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Oneri condominiali e vicende traslative di un immobile oggetto di locazione Qual è il soggetto obbligato al pagamento degli oneri condominiali in caso di vicende traslative di un immobile oggetto di locazione?

Quesito con risposta a cura di Carmela Quagliano e Daniele Venturi

 

Ai sensi degli artt. 1509 e 1602 c.c. la vendita, la cessione o la donazione di un immobile oggetto di locazione determina la surrogazione del terzo (acquirente, cessionario o donatario) nei diritti e nelle obbligazioni del dante causa-locatore. Ciò comporta anche il subentro nell’obbligo di pagamento delle quote condominiali rispetto al condominio di cui tale immobile fa parte.

L’onere della prova relativo all’individuazione del soggetto obbligato al pagamento di dette quote spetta al condominio che avanza la pretesa, incombendo su colui che nega tale affermazione solo la prova di eventuali fatti modificativi o estintivi capaci di escluderne la responsabilità.

A questo si aggiunge la nuova formulazione dell’art. 63 disp. att. c.c. introdotta dalla L. 11 dicembre 2012, n. 220 che attribuisce al soggetto che subentra nei diritti di un condomino la qualifica di obbligato solidale con quest’ultimo solo rispetto al pagamento dei contributi relativi all’anno in corso e a quello precedente. – Cass., sez. II, 4 marzo 2024, n. 5704.

Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte accoglie la doglianza del ricorrente che si era visto rigettare, nei due precedenti gradi di giudizio, l’opposizione a un decreto ingiuntivo relativo al pagamento di contributi condominiali maturati durante il periodo in cui a godere delle unità immobiliari era un soggetto qualificato come cessionario della stessa società ricorrente.

Come provato nei gradi di merito, infatti, la ricorrente aveva comunicato al condominio l’avvenuta cessione degli immobili al soggetto in capo al quale sono poi maturati gli obblighi individuati nel decreto ingiuntivo. Tale atto avrebbe dovuto rivolgersi, di conseguenza, verso il cessionario e non verso la società cedente.

La sentenza in epigrafe stigmatizza, poi, l’avvenuta inversione dell’onere della prova rispetto alla qualità di condomino. Al fine dell’accertamento dell’obbligo di pagamento dei contributi condominiali negli anni controversi è stato infatti erroneamente imputato alla società ricorrente l’onere di provare la propria estraneità rispetto alla qualità di condomino. Contrariamente, sarebbe stato necessario addossare al condominio l’onere di provare la sussistenza di tale qualità tenuto conto delle varie vicende che hanno interessato le unità immobiliari in oggetto.

La vicenda fornisce alla Corte anche l’occasione per ribadire la portata dell’art. 63 disp. att. c.c. secondo la pacifica interpretazione del quale la società ricorrente avrebbe potuto essere ritenuta responsabile, tutt’al più, delle ultime due annualità, come ribadito da giurisprudenza consolidata.

*Contributo in tema di “Oneri condominiali e vicende traslative di un immobile oggetto di locazione”, a cura di Carmela Quagliano e Daniele Venturi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

it wallet

It-Wallet: cos’è e a cosa serve Con l’approvazione del decreto PNRR il 26 febbraio viene istituito ufficialmente il Sistema di portafoglio digitale italiano (IT-Wallet)

It-Wallet: il sistema di portafoglio digitale

Il sistema IT- Wallet dà impulso alla Carta d’Identità Elettronica (CIE), connotato dai suoi elevati standard di sicurezza e dalla sua capacità di fungere da chiave universale per l’accesso ai servizi digitali. Tramite l’IT- Wallet vengono infatti resi digitalmente accessibili documenti fondamentali come, quali, la patente di guida, la tessera sanitaria e la carta europea della disabilità.

A cosa serve il sistema IT-Wallet

Il nuovo sistema d’identità digitale è volto a semplificare la fruizione da parte degli utenti di servizi sia “fisici” che online, al fine di rendere più semplice la gestione delle relazioni con la Pubblica amministrazione. L’It-Wallet, il primo portafoglio digitale ad avere valore di legge, raccoglierà i documenti essenziali per il cittadino e, a partire dal 2025, sarà utilizzabile su qualsiasi smartphone.

L’introduzione dell’It Wallet è finalizzata ad una significativa semplificazione per gli utenti, che potranno così gestire la propria identità digitale attraverso un unico strumento, aumentando di conseguenza la sicurezza e la trasparenza nell’utilizzo della stessa, efficientando anche i rapporti tra pa e cittadino.

Dove si troverà l’IT-Wallet?

Il sistema d’IT Wallet comparirà sull’App Io, scaricabile sullo smartphone e tramite la quale sarà possibile accedere a un ventaglio di servizi della Pubblica Amministrazione.

I prossimi step

Da settembre 2024 verrà dato avvio ad una fase di test e l’It Wallet sarà progressivamente reso disponibile agli utenti. Contestualmente proseguirà la stesura dei decreti attuativi per la regolamentazione del sistema di portafoglio digitale.

L’attuazione ufficiale del sistema di portafoglio digitale la pubblico è previsto per gennaio 2025, data a partire dalla quale i cittadini potranno scaricare l’ultima versione dell’App Io e attivare il l’IT Wallet tramite identificazione digitale (Cie o Spid).

A partire dall’inizio del 2025, dunque, verrà dato avvio al sistema digitale per consentire il progressivo perfezionamento dell’infrastruttura digitale in vista della sua piena operatività anche europea a partire dal 2026.

Da questa data, infatti, i portafogli digitali di diversi paesi europei saranno tra loro connessi tramite un’architettura che consentirà il riconoscimento reciproco delle identità digitali, garantendo un accesso ancora più agevole e sicuro ai servizi transfrontalieri.

Infatti, entro il 2026, dovrebbe prendere avvio anche un sistema di riconoscimento digitale, sul piano europeo, valido per tutti i cittadini europei che, attraverso “Eudi wallet” potranno utilizzare servizi online, condividere documenti digitali o effettuare pagamenti.

Nell’intenzione della Commissione europea, oltre a garantire la semplificazione, lo strumento in questione mira a proteggere la sicurezza dei cittadini dal rischio di truffe, frodi e furti d’identità.

Effetti sul rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione

Il Wallet si prefigge di trasformare il rapporto tra cittadini e Pa, rendendolo più efficiente, sicuro e accessibile rispetto all’attuale situazione.

La capacità di gestione della propria identità digitale consentirà ai cittadini di avere maggiore controllo sulla fiducia nel sistema pubblico e determinerà un aumento della partecipazione dei cittadini ai servizi digitali offerti dalla Pa.

Il nuovo sistema digitale si prefigge anche di ridurre la burocrazia e di velocizzare i tempi di risposta della Pa.

decreto superbonus

Decreto Superbonus: tutte le novità Detrazioni spalmate in dieci anni, bonus ristrutturazioni più basso dal 2028, obblighi di segnalazione a carico delle amministrazioni locali. Le novità della legge di conversione del decreto superbonus in vigore dal 29 maggio 2024

Decreto Superbonus: in vigore la legge

L’aula di Montecitorio ha approvato in data 23 maggio 2024 in via definitiva la conversione in legge del DL 39/2024, noto come “decreto superbonus”. Il testo, dopo il sì del Senato del 16 maggio scorso col ricorso alla fiducia, ha ricevuto l’ok della Camera (con la fiducia) diventando legge dello Stato. La nuova legge-67-2024 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 28 maggio per entrare in vigore il 29 maggio 2024.

Il provvedimento introduce importanti novità su Superbonus, Sismabonus e Bonus Barriere Architettoniche, tra cui la possibilità di detrarre le spese in 10 anni, l’introduzione di controlli antifrode e il divieto di compensazione dei crediti con i contributi previdenziali.

Il Decreto Superbonus prevede in sostanza significative modifiche alle agevolazioni fiscali per l’edilizia, con un focus particolare sulla riqualificazione energetica e strutturale, i controlli e la gestione delle detrazioni. Misure destinate ad avere un impatto rilevante su contribuenti, professionisti del settore edile e amministrazioni locali.

Le principali novità del decreto Superbonus

Vediamo quali sono i principali elementi di novità del testo approvato.

L’articolo 1 del decreto limita l’utilizzo dello sconto in fattura e della cessione del credito a specifiche categorie di contribuenti e solo per interventi realizzati nei comuni colpiti da eventi sismici, con un tetto massimo di 400 milioni di euro per il 2024, di cui 70 milioni destinati agli eventi del 6 aprile 2009.

Se al 30 marzo 2024 non sono state sostenute spese documentate per lavori già effettuati, la deroga contemplata non sarà applicabile se:

  • “risulti presentata la comunicazione di inizio lavori asseverata (CILA) se gli interventi sono agevolati e sono diversi da quelli effettuati dai condomini;
  • risulti adottata la delibera assembleare che ha approvato l’esecuzione dei lavori e risulti presentata la comunicazione di inizio lavori asseverata (CILA);
  • risulti presentata l’istanza per l’acquisizione del titolo abilitativo, se gli interventi sono agevolati e comportano la demolizione e la ricostruzione degli edifici.”

Istituito un fondo di 35 milioni di euro per il 2025, destinato a sostenere interventi di riqualificazione energetica e strutturale degli immobili danneggiati nei comuni colpiti da eventi sismici a partire dal 1° aprile 2009. Le risorse saranno ripartite tra i Commissari straordinari e sarà adottato un D.P.C.M. per stabilire il limite massimo del contributo e le modalità applicative.

Istituito un fondo di 100 milioni di euro per il 2025, destinato ai contributi per la riqualificazione energetica e strutturale degli immobili di ONLUS, organizzazioni di volontariato e associazioni di promozione sociale. Le richieste dovranno essere presentate all’ENEA, mentre la concessione dei contributi sarà competenza del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica.

Esclusa l’applicabilità della remissione in bonis per l’adempimento dell’obbligo di comunicazione dell’opzione per la cessione dei crediti o per lo sconto in fattura. Il 4 aprile è il termine ultimo per inviare all’Agenzia delle Entrate la sostituzione delle comunicazioni relative alla cessione del credito o allo sconto in fattura.

Introdotto l’obbligo di trasmettere una serie di dati all’ENEA e al Portale nazionale delle classificazioni sismiche per monitorare la spesa relativa agli interventi agevolati. I soggetti che sostengono spese per interventi di efficientamento energetico dovranno inviare informazioni quali i dati catastali dell’immobile, l’ammontare delle spese sostenute e previste, e le percentuali delle detrazioni spettanti.

Sospesa l’utilizzabilità dei crediti d’imposta per i soggetti con debiti erariali superiori a 10.000 euro.

Dal 1° gennaio 2024, le spese sostenute per il Superbonus, il Sismabonus e il Bonus Barriere Architettoniche dovranno essere detratte in 10 anni anziché in 4. Questa misura retroattiva riguarda le spese maturate dal 1° gennaio 2024.

Per chi ha già esercitato l’opzione di cessione del credito o sconto in fattura nel 2024 relativamente al Superbonus, potrà continuare detta compensazione in 4 anni per il Superbonus e in 5 anni per il Sismabonus e il Bonus Barriere.

Il decreto prevede il divieto di scegliere la cessione del credito per le rate non ancora fruite per chi ha beneficiato del Superbonus o di altri bonus nella forma di detrazione diretta.

Le banche saranno tenute a comunicare all’Agenzia delle Entrate l’acquisto dei crediti a un prezzo pari o superiore al 75% del valore nominale. In caso contrario, il periodo di fruizione delle quote residue dei crediti sarà esteso da 4 a 6 anni dal 2025 in poi.

Le amministrazioni locali avranno il dovere di segnalare alle autorità competenti eventuali interventi fraudolenti che abbiano portato a detrazioni indebite. I comuni che effettueranno le segnalazioni potranno ottenere circa il 50% del valore delle segnalazioni.

Novità sulle condizioni per ottenere i crediti d’imposta per investimenti in beni strumentali nuovi e per attività di ricerca e sviluppo, innovazione tecnologica, design e ideazione estetica, compresi quelli relativi all’innovazione digitale 4.0 e alla transizione ecologica.

Il Bonus Ristrutturazioni scenderà al 30% dal 2028 al 2033. Per il triennio 2025-2027, il bonus sarà al 36%, salvo ulteriori norme che ne elevino la percentuale.

violenza sessuale interdizione

Violenza sessuale: interdizione obbligatoria La Cassazione ricorda che l'art. 609-nonies c.p. rende obbligatoria per i reati di violenza sessuale l'irrogazione delle pene accessorie, tra cui l'interdizione temporanea dai pubblici uffici e quella perpetua da incarichi nelle scuole o in strutture frequentate da minori

Violenza sessuale e pene accessorie

L’interdizione prevista dall’articolo 609-nonies c.p. è obbligatoria. Lo rammenta la terza sezione penale della Cassazione nella sentenza n. 20585-2024 accogliendo il ricorso del procuratore avverso la decisione del GUP che, applicando la pena concordata in relazione al reato continuato ex art. 609-quater c.p. ascritto all’imputato, non prevedeva le pene accessorie “speciali” obbligatoriamente previste in caso di condanna o patteggiamento anche a una pena inferiore a due anni di carcere.

Interdizione obbligatoria per reati di violenza sessuale

Per gli Ermellini, invero, deve darsi seguito all’insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui «l’art. 609-nonies cod. pen. deroga ala regola generale di cui all’art. 445 cod. proc. pen., rendendo obbligatoria per i reati di violenza sessuale, anche ni caso di applicazione dela pena inferiore ai due anni, l’irrogazione delle pene accessorie ivi indicate» (cfr. Cass. n. 17189/2016).

Per cui, in linea con le conclusioni del procuratore generale, la sentenza di patteggiamento è annullata senza rinvio limitatamente all’omessa applicazione delle pene accessorie di cui all’art. 609-nonies c.p., consistenti “nell’interdizione temporanea dai pubblici uffici e nell’interdizione perpetua da qualunque incarico nelle scuole di ogni ordine e grado, nonché da ogni ufficio o servizio in istituzioni o altre strutture pubbliche o private frequentate prevalentemente da minori”.

Allegati

avvocati ufficio processo formazione

Avvocati sospesi ufficio processo: hanno obbligo formativo? Il CNF chiarisce che gli avvocati sospesi in quanto alle dipendenze dell'ufficio del processo sono esonerati per lo stesso periodo dall'obbligo formativo

Avvocati ufficio del processo e obbligo formativo

Nessun obbligo formativo per gli avvocati assunti all’ufficio del processo. Lo ha chiarito il Consiglio Nazionale Forense (nel parere n. 21/2024) rispondendo al quesito del COA di Torino.

Il parere del CNF

Il COA chiedeva al CNF di sapere se possano ritenersi esonerati dall’obbligo formativo, per il periodo della sospensione, gli avvocati sospesi obbligatoriamente ex lege per effetto della loro assunzione alle dipendenze dell’Ufficio per il processo.

Il CNF premette che “la sospensione obbligatoria prevista dall’articolo 11, comma 2 bis, del decreto legge n. 80/2021 (come introdotto dall’articolo 17, comma 2, del d.l. n. 33/2022) per l’avvocato assunto alle dipendenze dell’ufficio per il processo è equiparabile, ai fini dell’assolvimento dell’obbligo formativo, alla sospensione obbligatoria di cui all’articolo 20 della legge 247/2012”.

Pertanto, “come previsto dall’articolo 11 della legge n. 247/12 per gli avvocati sospesi obbligatoriamente, anche gli avvocati assunti alle dipendenze dell’ufficio per il processo e quindi sospesi ex lege devono ritenersi esonerati dall’assolvimento dell’obbligo formativo per la durata della sospensione”.

Il COA di Torino chiede di sapere se possano ritenersi esonerati dall’obbligo formativo, per il periodo della sospensione, gli avvocati sospesi obbligatoriamente ex lege per effetto della loro assunzione alle dipendenze dell’Ufficio per il processo.

revenge porn

Revenge Porn In cosa consiste e come è punito il reato di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (revenge porn)

Cos’è il revenge porn

L’espressione «revenge porn», che tradotta letteralmente significa «vendetta porno» o «vendetta pornografica», è nata nel mondo inglese e sta ad indicare quella odiosa pratica consistente nel vendicarsi di qualcuno (spesso l’ex partner) diffondendo materiale sessualmente connotato che lo ritrae.

Per «revenge porn», si intende, dunque, la divulgazione non consensuale, dettata da finalità vendicative, di immagini intime raffiguranti l’ex partner.

Una delle motivazioni più comuni di tale condotta è, infatti, la vendetta del partner dopo la rottura della relazione. Lo stesso termine, però, è utilizzato anche in senso più ampio per indicare offese diverse portate con la stessa modalità.

Il fenomeno del revenge porn negli ordinamenti anglosassoni

Il reato conosciuto agli onori di cronaca come «revenge porn» è stato introdotto e disciplinato quale autonoma fattispecie criminale dapprima nei paesi di Common Law: tra i precursori in Europa troviamo l’Inghilterra, che ha inserito nel Criminal Justice and Courts Act 2015 (CJCA 2015) la «Section 33», intitolata «Disclosure of private sexual photographs and films with intent to cause distress», ovverosia il reato di divulgazione di fotografie o video di carattere sessuale e privato, compiuta senza il consenso della persona ritratta nella foto o nel video, con lo «scopo di causare sofferenza»; allo stesso modo la Scozia nel 2016 ha introdotto nell’ordinamento il reato di «Abusive behavior and sexual harm».

In particolare, la prima definizione del fenomeno risalirebbe addirittura al 25-9-2007 con lo slang anglosassone contenuto nel dizionario online conosciuto con il nome di Urban Dictionary: si tratterebbe dell’«homemade porn uploaded by ex girlfriend or (usually) ex boyfriend after particularly vicious breakup as a means of humiliating the ex or just for own amusement». L’espressione, originariamente di chiaro tenore colloquiale, si è diffusa al punto di penetrare finanche il prestigioso dizionario Cambridge, che lo definisce «private sexual images or films showing a particular person that are put on the internet by a former partner of that person, as an attempt to punish or harm them».

Entrambe le definizioni delineano gli elementi essenziali per la configurabilità del reato de quo: la creazione consensuale, all’interno di un contesto sentimentale di coppia, di immagini (video o foto) sessuali, o comunque intime, e la loro non consensuale pubblicazione da parte dell’ex partner, al fine di vendicarsi a seguito della rottura – spesso burrascosa («vicious breakup») – della relazione amorosa. Il mezzo utilizzato per la diffusione è Internet: difatti, secondo il Cambridge Dictionary, le immagini «are put on the internet», per l’Urban Dictionary sono «uploaded» in rete.

Studi stranieri dimostrano infatti la tendenza ad utilizzare le immagini intime – non per forza realizzate consensualmente o, addirittura, consapevolmente – come uno strumento di coercizione e di controllo, attraverso la minaccia di diffusione delle stesse in caso di rottura della relazione, di abbandono o di mancata sottomissione ad atti sessuali.

A livello sovranazionale vengono inquadrati nella violenza di genere gli abusi perpetrati attraverso immagini sessualmente esplicite. Sul fronte convenzionale, vanno segnalate le sentenze CEDU Volodina c. Russia, 9-7-2019, e Volodina c. Russia (n. 2), 14-9-2021, che qualificano la disseminazione non consensuale di immagini intime come una forma di «violenza contro le donne».

Sul fronte comunitario, invece, pende una proposta di direttiva da parte della Commissione europea (dell’8-3-2022) volta a contrastare la violenza di genere e armonizzare le legislazioni degli Stati membri. Tra le disposizioni, l’art. 7 prevede che gli Stati assicurino l’incriminazione delle condotte di diffusione di immagini intime, anche manipolate.

Le vicende ispiratrici della riforma: i casi Cantone e Sarti

L’intervento legislativo è giunto subito dopo il caso di Tiziana Cantone, che ha avuto una notevole eco nell’opinione pubblica. La donna, dopo la diffusione in Internet contro la sua volontà di alcuni filmati hard di cui era protagonista, era stata oggetto di pesanti e continue offese e aggressioni al suo onore e alla sua reputazione che l’avevano spinta a togliersi la vita il 13-9-2016. Il caso aveva rivelato la straordinaria pericolosità del fenomeno, reso incontrollabile dagli strumenti telematici che, non solo rendono pressoché impossibile porre un argine alla diffusione delle immagini e ai commenti, ma consentono anche agli aggressori di colpire in anonimato. Pochi giorni dopo la morte di Tiziana Cantone è stato presentato il primo progetto di legge per l’introduzione di un reato specifico. Un’altra vicenda, che ha coinvolto la deputata Giulia Sarti, ha ulteriormente accelerato l’iter di approvazione, che si è concluso con la promulgazione della L. 69/2019, nella quale è stato inserito il nuovo reato di cui all’art. 612ter c.p.

L’allarmante dilagare del fenomeno maggiormente noto alla cronaca e nelle aule di tribunale con il neologismo anglosassone «revenge porn» – locuzione che intende, in maniera ad oggi generalizzata, definire la condotta che abbia ad oggetto la diffusione di immagini a contenuto pornografico contro, ovvero in assenza, di esplicito consenso da parte del soggetto ritratto – è stato il moto propulsore per il legislatore italiano nell’introduzione dell’art. 612ter c.p. , volto a sopperire una lacuna normativa nella tutela delle vittime di violenza domestica e di genere.

Il delitto di cui all’art. 612ter c.p., perlomeno in alcune sue manifestazioni, è stato pertanto inquadrato non solo all’interno della cornice della violenza di genere, come ormai riconosciuto con sempre maggiore nettezza a livello sovranazionale, ma anche nella sua sottospecie della violenza domestica. Studi stranieri dimostrano infatti la tendenza ad utilizzare le immagini intime – non per forza realizzate consensualmente o, addirittura, consapevolmente – come uno strumento di coercizione e di controllo, attraverso la minaccia di diffusione delle stesse in caso di rottura della relazione, di abbandono o di mancata sottomissione ad atti sessuali. In questo senso, l’abuso è facilitato dallo strumento tecnologico.

Legge 69/2019: la collocazione del reato

L’art. 10 della L. 19-7-2019, n. 69 (cd. Codice rosso) inserisce nel codice penale l’art. 612ter: il cd. delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti.

La figura di reato costituisce una delle più rilevanti novità disciplinari dovute al cd. Codice rosso del 2019, provvedimento legislativo di amplissima portata precettiva, la cui denominazione deriva dalla terminologia sanitaria, per alludere ad un percorso preferenziale e d’urgenza per la trattazione dei procedimenti in materia, funzionale alla tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, percorso procedurale introdotto proprio dal citato provvedimento.

Il reato in esame è inserito nella L. 69/2019 in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere.

Nei primi commenti alla riforma, si è ritenuta poco opportuna la sua collocazione sistematica fra i delitti contro la libertà morale, per tal via inquadrandola nel novero dei delitti lato sensu di minaccia, ancorché, il più delle volte, l’autore del reato agisca, rispetto alla vittima, con finalità diversa da quella minatoria; ne consegue che sarebbe stata più opportuna la sua collocazione in un autonomo titolo, che avrebbe potuto rubricarsi «Tutela della riservatezza sessuale» ed essere inserito dopo i delitti di violenza sessuale e prima dell’attuale Sezione III del Titolo XII.

Il bene giuridico protetto

Secondo la lettera del delitto di «Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti» tale delitto sussiste quando: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000. La stessa pena si applica a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video di cui al primo comma, li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento. La pena è aumentata se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici. La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di inferiorità psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza. Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione può essere soltanto processuale. Si procede tuttavia d’ufficio nei casi in cui al quarto comma, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio».

Il delitto è sistematicamente collocato nell’ambito dei «Delitti contro la persona», in particolare tra i «delitti contro la morale».

Emerge chiaramente che la nuova norma mira a garantire non solo la libertà morale (come si potrebbe erroneamente ritenere, prima facie, in ragione della collocazione dopo il reato di «atti persecutori» o cd. «stalking», nel titolo XII, sezione III del c.p.), ma soprattutto la privacy sessuale e la reputazione della potenziale vittima.
«Il reato è inserito tra quelli a tutela della libertà morale individuale e si rivolge alla sfera di intimità e della privacy, intesa quale diritto a controllare l’esposizione del proprio corpo e della propria sessualità, in un’ottica di autodeterminazione della sfera sessuale individuale» (Sez. 5, sent. 14927 del 7-4-2023 (ud. 22-2-2023) rv. 284576-01).

Il nuovo art. 612ter c.p. è, dunque, un reato plurioffensivo: i beni giuridici protetti dalla fattispecie in parola sono la libertà di autodeterminazione dell’individuo – con riferimento alla reputazione e al decoro – la libertà personale e il diritto alla riservatezza della sfera sessuale.

Clausola di riserva e rapporto con altri reati

La disposizione esordisce con l’inciso: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato». Volendo analizzare la lettera e la relativa portata precettiva di tale previsione, appare quanto mai opportuna la clausola di sussidiarietà, collocata nell’incipit della fattispecie, in virtù della quale il delitto è punibile «salvo che il fatto costituisca più grave reato». Appare evidente la finalità di rendere applicabile la più grave norma incriminatrice dell’estorsione nel caso in cui la diffusione delle immagini o dei video, lungi dall’avere una, sia pur censurabile, finalità vendicativa, sia, invece (in via concorrente o esclusiva) strumentale all’ottenimento di danaro o di altre utilità, facendo leva, quale strumento coercitivo della volontà, proprio sulla minaccia di diffusione del suddetto materiale.

Del tutto escluso è l’assorbimento nei reati di violenza sessuale (artt. 609bis e ss., c.p.), trattandosi di fatti diversi (violenza/diffusione). La diffusione di immagini pedopornografiche (art. 600ter c.p.), invece, è condotta perfettamente sovrapponibile. Tra le due norme incriminatrici, pertanto, vi sarebbe un concorso apparente, che esclude il concorso formale anche in assenza della clausola di riserva. Il nuovo reato, tuttavia, dà rilevanza penale – ancorché limitata dalla procedibilità a querela – alla diffusione di immagini pedopornografiche autoprodotte (cosiddetti selfie) da parte di chi le riceve e poi le inoltra a terzi senza il consenso della persona ritratta. Tale ulteriore diffusione resta fuori dalla portata dell’art. 600ter c.p., che esclude dal proprio campo di applicazione il materiale autoprodotto e cioè realizzato senza «utilizzo» di minori. La clausola di riserva, invece, opererebbe con i reati di maltrattamenti in famiglia, atti persecutori e istigazione al suicidio aggravata dal suicidio (artt. 572, 612bis, 580 c.p.), tutti puniti – i primi due grazie all’innalzamento di pena apportato dalla medesima L. 69/2019 – in modo più severo. La clausola di riserva sembra, dunque, destinata a non avere un esteso campo di applicazione, se non nei casi più gravi, come quello di Tiziana Cantone, con l’effetto – paradossale – di escludere l’applicazione del nuovo reato nei casi più gravi e simili a quello che ne ha ispirato l’introduzione. La clausola non è replicata al comma 2, che prevede un reato autonomo, e conseguentemente deve intendersi valere solo per il reato del primo comma.

Condotte rilevanti: ipotesi di cui al comma 1

La norma tipizza un primo nucleo di condotte:

• la consegna si traduce nel donare qualcosa a qualcuno perché la custodisca e ne abbia cura per un periodo di tempo determinato; la cessione consiste nel donare ad altri qualcosa rinunciando a un possesso o a un godimento;

• l’invio evidenzia il perseguimento delle suddette finalità attraverso la fisica trasmissione dell’oggetto ceduto o consegnato aventi tutte, come comune denominatore, il fatto di tradursi in ipotesi di trasferimento (anche attraverso la rete, ma non solo) delle immagini tra due persone. È, infatti, fenomeno tristemente noto che la vendetta venga posta in essere anche attraverso l’invio dei materiali intimi a soggetti determinati (come il datore di lavoro, familiari, nuovi compagni di vita) nella speranza che da ciò consegua un danno professionale e/o relazionale per la vittima presa di mira dalla condotta illecita. Integra un «invio» rilevante ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 612ter c.p. quello che venga effettuato «verso chiunque» purché senza il consenso della persona ritratta, da parte di chi, «in qualsiasi modo» – fatte salve le condotte che rientrano nella sfera di operatività del primo comma della disposizione – abbia acquisito l’immagine o il video a contenuto sessualmente esplicito. Il reato, infatti, è configurabile come istantaneo, secondo la lettera normativa, e si consuma nel momento in cui avviene il primo invio dei contenuti sessualmente espliciti, non importa se diretto a familiari della vittima, che possano, eventualmente, avere interesse a non alimentare una successiva diffusione (Sez. 5, sent. 14927 del 7-4-2023 (ud. 22-2-2023 ) rv. 284576-01);

• la pubblicazione, ricorre nei casi in cui immagini o video vengano inseriti su siti internet, di natura pornografica, social network e su qualunque altra piattaforma che operi in rete;

• la diffusione si ritiene identificabile nella distribuzione senza intermediari ad un’ampia platea di destinatari (ne sono classici esempi le chat di messaggistica istantanea o le mailing list).

L’oggetto delle condotte

Costituiscono oggetto comune a tutte le anzidette condotte illecite, le tipizzate «immagini o video a contenuto sessualmente esplicito». Orbene, in uno dei passaggi parlamentari del provvedimento introduttivo di tale fattispecie, si pensò di corredarne la figura criminosa con la relativa nozione, prevedendosi che per «immagini o video privati sessualmente espliciti» dovesse intendersi «ogni rappresentazione, con qualunque mezzo, di soggetti consenzienti, coinvolti in attività sessuali, ovvero qualunque rappresentazione degli organi sessuali per scopi sessuali, realizzati, acquisiti ovvero comunque detenuti in occasione di rapporti od incontri anche occasionali». Pur se l’anzidetta nozione appare illuminante sulla portata oggettiva della fattispecie in esame, si ritiene opportuna la scelta operata dal legislatore del 2019 di affidare all’esegesi giudiziaria la concreta definizione del concetto di «sessualmente esplicito», evitando difficoltà applicative (segnalate in dottrina nell’esperienza giurisprudenziale britannica, ove già presente è una fattispecie ad hoc).

La nuova figura di reato richiede che le immagini divulgate abbiano una «contenuto sessualmente esplicito». Questo è senza dubbio l’elemento della fattispecie dai contorni più sfumati. La giurisprudenza ha già cercato di definirlo con riferimento all’art. 600ter c.p., includendo anche la esibizione lasciva dei genitali o della regione pubica o anche della semplice nudità, se idonea a eccitare le pulsioni erotiche del fruitore. Si tratta evidentemente di criteri molto soggettivi poiché la lascivia, come la bellezza, è nell’occhio di chi guarda. Di difficile valutazione è, per esempio, il nudo artistico, nel quale è impossibile separare l’aspetto erotico da quello artistico. Escluso dall’applicazione della nuova norma è il fenomeno della raccolta, di solito nel deep web e cioè in pagine non accessibili dai comuni motori di ricerca, di immagini neutre, prese anche da social network o in pubblico, di persone ritenute attraenti per caratteristiche fisiche o atteggiamenti. Questo fenomeno è molto pericoloso perché spesso le immagini sono corredate, oltre che da commenti denigratori, da dati personali (nomi, indirizzi e numeri di telefono) che permettono di identificare e rintracciare la persona. Tali immagini, essendo del tutto prive di riferimenti alla sessualità, certamente non ricadono nell’ambito di applicazione dell’art. 612ter c.p.

Oggetto delle condotte incriminate, sono immagini e video non solo «sessualmente espliciti» ma anche «destinati a rimanere privati». In una prima pronuncia di merito, tale requisito è stato interpretato in modo stringente, mettendo di fatto in dubbio l’applicazione del nuovo delitto in relazione a tutte le ipotesi nelle quali le immagini non sono create nell’intimità, privata, di un contesto di coppia.

La giurisprudenza della S.C. con una prima sentenza ha ritenuto che «ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 612ter c.p., la diffusione illecita di contenuti sessualmente espliciti può avere ad oggetto immagini o video che ritraggano atti sessuali ovvero organi genitali ovvero anche altre parti erogene del corpo umano, come i seni o i glutei, nudi o in condizioni e contesto tali da evocare la sessualità» (Cass. n. 14927 del 7-4-2023).

In una successiva pronuncia la medesima Corte, proprio rifacendosi ai principi ivi stabiliti, ha ritenuto «sessualmente espliciti» alcuni video nei quali la denunciante era raffigurata «in biancheria intima» (Cass. n. 32602/2023).

Anche in dottrina, si è ritenuto che «sarebbe eccessivamente limitante circoscrivere la punibilità esclusivamente alle immagini che ritraggono pratiche sessuali in senso stretto (rapporto sessuale o autoerotismo). Appartengono al fenomeno in commento e risulterebbero, a nostro avviso, idonee ad integrare la fattispecie e a offendere i beni giuridici tutelati anche rappresentazioni erotiche di nudità focalizzate sugli organi genitali, sul seno o sulle natiche» (M. Bianchi, L’incriminazione del «revenge porn») .

Presupposto comune alle condotte del primo comma è che il soggetto attivo sia il medesimo che abbia realizzato il relativo materiale (cioè scattato le foto o girato i video) o lo abbia sottratto (più o meno fraudolentemente).

Deve, inoltre, trattarsi di materiali destinati a rimanere privati (la loro natura sessuale non costituisce, dunque, l’unico requisito richiesto con riguardo alle immagini e ai video, richiedendosi, altresì, che siano stati creati in un contesto intimo e riservato, nel quale sarebbero dovuti rimanere se non fosse stata posta in essere una delle condotte tipiche) e, ovviamente, «senza il consenso delle persone rappresentate», cioè in assenza del consenso espresso liberamente prestato e non viziato (da errore, violenza o dolo), dell’avente diritto.

La presenza del consenso ovviamente determinerà la persona offesa a non sporgere querela, mentre un consenso tardivo potrà portare ad una remissione di querela.

Nei casi di procedibilità d’ufficio il consenso avrà un peso ancora maggiore determinando il venir meno ab origine del reato.

Elemento soggettivo (comma 1)

L’elemento soggettivo richiesto ai fini dell’integrazione del reato di cui al primo comma è il dolo generico: l’agente agisce rappresentandosi e volendo realizzare la condotta descritta dalla norma. Da tale assunto risulta ictu oculi fuorviante e limitante l’utilizzo del neologismo «revenge porn» ai fini di una corretta definizione ed identificazione della condotta tipizzata dalla norma di cui all’art. 612ter c.p., in quanto non è specificato che il fine perseguito dall’agente sia (solo) la vendetta, essendo sufficiente l’intenzionalità di realizzare l’antigiuridica condotta descritta. La condotta, difatti, è sanzionata indipendentemente dal perseguimento di un determinato fine. Tuttavia, come si è detto, ad oggi la locuzione racchiude una molteplicità di condotte penalmente rilevanti, che trascendono dalla specifica volontà vendicativa.

Condotte rilevanti: ipotesi di cui al comma 2

Il comma 2, invece, estende la punibilità in capo ai «secondi distributori», ossia coloro che non erano originariamente nella disponibilità del materiale, non avendolo realizzato o sottratto materialmente, ma che hanno collaborato alla sua divulgazione.

Il capoverso della norma ha una evidente funzione complementare rispetto alle tutele predisposte dal comma precedente (funzione evidenziata dalla scelta di riservarne medesima risposta sanzionatoria, con conseguente analoga considerazione, sul piano del grado di disvalore penale). Trattasi, in particolare, di previsione concepita per sanzionare i cd. «distributori di secondo livello», coloro cioè che, ricevute le immagini (da colui che le ha prodotte, nel senso anzidetto, sulla base delle condotte di cessione, invio o consegna di cui sopra, ma anche da altri soggetti), ovvero avendole comunque acquisite (ad esempio, scaricandole dalla rete), pone in essere una o più delle condotte traslative (le medesime descritte analizzando la fattispecie di cui al primo comma, a cui si rinvia) per tal via rendendo tali video o immagini, come si dice in gergo tecnico, «virali».

Il fondamento politico-criminale di tale disposto riposa nella presa d’atto, da parte del legislatore, della circostanza che spesso è la stessa vittima dell’illecita cessione ad aver consegnato le immagini o i video che la riguardano all’autore del reato e che, spesso, la loro diffusione avviene da parte di soggetto diverso da chi le immagini o i video ha realizzato o sottratto. Si è, dunque, inteso sanzionare, per un verso, la condotta di chi sia venuto in possesso dei suddetti materiali senza averli realizzati personalmente o, comunque, in assenza di sottrazione e, per altro verso, quella, altrettanto esecrabile, dei «condivisori» delle immagini illecitamente diffuse dall’autore del reato. In tal caso è, tuttavia, richiesto che il reo agisca al fine specifico di recare nocumento alla persona rappresentata nelle immagini o nei video diffusi: si esige, in altri termini, che la condotta del soggetto attivo sia animata dal dolo specifico, fattore che restringe fortemente l’area della rilevanza penale di tal genere di comportamenti, confinando nell’area del penalmente irrilevante condotte non meno censurabili, quali quelle di chi, senza il consenso della vittima, ne diffonda immagini o video di contenuto sessualmente esplicito per farsene vanto o per ragioni ludiche. Del resto, in altri ordinamenti, come quello inglese o californiano, in cui già esistono da anni tali disposizioni, e le cui norme richiamano la finalità vendicativa, richiedendo per la configurazione del reato un equivalente del nostro dolo specifico incentrato sulla volontà di causare un severo stress alla vittima, tale struttura della fattispecie ha provocato forti limitazioni applicative alla medesima.

Elemento soggettivo (comma 2)

A differenza del comma 1, il secondo richiede il dolo specifico, che emerge dall’inciso «al fine di creare nocumento» alla persona offesa. La norma indica, dunque, il fine determinato perseguito dall’agente affinché la condotta astrattamente tipizzata sia integrata. Si precisa che il «nocumento» secondo la giurisprudenza di legittimità è «un pregiudizio giuridicamente rilevante di qualsiasi natura, patrimoniale e non, cagionato sia alla persona alla quale i dati illecitamente trattatisi riferiscono sia a terzi quale conseguenza della condotta illecita» (Cass. pen., sez. III, sent. 23-11-2016, n. 15221).

Il legislatore non ha ritenuto sufficiente, per dare rilevanza penale alla condotta, la mera consapevolezza di recare nocumento (dolo diretto, che rientra nel dolo generico), ma richiede il dolo specifico e cioè l’intenzione di danneggiare la persona ritratta. Il dolo specifico mancherà in tutti i casi, che saranno i più frequenti, in cui chi riceve e diffonde le immagini non conosce la persona ritratta oppure, anche conoscendola, le invia a sua volta solo perché le ritiene interessanti. Il dolo specifico restringe molto l’ambito di applicazione del comma 2, creando uno squilibrio nella risposta penale tra le due condotte.

Consumazione del reato

Il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, che ha natura di reato istantaneo, si perfeziona nel momento in cui avviene il primo invio a un destinatario, indipendentemente dal rapporto esistente tra quest’ultimo e la persona ritratta (sussiste una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta la condanna dell’imputato che, senza il consenso della vittima, aveva inviato immagini ritraenti la «ex» amante in situazioni sessualmente esplicite ai soli familiari della stessa, interessati a non alimentarne la successiva diffusione a terzi estranei: Sez. 5, sent. 14927 del 7-4-2023).

Annota la Corte che con il primo invio, la diffusione è già avvenuta, per quanto stabilito dalla disposizione incriminatrice, che non fa questione di reiterazione della condotta diffusiva né «quantifica» o qualifica in alcun modo la diffusione lesiva del bene protetto; il reato è inserito tra quelli a tutela della libertà morale individuale e si rivolge alla sfera di intimità personale e della privacy, intesa quale diritto a controllare l’esposizione del proprio corpo e della propria sessualità, in un’ottica di autodeterminazione della sfera sessuale individuale.

Le circostanze aggravanti: ipotesi di cui al comma 3

Il comma 3 prevede che la pena è aumentata se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici.

Trattasi di circostanze comuni ad effetto comune che comportano un aumento di pena fino ad un terzo (ex art. 64, comma 1, c.p.).

In particolare, in unità di intenti politico criminali con la legge «anti-stalking», anche in questo caso la maggior carica di disvalore penale è stata riconosciuta alla condotta tipizzata, ove posta in essere in presenza di un rapporto sentimentale che, pregresso o ancora presente all’epoca del fatto (in ciò la norma ha beneficiato, nel suo tenore letterale, della evoluzione normativa, in senso «estensivo», concernente il delitto di stalking), legava l’autore del reato e la persona offesa (trattasi dei casi di revenge porn più diffusi e lesivi, oltre che rientranti fra le ipotesi di violenza di genere, secondo la definizione fornita dalla direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25-10-2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, secondo la quale, nella relativa nozione va ricompresa «la violenza nelle relazioni strette»). Si è osservato, peraltro, che, ferma l’indubbia opportunità di tale disposizione, non può non rilevarsi che la sua concreta formulazione debba ritenersi carente di tipizzazione, a causa della mancata inclusione, nel novero dei soggetti attivi, della parte di un’unione civile.

A maggiori critiche è stata sottoposta, fin dai suoi esordi, l’ulteriore configurazione aggravata, derivante dall’uso di strumenti informatici o telematici. Si afferma, fra l’altro, che gli strumenti telematici presuppongano quelli informatici, dunque non possono porsi come alternativi, ma soprattutto che, mentre l’analoga configurazione aggravata relativa allo stalking ha più senso, in quanto gli atti persecutori possono anche prescindere dall’impiego di tali tecnologie strumentali, il disvalore penale del «revenge porn» si incardina in gran parte proprio sull’uso delle tecnologie digitali, che lo rendono al contempo estremamente semplice da realizzare (specie con le più moderne evoluzioni tecnologiche del settore telematico) e particolarmente lesivo nelle conseguenze. È pur vero che sussistono ipotesi di divulgazione delle immagini che non passano attraverso Internet o mediante strumenti informatici (come testimonia il fatto che il «revenge porn» esisteva ancor prima dell’affermarsi e del diffondersi delle tecnologie informatiche), ma resta il fatto che la fattispecie aggravata rischia di trovare una applicazione enormemente superiore di quella «base», destinata a restare meramente residuale.

Le circostanze aggravanti di cui al comma 4

Il citato comma, infine, prevede una circostanza aggravante ad effetto speciale, funzionale a predisporre una tutela «rafforzata» nei confronti di taluni soggetti in condizione di oggettiva «fragilità», in primis le persone in condizione di inferiorità fisica o psichica. L’opportunità di tale opzione normativa viene evidenziata da coloro che rilevano, per esperienza, la maggior facilità con la quale le persone nelle suddette condizioni possano esser convinte a creare materiali intimi e ad inviarli, previo inganno sulle finalità dell’invio. Per converso, si censura (in ciò inopportunamente discostandosi dall’analoga previsione concernente il delitto di atti persecutori) la mancata inclusione, fra i soggetti meritevoli di speciale tutela, dei minori, pur se, si afferma, ciò potrebbe trovare fondamento nel fatto che il legislatore abbia ritenuto adeguatamente protettiva la preesistente normativa di contrasto alla pedopornografia, a tutela degli adolescenti, senza dubbio la categoria potenzialmente più esposta al «revenge porn» (si ricordi, in proposito, l’opportuna clausola di sussidiarietà posta nell’incipit della previsione, diretta a captare l’applicabilità di quanto evidentemente si sovrappone alle condotte tipizzate dall’art. 600ter c.p.).

Altra categoria cui si riserva una speciale protezione sono le donne in stato di gravidanza, si ritiene, sul presupposto che siano oggettivamente da considerarsi, per la loro fragilità, in condizioni assimilabili alla «minorata difesa». Si afferma, peraltro, come non sia chiaro nella previsione se lo stato di gravidanza debba sussistere al momento della creazione dei materiali incriminati ovvero nel momento della loro condivisione, in modo da produrre stress psicologico alla donna. Inoltre, si afferma, mentre negli atti persecutori il reo interagisce con la vittima, per cui si rende conto dello stato di gravidanza, il delitto in esame può giungere a consumazione anche a distanza di tempo, quando il reo potrebbe non essere a conoscenza delle condizioni della vittima.

Procedibilità del revenge porn

L’ultimo comma della previsione in esame, infine, è dedicato alle regole di procedibilità. Trattasi di disposto anch’esso costruito in unità di intenti politico-criminali col delitto di «atti persecutori» (il cui corrispondente precetto, se si eccettua per l’ipotesi di querela irrevocabile, è sostanzialmente sovrapponibile). In particolare, si prevede la ordinaria procedibilità a querela degli illeciti e la proponibilità della querela nel termine di sei mesi (si noti, peraltro, che il medesimo provvedimento ha adottato, come si vedrà, diversa opzione normativa, in relazione ai delitti di violenza sessuale, ex art. 609septies, raddoppiando l’originario termine di sei mesi e portandolo a dodici), pur disponendosi, per un verso, che la sua remissione possa avvenire solo in sede processuale, allo scopo di garantire che l’esercizio della relativa facoltà avvenga in presenza e sotto vigilanza giudiziaria e, per altro verso, che si proceda, invece, d’ufficio in presenza dell’aggravante a effetto speciale di cui al comma 4 (diffusione delle immagini o dei video a contenuto sessualmente esplicito in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o di donna in stato di gravidanza) .

I casi di cui al quarto comma sono quelli che integrano due aggravanti speciali: quando la vittima è «persona in condizione di inferiorità fisica o psichica» o «una donna in stato di gravidanza». La ratio del primo caso è quella di tutelare una persona nei confronti della quale il reato è particolarmente odioso e per la quale è più difficile manifestare l’istanza punitiva. Anche nel caso della gravidanza sembra tenere conto del particolare stato di fragilità della persona offesa. Essendo l’aggravante elemento accessorio al fatto-diffusione, infatti, lo stato di gravidanza deve esistere al momento della diffusione e non a quello delle riprese.

Ulteriore ipotesi di procedibilità di ufficio ricorre quando l’illecito sia connesso con altro procedibile di ufficio.

elezione diretta presidente consiglio

Elezione diretta del Presidente del Consiglio Cosa prevede il ddl n. 935 di riforma costituzionale per l’elezione diretta del Presidente del Consiglio che, dopo il passaggio in Commissione, è all’esame dell’assemblea del Senato

Elezione diretta del premier: il ddl n. 935

Il disegno di legge n. 935 per l’elezione del Presidente del Consiglio, presentato dall’attuale  presidente del Consiglio Giorgia Meloni il 15 novembre 2023, dal 15 maggio è all’esame dell’assemblea del Senato dopo essere stato assegnato in sede referente alla prima Commissione Permanente Affari Costituzionali, che ha apportato alcune modifiche al testo base.

L’elezione diretta del PdC comporta la modifica degli articoli 59, 88, 92 e 94 del testo costituzionale. Questa proposta di legge costituzionale mira a rafforzare la stabilità governativa e a rendere più trasparente e diretta l’elezione del Presidente del Consiglio, mantenendo tuttavia intatti molti dei meccanismi di controllo e di bilanciamento presenti nella Costituzione italiana.

Analizziamo le principali novità in attesa della versione definitiva del testo.

Presidente del Consiglio eletto dal corpo elettorale

La modifica principale prevede che il Presidente del Consiglio sia eletto direttamente dai cittadini per un mandato di cinque anni, con la possibilità di essere rieletto per un massimo di due legislature consecutive, estendibili a tre in particolari condizioni.

Questo cambia l’articolo 92 della Costituzione. Una volta eletto, il Presidente del Consiglio riceve l’incarico di formare il Governo dal Presidente della Repubblica.

La procedura di nomina dei Ministri rimane invariata: proposta del Presidente del Consiglio eletto e nomina da parte del Presidente della Repubblica.

Da segnalare la clausola antiribaltone che prevede la sostituzione del Presidente del Consiglio solo da parte di un parlamentare della maggioranza al fine di portare avanti il programma di Governo.

Premio elettorale

La proposta introduce un sistema elettorale in cui le elezioni del Presidente del Consiglio e delle due Camere avvengono simultaneamente. Il Presidente del Consiglio eletto deve essere anche un parlamentare e deve essere eletto nella Camera in cui ha presentato la sua candidatura.

Per garantire una maggioranza parlamentare al Presidente del Consiglio, viene introdotto un premio elettorale nazionale, la cui esatta configurazione sarà definita dalla futura legge elettorale. Questa dovrà assicurare che l’elezione del Presidente del Consiglio porti anche all’elezione dei deputati collegati alla sua lista.

Rapporto fiduciario

Nonostante l’elezione diretta del Presidente del Consiglio, il Governo necessita ancora della fiducia delle Camere, come stabilito dall’articolo 94 della Costituzione. Se il Governo non ottiene la fiducia, il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al Presidente del Consiglio eletto. In caso di mancato ottenimento della fiducia al secondo tentativo o in caso di revoca della fiducia, il Presidente della Repubblica scioglie le Camere.

Ruolo del Presidente della Repubblica

Modifiche indirette anche al ruolo del Presidente della Repubblica. L’articolo 83 viene modificato per richiedere una maggioranza assoluta dal sesto scrutinio per l’elezione del Presidente della Repubblica. Viene eliminata inoltre la necessità della controfirma ministeriale per alcuni atti presidenziali, come la nomina dei giudici della Corte costituzionale e del Presidente del Consiglio. Lo scioglimento anticipato delle Camere e la convocazione di sessioni straordinarie non sono tuttavia inclusi tra questi atti.

Senatori a vita

La proposta prevede la soppressione dell’istituto dei senatori a vita, con una disposizione transitoria che mantiene in carica quelli attuali. Non viene toccato l’istituto dei senatori di diritto a vita, come gli ex-Presidenti della Repubblica.

Scioglimento delle Camere

Il disegno di legge prevede poi che lo scioglimento delle Camere avvenga solo congiuntamente, eliminando la possibilità di scioglimento separato, come consentito dalla revisione costituzionale del 1963. La modifica mira a garantire la stabilità delle maggioranze governative.

Norme transitorie

Le norme transitorie prevedono che la legge costituzionale entri in vigore dopo il primo scioglimento o la cessazione delle Camere successiva all’entrata in vigore delle nuove regole.

Gli attuali senatori a vita inoltre restano in carica fino alla fine del loro mandato.

giurista risponde

Applicabilità art. 578bis c.p.p. La disposizione dell’art. 578bis c.p.p. è applicabile, in ipotesi di confisca per equivalente, ai reati ricompresi nell’originaria formulazione dell’art. 578bis c.p. e commessi anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 6, comma 4, D.Lgs. 21/2018, che ha introdotto nel codice di rito la suddetta disposizione?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bruna Aloi, Beatrice Doretto, Antonino Ripepi, Serena Suma e Chiara Tapino

 

La disposizione dell’art. 578bis c.p.p. ha, con riguardo alla confisca per equivalente e alle forme di confisca che presentino comunque una componente sanzionatoria, natura anche sostanziale ed è, pertanto, inapplicabile in relazione ai fatti posti in essere anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 6, comma 4, D.Lgs. 21/2018, che ha introdotto la suddetta disposizione. – Cass Sez. Un. 31 gennaio 2023, n. 4145.

La vicenda in esame trae origine da un ricorso con cui è stata eccepita la nullità delle disposizioni relative alla confisca per equivalente disposta ai sensi dell’art. 12bis, D.Lgs. 74/2000, sul presupposto che tale misura sarebbe illegittima per effetto della pronuncia della sentenza di estinzione dei reati per prescrizione.

Rilevata l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in materia di applicabilità della disposizione di cui all’art. 578bis c.p.p. anche alle confische disposte per fatti consumati prima dell’entrata in vigore della stessa, la Terza Sezione della Corte di Cassazione ha rimesso la questione alle Sezioni Unite.

Secondo un primo orientamento, l’art. 578bis c.p.p. consente la confisca per equivalente anche in caso di sentenza dichiarativa di prescrizione di un reato commesso anteriormente alla sua entrata in vigore. La disposizione in esame è infatti considerata norma di natura processuale, come tale soggetta al principio tempus regit actum.

In particolare, si ritiene che l’art. 578bis c.p.p. non introduca nuovi casi di confisca, ma si limiti a definire la cornice procedimentale entro cui la stessa può essere applicata, agendo su un profilo processuale e temporale e lasciando inalterati i presupposti sostanziali di applicazione del vincolo.

La norma si limita infatti a prevedere la possibilità per il giudice di appello o la corte di cassazione di applicare la confisca per equivalente anche in caso di estinzione del reato per prescrizione o amnistia, purché sia accertata la responsabilità dell’imputato.

Altro orientamento, valorizzando la natura sanzionatoria della confisca per equivalente, nega l’applicabilità della disciplina prevista dall’art. 578bis c.p.p. per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della predetta disposizione. Si ritiene infatti che la stessa, producendo effetti sostanziali, non possa operare retroattivamente.

Si richiama in proposito l’insegnamento delle Sezioni Unite che, all’esito di un percorso giurisprudenziale, hanno affermato il principio di diritto – oggi superato, in ragione dell’introduzione dell’art. 578bis c.p.p. – secondo cui il giudice, nel dichiarare l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, non può disporre, atteso il suo carattere afflittivo e sanzionatorio, la confisca per equivalente delle cose che ne costituiscono il prezzo o il profitto (Cass. Sez. Un. 21 luglio 2015, n. 31617).

Le Sezioni Unite condividono tale ultimo indirizzo interpretativo, riconoscendo alla confisca per equivalente una natura prevalentemente afflittiva e sanzionatoria, così come in più occasioni chiarito anche dalla Corte Costituzionale e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

In particolare, le Sezioni Unite, ricordando che la confisca per equivalente costituisce “una forma di prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti”, potendo la stessa essere sempre disposta a prescindere dalla sussistenza di un nesso di pertinenzialità tra i beni aggredibili e il fatto criminoso- ne hanno riconosciuto la natura punitiva.

Alla luce delle esposte considerazioni, le Sezioni Unite hanno conclusivamente rilevato che, diversamente da quanto sostenuto dal primo degli orientamenti esaminati, l’art. 578bis c.p.p. non si presenta come una norma meramente ricognitiva di un principio esistente nell’ordinamento, in quanto la nuova disposizione attribuisce il potere, in precedenza precluso al giudice, di mantenere in vita una pena.

Pertanto, rilevata la natura anche di diritto sostanziale della disposizione in esame, si esclude che la confisca per equivalente possa essere retroattivamente applicata a fatti commessi anteriormente alla sua introduzione.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. III, 22 aprile 2022, n. 15655; Cass., sez. III, 4 aprile 2022, n. 7882;
Cass., sez. III, 29 ottobre 2021, n. 39157; Cass., sez. III, 26 maggio 2021, n. 20793
Difformi:      Cass., sez. II, 10 maggio 2021, n. 19645; Cass., sez. VI, 7 maggio 2020, n. 14041; Cass., sez. III, 4 aprile 2020, n. 8785
mail prova

L’e-mail è prova scritta La Cassazione ha precisato che il messaggio di posta elettronica sottoscritto con firma “semplice” è un documento informatico che forma prova piena dei fatti e delle cose rappresentate

La prova per iscritto del contratto di assicurazione

Il caso che ci occupa, per quanto qui rileva, prende le mosse dalla decisione adottata dalla Corte territoriale in ordine all’inidoneità di un’e-mail di dimostrare, sul piano probatorio, l’esistenza e il contenuto di un contratto di assicurazione.

Nella specie, il Giudice di merito aveva ritenuto che il contratto di assicurazione, ai sensi dell’art. 1888 c.c., dovesse essere provato per iscritto e che tale prova non poteva ritenersi raggiunta nel caso sottoposto al suo esame, ove si era assistito ad uno scambio “di semplici, ordinarie e-mail e non già di scambio a mezzo di posta elettronica certificata”. Invero, aveva riferito la Corte territoriale “in caso di contratto da provarsi per iscritto lo scambio di mail non potrebbe (..) ricoprire lo stesso valore di una scrittura privata”.

Avverso tale decisione l’assicurato aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

La mail soddisfa il requisito della prova scritta

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 14046/2024, ha accolto il motivo di ricorso con cui il ricorrente ha contestato il provvedimento impugnato in ordine al mancato riconoscimento dell’efficacia della prova scritta costituita dalla mail di cui si è dato sopra conto.

In particolare, il Giudice di legittimità, facendo riferimento al quadro normativo esistente all’epoca dei fatti di causa, ha ricordato che “Le condizioni richieste dalla legge affinché un documento informatico potesse ritenersi uno “scritto”, idoneo a soddisfare il requisito della forma ad probationem del contratto assicurativo, erano stabilite (…) dagli artt. 20 e 21 del d.lgs. 82/2005”; tali norme, ha proseguito la Corte “distinguevano i documenti informatici sottoscritti con firma elettronica “semplice”, da quelli sottoscritti con firma elettronica “qualificata” o “digitale”. Posta tale distinzione, non vi è dubbio, afferma la Corte, che il caso in esame attiene ad un documento cui era stata apposta una firma elettronica semplice, rispetto alla quale le suddette norme attribuivano al giudice la valutazione in ordine all’idoneità del documento di rispettare il requisito di forma prescritto di volta in volta dalla legge.

In relazione a tale contesto normativo, ha precisato il Giudice di legittimità, la Corte d’appello avrebbe dovuto esaminare le caratteristiche oggettive del documento, quali, in particolare, la sua qualità, sicurezza, integrità, immodificabilità, desumibili da elementi come: il formato file in cui il massaggio di posta elettronica è stato salvato, le proprietà dello stesso e altri elementi analoghi.

La suddetta valutazione doveva in questo senso essere compiuta alla luce del consolidato principio secondo cui “la prova scritta del contratto di assicurazione può essere desunta anche da documenti diversi dalla polizza (…), purché provenienti dalle parti e da questi sottoscritti, dai quali sia possibile desumere l’esistenza ed il contenuto del patto”.

I principi di diritto della Cassazione

Sulla scorta di quanto sopra riferito, la Corte ha concluso il proprio esame elaborando i seguenti principi desumibili dalla normativa di riferimento:

  • il messaggio di posta elettronica sottoscritto con firma semplice è un documento informatico ai sensi dell’art. 2712 c.c.;
  • se non ne sono contestati la provenienza o il contenuto, la mail prova piena prova dei fatti e delle cose rappresentate;
  • se ne sono, invece, contestati la provenienza o il contenuto, il giudice deve valutare il documento con tutti gli altri elementi disponibili e tenendo conto delle sue caratteristiche intrinseche di sicurezza, integrità ed immodificabilità.

Ne consegue che, nel caso di specie, la Corte d’appello non avrebbe dovuto scartare l’e-mail in questione dal materiale probatorio sulla base dei soli rilievi della carenza di firma elettronica qualificata e della mancata adozione di modelli usualmente impiegati per quel tipo di contratti, ma avrebbe dovuto compiere le valutazioni prescritte dalla legge.

responsabilità 2051 c.c.

Responsabilità ex art. 2051 c.c. La responsabilità da custodia è di tipo oggettivo e può essere esclusa solo dall’assenza del nesso causale, come chiarito anche dalle Sezioni Unite

La responsabilità da custodia: natura e caratteri

La responsabilità da custodia è disciplinata dall’art. 2051 c.c. ed è costantemente oggetto di dibattito giurisprudenziale riguardo alla sua natura e, conseguentemente, agli oneri probatori a carico delle parti in causa.

Come vedremo tra breve, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sembrano aver sciolto definitivamente ogni dubbio in merito, definendo quella del custode come una responsabilità oggettiva, e non semplicemente presunta.

Responsabilità ex art. 2051 c.c.: il caso fortuito

Cominciamo col ricordare il dato normativo, che dispone, in maniera molto essenziale, che “ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”.

Ciò significa che il proprietario di una cosa, il suo detentore o in ogni caso chi ne abbia a carico compiti di vigilanza, manutenzione o controllo, viene ritenuto dall’ordinamento, per ciò stesso, responsabile dell’eventuale danno causato a terzi.

L’unico modo che il custode ha per andare esente da responsabilità – e quindi dai conseguenti obblighi risarcitori – è quello di dimostrare che il danno è derivato da caso fortuito, in tale espressione ricomprendendosi anche il fatto di un terzo o dello stesso danneggiato.

Natura oggettiva della responsabilità da custodia

In termini strettamente giuridici, la questione relativa alla natura della responsabilità del custode e, conseguentemente, alle circostanze che possono escluderla, si risolve nell’analisi della rilevanza, o meno, della condotta del custode antecedente all’evento che ha causato il danno.

Ebbene, anticipiamo subito che, come hanno chiarito le SS.UU., tale condotta non ha alcuna rilevanza. In altre parole, una volta verificatosi il danno causato dalla cosa (si pensi ad un immobile in cattivo stato di conservazione, ad un’automobile parcheggiata, ad un marciapiede malandato in custodia al Comune, ad una pedana di legno all’interno di un negozio: gli esempi potrebbero essere infiniti) al custode non servirà a nulla dimostrare di aver provveduto alla regolare manutenzione dell’oggetto o alla sua vigilanza.

L’unico aspetto che rileva, infatti, è il nesso causale tra l’oggetto e il danno. È solo riguardo a ciò che il custode ha la possibilità di offrire una prova che escluda la sua responsabilità; e tale prova si sostanzia nel dimostrare che l’evento sia stato del tutto fortuito (si può fare il classico esempio di eventi naturali catastrofici), o che sia dovuto al fatto del terzo o dello stesso danneggiato.

Per inciso, va quindi rilevato che, nel caso in cui sia dimostrato il caso fortuito, l’eventuale assenza di regolare manutenzione o di effettiva vigilanza da parte del custode non comporta la sussistenza della responsabilità ex art. 2051 c.c. (ma solo, eventualmente, ex art. 2043 c.c.).

La pronuncia delle Sezioni Unite sulla responsabilità ex art. 2051 c.c.

In conclusione, la responsabilità da custodia ex art. 2051 c.c. è una responsabilità oggettiva e non una semplice responsabilità presunta.

In altre parole, al custode non è sufficiente dimostrare che la causa del danno non sia a lui imputabile, ma deve dimostrare l’assenza del nesso causale tra la cosa in sua custodia e il danno.

È questo il senso della pronuncia delle Sezioni Unite cui sopra si accennava, secondo cui “la responsabilità di cui all’art. 2051 c.c. ha carattere oggettivo, e non presunto, essendo sufficiente, per la sua configurazione, la dimostrazione da parte dell’attore del nesso di causalità tra la cosa in custodia ed il danno, mentre sul custode grava l’onere della prova liberatoria del caso fortuito, rappresentato da un fatto naturale o del danneggiato o di un terzo, connotato da imprevedibilità ed inevitabilità, dal punto di vista oggettivo e della regolarità o adeguatezza causale, senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode” (Cass. civ., SS.UU., ord. n. 20943 /2022, che in narrativa richiama le sentenze Cass. civ., III sez., nn. 2480 e 2481 del 2018).