giudizio di ottemperanza

Giudizio di ottemperanza Il giudizio di ottemperanza: funzione, presupposti e procedimento. I provvedimenti oggetto del giudizio e la nomina del commissario ad acta

Cos’è l’azione di ottemperanza

Il giudizio di ottemperanza è un particolare procedimento che si svolge davanti al giudice amministrativo per conseguire l’adempimento, da parte della Pubblica Amministrazione, di un obbligo previsto da un precedente provvedimento giudiziario.

I provvedimenti oggetto del giudizio di ottemperanza

Il Codice del processo amministrativo (d. lgs. 104/2010) prevede un’apposita disciplina per l’azione di ottemperanza.

In particolare dispone che essa può essere adottata da un soggetto privato per ottenere l’attuazione di:

  • sentenze pronunciate dal giudice amministrativo (Tar o Consiglio di Stato) passate in giudicato;
  • provvedimenti esecutivi pronunciati dal giudice amministrativo;
  • sentenze del giudice ordinario che obbligano una pubblica amministrazione all’adempimento di un obbligo (ad esempio, pagamento di una somma di denaro);
  • lodi arbitrali esecutivi.

Cosa significa giudizio di ottemperanza

La funzione del giudizio di ottemperanza è, quindi, quella di offrire, al soggetto che sia risultato vittorioso in un giudizio nei confronti di una pubblica amministrazione, uno strumento efficace per ottenere l’adempimento da parte dell’ente pubblico rimasto inerte di fronte al comando contenuto in un provvedimento giudiziario.

Il procedimento di ottemperanza

È importante notare, però, che vi è la possibilità che la sentenza (o altro provvedimento definitorio) oggetto dell’azione di ottemperanza non sia del tutto chiara nel definire in cosa consista l’obbligo a carico della p.a. soccombente.

Per tale motivo, il procedimento di ottemperanza può anche comportare una fase di cognizione, per consentire al giudice dell’ottemperanza di conoscere atti e fatti che lo aiutino a individuare, in concreto e con precisione, l’obbligo cui è tenuto l’ente pubblico.

Così procedendo, il giudice dell’ottemperanza è chiamato a valutare la conformità – o meno – del comportamento tenuto dalla PA rispetto al comando contenuto a suo carico nella pronuncia impugnata, facendo particolare attenzione all’eventuale residua presenza di margini di discrezionalità in capo alla stessa, con riferimento all’obbligo da adempiere.

Chi è competente nel giudizio di ottemperanza

Quanto al rito da osservare nel procedimento di ottemperanza, va innanzitutto evidenziato che la competenza appartiene al giudice amministrativo che ha adottato il provvedimento di cui si chiede l’ottemperanza oppure al Tar della medesima circoscrizione del giudice ordinario che ha adottato il provvedimento cui conformarsi.

Il giudizio di ottemperanza viene introdotto con ricorso (anche senza previa diffida) ed i termini processuali del procedimento sono ridotti alla metà. La sentenza viene adottata in forma semplificata e contiene le prescrizioni del giudice in ordine alle modalità cui la pubblica amministrazione deve attenersi per soddisfare l’interesse del privato ricorrente.

Il commissario ad acta nel giudizio di ottemperanza

A norma dell’art. 114 del Codice del Processo Amministrativo, il giudice, se necessario, può nominare un commissario ad acta al fine di emanare gli atti che dovrebbero essere adottati dalla PA.

Inoltre, su richiesta di parte, il giudice ha facoltà di fissare una somma di denaro che l’ente pubblico deve pagare al ricorrente in caso di ritardo o di mancata osservanza del suo provvedimento.

L’azione di ottemperanza si prescrive decorsi dieci anni dal passaggio in giudicato del provvedimento di cui si chiede l’osservanza.

giurista risponde

Risarcimento del danno ingiusto e giurisdizione Costituisce materia di giurisdizione esclusiva il risarcimento del danno ingiusto?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

No, il risarcimento del danno ingiusto non costituisce una materia di giurisdizione esclusiva ma solo uno strumento di tutela ulteriore ( T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, 3 giugno 2024, n. 3528).

È opportuno precisare che in tema di riparto della giurisdizione, l’attrazione della tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo può verificarsi soltanto qualora il danno patito dal soggetto sia conseguenza immediata e diretta della dedotta illegittimità del provvedimento che egli ha impugnato, non costituendo il risarcimento del danno ingiusto una materia di giurisdizione esclusiva, ma solo uno strumento di tutela ulteriore e di completamento rispetto a quello demolitorio.

Pertanto, la domanda risarcitoria proposta nei confronti dell’amministrazione per i danni subiti dal privato, che abbia fatto incolpevole affidamento su un provvedimento ampliativo illegittimo, rientra nella giurisdizione ordinaria, non trattandosi di una lesione dell’interesse legittimo pretensivo del danneggiato.

Ed invero, la situazione giuridica, la cui lesione costituisce la causa della pretesa del privato di vedersi risarciti i danni causati dall’annullamento di un provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica, non è l’interesse legittimo alla conservazione del bene della vita acquisito con tale provvedimento, bensì l’affidamento incolpevole dal medesimo riposto nella legittimità di tale provvedimento.
Sul punto la giurisprudenza della Cote di Cassazione (Cass., Sez. Un., ord. 24 aprile 2023, n. 10880; Id., 6 febbraio 2023, n. 3514; Id., ord. 24 gennaio 2023, n. 2175, Id., ord. 29 aprile 2022, n. 13595; Id., 11 maggio 2021, n. 12428; Id., 8 luglio 2020, n. 14231) ha specificato che in relazione agli interessi legittimi pretensivi, infatti, l’interesse del privato all’ampliamento della propria sfera giuridica è soddisfatto quando l’amministrazione, all’esito del procedimento, emani il provvedimento che produce l’effetto positivo, senza che rilevi, dal punto di vista del medesimo privato, se tale emanazione sia legittima o illegittima; al privato interessa soltanto di poter vedere ampliata la propria sfera giuridica, cioè acquisire un bene della vita.

Con riguardo alla vicenda in esame la Sezione ha dichiarato il difetto di giurisdizione, in relazione ad una richiesta di risarcimento dei danni subiti in conseguenza della condotta dell’ente che aveva dapprima autorizzato lo svolgimento dell’attività degli indicati locali e, successivamente, rilevato l’assenza dei presupposti per il rilascio della necessaria autorizzazione unica ambientale.

Contributo in tema di “Risarcimento del danno ingiusto e giurisdizione”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / Settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

riforma cartabia

Riforma Cartabia: costituzionale l’art. 473.bis-17 c.p.c.? Riforma Cartabia: dubbi sulla costituzionalità del termine di 10 giorni che ha l'attore per esercitare il suo diritto di difesa

Riforma Cartabia: i dubbi di costituzionalità

La Riforma Cartabia concede all’attore 10 giorni per prendere posizione sulle difese del convenuto, precisare e modificare le proprie conclusioni, proporre domande ed eccezioni  in conseguenza della domanda riconvenzionale e formulare istanze di prova. Questa regola però viola i principi sanciti dagli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione. Il nuovo art. 473bis.17 c.p.c, che prevede questo termine, non consente all’attore di esercitare il proprio diritto di difesa come il convenuto. Lo ha sancito il Tribunale di Genova che, accogliendo le rimostranze di parte attrice, ha rimesso la questione di legittimità costituzionale alla Consulta con l’ordinanza del settembre 2024.

Domanda per la modifica delle condizioni della separazione

Nella vicenda, una donna agisce in giudizio per chiedere la modifica delle condizioni della separazione sancita con una sentenza del 2016. Nella domanda chiede l’aumento del contributo dovuto dall’ex marito in favore della figlia maggiorenne, affetta da serti disturbi dell’apprendimento. Il marito si costituisce in giudizio, si oppone alle richieste della ex moglie e in via riconvenzionale chiede il divorzio.

Parte ricorrente con memoria 473bis.17 c.p.c. eccepisce l’inammissibilità della domanda di divorzio. Per l’attrice essa non presenta alcuna connessione oggettiva con la domanda principale. In udienza le parti raggiungono un accordo sul mantenimento e sulle spese straordinarie in favore della prole. La causa viene rinviata e le parti depositano note scritte per tentare di trovare un punto di incontro su tutte le questioni patrimoniali pendenti.

Costituzionale l’art. 473bis.17 c.p.c.?

Il giudice prende atto dell’impossibilità di raggiungere una soluzione condivisa sul divorzio a causa dell’eccezione sollevata da parte attrice. Essa ha sollevato infatti un dubbio di legittimità costituzionale dell’art. 473 bis. 17 introdotto dalla Riforma Cartabia nel procedimento in materia di persone e famiglia. Per la ricorrente il termine di 10 giorni che viene concesso alla parte attrice per prendere posizione sulle domande nuove del convenuto sono insufficienti e lesivi dei principi sanciti dall’articolo 3 (uguaglianza), 24 (diritto di difesa) e 111 (giusto processo).

Il Tribunale di Genova, nel pronunciarsi sulla dubbia legittimità costituzionale dell’art. 473bis. 17, dopo aver analizzato gli articoli 473 bis 11 si sofferma sull’art. 474bis. 17. Questo articolo al comma 1 dispone che: “entro venti giorni prima della data dell’udienza, l’attore può depositare memoria con cui prendere posizione in maniera chiara e specifica sui fatti allegati dal convenuto, nonché, a pena di decadenza, modificare o precisare le domande e le conclusioni già formulate, proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza delle difese del convenuto, indicare mezzi di prova e produrre documenti. Nel caso in cui il convenuto abbia formulato domande di contributo economico, nello stesso termine l’attore deve depositare la documentazione prevista nell’articolo 473-bis. 12, terzo comma”.

Il convenuto ha 30 giorni per impostare la difesa, l’attore solo 10

Analizzando la normativa in questione emerge che il convenuto ha 30 giorni di tempo per impostare la difesa, sollevare le sue eccezioni e formulare eventuali domande riconvenzionali. L’attore invece, per prendere posizione sulle domande e sulle difese del convenuto, modificare le proprie domande, sollevare eventuali accezioni e proporre domande nuove in conseguenza delle domande e dei mezzi di prova del convenuto ha solo 10 giorni, spesso 9 o meno ancora se la comparsa conclusionale viene depositata lultimo giorno disponibile e scaricata dalla Cancelleria il giorno successivo.”

In un caso come quello di specie, in cui parte attrice si è limitata a chiedere la modifica delle condizioni per il mantenimento della prole mentre parte convenuta ha chiesto in via riconvenzionale il divorzio, quest’ultima mette in discussione tutto quanto stabilito fino a quel momento tra la coppia in materia di diritti patrimoniali e non patrimoniali. Per questo parte attrice lamenta di non aver avuto abbastanza tempo per formulare la domanda per l’assegno divorzile conseguente alla domanda di divorzio di controparte.

Compressione ingiustificata dei termini: l’attore non può difendersi

L’articolo 474bis.17 c.p.c. prevede una compressione ingiustificata del diritto di difesa dell’attore previsto dall’articolo 24 della Costituzione in violazione del principio del giusto processo sancito dall’articolo 111 e di uguaglianza contenuto nell’art. 3 della Costituzione.

“Il termine di soli dieci giorni previsto dall’art. 473 bis.17 c.p.c in favore dell’attore per modificare e precisare le domande e formulare domande nuove e quindi anche i relativi mezzi di prova, si reputa assolutamente incongruo, non rinvenendosi nei vari riti previsti dal nostro ordinamento per i giudizi a cognizione piena una tempistica così ristretta”.

Basti pensare ai tempi previsti dagli articoli 166 e 171 ter del processo a cognizione ordinaria, a quelli indicati dall’art. 281 duodecies c.p.c, che disciplina il rito ordinario semplificato, ai termini del rito lavoro di cui all’art. 481 c.p.c o a quelli previsti dall’art. 166 ante riforma.

Come più volte affermato dalla Consulta “Il difetto di congruità del termine, rilevante sul piano della violazione dell’art. 24, primo comma, Cost., si ha solo qualora esso, per la sua durata, sia inidoneo a rendere effettiva la possibilità di esercizio del diritto cui si riferisce e, di conseguenza, tale da rendere inoperante o carente la tutela accordata al cittadino” (Corte Cost. 10/02/2023, n. 18)”.

 

Leggi anche: Domanda congiunta separazione e divorzio

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autovelox ed etilometro

Autovelox ed etilometro hanno presupposti diversi Per la Cassazione non può contestarsi la validità della rilevazione dell'etilometro in base alle regole previste per l'autovelox

Autovelox ed etilometro

Non si può contestare la validità della rilevazione effettuata con l’etilometro in base alle regole dettate in tema di autovelox, in quanto non applicabili. Questo, in sintesi, quanto emerge dalla sentenza n. 21040/2024 della quarta sezione penale della Cassazione.

La vicenda

A ricorrere al Palazzaccio è un uomo condannato per il reato di cui all’art. 186 co. 2, let. c), 2- bis, 2-sexies e 2-septies cod. strada. Il ricorrente contesta l’inidoneità dell’etilometro utilizzato, i margini di errore dello stesso e il fatto che l’esame strumentale non può costituire una prova legale.

Contesta, inoltre, violazione di legge in relazione alla sussistenza dei requisiti di cui al MD 196/90, l’esistenza di errori massimi tollerabili nel tipo di apparecchio utilizzato e la pena “severissima, prossima al massimo edittale” irrogata non tenendo conto della sua incensuratezza nè della condotta complessiva dello stesso, “inidonea a provocare rischi per l’incolumità di alcuno”. Chiede, pertanto, annullarsi la sentenza impugnata.

Ricorso inammissibile

Il Collegio tuttavia ritiene tutte le doglianze generiche e inammissibili e, per contro, la sentenza impugnata logica e congrua e immune da vizi di legittimità.

Intanto, “la Corte territoriale – anticipano gli Ermellini – ha ritenuto sufficientemente provata la responsabilità dell’imputato non soltanto in base agli esiti degli accertamenti strumentali (quindi il superamento del valore della soglia di 1,50 g/l, essendo stati riscontrati 2,09 g/l alla prima prova e 2,32 alla seconda), bensì anche per via della
convergenza indiziaria emersa in sede istruttoria, tra cui le manifestazioni esteriori, tipiche dello stato di alterazione da alcool, da parte dell’imputato al momento del fatto”. Ormai da tempo, e ben prima del proposto ricorso, la giurisprudenza, infatti, proseguono i giudici (cfr. ex multis, Sez. 4 n. 3201 del 12/12/2019; n. 33371 del 8/6/2023) ha “fugato ogni dubbio sul fatto che, per quanto riguarda l’etilometro, l’omologazione e le verifiche periodiche dello stesso sono espressamente previste dall’art. 379, commi 6, 7 e 8 del Regolamento esecutivo al Codice della Strada, approvato con d.P.R. 16 novembre 1992, n. 495 e ciò differenzia la disciplina in tema di etilometro rispetto a quella avente ad oggetto l’autovelox, colpita dalla declaratoria di incostituzionalità operata con la sentenza della Corte Costituzionale n. 113/2015”.
Pertanto, dovendo ritenersi che, anche nel caso del giudizio penale per guida in stato d’ebbrezza ex art. 186, co. 2, cod. strada, “nell’ambito del quale assuma rilievo la misurazione del livello di alcool nel sangue mediante etilometro, all’attribuzione dell’onere della prova in capo all’accusa circa l’omologazione e l’esecuzione delle verifiche periodiche sull’apparecchio utilizzato per l’alcoltest, fa riscontro un onere di allegazione da parte del soggetto accusato, avente ad oggetto la contestazione del buon funzionamento dell’apparecchio, che nel caso che ci occupa non è stato adempiuto”.
Peraltro, in tema di guida in stato di ebbrezza, proseguono dalla S.C., “l’esito positivo dell’alcoltest costituisce prova dello stato di ebbrezza (stante l’affidabilità di tale strumento in ragione dei controlli periodici rivolti a verificarne il perdurante funzionamento successivamente all’omologazione e alla taratura) con la conseguenza che è onere della difesa dell’imputato fornire la prova contraria a detto accertamento, dimostrando l’assenza o l’inattualità dei prescritti controlli, tramite l’escussione del dirigente del reparto addetto ai controlli o la produzione di copia del libretto metrologico dell’etilometro (Sez. 4, n. 31843/2023)”.
Anche sul punto della pena irrogata infine il ricorso è inammissibile, giacchè al contrario di quanto sostenuto dalla difesa, non è “prossima al massimo edittale” ma nella “media edittale prevista dall’art. 186, comma 2, cod. strada aggravato dalla circostanza di cui al co. 2-bis (che, nella specie, prevede il raddoppio delle sanzioni previste dal co. 2)”.

La decisione

Da qui l’inammissibilità del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di tremila euro alla cassa delle ammende.

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salario minimo

Salario minimo: la guida Salario minimo: cos’è, come si stabilisce, a cosa serve e cosa prevede la Direttiva UE che gli Stati devono recepire entro il 15 novembre 2024

Salario minimo: che cos’è

Il salario minimo è la retribuzione minima del lavoratore. Si tratta della somma minima, sotto la quale non si può scendere, che i datori di lavoro devono riconoscere e corrispondere ai loro dipendenti, operai o impiegati.

In molti paesi il salario è stabilito per legge da più di un secolo, in altri invece deve ancora trovare uno spazio nella legislazione interna, come in Italia. La misura aspira a riconoscere ai lavoratori una retribuzione più adeguata ai bisogni tipici della società moderna.

Salario minimo: determinazione

Il salario minimo può essere determinato dalla legge (salario minimo legale), dalla contrattazione collettiva nazionale o dalla combinazione tra queste due fonti. In Italia la sua determinazione è rimessa alla contrattazione collettiva.

L’unico riferimento normativo che si limita a indicare i criteri di determinazione dell’importo della retribuzione e l’articolo 36 della Costituzione. La norma riconosce al lavoratore il diritto di percepire una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro. Essa deve essere corrisposta comunque in misura sufficiente a garantire al lavoratore stesso e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.

A questa norma si ricollega l’articolo 39 della Costituzione. Esso che riconosce ai sindacati il potere di stipulare i contratti collettivi di lavoro vincolanti per i lavoratori della categoria a cui si riferisce il contratto specifico.

La situazione reale del nostro paese però è caratterizzata dalla mancata estensione dell’efficacia dei contratti collettivi a tutti i lavoratori della categoria con conseguente moltiplicazione dei contratti stessi.

Riferimento normativo UE

Il salario minimo rappresenta l’oggetto della Direttiva 2022/2041, che è stata approvata il 14 settembre del 2022. Essa ha stabilito l’obbligo di recepimento da parte degli stati UE entro 2 anni dalla sua entrata in vigore. Gli Stati quindi devono adeguarsi alla Direttiva entro il 15 novembre 2024.

Questo perché in 21 paesi europei il salario minimo è già previsto e disciplinato, mentre in altri paesi UE come l’Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Italia e Svezia, la sua determinazione è rimessa alla contrattazione collettiva e non appare equa e in grado di soddisfare le finalità della direttiva.

La Direttiva UE  2022/2041

La Direttiva europea 2022/2041 si pone l’obiettivo di garantire salari minimi in grado di assicurare ai lavoratori condizioni di lavoro, ma anche di vita, dignitose. Essa mira alla convergenza sociale verso l’alto e alla eliminazione delle differenze retributive.

La Direttiva, per sua natura, non può imporre agli Stati che ricorrono alla contrattazione collettiva di adottare un salario minimo per legge. Nello stesso modo non può imporre di dichiarare un contratto collettivo applicabile universalmente a tutti i lavoratori.

Per garantire uniformità essa prevede che gli Stati UE che abbiano già adottato i salari minimi legali debbano rideterminarli e aggiornarli per perseguire le finalità della normativa. Nei paesi che invece ne affidano la determinazione alla contrattazione collettiva la Direttiva la promuove nel rispetto dell’autonomia delle parti sociali coinvolte.

La Direttiva prevede inoltre che gli Stati UE debbano essere monitorati. Ogni due anni dovranno infatti fornire alcuni dati alla Commissione UE. Questi dati variano a seconda che il salario minimo sia definito con legge o tramite contrattazione collettiva.

I progetti di legge in materia

Nel corso della precedente legislatura e di quella in corso sono stati presentati diversi progetti di legge sul salario minimo.

Per approfondire leggi la documentazione parlamentare dedicata al “Salario Minimo”

In particolare, il 2 ottobre scorso, la commissione lavoro del Senato, ha avviato l’esame congiunto dei ddl 126 e 281 e dei ddl 956 e 957, quest’ultimo già approvato dalla Camera (“Equa retribuzione”), che prevede una delega al governo in materia di rappresentanza sindacale e di efficacia della contrattazione collettiva, introducendo strumenti per aumentare i salari minimi.
equipro

EquiPro: come funziona la piattaforma per gli intermediari A cosa serve la piattaforma messa a disposizione dall'Agenzia delle Entrate-Riscossione e quali sono i servizi offerti nell'area riservata agli intermediari

EquiPro: cos’è

EquiPro è la piattaforma esclusiva rivolta agli intermediari. L’Agenzia delle Entrate-Riscossione ne illustra le caratteristiche nella pagina dedicata al servizio. Attraverso quest’area riservata, a disposizione dunque di commercialisti, consulenti del lavoro, tributaristi, Caf e associazioni di categoria, gli intermediari possono accedere e utilizzare i servizi online dell’AdeR per gestire le pratiche dei loro assistiti. Ciò consente di tenere sempre sotto controllo cartelle, avvisi, rate e scadenze.

I servizi di EquiPro

Gli intermediari abilitati e i loro incaricati possono visualizzare online la situazione debitoria (cartelle e avvisi di pagamento emessi dal 2000), i piani di rateizzazione dei loro assistiti.

E’ possibile utilizzare, inoltre, i seguenti servizi dispositivi, direttamente dal proprio dispositivo (pc, smartphone, tablet) senza andare allo sportello:

  1. pagare cartelle e avvisi di pagamento;
  2. ottenere direttamente online, in presenza dei requisiti, la rateizzazione per importi fino a 120 mila euro;
  3. trasmettere istanze di sospensione legale della riscossione;
  4. presentare e gestire le istanze di Definizione agevolata;
  5. chiedere informazioni specifiche sulla situazione debitoria, cartelle, rateizzazioni e procedure di riscossione con il nuovo servizio «Appuntamenti e contatti».

Come accedere

Per accedere a EquiPro, spiega il fisco, gli intermediari abilitati e i loro incaricati devono essere abilitati:

  • al servizio Entratel dell’Agenzia delle Entrate (ex art. 3 comma 3 DPR n. 322/1998) oppure avere l’identità digitale SPID, la Carta d’identità elettronica o la Carta nazionale dei servizi. In questi casi è comunque necessario essere abilitati a Entratel;
  • alla funzione denominata “servizi online Agenzia delle entrate-Riscossione”.

La delega dell’assistito

Per utilizzare i servizi online gli intermediari devono necessariamente ricevere la delega dai loro assistiti.
La delega ha carattere generale e consente di gestire la posizione del delegante mediante l’utilizzo di tutti i servizi disponibili via web. Ha una validità di due anni e può essere revocata in qualsiasi momento.

Le modalità di attribuzione delle deleghe prevedono una procedura di delega online e una procedura di delega cartacea.

Delega online

La modalità di attribuzione e accettazione delle deleghe online prevede tre passaggi fondamentali:

  1. l’intermediario abilitato (o suo incaricato) deve entrare in EquiPro (Agenzia delle Entrate, SPID, Carta d’identità elettronica, CNS-Carta Nazionale dei Servizi) accedere alla sezione “Gestione deleghe” e accettare il nuovo regolamento con le “Condizioni generali di adesione – pdf” al servizio, che hanno validità quattro anni;
  2.  il contribuente (delegante), se persona fisica, deve entrare nell’area riservata ai Cittadini con le proprie credenziali. Nel caso di soggetto diverso da persona fisica deve accedere all’area riservata alle Imprese e ai Professionisti utilizzando le credenziali ottenute come rappresentante legale. A questo punto, il delegante nella sezione “Delega un intermediario” prende visione delle “Condizioni generali di adesione – pdf” ai servizi web e indica il codice fiscale dell’intermediario abilitato a cui conferire la delega;
  3. l’intermediario abilitato (o suo incaricato), sempre nella sezione “Gestione deleghe”, deve accettare la delega ricevuta.

Delega cartacea

La delega cartacea invece può essere conferita compilando il modello cartaceo DP1 – pdf.

  • Se il delegante è persona fisica deve consegnare all’intermediario – insieme al modello compilato – copia del proprio documento d’identità.
  • Nel caso di soggetti diversi dalle persone fisiche occorre consegnare copia del documento d’identità del rappresentante legale.

Come trasmettere la delega cartacea

Gli estremi della delega del modello DP1 e gli elementi di riscontro devono essere trasmessi dall’intermediario utilizzando unicamente il software di compilazione e controllo pubblicato sul sito di Agenzia delle entrate.

La delega, rammenta infine l’Ader, non va trasmessa tramite PEC.

 

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commercialista sbaglia

Commercialista sbaglia? Culpa in vigilando anche per il cliente Per la Cassazione, non è esente da responsabilità il contribuente per mancato pagamento delle imposte che consegua alla condotta del professionista infedele

Culpa in vigilando

Scatta la culpa in vigilando per il cliente che non dimostra di aver controllato il commercialista che sbaglia o che ha un comportamento infedele. Lo ha affermato la sezione tributaria della Cassazione, con ordinanza n. 25158/2024.

La vicenda

Nella vicenda, il titolare di un’impresa individuale impugnava un avviso di accertamento, relativo al periodo di imposta 2003, con cui – a seguito dell’omessa dichiarazione dei redditi – venivano accertati maggiori ricavi e recuperate IRPEF, IRAP e IVA, oltre sanzioni e accessori. Il contribuente deduceva che l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi era ascrivibile all’infedele comportamento del proprio consulente.
La CTP di Palermo accoglieva parzialmente il ricorso e la CTR Sicilia rigettava l’appello dell’Agenzia delle Entrate ritenendo che le sanzioni non fossero dovute, “in quanto le violazioni erano ascrivibili al comportamento del consulente e il contribuente aveva sporto denuncia nei confronti del medesimo”.

L’Ufficio propone ricorso per cassazione sostanzialmente lamentando che il contribuente “non può andare esente da comportamenti assunti dal proprio consulente ove non abbia vigilato sull’operato – dello stesso – né essendo la proposizione della denuncia penale idonea a rimuovere la responsabilità”.

Sanzioni amministrative per violazioni tributarie

La Cassazione dà ragione al fisco. Secondo una costante giurisprudenza, rilevano infatti i giudici della S.C., “in tema di sanzioni amministrative per violazioni tributarie, ai fini dell’esclusione di responsabilità per difetto dell’elemento soggettivo, grava sul contribuente ai sensi dell’art. 5 d.lgs. n. 472/1997 la prova dell’assenza assoluta di colpa, occorrendo a tal fine la dimostrazione di versare in stato di ignoranza incolpevole, non superabile con l’uso dell’ordinaria diligenza; non può, quindi, ritenersi esente da responsabilità il contribuente che non abbia vigilato sul professionista cui erano affidate le incombenze fiscali (cfr., tra le tante, Cass., n. 12901/2019; n. 21061/2018).
Pertanto, non è esente da responsabilità il contribuente per mancato pagamento delle imposte che consegua alla condotta del professionista infedele, ove lo stesso non fornisca prova dell’attività di vigilanza e controllo in concreto esercitata sull’operato del professionista, ovvero ove non dia prova del suo comportamento fraudolento (cfr. Cass. n. 9422/2018), non essendo sufficiente la mera presentazione di denuncia penale (cfr. Cass. n. 19422/2018).

La decisione

La sentenza impugnata, in definitiva, per la S.C., non ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi e va cassata con rinvio per nuovo esame, oltre che per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

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giurista risponde

Mutuo a tasso fisso e mancata indicazione modalità di ammortamento La mancata indicazione di elementi, quali le modalità di ammortamento «alla francese» di tipo standardizzato tradizionale ovvero il regime di capitalizzazione “composto” degli interessi debitori, è causa di nullità parziale del contratto per indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto?

Quesito con risposta a cura di Matteo Castiglione e Nicola Pastoressa

 

 

In tema di mutuo bancario, a tasso fisso, con rimborso rateale del prestito regolato da un piano di ammortamento «alla francese» di tipo standardizzato tradizionale, non è causa di nullità parziale del contratto la mancata indicazione della modalità di ammortamento e del regime di capitalizzazione «composto» degli interessi debitori, per indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto del contratto né per violazione della normativa in tema di trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti tra gli istituti di credito e i clienti (Cass., Sez. Un., 29 maggio 2024, n. 15130).

Le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi a seguito di rinvio proposto da un tribunale di merito che ha evidenziato l’esistenza di diverse interpretazioni giurisprudenziali in ordine alle conseguenze derivanti sia dalla mancata indicazione del regime di ammortamento c.d. “alla francese” nel contratto di mutuo bancario nonché alle modalità con cui vengono composte le singole rate di rimborso e determinati gli interessi relativi al capitale.

Tale regime di ammortamento, molto diffuso nella prassi bancaria, prevede la corresponsione di rate costanti di rimborso in cui la quota parte degli interessi è progressivamente decrescente e quella della sorte capitale è progressivamente crescente, essendo dapprima corrisposti prevalentemente gli interessi e poi il capitale via via residuo.

Una prima ricostruzione, restrittiva, ritiene che non deriverebbe alcuna conseguenza di sorta in punto di determinatezza o determinabilità dell’oggetto del contratto.

Una seconda ricostruzione, invece, ritiene che la mancata indicazione del regime di ammortamento (nel caso di specie, cd. “alla francese”) avrebbe conseguenze in termini di validità del contratto, facendo leva sul principio di trasparenza bancaria e sul diritto del cliente di ricevere una corretta e trasparente informazione in quanto “parte debole” contrapposta al “bonus argentarius”; ciò soprattutto in relazione al fatto che tale regime di ammortamento potrebbe determinare un significativo incremento del costo del denaro per effetto del regime “composto” di capitalizzazione degli interessi poiché l’interesse prodotto in ogni periodo si sommerebbe al capitale e produrrebbe a sua volta interessi. Secondo questa tesi, la mancata esplicitazione del regime di ammortamento renderebbe indeterminato il tasso con conseguente violazione del requisito della forma ad substantiam e nullità parziale del contratto ex artt. 1346 e 1418 c.c.

Viene sottolineato come una dottrina abbia ammesso l’estraneità di questa tipologia di ammortamento alla tematica dell’anatocismo, rilevando che tale sistema non farebbe incrementare il montante complessivo ma, diversamente, non permetterebbe di farlo scendere nonostante gli avvenuti pagamenti, deprivando in via istituzionale la forza restitutoria dei pagamenti.

Altra dottrina ne contesta la validità sotto il profilo della meritevolezza dell’interesse perseguito e della causa concreta del negozio, argomentando come tale sistema di ammortamento comporti una programmata imputazione dei pagamenti a interessi in misura maggiore che al capitale, con conseguente esigibilità degli interessi prima di quella del capitale a cui sono correlati e per una misura superiore che si assume non consentito ex art. 821, comma 3 c.c.; a tale impostazione si replica tuttavia come sia presente nel sistema civilistico italiano l’istituto degli interessi compensativi che decorrono sul capitale ancorché questo non sia ancora divenuto esigibile. L’obbligazione degli interessi sarebbe quindi “accessoria”, con un vincolo genetico dipeso nella sua vicenda costitutiva dall’obbligazione principale ma, una volta venuta ad esistenza, separato dalla sua causa genetica con assunzione di una propria autonomia.

In conclusione le Sezioni Unite, dirimendo il contrasto giurisprudenziale in corso, hanno dato risposta negativa al quesito oggetto di rinvio, enunciando come nel regime di ammortamento alla francese di tipo standardizzato normale non sia causa di nullità parziale del contratto la mancata indicazione delle modalità di ammortamento e del regime di capitalizzazione degli interessi.

Contributo in tema di “Mutuo bancario a tasso fisso e mancata indicazione delle indicazione delle modalità di ammortamento e del regime di capitalizzazione”, a cura di Matteo Castiglione e Nicola Pastoressa, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / Settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

Confisca edilizia: non deve pregiudicare il diritto di ipoteca La Corte Costituzionale dichiara l'incostituzionalità dell'art. 7, 3° comma, della legge n. 47/1985 nella parte in cui la confisca edilizia "comprime" il diritto di ipoteca

Confisca edilizia e diritto di ipoteca

“La confisca edilizia, conseguente alla mancata demolizione dell’immobile abusivo da parte del responsabile dell’abuso e del proprietario, deve preservare il diritto di ipoteca iscritto dal creditore prima della trascrizione dell’acquisto a favore del Comune, se il creditore ipotecario non è responsabile dell’abuso”. Così si è espressa la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 160/2024, dichiarando illegittimo l’articolo 7, terzo comma, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, nella parte in cui non fa salvo il diritto di ipoteca iscritto a favore del creditore, non responsabile dell’abuso, in data anteriore alla trascrizione nei registri immobiliari dell’atto di accertamento dell’inottemperanza alla ingiunzione a demolire.

La medesima declaratoria di illegittimità costituzionale è stata estesa in via consequenziale anche all’art. 31, comma 3, primo e secondo periodo, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, norma che è subentrata alla precedente e che presenta un identico contenuto precettivo.

L’interpretazione della giurisprudenza

Le disposizioni suddette erano state interpretate dalla Corte di cassazione e dal Consiglio di Stato nel senso di attribuire alla confisca edilizia la qualifica di acquisto a titolo originario, cui consegue, in mancanza di una diversa previsione di legge, l’estinzione di «eventuali ipoteche, pesi e vincoli preesistenti».

La Consulta, preso atto di tale interpretazione, “ha ritenuto irragionevole e sproporzionato che non sia fatto salvo il diritto di ipoteca, ove il creditore titolare di tale garanzia reale non sia responsabile dell’abuso edilizio. In tal caso, infatti, il creditore non è tenuto a rispondere della mancata demolizione dell’immobile abusivo, vale a dire dell’illecito al quale consegue la sanzione della confisca”.

Effetto sanzionatorio

Pertanto, l’estinzione del diritto di ipoteca finisce per far subire al creditore ipotecario l’effetto sanzionatorio di un illecito commesso da altri.

Del resto, ha rilevato il giudice delle leggi, “la tutela del credito ipotecario non sacrifica l’interesse al rispetto della normativa urbanistico-edilizia. Tale tutela si realizza, infatti, attraverso l’espropriazione forzata e, se l’immobile oggetto della vendita forzata è abusivo, l’aggiudicatario deve comunque o sanare l’abuso o demolirlo”.

La Corte, infine, ha reputato sproporzionato il sacrificio imposto al creditore, non responsabile dell’abuso, attraverso l’estinzione del diritto di ipoteca, “in quanto al creditore residuerebbero in tal caso rimedi inesigibili o inadeguati a compensare il pregiudizio ingiustificatamente comminato”.

Allegati

inadempimento al mandato

Inadempimento al mandato: non sempre scatta la responsabilità disciplinare per l’avvocato L’inadempimento al mandato conduce alla responsabilità deontologica se la condotta è improntata a una non scusabile e rilevante trascuratezza

Rilevanza deontologica dell’inadempimento al mandato

Linadempimento al mandato non sempre rileva dal punto di vista deontologico. Esso integra la responsabilità disciplinare quando è frutto di una non scusabile e rilevante trascuratezza” ex art. 26 del Codice Deontologico Forense. Lo ha precisato il Consiglio Nazionale Forense nella sentenza n. 141/2024.

Esposto contro l’avvocato che non va in mediazione e offende l’assistita

Una signora presenta un esposto nei confronti di un avvocato. La donna riferisce di aver ricevuto una comunicazione dall’avvocato denunciato in data 12.12.2016. Con questa lettera, successiva alla revoca del mandato, il legale la insultava, la minacciava di denunciarla per truffa e avanzava richieste di pagamento non dovute.

Nella denuncia la donna evidenzia che l’avvocato non si era presentato a un incontro di mediazione per il quale la stessa gli aveva conferito mandato, portando alla redazione di un verbale negativo.

Censura per l’avvocato che non ha adempiuto al mandato

Il Consiglio Distrettuale di disciplina irroga all’avvocato la sanzione della censura. Per il CDD l’avvocato ha violato gli articoli 9 e 12 del codice deontologico, che impongono il rispetto dei doveri di correttezza, probità, dignità e decoro. La condotta ha violato inoltre l’art. 52, che punisce l’utilizzo di espressioni sconvenienti e offensive nell’esercizio della professione.

Il Consiglio contesta però all’avvocato anche la violazione degli articoli 26 comma 3 e art. 27 comma 7 del Codice deontologico. Lo stesso ha omesso di adempiere correttamente gli atti relativi al mandato o alla nomina che gli erano stati conferiti dalla donna in presenza di una non scusabile e rilevante trascuratezza degli interessi dell’assistita, non prendendo parte all’incontro di mediazione del 2.11.2016 e non avendo comunicato alla parte la necessità di compiere gli atti necessari per evitare prescrizioni, decadenze e altre conseguenze pregiudizievole collegate all’incarico in essere, non informandola del fatto che il 2.11.2016 si sarebbe tenuto l’incontro di mediazione e che ella avrebbe potuto/dovuto a parteciparvi personalmente, anche in sua assenza.

Ricorso al CNF: nessun inadempimento al mandato

L’incolpato ricorre al CNF contestando l’addebito relativo all’inadempimento del mandato e facendo presente che, in relazione all’incontro di mediazione, la sua assistita aveva manifestato un chiaro disinteresse a prendervi parte. Questa affermazione è corroborata dal mancato pagamento dell’indennità prevista per aderire alla mediazione.

Serve una non scusabile e rilevante trascuratezza

Il CNF accoglie parzialmente l’impugnazione del ricorrente e conferma la censura perché adeguata e proporzionata. Per il CNF l’incolpato nella missiva inviata all’assistita ha in effetti utilizzato espressioni che superano il limite consentito. Non giustificabile l’utilizzo di espressioni gratuitamente offensive ed esorbitanti. L’ardore espositivo delle proprie ragioni deve comunque rispettare i doveri di probità, dignità e decoro.

Il discorso è ben diverso per quanto riguarda il capo dell’incolpazione che accusa l’avvocato di non avere adempiuto correttamente il proprio mandato. Il CNF rileva che dall’istruttoria e dagli atti prodotti non emerge la responsabilità del legale.

Come precisato in sentenza l’art. 26 comma 3 prevede una condotta di esplicita e rilevante trascuratezza da parte del difensore perché la sua condotta possa ritenersi lesiva della norma in esso richiamata.” La disposizione è molto chiara nella sua formulazione: Costituisce violazione dei doveri professionali il mancato, ritardato o negligente compimento di atti inerenti al mandato o alla nomina, quando derivi da non scusabile e rilevante trascuratezza degli interessi della parte assistita”.

Nella condotta dell’avvocato però non si rileva la non scusabile e rilevante trascuratezza. La denunciante ha infatti conferito mandato all’avvocato per farsi assistere all’incontro di  mediazione del 02.11.2016, come emerge dal mandato professionale del 28.10.2016. Il giorno stesso l’avvocato ha inviato un fax alla Camera di conciliazione comunicando la propria impossibilità a presenziare all’incontro del 2 novembre e chiedendo per questo un rinvio.

La condotta dell’avvocato non è contestabile, visto che lo stesso ha comunicato in forma scritta e con un certo anticipo la propria impossibilità a presenziare all’incontro di mediazione. Il ritardo con cui l’assistita ha adempiuto gli oneri amministrativi previsti dalla mediazione non rilevano. Neppure la mancata concessione del rinvio può condurre alla censura della condotta dell’avvocato.

 

Ti interessa l’argomento della responsabilità deontologica degli avvocati? Allora leggi anche: Sospeso l’avvocato che non paga l’affitto