L’influencer è un agente di commercio Per la Cassazione, se l’influencer promuove online prodotti altrui e percepisce un compenso percentuale sulle vendite è un agente di commercio

Influencer e contratto di agenzia

La promozione continuativa online di integratori alimentari da parte di un influencer sulle proprie pagine social e sul proprio sito va inquadrata giuridicamente come contratto di agenzia. L’azienda committente deve quindi versare i contributi previdenziali all’Enasarco. Lo ha stabilito la sentenza n. 2615-2024del Tribunale di Roma.

Prestazione intellettuale o contratto di agenzia

La vicenda processuale vede come protagonista un’impresa commerciale, che si é avvalsa anche di influencer per rendere note ai potenziali acquirenti le caratteristiche degli integratori alimentari che la stessa commercializza online. Il tutto per finalità promozionali.

Il focus della controversia riguarda l’inquadramento degli influencer come agenti di commercio per comprendere quali sono gli obblighi contributivi che deve sostenere l’impresa.

Per alcuni il contratto di promozione che viene stipulato con gli influencer è un contratto atipico, per altri invece è un contratto d’opera intellettuale.

L’attività di promozione svolta on-line dagli influencer è in grado in realtà di raggiungere un numero elevato di soggetti, essa pertanto non si discosta molto dalla definizione contenuta nell’art. 1742 c.c, il quale dispone che: “col contratto di agenzia una parte assume stabilmente lincarico di promuovere, per conto dellaltra, verso le retribuzione, la conclusione di contratti in una zona determinata.” 

Influencer: agente di commercio se promuove stabilmente i prodotti altrui

Per il Tribunale di Roma, come emerge anche dagli atti, il contratto stipulato con gli influencer dall’impresa prevedeva la promozione di prodotti destinati alla vendita online e il compenso veniva riconosciuto in base agli ordini che il collaboratore procurava e che andavano a buon fine.

Questo tipo di attività è quindi riconducibile a quella che viene prestata dall’agente di commercio ai sensi dell’art. 1742 e seguenti del codice civile. Dai documenti emerge infatti che la collaborazione non era occasionale, ma continuativa, tanto è vero che i pagamenti delle retribuzioni avvenivano a cadenze periodiche, soprattutto mensili.

Il Tribunale ricorda che la Cassazione ha avuto modo di precisare che: “i caratteri distintivi del contratto di agenzia sono la continuità e la stabilità dellattività dellagente di promuovere la conclusione dei contratti per conto del proponente nellambito di una determinata sfera territoriale, realizzando in tal modo con questultima una non episodica collaborazione professionale autonoma con risultato per rischio con lobbligo naturale di osservare, oltre i nomi di correttezza e di realtà le istruzioni ricevute dal proponente medesimo…” Sempre la Cassazione ha chiarito che “lassenza di assegnazione di una specifica zona non è elemento determinante per escludere il contratto di agenzia.” 

Nel caso di specie l’accordo stipulato tra l’impresa commerciale e l’influencer prevedeva che questo soggetto fosse. Tenuto a promuovere per conto dell’impresa i prodotti del brand di proprietà sulle pagine dei social media e sui siti web di sua proprietà, indicando nelle proprie pagine web il codice sconto personalizzato. Per quanto riguarda il corrispettivo l’accordo prevedeva che per ogni singolo ordine procurato è andata a buon fine l’influencer percepisse un compenso nella misura del 10%. L’articolo 7 del contratto, relativo alla durata dell’accordo, riportava inoltre che la collaborazione per la promozione doveva intendersi a tempo indeterminato, con possibilità di risolvere il contratto previo preavviso di almeno 15 giorni, da comunicare a mezzo mail.

Queste caratteristiche contrattuali non possono far ritenere che tra le parti intercorresse un rapporto di procacciamento d’affari occasionale, trattandosi piuttosto di un’attività riconducibile al rapporto di agenzia.

Sono plurimi gli indizi gravi, precisi e concordanti che portano a ritenere che il contratto stipulato con l’influencer rientri nell’attività tipica dell’agenzia, come disciplinata dall’art. 1742 e seguenti del codice civile:

  • lo scopo del contratto stipulato era la vendita dei prodotti promossi tanto è vero che i followers, in fase di acquisto, dovevano inserire il codice sconto personalizzato associato all’influencer, raggiungibile solo attraverso pagine social di questo soggetto;
  • la comunità dei followers dell’influencer può ben integrare il concetto di “zona determinata” richiesto dall’art. 1743 c.c;
  • il vincolo di stabilità è dimostrato documentalmente dagli estratti conto, dalle provvigioni e dalla emissione sistematica di fatture per diversi e numerosi affari, procurati attraverso l’attività promozionale svolta sui social e sui siti web e compensata con la percentuale stabilita nel contratto;
  • la durata del contratto stipulato a tempo indeterminato è infine sintomatico di un rapporto stabile e predeterminato.

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reato abbandono animali

Abbandono di animali: non c’è reato se il cane resta al canile per indigenza Il reato di abbandono di cui all’art. 727 c.p. non si configura se il proprietario non ritira l’animale dal canile per problemi economici

Reato di abbandono di animali

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16168-2024, ha stabilito che il mancato ritiro di un cane dal canile a cui è stato affidato non configura il reato di abbandono di animali.

Lasciare un cane presso una struttura di ricovero non è punibile perché queste strutture assicurano le necessarie cure agli animali, non li sopprimono e non li destinano alla sperimentazione.

Anche se la retta per la custodia viene sospesa e il cane scappa, perché va a cercare il proprietario, il reato di abbandono non si configura.

Il reato sussiste invece se il proprietario affida il cane a un canile privato, obbligato contrattualmente alla cura dell’animale, sospende i pagamenti o non ritira l’animale, se è prevedibile che l’inadempimento possa determinare l’abbandono dell’animale da parte del canile per mancanza di affidabilità o di professionalità della struttura stessa.

Condannato il proprietario che lascia l’animale al canile

La pronuncia pone fine a un processo iniziato con la condanna di un imputato per il reato di abbandono di animali, accusato di aver abbandonato un cane meticcio con microchip nel territorio di un comune calabrese.

L’imputato ha presentato ricorso per Cassazione, contestando la valutazione della prova da parte del Tribunale e sottolineando che il cane, che era solito allontanarsi per giorni, era stato trovato a quasi 200 km di distanza dal luogo di residenza dell’imputato.

L’imputato ha dichiarato di non aver mai visitato la località in cui il cane era stato catturato e di essersi trovato nell’impossibilità di ritirarlo dal canile locale a causa delle restrizioni sugli spostamenti imposte dalla pandemia e delle sue difficili condizioni economiche.

Non c’è abbandono di animale se ci sono difficoltà economiche

La Suprema Corte ha rilevato che il Tribunale non ha adeguatamente considerato l’impossibilità oggettiva dell’imputato di riprendere l’animale a causa delle restrizioni alla mobilità tra regioni durante l’emergenza pandemica. Inoltre, le difficoltà economiche derivanti dalla perdita del lavoro hanno impedito all’imputato di pagare la retta del canile.

Di conseguenza, né l’omesso pagamento della retta né l’omesso ritiro dell’animale potevano configurare il reato di abbandono. La decisione del Tribunale di condannare l’imputato non ha considerato adeguatamente queste circostanze oggettive.

L’articolo 727 del codice penale punisce il reato di abbandono di animali, definito come qualunque condotta che manifesti la volontà dolosa di non tenere l’animale con sé e che violi i doveri di cura e custodia. Tuttavia la norma non prevede l’obbligo di denunciare lo smarrimento dell’animale. Nel caso in esame, l’affidamento del cane a una struttura con obbligo di custodia esclude la configurazione di abbandono, e il mancato pagamento delle rette al canile non integra questa fattispecie penale.

In conclusione, la Cassazione ha annullato la condanna, affermando che in caso di indigenza e impossibilità materiale di ritirare un animale affidato a un canile, non si configura il reato di abbandono di animali. La decisione rappresenta un’importante chiarificazione sulla tutela degli animali e sulle responsabilità dei proprietari in situazioni di difficoltà economica e logistica.

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giurista risponde

Favoreggiamento e associazione mafiosa È configurabile il delitto di favoreggiamento rispetto al delitto di associazione mafiosa o costituisce una forma di concorso esterno?

Quesito con risposta a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin

 

È configurabile il delitto di favoreggiamento personale in corso di consumazione del delitto associativo di cui all’art. 416bis c.p. nel caso in cui la condotta dell’agente sia sorretta dall’intenzione di aiutare il partecipe ad eludere le investigazioni dell’autorità e non dalla volontà di prendere parte, con “animus sodi”, all’azione criminosa. – Cass., sez. V, 29 febbraio 2024, n. 8928.

Con la sentenza in commento, la quinta sezione penale della Corte di Cassazione si è pronunciata in merito al rapporto tra il reato di favoreggiamento e il concorso esterno in associazione mafiosa. In particolare la Corte, ha ribadito principi già espressi in materia ricordando quanto, in caso di concorso esterno in associazione mafiosa, sia fondamentale la sussistenza nel nesso eziologico che colleghi direttamente l’evento (integrato dalla conservazione, agevolazione o rafforzamento di un organismo criminoso già operante) con la condotta atipica del concorrente. L’accertamento postumo operato sulle condotte quindi, è diretto alla verifica dell’idoneità causale delle stesse che in virtù del mantenimento dell’operatività del sodalizio criminoso, devono tradursi in un contributo percepibile al mantenimento in vita dell’organismo stesso (ex mulitis, Cass., sez. I, 14 settembre 2023, n. 49790).

In termini di “misurazione” dell’apporto del soggetto agente ai fini dell’integrazione del concorso esterno, la Corte afferma che integra il reato in esame la condotta dell’imprenditore che pur non essendo inserito nella struttura organizzativa del sodalizio criminale e pur privo della “affectio societatis”, instauri con la cosca un rapporto che si nutre di reciproci vantaggi, consistenti per l’imprenditore nell’imporsi sul territorio in posizione dominante e per l’organizzazione mafiosa di ottenere risorse, servizi o utilità anche in forma di corresponsione di una percentuale sui profitti ottenuta dal concorrente esterno (Cass., sez. I, 16 novembre 2021, n. 47054).

In parallelo alla definizione delle condotte rilevanti in termini concorso esterno in associazione mafiosa, la Corte si è poi occupata di evidenziare i criteri che distinguono la condotta di favoreggiamento da quella del partecipe e da quella del concorrente esterno rispetto all’associazione mafiosa. In linea con quanto prima detto, prima di tutto risponde di concorso esterno e non favoreggiamento, colui che, esterno al sodalizio agisce con l’intento non di fornire un singolo aiuto (ad esempio per eludere le indagini), ma un contributo alla capacità operativa del sodalizio stesso, alla sua conservazione e alla crescita dello stesso per la realizzazione di future imprese criminali. Diversamente, si configura il delitto di favoreggiamento personale in corso di consumazione del delitto associativo ex art. 416 bis c.p., nel caso in cui la condotta dell’agente sia sorretta dall’intenzione di aiutare il partecipe ad eludere le investigazioni delle autorità e non dalla volontà di prendere parte con animus socii all’azione criminosa.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto da Tizio avverso l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Palermo che confermava l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari, applicando all’imputato la misura della custodia cautelare in carcere per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Avverso tale ordinanza dunque ha proposto ricorso l’indagato, adducendo tre motivi di doglianza: il primo riferito a violazione e vizio di motivazione quanto alla sussistenza della gravità indiziaria in relazione alla condotta contestata al ricorrente; il secondo relativo a violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla qualificazione giuridica del fatto; il terzo relativo a violazione di legge e vizio di motivazione quanto alle esigenze cautelari e alla scelta della misura applicata. Il ricorso a giudizio della Corte è apparso infondato nel suo complesso. Il primo e secondo motivo sono stati dichiarati manifestamente infondati, non confrontandosi con le approfondite motivazioni contenute nell’ordinanza che ha operato a parere della corte “un buon governo e corretta applicazione dei principi di questa Corte”, qualificando correttamente la condotta dell’imputato in termini di concorrente esterno in associazione mafiosa ai sensi degli artt. 110, 416bis c.p., considerate le condotte di stretta vicinanza, partecipazione ad operazioni immobiliari, messa a disposizione delle proprie attività commerciali ad esponenti del clan, nonché ripetuti e monitorati incontri dell’imputato. Il terzo motivo appare invece generico, rappresentando una doglianza aspecifica a fronte del contenuto dell’ordinanza impugnata, che al contrario ha fornito puntuale risposta alle censure relative all’adeguatezza della misura inframuraria. Per queste ragioni il ricorso è stato rigettato dalla Corte, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

*Contributo in tema di “Favoreggiamento e associazione mafiosa”, a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

mutuo ammortamento francese

Mutui: salvo l’ammortamento alla francese Per le sezioni unite della Cassazione, il mutuo con ammortamento “alla francese” soddisfa la trasparenza e la determinatezza dell’oggetto se la Banca allega il piano al contratto

Mutui con ammortamento “alla francese”

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza numero Cass-15340-2024 salvano i mutui “alla francese” ossia quei mutui tradizionali che prevedono rate costanti e una quota di interessi progressivamente decrescente a fronte di un capitale progressivamente crescente. La mancata indicazione sulle modalità di ammortamento e del calcolo degli interessi passivi non determina la nullità di questi contratti di mutuo.

Contratto nullo se non indica modalità di ammortamento e calcolo degli interessi

La vicenda che si conclude con la sentenza a Sezioni Unite ha inizio quando una signora si rivolge al Tribunale per far dichiarare la nullità parziale di un contratto di mutuo ipotecario bancario che la stessa aveva stipulato, ma in relazione al quale non era stata pattuita e indicata la modalità di ammortamento “alla francese” e la modalità di calcolo degli interessi passivi. Chiedeva quindi che la banca venisse condannata a rimborsare i maggiori interessi riscossi indebitamente dalla banca.

Il Tribunale competente dispone il rinvio pregiudiziale alla Cassazione, chiedendo la soluzione della questione di diritto relativa alle conseguenze giuridiche derivanti dall’omessa indicazione, all’interno del contratto di mutuo bancario, del regime di capitalizzazione composto degli interessi debitori a fronte della previsione scritta del tasso annuo nominale e della modalità di ammortamento “alla francese”, ovvero se la mancata ed espressa previsione negoziale di tali condizioni determini la nullità del contratto. Il Tribunale ricorda infatti che, ai sensi dell’articolo 117 comma 4 del Testo Unico Bancario, i contratti bancari di credito devono indicare, a pena di nullità, il tasso di interesse e ogni altro prezzo e condizioni inclusi e gli eventuali e maggiori oneri in caso di mora, con conseguente rideterminazione, in caso di mancata previsione, del piano di ammortamento con applicazione del tasso sostitutivo.

Ammortamento alla francese: il piano soddisfa determinatezza e trasparenza

Nella motivazione della sentenza la Cassazione illustra prima di tutto le caratteristiche tipiche del piano di ammortamento alla francese. Trattasi, nello specifico, di un piano che prevede un rimborso del capitale e degli interessi con pagamento del debito a rate costanti, comprensive di una quota capitale crescente e di una quota interessi decrescente. Il dubbio che gli Ermellini sono chiamati a risolvere riguarda la trasparenza di questo ammortamento e la capitalizzazione composta degli interessi in quanto “l’interesse prodotto in ogni periodo si somma al capitale e produce a sua volta produce interessi”. Un sistema che, per il Tribunale de rinvio, comporta una maggiore onerosità del costo del denaro che il cliente prende a prestito proprio perché si producono interessi su interessi.

Per la Cassazione però “deve escludersi che la mancata indicazione nel contratto di mutuo bancario, a tasso fisso, della modalità di ammortamento c.d. “alla francese” e del regime di capitalizzazione composto degli interessi incida negativamente sui requisiti di determinatezza e determina dell’oggetto del contratto causandone la nullità parziale”.

In relazione poi al contestato difetto di trasparenza la Cassazione ricorda che, se il contratto trasparente è quello che consente di intuire o prevedere il livello di rischio o di spesa e di avere la piena contezza delle condizioni del contratto sottoscritto e comprendere la portata del suo impegno, nel caso di di specie esso non sussiste. L’istituto di credito ha assolto ai propri obblighi informativi allegando il piano di ammortamento al contratto, offrendo così al cliente la possibilità di verificare se l’offerta rispondeva alle sue necessità e alla sua situazione finanziaria e di valutarne la convenienza, previo confronto con altre offerte presenti sul mercato.

Alla luce delle motivazioni suddette la Cassazione enuncia quindi il seguente principio di diritto: “in “in tema di mutuo bancario, a tasso fisso, con rimborso rateale del prestito regolato da un piano di ammortamento alla francese di tipo standardizzato tradizionale, non è causa di nullità parziale del contratto la mancata indicazione della modalità di ammortamento e del regime di capitalizzazione composto degli interessi debitori, per indeterminatezza o indeterminata delloggetto del contratto né per violazione della normativa in tema di trasparenza e delle condizioni contrattuali e dei rapporti tra istituti di credito e i clienti”. 

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titolo avvocato

Il titolo di avvocato non equivale a quello rilasciato dalle SSPL Il TAR afferma che il titolo d’avvocato non dimostra il possesso di tutte le conoscenze che le SSPL offrono, essendo queste dirette a formare figure professionali eterogenee, per la preparazione a concorsi ed esami diversi

SNA: esclusa candidata per assenza del titolo

Nel caso di specie, la ricorrente dopo aver superato le prove preselettive del corso-concorso selettivo di formazione dirigenziale per il reclutamento di dirigenti nelle amministrazioni statali, veniva contatta dagli uffici della Scuola Nazionale dell’Amministrazione (SNA) per le verifiche relative al possesso dei requisiti dichiarati nella domanda di partecipazione, con particolare riguardo alla natura e alle caratteristiche del titolo post lauream, poiché lo stesso non risultava riconducibile ad alcuno dei tre titoli tassativamente previsti dal bando.

Rispetto a tale richiesta di chiarimenti, la candidata aveva esposto le ragioni per cui il titolo posseduto rientrava tra quelli post-universitari considerati utili ai fini dell’accesso al corso concorso di formazione dirigenziale, avente le caratteristiche di cui all’art. 2 del D.P.C.M. 27 aprile 2018, n. 80.

A seguito di ulteriori verifiche istruttorie, la SNA aveva trasmesso alla ricorrente una nota nella quale aveva evidenziato che il titolo in questione non era ascrivibile, né ad un master universitario di secondo livello, né ad un diploma conseguito presso le scuole di specializzazione individuate con il D.P.C.M. 27 aprile 2018, n. 80. Ne conseguiva, pertanto, l’esclusione della candidata dalla procedura concorsuale.

Avverso il suddetto provvedimento di esclusione la candidata aveva proposto ricorso dinanzi al Tribunale Regionale per il Lazio.

Il titolo indicato nel bando di concorso

Il TAR Lazio, con sentenza n. 8767/2024, ha rigettato il ricorso proposto.

Per quanto qui rileva, la ricorrente ha affermato che il titolo post-universitario dalla stessa posseduto era stato rilasciato dalla “Scuola nazionale di Alta Formazione Specialistica” dell’Unione forense per la tutela dei diritti umani (UFDU), riconosciuta dal Ministero della Giustizia, dal Consiglio nazionale Forense in convenzione/consorzio, oltre che con la Scuola Superiore dell’Avvocatura e con cinque Istituti Universitari italiani, pertanto, tale scuola “non sarebbe un mero ente di formazione privato ma un’istituzione pubblico-privata riconosciuta costituita in un vero e proprio consorzio universitario sotto il diretto controllo del Ministero della Giustizia”.

Inoltre, elemento cruciale del ricorso proposto, l’aspirante candidata ha rilevato che, per l’accesso alla suddetta scuola non era sufficiente possedere un titolo di laurea, ma era altresì necessario essere iscritti all’albo degli Avvocati. Ne sarebbe conseguito che il titolo posseduto dalla ricorrente, non solo doveva essere qualificato come master di secondo livello, ma anche come titolo addirittura superiore ai diplomi di specializzazione richiamati dall’art. 4, D.P.C.M. n. 80/2018 sub lettera b), per il conseguimento dei quali è sufficiente il possesso della sola laurea.

La discrezionalità dell’amministrazione

Rispetto alle contestazioni formulate dalla ricorrente, il Giudice amministrativo ha anzitutto ricordato che “in linea di principio, l’amministrazione gode di ampia discrezionalità nell’individuazione dei requisiti per l’ammissione ad una procedura concorsuale, che va esercitata tenendo conto della professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire o per l’incarico da affidare. Naturalmente, in quanto esercizio di discrezionalità, tale potere di scelta non può essere esercitato in modo arbitrario ed è suscettibile di sindacato giurisdizionale sotto i profili della illogicità, arbitrarietà, contraddittorietà e irragionevolezza”.

Ciò premesso, il TAR ha ritento che la previsione del bando, secondo cui “al corso-concorso selettivo di formazione di cui all’articolo 28, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, possono essere ammessi (…) i soggetti muniti di (…) master di secondo livello conseguito presso università italiane o straniere dopo la laurea magistrale”, non consente di ritenere che allo stesso possano accedere anche soggetti muniti di un titolo come quello posseduto dalla ricorrente, non qualificabile come “master rilasciato da Università, italiane o straniere, come richiesto dalla normativa di cui la SNA ha fatto corretta applicazione”.

Analogamente, ha proseguito il TAR, in ordine alla ritenuta qualificazione del titolo alla stregua di un diploma di specializzazione “il d.P.C.M. n. 80/18 (…), recante l’individuazione delle scuole di specializzazione che rilasciano i diplomi che consentono la partecipazione ai concorsi per la qualifica di dirigente di seconda fascia, prevede, all’art. 2, che i diplomi di specializzazione utili ai fini della partecipazione sono quelli rilasciati da scuole di specializzazione istituite presso le università o gli istituti universitari”, tale qualificazione, non appare, secondo il Giudice amministrativo “surrogabile dalla stipula di una semplice convenzione con le università per l’organizzazione e il funzionamento del corso da parte di altro ente, pubblico o privato”, come sarebbe stato il corso cui aveva partecipato la ricorrente e di cui si è dato sopra conto.

Il principio dell’assorbimento del titolo inferiore

Per quanto invece attiene all’operatività o meno, nel caso di specie, del principio dell’assorbimento del titolo inferiore in quello superiore, il TAR ha ricordato la tesi sostenuta dalla ricorrente secondo cui il superamento dell’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense dovrebbe considerarsi assorbente rispetto ai titoli post-universitari richiesti dal bando e, segnatamente, al diploma conseguito presso le Scuole di Specializzazione per le Professioni Legali (SSPL), giacché queste ultime sarebbero preordinate all’acquisizione di conoscenze funzionali al superamento dell’esame di abilitazione.

Tuttavia il TAR ha affermato che, nel caso esaminato, il principio di assorbimento non verrebbe in rilievo, posto che il titolo c.d. ‘assorbente’, diversamente dal titolo ‘assorbito’, è costituito da un’abilitazione professionale conseguita all’esito dello specifico percorso formativo e di tirocinio disciplinato dalla legge professionale forense. Non si tratta, in altri termini, di un titolo di studio ma di un titolo professionale.

Quanto sopra riferito, ha precisato il Giudice amministrativo, è confermato dal fatto che “Il superamento dell’esame di abilitazione (…) non dimostra affatto il possesso di tutte le conoscenze che le Scuole offrono (..), essendo queste dirette a formare figure professionali eterogenee (e, soprattutto, a fornire gli strumenti necessari per la preparazione a concorsi ed esami diversi, ciascuno connotato da proprie peculiarità)”.

Il TAR ha pertanto concluso il proprio esame, affermando che deve ritenersi più corretto l’orientamento tradizionale secondo il quale “in materia di procedure concorsuali trova applicazione il principio dell’assorbimento del titolo inferiore in quello superiore in virtù del quale nel caso in cui il bando di concorso preveda quale requisito di partecipazione ad una selezione pubblica un determinato diploma tecnico, deve ritenersi dovuta l’ammissione di un candidato in possesso di laurea “coerente”, in quanto il possesso di un titolo superiore ed assorbente consente in via generale la partecipazione ai pubblici concorsi per i quali sia richiesto un titolo inferiore, dal momento che le materie di studio del primo comprendono, con un maggiore livello di approfondimento, quelle del secondo”.

separazione carriere giudici

Separazione delle carriere: via libera del CdM Approvato il disegno di legge sulla riforma della Giustizia, che prevede la divisione delle carriere della magistratura requirente e giudicante. Plauso dell'avvocatura. Ecco il testo

Ok del Governo alla riforma della Giustizia

Il CdM ha approvato il 29 maggio 2024 il disegno di legge costituzionale di riforma della giustizia (vedi bozza) contenente le “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare”. Il testo del ddl, composto da otto articoli, interviene sugli articoli 87, 102, 104, 105, 106, 107 e 110 della Costituzione disponendo la separazione delle carriere dei magistrati, introducendo un sistema di sorteggio per la componente laica del CSM e istituendo l’Alta Corte per giudicare gli errori dei magistrati.

Separazione delle carriere

Il primo punto della riforma, che la magistratura non ha accolto con favore, dispone la separazione delle carriere. La modifica prevede che i magistrati requirenti non possano passare al ruolo della magistratura giudicante e viceversa.

Indipendenza della magistratura requirente

La separazione delle carriere mira anche a garantire la piena indipendenza della magistratura requirente da qualsiasi tipo di influenza e di interferenza da parte del Governo e da parte di altri poteri, al pari della magistratura giudicante.

Cambia la composizione del CSM

La riforma interviene anche sulla composizione del Consiglio Superiore della Magistratura. Il CSM  verrà diviso in due sezioni, una dedicata ai magistrati requirenti e una ai magistrati giudicanti, presiedute entrambe dal Presidente della Repubblica.

Nomina della componente laica del CSM

La componente laica del CMS, costituita attualmente dai membri eletti dal Parlamento, verrà nominata per sorteggio, sempre con la finalità di garantire la piena indipendenza e imparzialità del Consiglio Superiore della Magistratura.

Istituita l’Alta Corte

Per giudicare gli illeciti disciplinari dei magistrati viene istituita l’Alta Corte, che si va a sostituire in questo modo al Consiglio Superiore della Magistratura.

Dialogo aperto con l’ANM

Il Ministro Nordio si dice aperto a un dialogo con l’Associazione Nazionale dei Magistrati. Le critiche fanno parte del sistema democratico, ma la volontà popolare che viene espressa con le elezioni è sacra. Resta inalterata la disciplina sull’obbligo dell’azione penale nel rispetto della volontà espressa dalla ANM, che si esprimerà anche sui contenuti del testo, modificato fino a qualche minuto prima della approvazione.

Plauso del CNF e dell’AIGA

«La separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri costituisce un importante passo avanti verso il giusto processo, previsto dall’art. 111 della Costituzione, perché assicura equidistanza tra accusa e difesa nei confronti del giudice. Inevitabile, dunque, è la previsione dell’istituzione di un Consiglio superiore per la magistratura giudicante e uno per quella requirente, perché mantenere un unico organo di autogoverno finirebbe, nel concreto, per vanificare la separazione delle due carriere. Questi passaggi, che concretizzano il principio costituzionale dell’uguaglianza tra accusa e difesa, contribuiranno a rendere chiara la terzietà del giudice e, dunque, a rafforzare la fiducia nel sistema giudiziario». Così il presidente del Consiglio Nazionale Forense, Francesco Greco, il quale ha aggiunto: «un processo penale ideale necessita di un pubblico ministero forte, di un avvocato forte e di un giudice terzo altrettanto forte. Con la separazione delle carriere si passa da una “cultura della giurisdizione” ristretta ai magistrati, ad una “cultura della legalità” comune tra tutte le parti del processo, anche al difensore, e di conseguenza di maggior tutela per i cittadini».

Soddisfazione anche dai giovani avvocati secondo cui “la proposta, di matrice governativa, può rappresentare, finalmente, l’ultimo tassello verso l’effettiva realizzazione del giusto processo, nel quale i protagonisti della giurisdizione devono agire realmente sul piano della parità delle armi”. Si tratta, si legge nella nota AIGA di “una scelta coerente con la finalità di garantire la pienezza del contraddittorio e l’equidistanza delle parti, nonché la concreta terzietà del giudice”. Siffatti principi, concludono i giovani avvocati, “costituiscono la vera essenza della giurisdizione, la quale, tuttavia, potrà raggiungere il suo definito compimento con la previsione dell’Avvocato in Costituzione, ultimo tassello mancante per l’autentica ed auspicata riforma della giustizia”.

 

orario di lavoro

Orario di lavoro: compresi anche i 5 minuti per la timbratura La Cassazione ha confermato l’orientamento secondo cui rientrano nel tempo retribuito le operazioni anteriori o posteriori alla conclusione della prestazione lavorativa, che siano necessarie ed obbligatorie alla stessa

Il tempo per la timbratura del cartellino

Nel caso di specie, la Corte d’appello di Roma aveva accolto l’appello presentato da alcuni lavoratori, dichiarando il diritto degli stessi alla retribuzione di 5 minuti giornalieri “quale tempo effettivo di lavoro, dalla timbratura del cartellino al tornello posto all’ingresso al completamento della procedura di log on e di 5 minuti giornalieri quale tempo effettivo di lavoro dal completamento della procedura di log off fino alla timbratura del cartellino all’uscita”.

Avverso tale sentenza la società datrice di lavoro aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

Orario di lavoro retribuito

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 14848-2024, ha respinto il ricorso proposto e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

In particolare, la Corte, dopo aver ripercorso i fatti di causa e i motivi di censura, ha ritenuto applicabile al caso di specie la consolidata giurisprudenza formatasi sul punto secondo cui “il tempo retribuito richiede che le operazioni anteriori o posteriori alla conclusione della prestazione di lavoro siano necessarie e obbligatorie”.  In questo senso, al Corte, ha ritenuto che debba essere retribuito anche il tempo per raggiungere il luogo di lavoro, operazione che rientra nella prestazione lavorativa vera e propria, qualora lo spostamento sia funzionale rispetto all’attività lavorativa.

Il Giudice di legittimità ha proseguito il proprio esame specificando che “ai fini della misurazione dell’orario di lavoro, l’articolo 1, comma 2, lettera a), del d.lgs. n. 66 del 2003 attribuisce un espresso ed alternativo rilievo non solo al tempo della prestazione effettiva ma anche a quello della disponibilità del lavoratore e della sua presenza sui luoghi di lavoro”.

Sulla base del suddetto quadro normativo, la Corte ha affermato che deve considerarsi orario di lavoro tutto l’arco temporale trascorso dal lavoratore all’interno dell’azienda “nell’espletamento di attività prodromiche ed accessorie allo svolgimento, in senso stretto, delle mansioni affidategli”. Tale computo viene in rilievo nei casi in cui il datore di lavoro non provi che il lavoratore sia libero di autodeterminarsi all’interno dell’azienda, ovvero non sia assoggettato, nello svolgimento di tali attività prodromiche, al potere gerarchico.

In conclusione, il Giudice di legittimità ha ritenuto che la Corte d’appello avesse dato corretta applicazione all’interpretazione sopra indicata, avendo nella specie considerato “necessario e obbligatorio” il tragitto dall’ingresso fino alla postazione di lavoro, così come ogni altra attività connessa al log in e al log out dal luogo di lavoro.

A sostegno di quanto affermato dal Giudice di merito, osserva la Corte, occorre rilevare che il tempo della timbratura, nel caso esaminato, è reso necessario dalle scelte del datore di lavoro di come organizzare la propria sede, quali: la collocazione della postazione, il percorso da effettuare per raggiungerla e la procedura di timbratura determinando, conseguendone pertanto che anche i “tempi necessari” rientrano nella prestazione lavorativa e debbano pertanto essere retribuiti.

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danno biologico

Danno biologico Cos’è il danno biologico e in quale modo si provvede al suo risarcimento. Le tabelle dei tribunali e la disciplina prevista dal Codice delle assicurazioni

Cos’è il danno biologico

Per danno biologico si intende il danno non patrimoniale che deriva dalla lesione dell’integrità fisica o psichica che comprometta, anche in modo lieve, il modo di svolgimento delle attività quotidiane del soggetto che l’ha subito ed incida sugli aspetti relazionali della sua vita.

L’importanza del tema del danno biologico deriva dalla frequente ricorrenza delle richieste di risarcimento da esso derivanti, che ricorrono specialmente quando le controversie riguardano danni da sinistri stradali o in cause giudiziali da responsabilità medica.

Lesioni micropermanenti o di lieve entità

La disciplina del risarcimento del danno biologico non è stata sempre univoca, e tuttora occorre fare una serie di distinzioni, a seconda dell’evento da cui origini il danno e dell’entità delle lesioni subite.

A questo riguardo, la principale distinzione da fare in tema di danno biologico è tra lesioni di lieve entità, o micropermanenti, e lesioni di non lieve entità, o macropermanenti.

Altrettanto rilevante è la distinzione tra lesioni durature (o – per l’appunto – permanenti), quindi destinate ad incidere, in qualche modo, per il resto della vita del danneggiato, e lesioni temporanee, i cui effetti invalidanti terminano dopo un determinato lasso di tempo.

Le tabelle di Milano per il calcolo del danno biologico

Gli uffici di diversi tribunali italiani hanno provveduto a stilare delle apposite tabelle sull’invalidità, con valori di entità del danno che vanno da 1 a 100 e in cui ad ogni diverso valore corrisponde un determinato importo da riconoscere quale risarcimento, rapportato anche all’età del danneggiato (e quindi alla sua aspettativa di vita).

Tradizionalmente, le tabelle più utilizzate dai giudici italiani, in questo senso, sono quelle del Tribunale di Milano.

Danno da circolazione stradale: art. 139 codice assicurazioni

Più specificamente, in materia di danni da circolazione stradale, l’art. 139 del Codice delle Assicurazioni Private prevede che, per il risarcimento del danno biologico permanente, venga liquidato, per i postumi pari o inferiori al 9 per cento, un importo crescente, in ragione più che proporzionale, per ogni punto percentuale.

Come si vede, quindi, il limite dei 9 punti percentuali rappresenta il discrimine tra lesioni di lieve entità (micropermanenti) e lesioni di non lieve entità (macropermanenti).

Per le prime, la quantificazione viene periodicamente effettuata con apposito decreto ministeriale, rivalutato ai valori Istat sul costo della vita; per la quantificazione del risarcimento dovuto per le lesioni di non lieve entità, invece, si applicano solitamente le tabelle predisposte dai Tribunali, non essendo mai stato emanato il regolamento prescritto dall’art. 138 del Codice (d.lgs. 209 del 2005).

Il risarcimento del danno da invalidità temporanea

Si è fatto cenno, poc’anzi, al decreto ministeriale con cui vengono individuati gli importi per il risarcimento del danno biologico permanente.

Tale decreto provvede anche alla quantificazione, periodicamente rimodulata, del danno biologico per ogni giorno di invalidità temporanea. Quest’ultima, espressamente contemplata dall’art. 139 del Codice delle Assicurazioni (comma 1, lett. b) può essere totale o parziale, a seconda che impedisca del tutto, o solo in parte, l’esplicazione delle normali attività quotidiane e della vita di relazione del soggetto danneggiato (in gergo giuridico, si utilizzano, al riguardo, gli acronimi ITT – invalidità temporanea totale, e ITP – invalidità temporanea parziale).

Danno biologico e responsabilità medica

Infine, va rilevato che le tabelle danno biologico predisposte dai tribunali (in primis, quelli di Milano e Roma) vengono comunemente applicate anche in tema di responsabilità sanitaria, cioè quando si tratta di risarcire lesioni derivanti da colpa medica.

Per il danno biologico derivante da infortuni sul lavoro e da malattie professionali è previsto, invece, un indennizzo sulla base delle tabelle Inail, che dispongono il risarcimento in forma di rendita per invalidità permanenti a partire dai 16 punti percentuali.

beni comuni condominio

I beni comuni L’individuazione dei beni in comune, l'elenco di cui all'art. 1117 c.c., la destinazione tipica e l'esclusione in base al titolo

Beni comuni in condominio

Quando in un fabbricato coesistono proprietà esclusive e proprietà in comune, alle prime asservite, si ha la figura del condominio. La proprietà solitamente è divisa in senso orizzontale, cioè per piani o porzioni di piano. Purtroppo, nessuna norma stabilisce che, tra i compiti affidati all’amministratore, vi sia quello di redigere un elenco dei beni comuni. Per prima cosa occorre, quindi, stabilire quali sono i beni comuni.

L’articolo 1117 c.c. individua le parti dell’edificio che si presumono di proprietà comune, in quanto solitamente destinati a servire in maniera indifferenziata l’intera collettività condominiale. Tali beni sono divisi in tre categorie (necessari, di pertinenza e accessori) a seconda della diversa funzione svolta dagli stessi. La novella legislativa del 2012 (L. 220/2012) non ha apportato significative innovazioni alla norma in esame, ma si è limitata a fornire una definizione più articolata delle parti comuni tenendo conto di tutte quelle innovazioni tecnologiche (si pensi, ad esempio, agli impianti per la ricezione radiotelevisiva, da satellite e via cavo) intervenute nel corso degli anni e che oggi si ritengono essenziali alla funzionalità degli appartamenti.

I beni comuni ex art. 1117 c.c.

L’elencazione dei beni comuni fornita dall’articolo 1117 c.c. è la seguente:

  • beni comuni necessari: sono quelli indicati al punto 1 dell’articolo 1117 c.c. e comprendono il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, i muri maestri, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni d’ingresso, i vestiboli, gli ànditi, i portici, i cortili e in genere tutti le parti dell’edificio necessarie all’uso comune. La L. 220/2012 ha aggiunto a questi beni comuni necessari i pilastri e le travi portanti;
  • beni comuni di pertinenza: sono quelli indicati al punto 2 dell’articolo 1117 c.c. e comprendono i locali per la portineria e per l’alloggio del portiere, per la lavanderia, per il riscaldamento centrale, per gli stenditoi e per altri simili servizi in comune. La L. 220/2012 ha aggiunto a tali beni, detti anche eventuali in quanto possono anche mancare, le aree destinate a parcheggio e i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune;
  • beni comuni accessori: sono quelli indicati al terzo punto dell’articolo 1117 c.c. e comprendono le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all’uso comune, come gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli impianti idrici e fognari, i sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas. La L. 220/2012 ha aggiunto a questa elencazione anche gli impianti per il riscaldamento e il condizionamento dell’aria (in precedenza la norma parlava solo di impianti di riscaldamento), gli impianti per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informatico, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condòmini, ovvero, in caso di impianti unitari, fino al punto di utenza, salvo quanto disposto dalle normative di settore in materia di reti pubbliche.

L’elencazione fornita dall’articolo 1117 c.c. non è tassativa né inderogabile. Ciò significa che ben possono aversi casi di condomìni nei quali vi siano beni comuni che il codice civile non ha indicato ed, inoltre, che lo stesso bene indicato tra i beni comuni dall’articolo 1117 c.c. può, invece, essere di proprietà del singolo condòmino: si pensi, ad esempio, al caso in cui il costruttore, in sede di alienazione del singolo appartamento, ceda all’acquirente l’intera proprietà del solaio di copertura del fabbricato.

Sulla scorta di quest’ultima considerazione è evidente che oltre alla destinazione di fatto all’uso comune, al fine di individuare quali sono i beni comuni, occorre risalire al momento di nascita del condominio e, quindi, l’amministratore deve aver riguardo non solo a quanto disposto all’articolo 1117 c.c., ma anche agli originari contratti di alienazione ed al regolamento di condominio contrattuale eventualmente richiamato, tenendo sempre ben presente che occorre un patto esplicito affinché il bene possa considerarsi di proprietà di un singolo condòmino e che, in mancanza, il semplice silenzio determinerà la proprietà comune del bene. Infatti, è all’originario atto di alienazione (il primo atto di vendita di un immobile facente parte del fabbricato) che la giurisprudenza attribuisce la nascita del condominio; quindi, è a questo momento che bisogna risalire per verificare se i beni identificati abbiano, o meno, natura di beni comuni. In pratica il costruttore, nel regolamento di condominio (contrattuale) o nel primo atto di vendita, deve riservarsi la proprietà di quelli che sono i beni in comune. In mancanza di espressa e specifica riserva il bene passa, sia pure pro quota, al condòmino, ma è da considerarsi ormai comune a tutti.

Il principio di separazione tra la proprietà del singolo condòmino ed i beni comuni non implica che i beni comuni siano necessariamente di proprietà di tutti i condòmini; difatti, l’amministratore potrà trovarsi di fronte alla cd. comunione parziaria, cioè a beni comuni che appartengono solo ad alcuni tra di essi (si pensi ad un condominio con più scale, ascensori ecc. dove questi sono comuni solo ai proprietari degli immobili cui servono ex art. 1123 III comma anche se lì si parla di spese per l’uso).

Durante la vita del condominio può accadere che le parti comuni subiscano delle variazioni. Si possono avere variazioni nella loro consistenza: ad esempio, a seguito della demolizione del tetto e la sua trasformazione in terrazzo di uso comune, oppure nella loro titolarità, come nel caso, ad esempio, della vendita dell’appartamento occupato dal portiere dopo che tale servizio è stato eliminato.

L’azione di accertamento della proprietà comune, in quanto ha ad oggetto la contitolarità del diritto di proprietà in capo a tutti i condòmini, è relativa ad un rapporto sostanziale plurisoggettivo unitario, dando luogo a un’ipotesi di litisconsorzio necessario fra tutti i condòmini; infatti, il giudicato si forma ed è opponibile nei confronti dei soli soggetti che hanno partecipato al giudizio.

D’altra parte, poiché non è applicabile ai rapporti assoluti la disciplina specifica dei rapporti obbligatori, non è estensibile alla specie il criterio dettato in materia di obbligazioni indivisibili dall’articolo 1306 c.c., in virtù del richiamo di cui all’articolo 1317 c.c., secondo cui gli effetti favorevoli di una sentenza pronunciata nei confronti di uno o di alcuni dei diversi componenti dell’obbligazione solidale o indivisibile si comunicano agli altri.

L’esclusione in base al titolo

Dalla rubrica dell’articolo 1117 c.c., «Parti comuni dell’edificio», è evidente non solo il fatto che il legislatore abbia inteso porre in primo piano i beni comuni ma anche il fatto che il condominio negli edifici non è altro che un prodotto, cioè il risultato della comunione su determinate parti di un edificio senza le quali (parti comuni) non esisterebbe nemmeno il concetto di condominio.

Il medesimo articolo 1117 c.c. non si limita ad elencare le cose comuni di un edificio in condominio poiché contiene, nella prima parte, un’importantissima precisazione secondo la quale tutte le parti ivi elencate debbano considerarsi comuni «se non risulta il contrario dal titolo».

La genericità del termine titolo non è un errore del legislatore ma risponde ad una precisa volontà di rifarsi ad un più ampio concetto in cui accomunare tutti gli atti che possano contenere l’esclusione di un bene dal novero delle parti comuni di un fabbricato.

Difatti, come si è precisato in dottrina: «Titolo può essere il documento (contratto) costitutivo del condominio […] ma può essere pure il testamento quando il condominio è imposto o deriva da un atto di ultima volontà; od anche l’atto di donazione. Titolo è quindi quell’atto giuridico capace di attribuire o trasferire il diritto di proprietà».

Da quanto detto risulta che il regolamento di condominio non può essere annoverato tra i titoli capaci di escludere un bene dalle parti comuni di un edificio. Difatti, dall’articolo 1138 c.c. si evince che lo stesso regolamento contiene «le norme circa l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese nonché le norme per la tutela del decoro dell’edificio e quelle relative all’amministrazione». È evidente che il codice civile non attribuisce al regolamento la facoltà di escludere determinati beni dal novero delle parti comuni di cui all’articolo 1117 c.c. È anche vero, però, che se alla formazione del regolamento di condominio partecipano tutti i condòmini esso diviene un contratto a tutti gli effetti e ben può contenere una clausola di esclusione di un bene dalle parti comuni. È questa l’ipotesi in cui il regolamento formato dall’originario costruttore e depositato agli atti del notaio, che contiene una clausola di esclusione, viene richiamato nel primo e nei successivi atti di compravendita per formarne parte integrante e sostanziale. In questi casi è evidente che il regolamento è solo l’involucro, il documento, che riportato nel rogito notarile, assume valore contrattuale con la sottoscrizione delle parti.

Infatti, per titolo, tuttavia, non si intende il titolo del soggetto individuato come proprietario della terrazza, ma deve intendersi l’atto costitutivo del condominio – ossia il primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dell’originario proprietario ad altro soggetto, con conseguente frazionamento dell’edificio in più proprietà individuali – ove questo contenga in modo chiaro ed inequivoco elementi tali da escludere l’alienazione del diritto di condominio, non rilevando a tal fine quanto stabilito nel regolamento condominiale, ove non si tratti di regolamento allegato come parte integrante al primo atto d’acquisto trascritto, ovvero di regolamento espressione di autonomia negoziale, approvato o accettato con il consenso individuale dei singoli condomini e volto perciò a costituire, modificare o trasferire i diritti attribuiti ai singoli condomini dagli atti di acquisto o dalle convenzioni. (Nel caso di specie, la Suprema Corte, pur rigettando il ricorso, ha corretto la motivazione della sentenza impugnata la quale aveva erroneamente dichiarato che, per ritenere la proprietà esclusiva della terrazza, sarebbe stato necessario produrre il titolo di proprietà, e cioè il contratto con il quale il condomino aveva acquistato il diritto di proprietà, perché, in mancanza, la terrazza doveva presumersi di proprietà comune – Cass. Ord. n. 27846/2023.

Il titolo contrario non è l’unico strumento che può escludere un bene dalle parti comuni di un edificio in condominio; i beni in comune, per essere considerati tali, devono anche avere la destinazione all’uso (comune) tipica di tali beni.

La presunzione di comunione di cui all’articolo 1117 c.c. scatta, in altri termini, sia per le parti nominativamente indicate nell’articolo stesso, sia per quelle indicate solo in via generica, solo se all’atto della nascita del condominio sussista la destinazione all’uso comune su cui si fonda la presunzione e se non sussista, a tale momento, un titolo contrario: occorre cioè tenere conto sia della situazione di fatto (destinazione) sia di quella giuridica (titolo) esistente al momento in cui, per effetto della scissione in almeno due parti della proprietà dell’edificio, viene a nascere il condominio»  .

È importante sottolineare la definizione temporale dello stato di fatto di cui si parla poiché esso attiene al momento della formazione del condominio (al suo momento genetico quindi), e solo a quello, restando ininfluenti i successivi sviluppi del fenomeno. Invero, gli atti successivi a tale primo frazionamento possono solo determinare mutamenti nella composizione del condominio (caso comune è quello in cui l’originario proprietario venda ad altri ulteriori appartamenti e piani) ma non influiscono affatto sulla sua formazione, cioè sulla sua nascita, che si verifica in occasione del primo frazionamento della proprietà dell’edificio. Per cui quando un bene che dovrebbe ritenersi comune a tutti i condomini (ex articolo 1117 c.c.) per le sue caratteristiche strutturali è destinato all’uso o al godimento solo di una parte dell’edificio, viene meno il presupposto per la contitolarità necessaria.

Verificato lo stato di fatto in cui il bene si trova, se cioè sia effettivamente destinato ad un uso (utilità) comune, si può passare all’analisi del titolo così come esige il richiamato articolo 1117: «è all’atto costitutivo del condominio, cioè alla prima vendita, che occorre fare riferimento onde accertare se sussista o meno titolo contrario alla presunzione di cui all’articolo 1117 c.c., cioè se da tale atto emerga una chiara ed univoca volontà delle parti di riservare esclusivamente ad uno dei condòmini la proprietà di beni che, per ubicazione e struttura, siano potenzialmente destinati all’uso comune  ; parimenti, come si è detto, è a tale momento che si deve fare riferimento per accertare se uno di tali beni risulti invece destinato all’uso specifico di un appartamento o piano.

In tale scia, qualora non intervenga una volontà derogatoria degli interessati sul regime di appartenenza, i beni ed i servizi elencati dall’art. 1117 cod. civ., in virtù della relazione di accessorietà o di collegamento strumentale con le singole unità immobiliari, sono attribuiti “ex lege” in proprietà comune per effetto dell’acquisto della proprietà dei piani o porzioni di piano; pertanto, il lastrico solare è oggetto di proprietà comune se il contrario non risulta dal titolo, per tale intendendosi gli atti di acquisto delle altre unità immobiliari nonché il regolamento di condominio accettato dai singoli condomini; pertanto, come è avvenuto nel caso di specie, non è sufficiente che la proprietà individuale risulti dal titolo di acquisto della parte che si rivendica proprietaria esclusiva del terrazzo, ma occorre che essa risulti dagli atti di acquisto degli altri condomini o dal regolamento condominiale che essi abbiano espressamente accettato in occasione del loro acquisto, sicché, in difetto di tale prova, la presunzione di condominialità è destinata a spiegare piena efficacia (Cass. n. 27363/2021).

azione vittima errore medico

Vittima di errore medico: può agire direttamente per il risarcimento Azione diretta del danneggiato da responsabilità medica: analisi del decreto attuativo sui requisiti minimi delle polizze assicurative

Attuazione legge Gelli

Il decreto 232 del 15 dicembre 2023 del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, pubblicato sulla GU n 51 del 1° marzo 2024 e in vigore dal 16 marzo 2024, ha attuato la previsione contenuta nel comma 6 dell’articolo 10 della legge Gelli n. 24/2017 sulla responsabilità sanitaria.

La disposizione rimetteva infatti a un decreto di attuazione la determinazione dei requisiti minimi: 

  • “delle polizze assicurative per le strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private e per gli esercenti le professioni sanitarie, prevedendo l’individuazione di classi di rischio a cui far corrispondere massimali differenziati” ;
  • “di garanzia e le condizioni generali di operatività delle altre analoghe misure, anche di assunzione diretta del rischio, richiamate dal comma 1.”

Al decreto di attuazione anche il compito di disciplinare: “le regole per il trasferimento del rischio nel caso di subentro contrattuale di un’impresa di assicurazione nonché la previsione nel bilancio delle strutture di un fondo rischi e di un fondo costituito dalla messa a riserva per competenza dei risarcimenti relativi ai sinistri denunciati.”

Azione diretta per la vittima di errore medico

Il comma 6 dell’articolo 10, attuato con il decreto  n. 232 del 15 dicembre 2023, è richiamato dal comma 6 dell’articolo 12 della legge Gelli, che prevede l’azione diretta del soggetto danneggiato a causa di un errore medico. L’entrata in vigore della norma sulla azione diretta era infatti subordinata all’entrata in vigore del decreto di attuazione n. 232/2023.

La norma nello specifico prevede la possibilità per il soggetto danneggiato di agire direttamente nei confronti dell’assicurazione che garantisce la copertura assicurativa alle strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche o private e all’esercente della professione sanitaria. Il tutto nei limiti delle somme per le quali è stato stipulato il contratto di assicurazione.

All’impresa di assicurazione il comma 3 dell’articolo 12 riconosce tuttavia il diritto di rivalsa verso l’assicurato, nel rispetto dei requisiti minimi che non possono essere derogati contrattualmente e che sono stati anch’essi stabiliti dal decreto n. 232 del 15 dicembre 2023.

Garanzie assicurative: oggetto

In base all’articolo 3 del decreto n. 232/2023 per le coperture assicurative in favore dei soggetti indicati dall’art. 210 commi 1, 2 e 3 dell’articolo 10 della legge n. 24/2017 (strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private; esercenti la professione sanitaria che svolga la propria attività al di fuori di una delle strutture pubbliche e private; esercenti la professione sanitaria operante a qualunque titolo in strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche o private) l’assicurazione si obbliga a tenere indenne la struttura dei rischi che derivano dalla sua attività per coprire la responsabilità contrattuale di quanto la stessa è tenuta a pagare a titolo di risarcimento per i danni patrimoniali e non patrimoniali cagionati a terzi.

La garanzia tiene indenne anche il personale operante a qualunque titolo presso la struttura stessa compresi i soggetti che svolgono attività di formazione aggiornamento sperimentazione e ricerca.

La copertura riguarda anche la responsabilità extracontrattuale di coloro che esercitano la professione sanitaria per prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria anche se non dipendono dalla struttura, ma di cui la stessa si avvale per adempiere le proprie prestazioni con il paziente.

La copertura assicurativa  tiene indenne anche l’esercente attività libero professionale quando lo stesso deve adempiere ad un’obbligazione contrattuale assunta direttamente con il paziente per danni cagionati colposamente a terzi.

L’assicurazione si obbliga anche a tenere indenne colui che esercita la professione sanitaria presso la struttura qualunque titolo per le azioni di responsabilità amministrativa, rivalsa o surroga che siano state esercitati nei suoi confronti.

Massimali minimi di garanzia delle coperture

L’articolo 4 del decreto n. 232/2023 definisce i massimali minimi di garanzia delle coperture assicurative relative ai contratti assicurativi obbligatori delle strutture sanitarie sociosanitarie e pubbliche private.

I massimali variano da un minimo di 1.000.000,00 euro per sinistro fino a un massimo di 5.000.000,00 in base al tipo di prestazioni che vengono svolte al loro interno.

I massimali assicurativi per gli esercenti la professione sanitaria al di fuori della struttura o che svolgano la loro attività in regime libero professionale al loro interno p che si avvalga della stessa per adempiere un’obbligazione assunta con il paziente variano da un minimo di 1.000,000,00 di euro fino a un massimo di 2.000.000,00 per paziente. Anche in questo caso il massimale varia in base al livello di rischio dell’attività svolta.

Durata della copertura

Per quanto riguarda l’efficacia temporale della garanzia, l’articolo 5 del decreto n. 232/2023 stabilisce che la copertura assicurativa presenta la forma della “claims made” e opera per le richieste di risarcimento che vengono presentate per la prima volta quando la polizza è vigente e che si riferiscono a fatti che hanno generato la responsabilità verificatasi in questo periodo e nei 10 anni precedenti la conclusione del contratto.

La copertura assicurativa vale anche in caso di cessazione definitiva dell’attività dell’esercente la professione sanitaria senza che rilevi la causa della cessazione. L’ultraattività della copertura riguarda in questo caso le richieste risarcitorie presentate per la prima volta entro i 10 anni successivi alla cessazione dell’attività e riferita fatti che hanno generato la responsabilità verificatasi nel periodo di efficacia della polizza.

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