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Casellario informatico ANAC e termine annuale di efficacia Allo scadere del termine annuale di efficacia, l’iscrizione nel casellario informatico ANAC può trasferirsi in diversa sezione?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

No, le iscrizioni pregiudizievoli possono avere una durata massima di un anno e, al termine dello stesso, sono intrasferibili in diversa sezione. – Cons. Stato, sez. V, 29 gennaio 2024, n. 881.

Preliminarmente per casellario ANAC si intende il casellario informatico dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, attualmente disciplinato ai sensi dell’art. 222, comma 10, D.Lgs. 36/2023.

Nel casellario sono annotate le notizie, le informazioni e i dati relativi agli operatori economici con riferimento alle iscrizioni previste dall’art. 94, D.Lgs. 36/2023 relativamente alle false dichiarazioni o alla falsa documentazione presentata nelle procedure di gara e negli affidamenti di subappalti ovvero ai fini del rilascio dell’attestazione di qualificazione.

La vicenda sottoposta all’attenzione del Consiglio di Stato attiene alla durata delle iscrizioni pregiudizievoli nel casellario ANAC. La vicenda si è svolta nel contesto normativo previgente, l’originaria iscrizione nel casellario ANAC veniva disposta in forza del potere sanzionatorio esercitato dall’Autorità Nazionale Anticorruzione e disciplinato dalle previsioni del Regolamento unico in materia di esercizio del potere sanzionatorio. In tale regolamento si prevedeva che l’iscrizione nel casellario informatico ai fini dell’esclusione delle procedure di gara e degli affidamenti in subappalto fosse disposta per la durata massima di un anno, decorso il quale l’iscrizione perde efficacia. Nel caso in esame, al termine dell’anno di durata massima, l’iscrizione veniva spostata in altra area del casellario per un periodo di tempo indefinito.

I giudici di Palazzo Spada enunciano che la decisione dell’ANAC di non cancellare ma di spostare l’impresa in una diversa sezione del casellario informatico allo scadere del termine annuale, dopo aver accertato la falsità di una dichiarazione, deve ritenersi illegittima perché non supportata da uno specifico riferimento di legge e, in ogni caso, elusiva dei limiti di efficacia ex art. 38, comma 1, lett. h), D.Lgs. 163/2006, norma comunque prevalente su disposizioni di rango regolamentare.

Il Consiglio di Stato ha chiarito che la norma ha natura speciale, poiché si riferisce “non a qualsiasi violazione contrattuale o di legge commessa nell’esecuzione di un precedente appalto, bensì alle sole ipotesi di presentazione di falsa dichiarazione o falsa documentazione, peraltro ove rese con dolo o colpa grave”. In quanto norma speciale, è destinata a prevalere – circoscrivendone l’ambito di applicazione – su eventuali disposizioni di carattere generale potenzialmente idonee a disciplinare anche i casi ad essa riconducibili, e ciò a maggior ragione nel caso in cui la previsione di carattere più generale sia di rango inferiore nella gerarchia delle fonti del diritto”.

*Contributo in tema di “Casellario informatico ANAC e termine annuale di efficacia”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 73 / Aprile 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

Tempo tuta: quando è pagato Per la Cassazione, il tempo tuta per indossare e togliere l’abbigliamento da lavoro non deve essere retribuito se non c’è l’obbligo di indossare indumenti specifici da lavoro

Retribuzione tempo tuta

Il tema del “tempo tuta” riguarda la retribuzione del tempo impiegato dai lavoratori per indossare e togliere l’abbigliamento da lavoro. Questo argomento è stato oggetto di numerosi dibattiti e sentenze.

La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n. 13639-2024 ha fornito un importante chiarimento, stabilendo come non sia prevista alcuna retribuzione per il tempo di vestizione e svestizione quando i lavoratori non sono obbligati a indossare specifici indumenti di lavoro. Stessa conclusione per i dispositivi di protezione nel caso in cui l’uso dei DPI sia facoltativo e avvenga dopo aver timbrato il cartellino. Tale tempo rientra infatti nell’orario di lavoro, per cui non è necessario il riconoscimento di una retribuzione aggiuntiva.

Retribuzione tempo di vestizione non dovuta

La vicenda giunge in Cassazione dopo che la Corte d’appello di Bologna, modificando la decisione di primo grado, ha respinto le richieste di due lavoratori che chiedevano il riconoscimento del “tempo-tuta” come orario di lavoro per venti minuti a turno dal febbraio 2014 al luglio 2019.

La Corte ha concluso che, in assenza di un obbligo imposto dal datore di lavoro riguardo al tempo, modo e luogo della vestizione e svestizione, non esiste un diritto alla retribuzione per quel tempo. I lavoratori possono indossare gli abiti da lavoro a casa o negli appositi spogliatoi aziendali, senza alcun obbligo specifico.

La Corte ha sottolineato che i lavoratori erano liberi di indossare abiti personali e portare a casa gli indumenti da lavoro per lavarli, confermando l’assenza di un obbligo di tenere e lavare questi indumenti in azienda. Per i DPI specifici, come guanti e mascherine, conservati in armadietti aziendali e utilizzati solo dopo aver timbrato il cartellino, non si poneva il problema della retribuzione aggiuntiva, poiché erano accessibili solo durante l’orario di lavoro.

Niente retribuzione tempo di vestizione senza obbligo

I lavoratori hanno fatto ricorso alla Cassazione, contestando la violazione di diverse normative come il Decreto legislativo.  66/2003, la Direttiva Europea 2003/88 e l’articolo 2094 del Codice Civile, sostenendo che le operazioni di vestizione e svestizione dovessero essere incluse nell’orario di lavoro.

La Cassazione però ha confermato la sentenza d’appello, ribadendo che l’assenza di un obbligo di indossare abiti da lavoro forniti dall’azienda esclude la necessità di retribuire il tempo dedicato a queste operazioni.

Nella motivazione dell’ordinanza, richiamando lo storico della lite, la Cassazione riporta che “tutti i lavoratori  non avevano, e non hanno, alcun obbligo di indossare gli abiti da lavoro (il cui utilizzo resta facoltativo) non sussistendo alcun obbligo imposto da di indossare gli indumenti da lavoro forniti.” Questo conferma l’assenza di un obbligo di tenere e lavare questi indumenti in azienda.

Per quanto riguarda invece i DPI utilizzati durante l’orario di lavoro, il problema della retribuibilità non si pone, in quanto l’accesso a essi avveniva solo dopo aver timbrato il cartellino, ossia durante l’orario di lavoro. In sintesi, le sentenze della Corte di Cassazione e della Corte d’appello di Bologna confermano che l’assenza di un obbligo di vestizione imposto dal datore di lavoro esclude il diritto alla retribuzione per il tempo necessario a indossare e togliere la “tuta” da lavoro.

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linee guida pma

Procreazione medicalmente assistita (PMA): le linee guida Pubblicate in Gazzetta Ufficiale le linee guida sulle tecniche e sulle procedure di procreazione mediamente assistita

Linee guide PMA 2024

Sulla Gazzetta Ufficiale n. 107/2024 sono state pubblicate le nuove linee guida sulla legge numero 40/2004 che disciplina la procreazione medicalmente assistita.

Le linee guida contenute nel decreto del Ministero della Salute del 20 marzo 2024 vanno a sostituire quelle emanate nel 2015, stante la necessità di innovare la materia e superare certi limiti, che negli anni sono stati rimossi dai numerosi interventi della Consulta. Nella premessa al decreto vengono infatti menzionate le seguenti pronunce della Corte costituzionale: n. 161 del 24 maggio 2023; n. 84 del 22 marzo 2016; n. 229 del 21 ottobre 2015; n. 96 del 14 maggio 2015; n. 162 del 9 aprile 2014; n. 151 del 1° aprile 2009.

A chi si rivolgono le linee guida

Le linee guida 2024 dettano le regole sulle procedure e sulle tecniche della procreazione medicalmente assistita e sono vincolanti per tutte le strutture autorizzate a svolgere questa pratica medica. Fanno parte integrante delle presenti linee guida anche le indicazioni su procedure e tecniche previste dalla legge numero 40/2004.

Oggetto linee guida PMA

Le linee guide si occupano di diversi aspetti della procreazione mediatamente assistita.

  • Ricorso alle tecniche di PMA solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause di infertilità o sterilità.
  • Gradualità nell’uso delle tecniche per evitare interventi più invasivi, sia tecnicamente che psicologicamente.
  • Consenso informato necessario per sottoporsi alle tecniche.
  • Accertamento dei requisiti per le coppie che richiedono l’accesso alle tecniche.
  • Sperimentazione sugli embrioni aggiornate in base alle sentenze della Corte Costituzionale, inclusa la sentenza n. 229/2015.
  • Limiti all’applicazione delle tecniche sugli embrioni posti dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 151/2009.
  • Tecniche di PMA di tipo eterologo modificate dalla sentenza n. 162/2014, relative alle tecniche con donazione di gameti.
  • PMA per coppie fertili con malattie genetiche dopo la sentenza n. 96/2015.
  • Abolizione del reato di selezione degli embrioni come da sentenza n. 229/2015.
  • Preservazione della fertilità da patologie o terapie che possono compromettere la funzionalità delle gonadi.

Principi di applicazione delle tecniche

Le linee guida definiscono “infertile” la coppia che non riesce a concepire dopo un anno di rapporti sessuali non protetti, mentre “è sterile” l’individuo che presenta una condizione fisica permanente che impedisce il concepimento. Questi termini sono usati come sinonimi all’interno del documento.

Secondo l’art. 4 della legge n. 40/2004, il ricorso alle tecniche di PMA è circoscritto ai casi documentati di sterilità o infertilità inspiegate e accertate. Le tecniche devono essere applicate con gradualità per minimizzare l’invasività e devono basarsi  sul consenso informato.

Il ricorso alle tecniche di PMA è stato ampliato, ora possono accedervi anche le coppie che hanno crioconservato gameti o tessuto gonadico per preservare la fertilità, alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili e alle coppie sierodiscordanti con rischio di infezioni (HIV, HBV, HCV).

Indicazioni procedurali

Il medico ha l’obbligo di verificare  i requisiti previsti dalla legge n. 40/2004 raccogliendo l’autocertificazione dello stato di matrimonio o convivenza della coppia.

Chi richiede un trattamento di PMA deve effettuare gli esami preconcezionali previsti per donna, uomo e coppia, come stabilito dal decreto del 12 gennaio 2017.

Per lo screening delle patologie infettive in tecniche di PMA omologa o con donazione di gameti, si fa riferimento al decreto n. 131 del 23 agosto 2019.

Le coppie positive per HIV, HBV o HCV che desiderano la fecondazione in vitro devono considerare le implicazioni delle loro condizioni sui potenziali figli.

Registrazione e mantenimento dei dati

Ogni coppia deve avere una scheda clinica con i dati anagrafici, anamnestici, clinici, genetici, infettivologici, la diagnosi, il trattamento, le tecniche anestesiologiche, i nominativi degli operatori, il decorso clinico, eventuali complicanze e l’esito del trattamento.

La scheda di laboratorio invece deve contenere i dati anagrafici e le informazioni coerenti con la sezione E/2 dell’Accordo Stato-regioni 2012 e la direttiva 2006/17/CE modificata dal decreto n. 131 del 2019.

Entrambe le schede devono essere conservate dal centro. Una relazione conclusiva, clinica e biologica, destinata al medico curante e all’utente deve includere la procedura eseguita, il monitoraggio endocrino/ecografico, i dati di laboratorio, i farmaci usati durante il prelievo ovocitario, i risultati ottenuti e indicazioni terapeutiche post-procedura.  

PMA: le novità in sintesi

Tirando le fila, le linee guida 2024 hanno introdotto importanti e diversi elementi di novità rispetto a quelle del 2015. Vediamo i più importanti:

  • Le coppie dovranno sostenere il costo di un canone annuo per poter conservare gli embrioni che non vengono utilizzati.
  • Le coppie portatrici di patologie genetiche potranno decidere di non impiantare gli embrioni che presentino dei difetti genetici.
  • La donna potrà chiedere di procedere all’impianto dell’embrione anche se il rapporto con il partner è venuto meno o lo stesso è defunto.
  • Stop inoltre alla revoca del consenso alla P.M.A, presa la decisione non si torna indietro.

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nuova aggressione avvocati

Nuova aggressione avvocati, AIGA: serve legge L'Associazione dei giovani avvocati esprime piena solidarietà al legale minacciato in carcere e sollecita il legislatore ad intervenire

Nuova aggressione avvocati

Serve l’intervento del legislatore di fronte alle aggressioni agli avvocati. “La misura è colma” avverte l’Associazione Italiana Giovani Avvocati (Aiga) esprimendo piena e incondizionata solidarietà all’avvocato del foro di Santa Maria Capua Vetere per le minacce ricevute nei giorni scorsi durante il processo per i fatti commessi nel carcere “F. Uccella” in danno dei detenuti.

“Appare quantomai necessario, in questo periodo storico, adottare ogni iniziativa a difesa della categoria forense, associandosi, con determinazione, al grido di giustizia lanciato dall’AIGA, nella persona del Presidente avv. Carlo Foglieni” si legge nella nota stampa dell’associazione.

Questo di fronte a un fatto che “esprime una preoccupante similarità” rispetto alla vicenda denunciata da un’avvocatessa in occasione della conferenza “Il pericolo di essere avvocati”, tenutasi lo scorso gennaio presso la sala Zuccari di Palazzo Giustiniani.

Ancora una volta, denunciano i giovani avvocati, “la Toga risulta bersaglio di rigurgiti antidemocratici e – fatto ancor più grave – senza che sia adottato alcun espresso provvedimento, da parte delle autorità preposte, che ne tuteli l’onore ed il prestigio”.

Tutela normativa alla categoria forense

Risulta quindi doveroso “fornire una tutela normativa alla Categoria forense, relativamente alle ipotesi di aggressioni subite da esercenti le professioni legali, nell’esercizio ed in occasione della funzione svolta, così come previsto per coloro che esercitano una funzione sanitaria”.

Per cui, rincara l’Aiga, “non è più procrastinabile un intervento legislativo in tal senso: vi è la consapevolezza che dietro ogni simile aggressione si celi un attacco frontale ai valori dello stato di diritto e del giusto processo: l’Avvocato – lo si ribadisce – costituisce un pilastro della giurisdizione, e va tutelato in quanto tale”.

avvocato cancellato anzianità

Avvocato cancellato e riabilitato: cumula l’anzianità? Il Consiglio Nazionale Forense chiarisce che è possibile cumulare diversi periodi di iscrizione, ferma restando la detrazione del periodo in cui l’avvocato è stato cancellato

Il quesito

Il CNF si è espresso con parere n. 11/2024 (pubblicato sul sito del Codice deontologico il 5 maggio 2024) sul quesito sottopostogli dal Consiglio dell’Ordine di Vibo Valentia. In particolare, il COA chiedeva di sapere “se l’avvocato cancellato dall’albo per perdita del requisito della condotta irreprensibile a seguito di condanna penale e successivamente reiscritto a seguito della riabilitazione – potesse – cumulare i periodi di anzianità ai fini dell’iscrizione nell’elenco degli avvocati ammessi al patrocinio a spese dello Stato”.

La risposta del CNF è resa nei seguenti termini: secondo il costante orientamento domestico in sede consultiva (cfr. ex multis i pareri nn. 33/2023, 57/2018, 40/2017), “ai fini del computo dell’anzianità anche in relazione all’iscrizione nell’elenco dei difensori abilitati al patrocinio a spese dello Stato – è consentito – di cumulare diversi periodi di iscrizione, ferma restando l’ovvia detrazione del periodo o dei periodi in cui l’avvocato è stato cancellato”.

violenza sessuale vittima ubriaca

E’ violenza sessuale se la vittima ubriaca perde coscienza La Cassazione afferma che in tema di reati contro la libertà sessuale, nei rapporti tra maggiorenni, il consenso deve perdurare nel corso dell’intero rapporto sessuale senza soluzione di continuità

Condizioni di inferiorità psichica

Nel caso di specie, il Giudice di merito aveva condannato l’imputato alla pena di due anni e sei mesi di reclusione per il reato di cui all’art. 609-bis c.p., poiché, approfittando delle condizioni di inferiorità psichica determinate dall’abuso di sostanza alcoliche da parte della vittima, l’aveva indotta a subire atti sessuali consistiti in una penetrazione vaginale.

Avverso tale decisione l’imputato aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

L’attualità del consenso

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 19638-2024, ha rigettato il ricorso proposto e ha condannato l’imputato al pagamento delle spese processuali.

La Corte ha anzitutto rilevato come il Giudice di merito aveva correttamente ricostruito i fatti e valutato l’intero compendio probatorio, spiegando altresì i motivi sulla base dei quali la persona offesa non era in grado di esprimere un valido consenso all’atto sessuale, trovandosi in stato d’incoscienza a causa dell’abuso di alcol.

Nella specie, era stato evidenziato come, dalla dinamica dei fatti, era emerso che la giovane donna, dopo aver perso i sensi a causa di un’eccessiva assunzione di sostanze alcoliche, aveva perduto i sensi durante il rapporto sessuale e pertanto non aveva potuto acconsentire allo stesso.

La Corte ha in particolare evidenziato come, il consenso della persona offesa, se pur inizialmente manifestato, avrebbe dovuto persistere durante tutto il rapporto sessuale, posto quanto affermato dalla stessa giurisprudenza di legittimità sul punto, ovvero che “in tema di reati contro la libertà sessuale, nei rapporti tra maggiorenni, il consenso agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell’intero rapporto senza soluzione di continuità, con la conseguenza che integra il reato di cui all’art. 609 bis cod. pen. la prosecuzione del rapporto nel caso in cui, successivamente a un consenso originariamente prestato, intervenga “in itinere” una manifestazione di dissenso, anche non esplicita, ma per fatti concludenti chiaramente indicativi della contraria volontà”.

Per quanto invece attiene alla posizione dell’imputato, il Giudice di legittimità ha evidenziato che la sua lucidità “era desumibile innanzitutto dalle dichiarazioni dell’amico (…) il quale, in sede di sommarie informazioni, aveva riferito che una volta raggiunto l’imputato gli aveva fatto un sorriso per far intendere che era stato consumato un rapporto sessuale con la persona offesa”, inoltre, ha proseguito la Corte, l’imputato “si era alzato prontamente tirandosi su la zip dei pantaloni per poi allontanarsi per paura di ripercussioni da parte dei buttafuori”.

Dall’insieme di questi elementi era dunque possibile desumere che l’imputato era “nel pieno delle proprie capacità e quindi in grado di comprendere la situazione di incoscienza della vittima”.

La Corte ha pertanto concluso il proprio esame rilevando che la sentenza impugnata non può essere annullata in sede di legittimità e ha, per l’effetto, rigettato il ricorso proposto.

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pensione reversibilità nipoti

Pensione reversibilità ai nipoti: le nuove regole L'INPS, in virtù del dettato della sentenza della Corte Costituzionale, fornisce chiarimenti sul riconoscimento della pensione ai superstiti in favore dei nipoti maggiorenni orfani

Pensione di reversibilità ai nipoti

Con la circolare n. 64/2024, l’INPS ha chiarito che, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale (n. 88/2022), con cui è stata dichiarata l’incostituzionalità dell’art. 38 del DPR n. 818/1957, i nipoti maggiorenni orfani riconosciuti inabili al lavoro e viventi a carico degli ascendenti sono inclusi tra i destinatari diretti ed immediati della pensione ai superstiti.

La sentenza sulla pensione di reversibilità ai nipoti

In particolare, la Corte ha osservato che “nel quadro normativo risultante dalla richiamata sentenza n. 180 del 1999, il rapporto di parentela tra l’ascendente e il nipote maggiorenne, orfano e inabile al lavoro, subisce un trattamento irragionevolmente deteriore rispetto a quello con il nipote minorenne, con conseguente fondatezza della questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. […] La relazione appare in tutto e per tutto assimilabile a quella che si instaura tra ascendente e nipote minore di età, per essere comuni ai due tipi di rapporto la condizione di minorata capacità del secondo e la vivenza a carico del primo al momento del decesso di questo.  È illogico, e ingiustamente discriminatorio, che i soli nipoti orfani maggiorenni e inabili al lavoro viventi a carico del de cuius siano esclusi dal godimento del trattamento pensionistico dello stesso, pur versando in una condizione di bisogno e di fragilità particolarmente accentuata: tant’è che ad essi è riconosciuto il medesimo trattamento di reversibilità in caso di sopravvivenza ai genitori, proprio perché non in grado di procurarsi un reddito a cagione della predetta condizione”.

In ragione dell’unitarietà della tutela previdenziale riconosciuta in favore dei superstiti, in caso di morte del dante causa, il riferimento alla pensione di reversibilità – trattamento riconosciuto in caso di morte del pensionato – deve essere inteso anche alla pensione indiretta – trattamento pensionistico riconosciuto in caso di morte dell’assicurato. Conseguentemente, afferma l’istituto, “per effetto della predetta sentenza, i nipoti maggiorenni orfani riconosciuti inabili al lavoro e viventi a carico degli ascendenti sono inclusi tra i destinatari diretti e immediati della pensione ai superstiti”.

Effetti della sentenza della Corte Costituzionale n. 88/2022

Alla luce della sentenza, dunque, l’INPS chiarisce la definizione delle domande nuove e giacenti presentate dai nipoti orfani.

Nello specifico, afferma l’istituto, “le domande già respinte ai sensi della norma dichiarata incostituzionale devono essere riesaminate, a richiesta degli interessati, sempreché il diritto non sia stato negato con sentenza passata in giudicato. Il trattamento pensionistico verrà riconosciuto con l’ordinaria decorrenza, nei limiti della prescrizione e della decadenza”.

Inoltre, “le pensioni liquidate in favore del coniuge e/o dei figli del dante causa aventi diritto ai sensi dell’articolo 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903, e dell’articolo 1, comma 41, della legge 8 agosto 1995, n. 335, devono essere rideterminate, con conseguente modifica degli importi delle quote di pensione attualmente in pagamento, a seguito del riconoscimento del diritto a pensione in favore dei nipoti aventi diritto per effetto della sentenza della Corte”. Inoltre, “ai nipoti superstiti aventi diritto per effetto della sentenza n. 88 del 2022 deve essere riconosciuta la quota spettante fin dalla decorrenza originaria, nei limiti della prescrizione e della decadenza”.

Incompatibilità

“Il diritto alla pensione ai superstiti in favore dei nipoti quali destinatari diretti e immediati dell’ascendente assicurato/pensionato – osserva tuttavia l’INPS – è incompatibile e prevalente rispetto al diritto di altre categorie di superstiti quali collaterali e ascendenti del dante causa”.

Il riconoscimento del trattamento pensionistico in favore dei nipoti aventi diritto comporta “l’eliminazione della pensione riconosciuta in favore di categorie di superstiti il cui diritto è incompatibile con quello dei nipoti”.

Tuttavia, “le somme corrisposte ai superstiti, il cui diritto è incompatibile con quello dei nipoti, non sono oggetto di recupero da parte dell’Istituto, salvo il caso di dolo del percettore”.

parcheggi uso pubblico temporaneo

Parcheggi a uso pubblico e temporaneo: ci vuole la VIA La Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della legge della regione Puglia ritenendo illegittima una disciplina regionale che esclude i parcheggi a suo pubblico e temporaneo dalle procedure di valutazione ambientale e paesaggistica

Parcheggi a uso pubblico e temporaneo

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 82-2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge della Regione Puglia n. 19 del 2023, che prevedeva l’esclusione dalle procedure di valutazione ambientale e paesaggistica, sino al 31 dicembre 2023, delle «aree a parcheggio a uso pubblico e temporaneo non superiore a centoventi giorni», a condizione che entro e non oltre trenta giorni dal termine del relativo utilizzo fosse garantito il ripristino dello stato dei luoghi.

La questione

La disposizione era stata impugnata dal Governo per violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.

La decisione della Corte Costituzionale

In primo luogo, la Corte ha ritenuto che il legislatore regionale abbia introdotto una deroga all’art. 146 del codice dei beni culturali e del paesaggio, che prevede la necessità dell’autorizzazione paesaggistica. In tal modo, la Regione si è sostituita al legislatore statale, cui spetta, per costante giurisprudenza costituzionale, determinare presupposti e caratteristiche di tale autorizzazione, delle eventuali esenzioni e delle semplificazioni della procedura, in ragione della diversa incidenza delle opere sul valore intangibile dell’ambiente. In secondo luogo, la Corte ha ritenuto che anche l’esclusione dalle procedure di valutazione ambientale abbia violato l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. Non prevedendo alcun limite alla capienza dei parcheggi, infatti, la disposizione regionale ne avrebbe consentito la realizzazione per più di 500 posti auto, in contrasto con il punto 7, lettera b), dell’Allegato IV alla Parte seconda del codice dell’ambiente, che assoggetta i parcheggi di tali dimensioni, a prescindere dalla loro natura temporanea o stabile, alla verifica di assoggettabilità alla valutazione di impatto ambientale. Sotto questo profilo, la Corte ha richiamato il proprio costante orientamento secondo cui non spetta alle regioni decidere quali siano i presupposti e le condizioni che determinano l’esclusione dalle verifiche di impatto ambientale. Simili interventi, infatti, alterano il punto di equilibrio fissato dallo Stato tra l’esigenza di semplificazione e di accelerazione del procedimento amministrativo, da un lato, e la speciale tutela che deve essere riservata al bene ambiente, d’altro lato. Punto di equilibrio che corrisponde anche a uno standard di tutela dell’ambiente, in quanto tale non derogabile da parte delle legislazioni regionali.

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riconvenzionale mediazione

Domanda riconvenzionale e mediazione La sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione che ha affermato che la domanda riconvenzionale non è soggetta al procedimento obbligatorio di mediazione

Riconvenzionale e mediazione obbligatoria

La domanda riconvenzionale non è soggetta al procedimento obbligatorio di mediazione. E quanto hanno stabilito le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza numero 3452/2024, emanando il seguente principio di diritto: “La condizione di procedibilità prevista dall’art. 5 D.Lgs. n. 28/2010 sussiste per il solo atto introduttivo del giudizio e non per le domande riconvenzionali, fermo restando che al mediatore compete di valutare tutte le istanze e gli interessi delle parti ed al giudice di esperire il tentativo di conciliazione, per l’intero corso del processo e laddove possibile”.

La motivazione principale su cui è fondato l’assunto riguarda la considerazione che la mediazione rientra tra le disposizioni:  “finalizzate, unitamente alle altre adottate in materia di giustizia, alla realizzazione dei comuni e urgenti obiettivi – a loro volta preordinati al rilancio dell’economia – del miglioramento dell’efficienza del sistema giudiziario e dell’accelerazione dei tempi di definizione del contenzioso civile” (Corte Cost. 18 aprile 2019, n. 97)”.  Si è al cospetto, pertanto, di un procedimento contraddistinto dall’obbligatorietà, che deve essere espletato, pena l’improcedibilità della domanda, prima dell’instaurazione di una lite giudiziaria. Esso, di conseguenza, condiziona, in determinate materie, l’esercizio del diritto di azione” (Corte Cost. 20 gennaio 2022, n. 10).

Quindi la mediazione, con l’auspicata conciliazione delle controversie, mira a transigere le liti, evitando, in tal modo, che il soggetto debba ottenere soddisfazione attraverso gli organi di giustizia, con elevati costi e tempi, che nocciono alla parte, come al sistema giudiziario nel suo complesso. Il fine, dunque, è l’auspicata non introduzione della causa, risolta preventivamente innanzi all’organo apposito, in via stragiudiziale.

Orbene, nell’evenienza di una riconvenzionale tale scopo non è più raggiungibile in quanto il processo è già iniziato. E tale considerazione vale per ambedue le riconvenzionali cioè quella connessa ai diritti fatti valere con l’azione e quella cd. eccentrica che invece fonda su fatti completamente diversi si pensi ad un’eccezione di compensazione, ecc.

Ma il principio viene ulteriormente affermato con un ragionamento per assurdo riportato sempre nella motivazione della sentenza in esame: “la soluzione che volesse sottoporre la domanda riconvenzionale a mediazione obbligatoria dovrebbe – per coerenza – essere estesa ad ogni altra domanda fatta valere in giudizio, diversa ed ulteriore rispetto a quella inizialmente introdotta dall’attore: non solo, quindi, la domanda riconvenzionale, ma anche la riconvenzionale a riconvenzionale (c.d. reconventio reconventionis), la domanda proposta da un convenuto verso l’altro, oppure da e contro terzi interventori, volontari o su chiamata.

Da ciò che la domanda riconvenzionale non è sottoposta all’obbligo del preventivo esperimento del procedimento di mediazione. Ciò non significa che il Giudice non la possa disporre in ogni stato e grado del procedimento eventualmente anche su richiesta delle parti.

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Immissioni acustiche moleste La normativa in materia di immissioni acustiche nelle attività produttive definisce il carattere molesto delle immissioni anche nei rapporti tra privati?

Quesito con risposta a cura di Giovanna Carofiglio e Viviana Guancini

 

In materia di immissioni, il superamento dei limiti di rumore stabiliti dalle leggi e dai regolamenti che disciplinano le attività produttive è, senz’altro, illecito, in quanto, se le immissioni acustiche superano la soglia di accettabilità prevista dalla normativa speciale a tutela degli interessi della collettività, così pregiudicando la quiete pubblica, a maggior ragione esse, ove si risolvano in immissioni nell’ambito della proprietà del vicino – ancora più esposto degli altri, in ragione della contiguità dei fondi, ai loro effetti dannosi – devono, per ciò solo, considerarsi intollerabili, ex art. 844 c.c. e, pertanto, illecite anche sotto il profilo civilistico. – Cass., sez. II, 26 febbraio 2024, n. 5074.

La questione sottoposta alla Suprema Corte origina da una domanda risarcitoria formulata dai proprietari di un immobile, carente di idoneo isolamento acustico, nei confronti della ditta appaltatrice dei lavori di ristrutturazione.

In particolare, gli istanti ritenevano che l’intollerabilità dei rumori nella propria abitazione fosse causata dai gravi vizi dell’immobile sotto il profilo dei requisiti tecnico-acustici.

Nel doppio grado di giudizio veniva accertata la violazione dei limiti soglia, di cui al D.P.C.M. 5 dicembre 1997, in materia di requisiti acustici passivi degli edifici e veniva stabilito come tale violazione comportasse di per sé il superamento della normale tollerabilità delle immissioni acustiche ex art. 844 c.c. all’interno dell’abitazione.

Conseguentemente, tanto il Giudice di prime cure quanto la Corte d’Appello aditi, sebbene in misura diversa sotto il profilo quantitativo, condannavano la parte inadempiente al risarcimento del danno, ritenendo sussistente il danno patrimoniale patito dai proprietari dell’abitazione, costretti alla locazione di altra unità immobiliare idonea all’uso abitativo a causa dei gravi vizi acustici del proprio immobile.

In sede di censura della pronuncia d’appello, la ditta soccombente ha denunciato la violazione e falsa applicazione normativa in ordine alla natura rigorosa dell’onere della prova, che dovrebbe dimostrare l’esistenza dei rumori intollerabili esclusivamente per il carente isolamento acustico dell’immobile. Ai fini del riconoscimento risarcitorio, la ricorrente ha lamentato il mancato assolvimento dell’onere della prova in ordine alla causazione dell’evento dannoso ed alla sussistenza del nesso causale con il danno ex adverso patito e consistente nella necessità di locare altra unità abitativa.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto ed ha introdotto un principio di presunzione assoluta circa la violazione delle condizioni di normale tollerabilità delle immissioni acustiche, avuto riguardo alla condizione dei luoghi ex art. 844 c.c., in ipotesi di superamento dei limiti soglia dei requisiti acustici passivi degli edifici.

Di contro, però, la Cassazione ha stabilito come l’osservanza di dette soglie non determini l’insita liceità delle immissioni, rimettendo al prudente apprezzamento del giudice di merito la valutazione in ordine alla tollerabilità delle immissioni, alla stregua dei principi di cui all’art. 844 c.c.

Sotto il profilo del riconoscimento del danno, la Suprema Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza d’appello anche nella parte in cui ha considerato l’inagibilità dell’appartamento nella sua unitarietà, non rilevando l’accertamento tecnico in ordine alla maggiore percezione delle immissioni sonore in alcuni vani dell’immobile, sì da escludere la necessità di locazione di altra unità abitabile.

Il complessivo accertamento del superamento dei limiti soglia integra un’ipotesi di responsabilità del danneggiante secondo un giudizio di merito, immune da vizi logico-giuridici, che rintraccia nei costi di locazione di altro appartamento agibile una conseguenza immediata e diretta, ex art. 1223 c.c., del danno patito dai proprietari del bene gravato da vizi.

*Contributo in tema di “Immissioni acustiche moleste”, a cura di Giovanna Carofiglio e Viviana Guancini, estratto da Obiettivo Magistrato n. 73 / Aprile 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica