la volontà di causare un evento con fiamme che, per la loro natura e intensità, sono inclini a propagarsi incontrollabilmente, generando un reale pericolo per la sicurezza pubblica. L’obiettivo primario dell’agente è provocare un incendio con queste caratteristiche.
  • Il danneggiamento seguito da incendio (art. 424 c.p.): è caratterizzato dal dolo specifico di danneggiare una cosa altrui. L’intenzione principale dell’agente è quella di deteriorare o distruggere un bene appartenente ad altri, l’incendio è un risultato secondario, seppur prevedibile.

Rilevanza pratica e considerazioni conclusive

Il reato di incendio è di particolare rilevanza nei contesti urbani e rurali, soprattutto nei periodi di emergenza ambientale o in presenza di fenomeni di vandalismo. La sua disciplina mira a tutelare la sicurezza collettiva e a prevenire disastri con effetti potenzialmente estesi e incontrollabili.

In ambito processuale e difensivo, è fondamentale valutare con attenzione:

  • la natura del fuoco (incendio o semplice combustione),
  • l’intenzionalità della condotta,
  • l’esistenza del pericolo concreto per la collettività,
  • eventuali fattori di rischio connessi (uso di sostanze acceleranti, contesto di luogo e tempo).

 

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contenuto della querela

Il contenuto della querela spiegato dalla Cassazione Il contenuto della querela e la qualificazione giuridica del fatto: la Cassazione si pronuncia con la sentenza n. 4258/2025

Contenuto della querela

Contenuto della querela: la prima sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4258/2025, ha ribadito un principio fondamentale in materia di querela, stabilendo che essa deve limitarsi a contenere la notizia di reato con l’istanza di punizione, mentre la qualificazione giuridica del fatto spetta esclusivamente al giudice.

La vicenda processuale

Il caso in esame trae origine dalla sentenza del tribunale di Foggia che, previa riqualificazione del fatto contestato dal pubblico ministero come integrante la contravvenzione di cui all’art. 660 cod. pen. anziché il reato di cui all’art. 612-bis cod. pen., ha condannato un uomo concessegli le circostanze attenuanti generiche, alla pena di euro 200 di ammenda.
Il Tribunale ha anche precisato che non potesse essere accolta la richiesta,
formulata dal difensore dell’imputato prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, di definizione del procedimento mediante oblazione in caso di riqualificazione del reato di atti persecutori in quello di molestie. A tal proposito, il tribunale ha richiamato pronunce di legittimità secondo cui l’imputato può avere accesso all’oblazione solo quando avanzi, in via preventiva e cautelativa, una
sollecitazione al giudice circa la diversa qualificazione con contestuale richiesta di oblazione, incorrendo altrimenti nella decadenza.

Nel caso di specie, l’imputato si è limitato genericamente a sollecitare di essere ammesso all’oblazione nel caso in cui il giudice avesse in sentenza riqualificato i fatti.

Il ricorso

Avverso la predetta sentenza, ha proposto ricorso innanzi alla Cassazione, il difensore dell’imputato, articolando tre motivi.

Con il primo motivo, lamenta l’omessa declaratoria di improcedibilità per il difetto di querela, nonché la mancanza di motivazione. Nel secondo si duole del negato accesso all’oblazione. Con il terzo e ultimo motivo, infine, la mancanza di motivazione in ordine alla mancata concessione del beneficio della non menzione.

La motivazione della sentenza

Per gli Ermellini, il ricorso è parzialmente fondato, in ordine alla preclusione del diritto a fruire dell’oblazione.

Infondati invece gli altri motivi, soprattutto in ordine alla querela, osservano i giudici, dagli atti risulta che la persona offesa abbia presentato una valida querela contenente l’espressa richiesta di punizione.
Sotto questo profilo, proseguono, “non rileva che la querela fosse stata originariamente proposta per il reato di atti persecutori anziché per quello di molestie, in quanto è sufficiente che l’atto esprima la volontà di procedere nei confronti del responsabile di un fatto.
La querela, invero, rammentano dalla S.C., “deve contenere solo la notizia di reato con l’istanza di punizione, spettando esclusivamente al giudice il potere d’inquadrare il fatto storico, ossia la qualificazione giuridica del fatto stesso, indipendentemente da quella data dal querelante (cfr., tra le altre, Cass. n. 12159/1977; Cass. n. 27964/2020).

La decisione

Alla luce di quanto affermato, la sentenza impugnata per piazza Cavour va annullata limitatamente alla valutazione dell’istanza di ammissione all’oblazione, con rinvio al Tribunale di Foggia in diversa persona fisica per un nuovo giudizio sul punto. Nel resto, invece, il ricorso è rigettato.

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custodia cautelare

La custodia cautelare Custodia cautelare: cos'è, normativa di riferimento, requisiti di applicazione, durata, reati e giurisprudenza

Cos’è la custodia cautelare?

La custodia cautelare è una misura cautelare personale prevista dal codice di procedura penale (art. 285- art. 286 bis c.p.p). Si applica a un imputato quando sussistono gravi indizi di colpevolezza e specifiche esigenze cautelari, al fine di garantire il corretto svolgimento del processo.

Normativa di riferimento

Le disposizioni relative alla custodia cautelare sono contenute nel Titolo I, Capo II del Libro IV del Codice di procedura penale. Le principali norme di riferimento includono:

  • Art. 272 c.p.p.: sancisce che le libertà della persona possa essere limitata solo con misure cautelari nel rispetto delle disposizioni di legge dedicate presenti nel codice di procedura penale.
  • Art. 273 c.p.p.: le misure cautelari possono essere disposte solo in presenza di gravi indizi di colpevolezza.
  • Art. 274 c.p.p.: le principali esigenze cautelari sono rappresentate dal pericolo di fuga, da quello di reiterazione del reato, dal possibile inquinamento delle prove.
  • Art. 285 c.p.p.: contiene la disciplina della custodia cautelare in carcere.
  • Art. 286 c.p.p.: prevede la custodia cautelare in un luogo di cura.
  • Art 286 bis c.p.p: prevede in quali casi è previsto il divieto della custodia cautelare.

Requisiti per l’applicazione

La custodia cautelare è disposta dal giudice quando ricorrono tre presupposti fondamentali:

  1. Gravi indizi di colpevolezza (art. 273 c.p.p.).
  2. Esigenze cautelari concrete e attuali (art. 274 c.p.p.):
    • Pericolo di fuga;
    • Pericolo di reiterazione del reato;
    • Pericolo di inquinamento delle prove.
  1. Adeguatezza della misura: il giudice deve valutare se misure meno afflittive (es. arresti domiciliari, obbligo di firma) siano insufficienti. Il comma 2 dell’articolo 275 c.p.p sancisce infatti che “ogni misura deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o che si ritiene possa essere irrogata.”

Durata della custodia cautelare

La custodia cautelare ha una durata massima stabilita dagli artt. 303 e 304 c.p.p., che varia in base alla gravità del reato e alla fase del processo:

  • Indagini preliminari: 3 mesi per delitti che prevedono la pena della reclusione non superiore nel massimo a sei anni, 6 mesi per reati puniti con la reclusione per un periodo non superiore a sei anni salvo quanto sancito dal punto 3), comma 1, art. 2303 c.p.p, 1 anno per reati puniti con l’ergastolo o con una pena non inferiore nel massimo a 20 anni;
  • Giudizio di primo grado: sei mesi per reati puniti con la reclusione non superiore nel massimo a sei anni; 1 anno per reati puniti con la pena della reclusione non superiore nel massimo a 20 anni; 1 anno e sei mesi se la pena prevista è l’ergastolo o la pena della reclusione superiore, nel massimo, a 20 anni.
  • Appello e Cassazione: i tempi sono ulteriormente ridotti.

Reati per cui si applica la custodia cautelare

La custodia cautelare può essere applicata per reati di particolare gravità, tra cui:

  • Mafia e associazione per delinquere (art. 416-bis c.p.).
  • Omicidio volontario (art. 575 c.p.).
  • Violenza sessuale aggravata (art. 609-bis c.p.).
  • Traffico di droga (art. 73 D.P.R. 309/90).
  • Rapina aggravata (art. 628 c.p.).

Giurisprudenza rilevante 

La Corte di Cassazione intervenuta spesso in materia di custodia cautelare per precisare le caratteristiche peculiari dell’istituto e la sua applicazione.

Cassazione n. 10925/2025

La misura della custodia cautelare in carcere va confermata nei confronti di un imputato accusato di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, evidenziando che il semplice decorso del tempo non è, di per sé, sufficiente a escludere l’attualità delle esigenze cautelari. La decisione si basa sulla persistenza di elementi concreti e attuali che attestano la pericolosità del soggetto, come condotte recenti indicative di una propensione a reiterare reati della stessa natura. In questo contesto, la valutazione dell’autorità giudiziaria deve considerare non solo il tempo trascorso, ma anche eventuali comportamenti che confermino il mantenimento del legame con l’ambiente criminale o la possibilità di nuovi reati.

Cassazione SU n. 44060/2024

Nel caso in cui l’imputato, nei confronti del quale sia stata emessa ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere, divenuta inefficace per il proscioglimento pronunciato all’esito del giudizio di primo grado, venga successivamente sottoposto, ai sensi dell’art. 300, comma 5, cod. proc. pen., a nuova applicazione della custodia in carcere, il rimedio che egli può esperire per impugnare la relativa ordinanza è quello dell’istanza di riesame ex art. 309 cod. proc. pen.

Cassazione n. 32593/2021

In materia di misure cautelari personali, il limite di tre anni di pena detentiva necessario per l’applicazione della custodia in carcere, previsto dall’art. 275 c.p.p., comma 2-bis, opera non solo nella fase di applicazione, ma anche nel corso dell’esecuzione della misura, sicché la misura non può essere mantenuta qualora sopravvenga una sentenza di condanna, quantunque non definitiva, a pena inferiore al suddetto limite; in motivazione, la Corte ha precisato che i principi di proporzionalità ed adeguatezza devono essere costantemente verificati, al fine di attuare la minor compressione possibile della libertà personale, non potendo prevalere le valutazioni compiute in fase cautelar rispetto alla pronuncia adottata in fase di merito.”

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affettività in carcere

Affettività in carcere: le linee guida Affettività in carcere: dopo la pronuncia della Consulta arrivano le linee guida che riconoscono ai detenuti il diritto all'intimità

Affettività in carcere: linee guida post Consulta

Sull’affettività in carcere arrivano le linee guida sottoscritte dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Lina Di Domenico.

Il documento recepisce le indicazioni della Corte Costituzionale, che nella sentenza n. 10/2024 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa, nei termini di cui in motivazione, a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie.”

Linee guida affettività in carcere: cosa prevedono

Le linee guida, alla luce di quanto sancito dalla Consulta, prevedono che i colloqui intimi saranno consentiti, a meno che non ci sia incompatibilità con l’assenza di un controllo visivo.

Il numero dei colloqui sarà il medesimo di quelli di cui i detenuti e gli internati fruiscono già mensilmente e la durata massima sarà di due ore.

Le amministrazioni penitenziarie dovranno individuare locali da destinare a questi colloqui, che siano in grado di garantire una certa riservatezza. Da preferire le aree vicino all’ingresso dell’istituto, ma la direzione può consentire lo svolgimento dei colloqui in locali distinti.

La stanza destinata ai colloqui intimi sarà arredata con un letto e servizi igienici. La stessa però non potrà essere chiusa dall’interno e sarà sorvegliata soltanto esternamente dalla Polizia penitenziaria equipaggiata per il controllo dei detenuti e dei soggetti ammessi ai colloqui intimi e all’ispezione della stanza prima e dopo l’incontro.

Via preferenziale per i detenuti che non beneficiano di permessi premio o di altri benefici che consentano loro di coltivare rapporti affettivi all’esterno e detenuti e imputati che, a parità di condizioni, devono scontare pene più lunghe e si trovano in uno stato di privazione della libertà da più tempo.

Per quanto riguarda i soggetti ammessi ai colloqui le linee guida indicano il coniuge, la parte dell’unione civile e il convivente, dopo gli opportuni controlli documentali e la firma del consenso informato del soggetto in visita.

Soggetti esclusi e possibili limitazioni

Sono esclusi dai colloqui intimi i detenuti sottoposti a regimi detentivi speciali come quelli previsti dall’artt. 41-bis O.P. e dall’art. 14-bis O.P.

Alle Direzioni il compito di individuare eventuali ragioni ostative per ragioni di sicurezza o per la necessità di mantenere l’ordine e la disciplina.

Colloqui intimi esclusi in ogni caso per i detenuti in isolamento sanitario. I colloqui infine potranno essere negati nelle ipotesi di detenzione, dal parte dell’internato, di sostanze stupefacenti, oggetti atti a offendere e cellulari e nei casi in cui il soggetto abbia manifestato un’indole violenta o tenuto condotte che potrebbero comportare rischi in sede di colloquio.

 

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dl sicurezza

Dl Sicurezza: le misure In vigore il dl sicurezza che rafforza tra le altre cose la tutela legale per le forze dell’ordine e introduce il reato di rivolta nelle carceri

Dl sicurezza: approvazione d’urgenza

Il Consiglio dei ministri nella giornata di venerdì 4 aprile 2025 ha approvato il dl Sicurezza. Il nuovo decreto contiene 39 articoli e presenta modifiche sostanziali rispetto al testo originario (ddl sicurezza), che sarebbe confluito in questo testo dopo i correttivi richiesti dal Colle.

Il decreto legge n. 48/2025 recante “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, di tutela personale in servizio, nonchè di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario” è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale l’11 aprile per entrare in vigore il 12 aprile 2025.

Le misure del nuovo provvedimento 

Una delle misure di maggiore interesse riguarda la tutela legale delle Forze di Polizia, dei Vigili del fuoco e delle Forze armate, che verranno sopportati economicamente con importi sino a 10.000 euro per ogni fase del procedimento.

Specificate le condotte che configurano il reato di “rivolta” nelle carceri e nei Centri per il rimpatrio, limitandolo a violazioni di ordini legati alla sicurezza.

Per i migranti viene meno l’obbligo di mostrare il permesso di soggiorno per ottenere una SIM: sarà sufficiente il documento d’identità.

Nei reati contro pubblici ufficiali, si dovranno considerare anche le attenuanti, superando l’automatismo a favore delle aggravanti previsto nel ddl.

Sul tema delle detenute incinte, il testo prevede che il giudice potrà valutare le esigenze del minore, anche in caso di gravi condotte della madre, superando l’obbligo rigido di custodia attenuata previsto nel disegno originario.

Prevista la procedibilità d’ufficio per il reato di occupazione abusiva di immobili se la condotta è perpetrata nei confronti di soggetto incapace per età o infermità.

Le forze di polizia potranno essere di bodycam per registrare lo svolgimento dell’attività di conservazione dell’ordine pubblico e del controllo del territorio. Possibilità estesa al personale addetto alla sicurezza a bordo dei treni.

Pene più severe per chi imbratta e deturpa gli immobili destinati all’esercizio delle funzioni pubbliche.

Le vittime di usura potranno avvalersi di un tutor nella gestione del mutuo loro concesso, per un reinserimento ottimale nel contesto economico legale.

 

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reato di peculato

Reato di peculato Il reato di peculato di cui all'art. 314 del codice penale: cos'è, come funziona e differenze con la concussione

Cos’è il reato di peculato

Il reato di peculato si verifica quando un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio si appropria, indebitamente, di denaro o beni mobili altrui, di cui ha il possesso o la disponibilità in virtù del suo ufficio o servizio. La norma si pone l’obiettivo di tutelare gli interessi di natura patrimoniale della PA e quindi il suo buon andamento.

Art. 314 c.p: reato di peculato

L’articolo 314 c.p, che punisce il reato di peculato, recita: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizi, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni e sei mesi. Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita.”

Questo articolo prevede quindi che, nel caso in cui un pubblico ufficiale (come un ministro, un funzionario pubblico, un agente della polizia, ecc.) o un incaricato di pubblico servizio (ad esempio, un consulente pubblico o un appaltatore) si appropri di denaro o cose mobili altrui in suo possesso per ragioni di servizio o ufficio, venga punito con la reclusione da 4 fino a 10 anni e sei mesi.

Elemento oggettivo 

L’elemento oggettivo del reato di peculato è rappresentato dall’appropriazione indebita di denaro o beni mobili altrui da parte di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio. Perché il reato si configuri deve esserci una appropriazione del denaro o d altre cose mobili che sono nel suo possesso in ragione del suo ufficio o servizio.

Se il soggetto attivo del reato si appropria del denaro o dei beni mobili altrui, solo per farne un uso momentaneo e poi restituisce il tutto si configura il reato di peculato d’uso.

Elemento soggettivo

L’elemento soggettivo del reato di peculato è il dolo generico. Esso si traduce nella volontà di appropriarsi dei beni pubblici per un scopo personale, che può essere economico o materiale. È essenziale che l’appropriazione venga compiuta con consapevolezza e intenzionalità. La condotta deve essere volontaria e il pubblico ufficiale deve agire con l’intenzione di trarre un beneficio illecito.

Nel peculato d’uso invece il dolo è specifico e consiste nella volontà di fare un uso momentaneo del denaro e delle cose pubbliche.

Pena e procedibilità del reato di peculato

Per il reato di peculato è la reclusione da 4 a 10 anni e sei mesi. La pena può essere maggiorata in caso di circostanze aggravanti (es: danno particolarmente grave per la pubblica amministrazione o coinvolgimento di più persone). La reclusione può essere invece ridotta se il reo restituisce i beni o il denaro di cui si è appropriato prima del processo. In questo modo egli dimostra infatti la volontà di riparare il danno arrecato.

Il peculato è un reato procedibile d’ufficio. Non è necessaria quindi la querela della parte lesa per avviare il procedimento penale. In altre parole il processo penale può essere avviato anche senza che la pubblica amministrazione presenti una denuncia. Questo aspetto è importante per tutelare l’interesse pubblico e impedire che l’azione penale possa essere bloccata da eventuali interessi privati.

Peculato e concussione a confronto

Sebbene il peculato e la concussione abbiano entrambi, come protagonisti, i pubblici ufficiali, i due reati si differenziano in modo significativo sotto il profilo della condotta e dell’intento dell’agente.

  • Peculato: il pubblico ufficiale si appropria indebitamente di beni o risorse che gli sono stati affidati per ragioni di servizio o ufficio. In questo caso, la condotta è quella di appropriarsi di risorse pubbliche per fini personali.
  • Concussione (art. 317 c.p.): il pubblico ufficiale costringe una persona a dargli o promettergli indebitamente denaro o altre utilità, abusando delle sue qualità e dei suoi poteri.

Il peculato implica l’appropriazione di beni o denaro, mentre la concussione si fonda sull’intimidazione che il pubblico ufficiale esercita nei confronti di un terzo per farsi dare o promettere denaro o altre utilità.

Giurisprudenza

La giurisprudenza ha fornito importanti chiarimenti sul reato di peculato. Di seguito alcune sentenze significative.

Cassazione n. 11928/2025

Secondo l’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità, confermato dai principi stabiliti dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 19054 del 20/12/2012, l’utilizzo di un’auto di servizio per scopi privati è generalmente vietato. Si presume che tali veicoli siano destinati esclusivamente all’uso pubblico, a meno che non esistano provvedimenti ufficiali che autorizzino deroghe specifiche e documentate. In assenza di tali autorizzazioni, l’uso dell’auto di servizio per fini personali costituisce reato di peculato.

Cassazione n. 4520/2025

Il delitto di indebita destinazione di denaro o cose mobili, disciplinato dall’articolo 314-bis del codice penale, punisce le azioni di distrazione dei beni menzionati che, in precedenza, la giurisprudenza considerava rientranti nell’abrogato reato di abuso d’ufficio; pertanto, l’introduzione di questa nuova fattispecie non ha modificato l’ambito di applicazione del reato di peculato.

Cassazione n. 39546/2024

Il reato di peculato protegge sia il patrimonio della pubblica amministrazione sia l’integrità del suo operato, sussistendo anche in assenza di danno economico se l’interesse alla legalità viene violato. Il fulcro del reato risiede nell’abuso del possesso del bene da parte del funzionario, che lo usa per fini personali anziché istituzionali, anche senza arrecare un danno economico all’ente pubblico. Tuttavia, l’uso simultaneo del bene per scopi privati e pubblici non configura peculato se non causa un apprezzabile danno economico o funzionale all’amministrazione, poiché in tal caso non si verifica l’interversione del possesso che costituisce l’essenza del reato.

 

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