leva obbligatoria

Leva obbligatoria: la proposta di legge Leva militare obbligatoria o servizio civile: cosa prevede la proposta di legge ordinaria della Lega presentata alla Camera il 15 maggio 2024

Leva militare o servizio civile: proposta di legge alla Camera

Eugenio Zoffili, deputato e membro della commissione difesa della Camera in data 14 maggio 2024 ha presentato la proposta di legge n. 1873 intitolata “Istituzione del servizio militare e civile universale territoriale e delega al Governo per la sua disciplina.” 

Come emerge dal titolo, la proposta legislativa si pone l’obiettivo di reintrodurre il servizio di leva militare della durata di sei mesi per i ragazzi e le ragazze. Matteo Salvini, nel corso del raduno degli Alpini del 12 maggio 2024, tenutosi nella provincia di Vicenza, ha dichiarato che la leva che vuole reintrodurre ha una finalità educativa. Con la leva militare o il servizio civile si vogliono preparare cittadini in grado di salvare e soccorrere tutti quei soggetti che si trovano in condizioni di difficoltà e di proteggere i boschi.

La grande novità della proposta leghista è rappresentata dal fatto che il servizio si potrà svolgere vicino casa.

Come funzioneranno la leva militare e il servizio civile

La proposta di legge, come anticipato, non prevede solo la leva militare, ma contempla anche l’opzione del servizio civile, che coinvolgeranno tutti i cittadini di età compresa tra i 18 e i 26 anni. Vediamo distintamente in che cosa consistono.

Il servizio militare universale di tipo territoriale, come annunciato dal proponente Eugenio Zoffili,  sarà svolto solo sul territorio nazionale e nella regione di residenza o domicilio. La provincia di residenza rappresenta il criterio prioritario, a meno che il soggetto non faccia richiesta espressa di essere impiegato in altri territori, previa autorizzazione dell’autorità competente al rilascio. Chi sceglierà il servizio militare potrà contare su una formazione militare per la successiva attività di impiego sul territorio nazionale.

Chi opterà per il servizio civile universale invece potrà svolgere funzioni relative alla tutela del patrimonio culturale e naturalistico e del paesaggio. Ci sarà anche la possibilità di entrare a far parte del sistema nazionale della protezione civile e del soccorso pubblico e di poter collaborare con i Vigili del fuoco.

Le critiche alla proposta di legge

Sulla proposta di legge della lega non tardano ad arrivare le perplessità del Ministro della Difesa Guida Crosetto ritiene infatti che le finalità educative della legge che reintroduce il servizio militare e il servizio civile siano errate. All’educazione dei giovani devono provvedere le famiglie e la scuola.

Contrario alla proposta di legge anche l’ex premier Conte, per il quale i giovani non hanno bisogno di una politica che li costringe a fare i militari e la guerra, quanto di una politica che tuteli i loro diritti e lotti contro la precarietà del lavoro.

Il Ministro degli Esteri Taiani solleva invece la questione della copertura economica della proposta, perché i costi da sostenere sono eccessivi, ma anche perché i militari formati in sei mesi di leva non sarebbero utilizzabili.

prova scritta ufficio processo

Ufficio del processo: il 5 e 6 giugno le prove scritte Il ministero della Giustizia ha pubblicato il diario d'esame del concorso per 3.946 posti di addetto all'ufficio per il processo

Addetti Upp diario d’esame

Saranno il 5 e 6 giugno 2024, le prove scritte del bando per 3.946 posti di addetto all’ufficio per il processo. Il ministero della Giustizia ha pubblicato sul proprio sito l’avviso di convocazione e il diario della prova scritta.

Diverse le sedi in cui si svolgerà l’esame, sulla base di una ripartizione secondo il codice distretto.

Prova scritta

La prova scritta consiste in un test di 40 quesiti a risposta multipla, con un punteggio massimo attribuibile di 30 punti. La durata sarà di 60 minuti, salvi i casi di tempo aggiuntivo per i candidati che ne hanno diritto.

Per superare l’esame è necessario aver raggiunto un punteggio minimo di 21/30.

I quesiti verteranno sulle seguenti materie: diritto pubblico, ordinamento giudiziario e lingua inglese.

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Concessioni balneari: il Consiglio di Stato dice no alle proroghe Con tre sentenze, il giudice amministrativo ribadisce l'illegittimità del rinnovo generalizzato delle concessioni balneari: contrastano con la direttiva Bolkestein e con il TFUE

Illegittime le proroghe generalizzate delle concessioni balneari

Con le sentenze n. 4479, 4480 e 4481/2024 il Consiglio di Stato conferma il principio ribadito in diverse occasioni che sancisce l’illegittimità delle proroghe balneari generalizzate (previste dal decreto legge n. 198/2022, convertito nella legge n. 14/2023) perché le stesse violano la libertà di stabilimento sancita dall’art. 49 del TFUE e l’articolo 12 della Direttiva Bolkestein (Direttiva UE 2006/123/CE).

Nelle sentenze gemelle il Consiglio di Stato richiama la normativa e la giurisprudenza più rilevanti in materia di concessioni balneari per ribadire che:“tutte le proroghe delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative – anche quelle in favore di concessionari che avessero ottenuto il titolo in ragione di una precedente procedura selettiva laddove il rapporto abbia esaurito la propria efficacia per la scadenza del relativo termine di durata prima del 31 dicembre 2023 (Cons. St. sez. VII, 19 marzo 2024, n. 2679) – sono illegittime e devono essere disapplicate dalle amministrazioni a ogni livello, anche comunale, imponendosi, anche in tal caso, lindizione di una trasparente, imparziale e non discriminatoria procedura selettiva.”

Proroghe tecniche compatibili con il diritto UE

L’unica proroga compatibile con il diritto dell’Unione Europea è quella “tecnica” ossia quella che è funzionale allo svolgimento della gara. L’articolo 3 della legge n. 118/2022 al comma 3 prevede infatti che in presenza di ragioni oggettive che siano di ostacolo alla conclusione della procedura di selezione entro il 31.12.2024, l’autorità competente, con atto motivato, può differire la scadenza delle concessioni per il tempo necessario alla conclusione della procedura, nel rispetto del termine massimo del 31.12.2025.

Per il Consiglio di Stato l’articolo 12 della Dir. 2006/123/CE ha una applicazione piena, diretta, e incondizionata. Tale applicabilità non può essere subordinata dal nostro legislatore alla mappatura, nazionale dellascarsità della risorsa o a qualsiasi riordino, pur atteso, dellintera materia, pena il frontale contrasto di questa subordinazione con il diritto dellUnione e la conseguente disapplicazione delle norme che ciò prevedano …”. 

Nessuna aspettativa al rinnovo della concessione

Per giurisprudenza costante dello stesso, il Consiglio di Stato ribadisce inoltre che il concessionario di un bene demaniale non possa vantare una aspettativa al rinnovo della concessione. Il diniego del rinnovo non ha bisogno di motivazioni ulteriori rispetto all’applicazione dei principi della ragionevolezza e della logica a cui si deve uniformare l’agire della pubblica amministrazione. In sede di rinnovo il concessionario precedente riveste quindi la stessa posizione degli altri richiedenti.

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Cognome materno: il no del padre non conta Per il Tar Veneto il dissenso del padre non determina alcun automatico effetto impeditivo all’attribuzione del cognome materno, sussistendo piena uguaglianza tra i genitori e ben potendo i rispettivi cognomi coesistere

Cognome materno al figlio

Nel caso in esame, la madre, esercente la responsabilità genitoriale, aveva impugnato il provvedimento con il quale la Prefettura aveva respinto la sua istanza per il cambio del cognome del figlio, con l’aggiunta del proprio cognome a quello paterno. Tale richiesta traeva origine dall’esigenza, avvertita a seguito dell’attribuzione ad altro figlio, nato dal nuovo matrimonio contratto dalla madre, dei cognomi di entrambi i genitori. Rispetto a tale circostanza si era infatti posta la necessità di formalizzare innanzi alla società, nella cerchia amicale e di fronte alle Istituzioni, il rapporto tra i due fratelli, entrambi figli della ricorrente e con essa conviventi.

Il diniego della Prefettura era stato espresso in ragione dell’opposizione del padre, formulata ai sensi dell’art. 91 del d.P.R. n. 396 del 2000 e tenuto conto della pronuncia della Corte Costituzionale (sentenza n. 286/2016), con la quale era stato ritenuto ammissibile, in deroga alla regola consuetudinaria dell’automatica attribuzione del cognome paterno, l’attribuzione al figlio del cognome materno in aggiunta a quello paterno, sempreché vi sia una comune volontà in tal senso espressa da entrambi dei genitori.  Ebbene, nel caso di specie, è proprio la comune volontà dei genitori che sarebbe difettata, stante l’opposizione del padre naturale, conducendo dunque il prefetto al diniego della richiesta avanzata dalla madre.

Avverso tale decisione la madre aveva proposto ricorso dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto.

Cognome figlio: non è necessario l’accordo dei genitori

Il Tar Veneto, con sentenza n. 661-2024, ha accolto il ricorso proposto dalla madre e, per l’effetto, ha annullamento il provvedimento impugnato con cui era stata rigettata l’istanza della ricorrente.

Il Giudice amministrativo ha anzitutto ripercorso il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, sottolineando come la richiesta della madre era stata proposta ai sensi dell’art. 89, del d.P.R. n. 396 del 2000, secondo cui “chiunque vuole cambiare il nome o aggiungere al proprio un altro nome ovvero vuole cambiare il cognome, anche perché ridicolo o vergognoso o perché rivela l’origine naturale o aggiungere al proprio un altro cognome, deve farne domanda al prefetto”.

Rispetto alla questione in esame, il Tar ha rilevato come l’originaria procedura di attribuzione del cognome era basata, come rilevato dalla stessa Corte Costituzionale nella sentenza n. 61/2006, su un sistema costituente retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affondava le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico e di una tramontata potestà maritale, non più ritenuta coerente con i principi dell’ordinamento. Tale sistema è stato pertanto abbandonato dalla Corte Costituzionale, dapprima, con la citata pronuncia n. 286/2016 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che non consentono ai coniugi di trasmettere, di comune accordo, il cognome materno e, più di recente, con la sentenza n. 131/2022 con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di tutte le norme che prevedono l’automatica attribuzione del cognome del padre con riferimento ai figli nati dentro e fuori dal matrimonio e a quelli adottivi.

Rispetto a quanto sopra rappresentato, ha spiegato il Tar, “l’equiparazione delle figure genitoriali in sede di attribuzione del cognome alla prole (…) si traduce nella regola secondo cui al figlio sono assegnati i cognomi di entrambi i genitori salvo accordo contrario, così da porre sul medesimo piano giuridico le linee, paterna e materna, della filiazione, in un assetto che le vuole complementari e coesistenti, proprio perché allo stesso modo essenziali nella definizione dell’identità dell’individuo”.

Dissenso del padre: nessun effetto impeditivo

Alla stregua delle suddette considerazioni, nonché della lettura costituzionalmente orientata di cui si è dato sopra conto, il Giudice amministrativo ha pertanto rilevato “l’erroneità dell’assunto prefettizio circa l’indispensabilità dell’assenso di entrambi i genitori. Non può infatti essere riconosciuto al dissenso manifestato dal padre alcun automatico effetto impeditivo dell’esame dell’istanza della madre, sussistendo piena uguaglianza e pari dignità morale e giuridica tra entrambi i genitori e ben potendo i rispettivi cognomi coesistere – e ciò anche a prescindere dal riparto nel concreto della responsabilità genitoriale, nel caso di specie attribuita alla sola madre affidataria – in quanto funzionali alla definizione dell’identità del figlio”.

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particolare tenuità fatto cassazione

Particolare tenuità del fatto per la prima volta in Cassazione La Suprema Corte chiarisce che dopo la riforma Cartabia la particolare tenuità del fatto può essere eccepita per la prima volta innanzi alla Cassazione

Particolare tenuità del fatto

La speciale causa di non punibilità, alla luce della modifiche della legge Cartabia, può essere eccepita per la prima volta davanti alla Corte di cassazione. Lo ha affermato la seconda sezione penale della Suprema Corte nella  sentenza n. 19132-2024 accogliendo il ricorso di un imputato.

Aggressione durante motoraduno: la vicenda

Nella vicenda, la Corte d’appello di Venezia riformava parzialmente la condanna per rapina aggravata e lesioni personali pronunciata dal tribunale di Verona, assolvendo l’imputato dal delitto di lesioni e riqualificando la rapina in ricettazione. Inizialmente, all’uomo era stato contestato di aver preso parte ad un’aggressione violenta durante un motoraduno, oltre alla sottrazione di un giubbotto appartenente ad una banda rivale. ricostruiti diversamente i fatti, la Corte territoriale aveva escluso la partecipazione diretta del ricorrente all’episodio, residuando dunque a suo carico la ricezione del giubbotto sottratto che poi lo stesso aveva restituito agli agenti di polizia giudiziaria.

Il ricorso

L’imputato ricorreva per Cassazione lamentando che, alla luce della diversa qualificazione del fatto storico, i giudici avrebbero potuto giungere ad una pronuncia più favorevole nei suoi confronti. Lamentava, inoltre, violazione di legge in relazione all’art. 131 bis c.p. “L’operata riqualificazione del fatto, senza alcun avviso alle parti, aveva limitato – infatti a suo dire – la possibilità di allegare circostanze ed elementi idonei a dimostrare
la sussistenza della speciale causa di non punibilità, non invocabile rispetto all’iniziale contestazione”.

Sì alla tenuità del fatto

Per gli Ermellini, il ricorso è fondato. Sotto il profilo della configurabilità della speciale causa di non punibilità ex art. 131 bis c.p. rilevano, invero, dal Palazzaccio, la motivazione della sentenza impugnata “è del tutto laconica e non considera compiutamente tutti gli aspetti rilevanti ai sensi dell’art. 133 cod. pen., anche alla luce delle modifiche introdotte dal d. Igs. 150/2022”.

Sicché, afferma il Collegio, “trova applicazione il principio secondo il quale in tema di particolare tenuità del fatto, nel caso in cui la derubricazione del reato contestato sia stata operata dal giudice dell’appello in sentenza senza aver sollecitato il contraddittorio sul punto, la relativa garanzia difensiva implica che, se la fattispecie ritenuta d’ufficio preveda limiti edittali che rendano astrattamente applicabile l’art. 131 bis c.p. (come accaduto nella specie), l’imputato possa invocare per la prima volta davanti alla Corte di cassazione l’applicazione della speciale causa di non punibilità (cfr. Cass. n. 15011/2018)”.

Nelle more, segnalano, infine, da piazza Cavour, in ragione del tempo trascorso è intervenuta l’estinzione del reato per prescrizione, per cui la sentenza è annullata senza rinvio.

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ANF: guida agli assegni per il nucleo familiare Cos’è l'assegno per il nucleo familiare (ANF), a chi spetta e quali sono i livelli reddituali in vigore da luglio 2024 a giugno 2025

Cos’è l’assegno per il nucleo familiare

L’assegno per il nucleo familiare (ANF) è un contributo economico, che viene riconosciuto ai lavoratori dipendenti del settore privato. L’assegno spetta in base al numero dei soggetti che compongono il nucleo familiare e al reddito del nucleo stesso. Questa la ragione per la quale, una volta ottenuto l’assegno, è necessario comunicare al soggetto obbligato a corrisponderlo qualsiasi variazione nel termine di 30 giorni dal loro verificarsi.

A chi spetta l’assegno per il nucleo familiare

L’assegno per il nucleo familiare è riconosciuto ai lavoratori dipendenti che presentino regolare e specifica domanda. Dal 2005 la domanda per l’ANF può essere presentata al datore di lavoro anche dal coniuge del dipendente al fine di ottenere il pagamento diretto degli importi.

I soggetti che possono fare domanda per l’assegno del nucleo familiare sono:

  • i lavoratori del settore privato;
  • i dipendenti del settore agricolo, esclusi i coltivatori diretti, i coloni, i mezzadri e i piccoli coltivatori diretti;
  • i dipendenti di ditte che hanno cessato l’attività o sono fallite;
  • i soggetti che percepiscono prestazioni economiche previdenziali ricollegabili al lavoro dipendente;
  • i lavoratori in aspettativa sindacale, i marittimi che hanno subito un infortunio e sono stati sbarcati e i dipendenti che si trovano in una condizione di pagamento diretto.

Domanda ANF: come fare

La domanda per l’assegno per il nucleo familiare deve essere presentata annualmente in ragione della variazione del presupposto reddituale.

L’istanza deve essere presentate all’INPS in modalità telematica mediante il servizio dedicato. Non è necessario presentare una nuova domanda se il dipendente che ne ha diritto viene assunto presso un altro datore di lavoro durante il periodo di validità dell’assegno.

La domanda da presentare al datore di lavoro invece richiede l’impiego del modello cartaceo ANF/DIP (SR16). Nei casi previsti dalla legge è necessario allegare il provvedimento di autorizzazione della domanda modello ANF43.

Se la domanda per l’ANF viene presentata da parte di lavoratori di attività cessate o fallite, la stessa va presentata all’INPS in modalità online mediante il servizio dedicato nel rispetto del termine di prescrizione di 5 anni.

La domanda può essere presentata anche con le seguenti modalità:

  • Contact center INPS (803 164 gratuito per le chiamate da rete fissa) 06164164 (a pagamento per le reti mobile);
  • Servizi telematici messi a disposizione dai patronati.

Livelli reddituali ANF 2024 – 2025

Come anticipato, l’importo dell’assegno per il nucleo familiare varia anche in base al reddito del nucleo.

Per l’anno 2024, con la Circolare n. 65-del 15.05.2024 l’INPS ha comunicato l’aggiornamento dei livelli di reddito, rivalutati in base alla variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per famiglie di operai e impiegati e degli importi degli assegni.

A partire dal 1 marzo 2022, in virtù della istituzione dell’assegno unico e universale per i nuclei familiari con figli e orfani, i livelli di reddito che vengono presi in considerazione per il riconoscimento dell’ANF sono solo quelli dei nuclei familiari di cui non fanno parte i figli e che sono quindi formati da coniugi, fratelli, sorelle e nipoti.

La rivalutazione riguarda infatti le seguenti tabelle, contenute nell’Allegato 1 della Circolare-n. 65/2024:

  • 19     nuclei familiari composti esclusivamente da soggetti maggiorenni inabili e diversi dai figli;
  • 20A nuclei familiari con entrambi i coniugi e senza figli;
  • 20B nuclei monoparentali senza figli in cui sia presente almeno un fratello, una sorella o un nipote inabile;
  • 21A nuclei familiari senza figli in cui non siano presenti soggetti inabili;
  • 21B nuclei monoparentali senza figli con almeno un fratello, una sorella o un nipote e in cui non siano presenti componenti inabili;
  • 21C nuclei familiari senza figli che includano almeno un coniuge inabile e nessun altro componente inabile;
  • 21D nuclei monoparentali senza figli, che comprendano almeno un fratello, una sorella, un nipote e in cui il solo soggetto richiedente sia inabile.
guard rail difettoso

Guard rail difettoso: per l’incidente risponde la PA Secondo la Cassazione, la PA che non curi di verificare che i guard rail abbiano assunto una conformazione tale da costituire un pericolo per gli utenti, viola gli standard di sicurezza e i principi generali in tema di responsabilità civile

Guard rail quale concausa del sinistro

Nel caso che ci occupa, si discute delle cause che avevano condotto ad un tragico incidente stradale nell’ambito del quale avevano perso la vita alcune persone e ne erano rimaste ferite altre.

Nella specie, dalla ricostruzione dei fatti, era emerso che il sinistro si era verificato sia a causa dell’elevata velocità cui procedeva l’autovettura, che a causa dell’anomalia della barriera guardrail lungo quel tratto di strada.

All’esito del giudizio di merito, la Corte d’appello di Bologna, per quanto qui rileva, aveva dichiarato la corresponsabilità della società, incaricata alla gestione del tratto stradale interessato, nella causazione del sinistro.

Avverso la suddetta sentenza la società aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

Responsabilità della PA nella manutenzione della strada

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 11950-2024, ha rigettato il ricorso proposto e condannato parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio.

Dopo aver ripercorso i fatti di causa, il Giudice di legittimità ha affermato che i guardrail “sono dispositivi di sicurezza stradale che (…) hanno sempre come funzione fondamentale: da un lato, di impedire a un veicolo di uscire dalla carreggiata, agendo come una barriera protettiva; dall’altro, di evitare collisioni frontali, prevenendo la possibilità che i veicoli sbandino nella corsia opposta”.

Allo stesso tempo, la Corte ha ricordato come “la custodia esercitata dal proprietario o gestore della strada non è limitata alla sola carreggiata, ma si estende anche agli elementi accessori o pertinenze, ivi comprese eventuali barriere laterali con funzione di contenimento e protezione della sede stradale”.

I principi di diritto della Cassazione

Sulla scorta del quadro giurisprudenziale e normativo di riferimento, la Corte ha pertanto pronunciato i seguenti principi di diritto.

“La P.A. che, pur avendo collocato una barriera laterale di contenimento per diminuire la pericolosità di un tratto stradale, non curi di verificare che la stessa non abbia assunto nel tempo una conformazione tale da costituire un pericolo per gli utenti ed ometta di intervenire con adeguati interventi manutentivi al fine di ripristinarne le condizioni di sicurezza, viola sia le norme specifiche che le impongono di collocare barriere stradali nel rispetto di determinati standard di sicurezza, sia i principi generali in tema di responsabilità civile”.

Per quanto invece attiene alla specifica materia della responsabilità civile della p.a. per danni da cose in custodia, la Corte ha rilevato come “la condotta del danneggiato, che entri in interazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull’evento dannoso, (…) sicché, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno”.

Sulla scorta di quanto sopra riferito, la Corte ha dunque provveduto a rigettare il ricorso.

comunione beni

La comunione dei beni  Fonti e caratteri tipici della comunione dei beni. Uso e gestione del bene comune e scioglimento della comunione

Definizione di comunione

La comunione indica il fenomeno della contitolarità dei diritti, che ricorre quando più soggetti sono titolari di un unico diritto sul bene. Sul piano normativo, la definizione generale dell’istituto è fornita dall’articolo 1100 c.c., secondo cui la comunione sussiste quando «la proprietà o altro diritto reale spetta in comune a più soggetti», riferendosi alle sole ipotesi di contitolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale di godimento su cosa altrui.

Dall’articolo 1100 c.c. si ricava che gli elementi caratterizzanti della comunione sono:

  • l’unicità del bene comune. Il diritto di ciascun partecipante investe l’intera cosa comune. Si parla, quindi, di comunione pro indiviso (comunione su un bene indiviso), nella quale la cosa comune appartiene per intero a tutti i partecipanti;
  • la presenza di almeno due soggetti titolari di altrettanti diritti di eguale contenuto sul bene.

Il compartecipante può, però, anche rinunciare al suo diritto di comproprietà e, con la rinuncia, viene meno anche l’obbligo di corrispondere le spese per mantenere in vita la cosa (articolo 1104 c.c.).

In merito alla rinuncia «abdicativa» di un partecipante alla comunione, la Cassazione ha stabilito che la stessa rinuncia “ha una funzione satisfattiva liberatoria: ne consegue che il rinunciante, con la dismissione del proprio diritto (reale), si libera delle obbligazioni propter rem che vanno a carico dei rimanenti partecipanti”.

Il codice civile, agli articoli 1100 e seguenti, disciplina l’istituto della comunione ma nulla prevede in ordine all’oggetto di tale diritto; il primo comma dell’articolo 1103 c.c., però, stabilisce che «ciascun partecipante può disporre del suo diritto», avvalorando la tesi secondo la quale l’oggetto del diritto dei partecipanti alla comunione è il bene comune nella sua integralità e non una quota.

La quota, quindi, non è l’oggetto del diritto ma solo la misura di partecipazione agli ob-blighi e del diritto di disporre del bene attraverso la vendita, ma sicuramente non è la misura del potere di disporre del bene stesso.

Scopo della comunione è il mero godimento del bene (articolo 2248 c.c.) ed è questo elemento che la distingue dalla società in cui più persone si uniscono per l’esercizio in comune di un’attività economica al fine di ricavarne un lucro o guadagno (utile).

Le fonti della comunione

Avendo riguardo alla genesi della comunione, si possono individuare tre fonti principali:

  • il titolo;
  • la legge;
  • gli usi.

Il titolo

Il titolo è il contratto che esprime la volontà di più persone interes-sate a costituire una comunione che, proprio per tale motivo, è definita volontaria. Il titolo, oltre alla volontà di costituire e mantenere una comunione, può anche contenere le norme regolatrici della comunione stessa, norme che, in genere, prevalgono su quelle previste dalla legge (articolo 1100 c.c.) e che sono talvolta riportate negli atti di acquisto od in apposite convenzioni.

Il regolamento della comunione (articolo 1106 c.c.), che può essere approvato a maggioranza dai comunisti, può integrare od attuare le norme contenute nel titolo, ma non può sostituirsi ad esse.

La legge

Si ha comunione legale quando, in assenza di un titolo originario, la comunione trova il suo fondamento nella legge o perché trattasi di figure di comunioni speciali, come ad esempio la comunione forzosa del muro altrui (articolo 875 c.c.), espressamente previste dal diritto, ovvero di fattispecie quali, ad esempio, la comunione ereditaria che, per il solo fatto di verificarsi, vengono disciplinate ex lege dagli articoli 1101-1116 c.c.

Gli usi

Gli usi o consuetudini sono regole non scritte osservate dalla generalità dei consociati in modo costante ed uniforme per un congruo periodo di tempo, col convincimento che si tratti di norme giuridicamente vincolanti. Relativamente alla comunione essi rilevano nelle comunioni tacite familiari e nelle comunioni familiari montane. Per le prime (che ricorrono quando più membri della stessa famiglia, che vivono in comunanza di tetto e di mensa, cooperano, ciascuno con la propria attività, allo svolgimento di un’attività ricavandone i mezzi per il proprio sostentamento) bisogna far riferimento all’ultimo comma dell’articolo 230 bis c.c. che ammette il ricorso agli usi solo qualora non contrastino con le norme sull’impresa familiare. Per le seconde si fa riferimento all’articolo 10 della legge 1102/1971, che pone però gli usi, come fonte primaria, dopo gli statuti. Trattasi di istituti che trovano, ormai, scarsa applicazione.

Caratteri tipici della comunione

Il codice vigente delinea la comunione come istituto fondato sul concetto di contitolarità del diritto di proprietà o di un altro diritto reale.

Il primo carattere distintivo di tale istituto è la quota (articolo 1101 c.c., secondo comma), che rappresenta una parte ideale ed astratta dell’oggetto della comunione.

Nei rapporti interni, la quota rappresenta la misura del concorso «tanto nei vantaggi quanto nei pesi della comunione»; nei rapporti esterni, la quota rappresenta, invece, il limite entro il quale il singolo può disporre del diritto (articolo 1103 c.c., primo comma).

La comunione, come istituto generale, ha carattere transitorio ed il codice stesso pre-vede che ciascun comunista ha la facoltà di chiederne lo scioglimento in qualsiasi mo-mento. Anzi, l’obbligo di rimanere nella comunione, derivante da esplicito patto in tal senso, è valido per non oltre dieci anni (articolo 1111 c.c., secondo comma).

L’assoluta mancanza di autonomia patrimoniale dei beni che costituiscono la comunione comporta tre effetti:

  • ogni comunista può disporre liberamente dei beni comuni;
  • i creditori personali del comunista possono rivalersi sui beni comuni, ovviamente nei limiti della quota del rispettivo debitore;
  • manca la previsione del beneficio della preventiva escussione dei beni comuni a fa-vore dei creditori della comunione.

Uso, gestione e disposizione del bene comune

Il comma 2 dell’articolo 1101 c.c. dispone che ciascun comunista concorre nei vantaggi e nei pesi della comunione in proporzione alla quota di cui è titolare.

A sua volta, l’articolo 1102 c.c. stabilisce che ciascun comunista può servirsi della cosa comune.

Dal combinato disposto degli articoli 1101 e 1102 c.c. si ricava che:

  • il singolo partecipante può usare e godere della cosa comune. In particolare, cia-scun comunista può godere della cosa comune in forma diretta, servendosi direttamente del bene comune, o in forma indiretta, attraverso l’acquisto dei frutti naturali e civili prodotti dal bene;
  • in mancanza di una diversa volontà dei comunisti, l’uso e il godimento della cosa da parte di ciascuno è proporzionale alla propria quota, in quanto ciascun comunista deve rispettare il diritto degli altri e non può goderne oltre quello proprio.

L’uso della cosa comune incontra, però, alcuni limiti:

  • nel servirsi della cosa comune, il compartecipe non può alterarne la destinazione economica originaria, né impedire agli altri partecipanti di farne uso secondo il loro diritto (articolo 1102, comma 1, c.c.). Ad esempio, il proprietario che occupa stabilmente una parte del cortile comune di un edificio mediante il parcheggio della sua autovettura, impedisce agli altri condomini di utilizzare lo spazio comune ostacolando, così, il libero e pacifico godimento degli altri comproprietari;
  • il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso.

Dette modalità di uso, però, non assumono carattere perentorio, ben potendosi stabilire delle deroghe: ad esempio, un uso basato su criteri di divisione spaziale (quale potrebbe essere la divisione di un giardino comune che viene frazionato in tante zone quanti sono i proprietari) o temporale (si pensi all’uso turnario dei posti auto). Il bene comune può essere addirittura ceduto in uso ad altri, nel qual caso, realizzandosi la costituzione di un diritto reale di godimento, è necessario il consenso unanime dei comproprietari (art. 1108 c.c., terzo comma).

Lo stesso dicasi per le attività di gestione fondate sul principio secondo il quale le deliberazioni approvate dalla maggioranza vincolano anche gli altri (articolo 1105 c.c., secondo comma), nel caso di decisioni su argomenti ricadenti nella sfera dell’ordinaria amministrazione. In tutti gli altri casi di straordinaria amministrazione, la maggioranza prescritta è quella dei due terzi del valore complessivo della cosa comune (Art. 1108 c.c., I co.).

Le iniziative individuali per la gestione della cosa comune non sono, quindi, consentite al di fuori di quelle necessarie per la conservazione od il miglior uso della stessa.

Per gli atti di disposizione del bene comune (vendita, donazione ecc.), l’articolo 1108 c.c., terzo comma, prevede la necessità del consenso unanime dei comunisti, quando si ha riguardo alla totalità del bene; mentre il singolo partecipante può disporre dello stesso diritto solo nei limiti della propria quota. Ciò vale sia per gli atti di alienazione o di rinuncia, sia per gli atti di costituzione di diritti reali limitati sulla cosa comune.

Lo scioglimento della comunione

La comunione si scioglie con la divisione, che può avvenire con una spartizione mate-riale delle cose che compongono il bene comune, ove sia possibile, oppure con la ripartizione della somma ricavata dalla vendita della cosa stessa.

Se i comunisti sono più di due, è ammesso uno stralcio di quota per chi vuole trarsi fuori dalla comunione.

In tema di scioglimento giova a questo punto ricordare la disciplina contenuta nel co-dice civile agli articoli 1111 e 1112 c.c.

La prima iniziativa individuale che incide sui diritti dei comunisti è la richiesta di sciogli-mento della comunione, che ognuno dei partecipanti può sempre proporre, ricorrendo, eventualmente, all’autorità giudiziaria in caso di opposizione degli altri contitolari.

Alla divisione della comunione si applicano, per espresso rinvio fattone dall’articolo 1116 c.c., le disposizioni sulla divisione ereditaria contenute negli articoli 713 e seguenti del codice civile. Anche in tale ipotesi, è da sottolineare, vi è un equo contempera-mento degli interessi (comuni ed individuali) operato dall’articolo 1111 c.c. primo comma, che affida all’autorità giudiziaria la facoltà di evitare lo scioglimento immediato della comunione nei casi in cui esso possa recare danno agli altri comunisti, stabilendo, così, una dilazione dello scioglimento stesso entro il limite dei cinque anni.

L’autorità giudiziaria può, addirittura, considerare irricevibile la richiesta di scioglimento nel caso in cui il particolare uso cui è destinato il bene comune non lo consenta (articolo 1112 c.c.). Ciò vale in particolar modo nel caso in cui si tratti di beni condominiali dove il legislatore ha voluto, imponendo tale divieto, salvaguardare il fondamentale aspetto di accessorietà o sussidiarietà del bene comune rispetto alla piena proprietà individuale cui è asservito.

Particolare cenno deve farsi a proposito della forma che deve assumere l’atto con cui è deciso lo scioglimento della comunione. Se l’atto scritto — a norma dell’articolo 1350 c.c. n. 11 — è necessario per lo scioglimento della comunione su beni immobili, esso non occorre, invece, per la semplice attribuzione di un godimento separato del bene comune, ferma rimanendo la comproprietà fra gli aventi diritto. Per quest’ultima ipotesi, è perfettamente valida anche una semplice convenzione verbale (Cass. 1428/1984).

Nel caso di proprietà pro indiviso di un edificio urbano, l’immobile può ritenersi comodamente divisibile, ancorché la sua divisione in natura comporti la costituzione di un condominio implicante di per sé la persistenza della comproprietà sulle parti comuni dello stabile.

Al fine di assicurare la piena imparzialità in sede di formazione delle porzioni, l’articolo 729 c.c., nel caso di quote uguali, prevede l’assegnazione mediante estrazione a sorte. Nel caso, invece, le porzioni siano disuguali, si procederà mediante attribuzione diretta all’avente diritto, con eventuale pagamento in denaro di conguagli. Il sistema dell’attribuzione diretta costituisce pur sempre eccezione alla regola, possibile, ad esempio, anche quando per effetto del sorteggio potrebbero determinarsi conseguenze (da identificare e precisare dal giudice di merito), tali da portare ad un frazionamento gravemente antieconomico dei beni comuni (Cass. 834/1986 e 16082/2007; Corte Appello Napoli, Sez. 2, 4167/2008).

assicurazione avvocato

Avvocato coperto dall’assicurazione anche se non ha risarcito il cliente La Cassazione afferma che l'obbligo di tenere indenne l’assicurato da quanto questi deve pagare al danneggiato, sorge in dipendenza della responsabilità civile, già al tempo dell’avveramento del rischio dedotto in contratto da indennizzare

Eccezione di non indennizzabilità

Il caso sottoposto all’attenzione della Corte di Cassazione prende avvio dalla contestazione, formulata dalla compagnia assicurativa in sede di legittimità, in relazione alla ritenuta violazione/falsa applicazione dell’art. 1917 c.c. da parte della sentenza impugnata con cui è stata rigettata l’eccezione di non indennizzabilità del sinistro denunciato dall’assicurato.

Nella specie, la compagnia assicurativa ha contestato il fatto che, al momento dell’esercizio dell’azione giudiziaria nei confronti dell’assicurazione, l’assicurato, un avvocato, non aveva ancora risarcito i danni cagionati ai terzi in ragione della sua responsabilità civile derivante da errore professionale.

Rispetto a tali circostanze, l’assicuratore aveva rilevato che, il pagamento dell’indennizzo direttamente all’assicurato, avrebbe potuto determinare un suo ingiustificato arricchimento qualora i terzi non si fossero successivamente attivati per ottenere il risarcimento del danno subito.

Obbligo di tenere indenne l’assicurato

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 13897-2024, ha rigettato il ricorso proposto e ha condannato la società assicurativa al pagamento delle spese processuali.

Per quanto, in particolare, attiene alla contestazione sopra descritta, la Corte ha ritenuto il motivo non fondato, rilevando come non fosse censurabile l’accertamento compiuto dal Giudice di merito in relazione all’inadempimento dell’assicuratore, anche in ragione del pignoramento attivato dai clienti dell’assicurato nei suoi confronti a causa del mancato pagamento di quanto loro spettante, nonché al mancato adempimento del corrispondente obbligo dell’assicuratore di attivarsi per la liquidazione dell’indennizzo.

Sul punto la Corte ha richiamato il principio, elaborato dalla giurisprudenza formatasi sull’argomento, in base al quale “l’obbligo dell’assicuratore di tenere indenne il proprio assicurato dalla responsabilità civile, regolato dall’art. 1917 cod. civ., sorge nel momento in cui l’assicurato causi un danno a terzi, costituendo tale evento l’oggetto del rischio assicurato”.

Ne consegue, ha proseguito la Corte, che sulla base del suddetto principio “la liquidità del debito da risarcire al terzo danneggiato non è (…) condizione necessaria della costituzione in mora dell’assicuratore”.

Pertanto l’inadempimento dell’assicuratore si configura allorquando lo stesso abbia rifiutato il pagamento senza attivarsi per accertare la sussistenza o meno di un fatto colposo addebitabile all’assicurato; tale accertamento compete al giudice di merito e viene compiuto con riferimento al momento in cui l’assicuratore ha ricevuto la domanda di indennizzo.

In definitiva, la Corte ha affermato che “l’obbligo di tenere indenne l’assicurato di quanto questi deve pagare al terzo non può dirsi sussistere solo in riferimento al tempo in cui diviene liquido ed esigibile il credito del terzo danneggiato, laddove il fatto dannoso del responsabile civile non sia seriamente contestabile e l’assicuratore non si sia attivato dopo la comunicazione di sinistro ricevuta dall’assicurato, in quanto esso sorge in dipendenza della responsabilità civile, dedotta nel contratto di assicurazione, già al tempo dell’avveramento del rischio da indennizzare”.

Allegati

violenza sessuale di gruppo

Violenza sessuale di gruppo Il reato di violenza sessuale di gruppo ex art. 609-octies c.p. è punito con la reclusione da 8 a 14 anni

Violenza sessuale di gruppo: fondamento e nozione

La crescente frequenza dei fatti di stupro collettivo ha indotto il legislatore del ’96 ad elevare ad autonoma figura criminosa la violenza sessuale di gruppo. Essa consiste nella partecipazione, da parte di più persone riunite, ad atti di violenza sessuale di cui all’art. 609bis.

In giurisprudenza si è precisato che il «gruppo» rilevante ai fini della fattispecie in esame può essere composto anche solo da due persone (Cass. 7-8-2001, n. 30826).

La norma fa riferimento alla sola commissione in gruppo degli atti di violenza sessuale previsti dall’art. 609bis e non ricomprende le ulteriori fattispecie previste dagli artt. 609quater, comma 1, n. 1) e n. 2) e 609quinquies; resta comunque possibile la contestazione della circostanza aggravante di cui all’art. 112 c.p.

Natura giuridica del reato di violenza sessuale di gruppo

Quanto alla natura giuridica, si tratta di un reato necessariamente plurisoggettivo in quanto ai fini della sua sussistenza è richiesta una pluralità di agenti; in particolare, si tratta di un cd. reato plurisoggettivo proprio, in quanto tutti i partecipi sono assoggettati a sanzione penale.

Il delitto di violenza sessuale di gruppo si distingue dal concorso di persone nel delitto di violenza sessuale, perché non è sufficiente, ai fini della sua configurabilità, l’accordo della volontà dei compartecipi, ma è necessaria la contemporanea ed effettiva presenza dei predetti nel luogo e nel momento della consumazione del reato, in un rapporto causale inequivocabile (Cass. 22-3-2023, n. 12004). Inoltre, quanto all’ammissibilità o meno del concorso eventuale di terzi nel reato necessariamente plurisoggettivo, deve ritenersi che la partecipazione eventuale nel reato di violenza sessuale di gruppo si potrà configurare da parte di soggetti diversi dai concorrenti necessari: si pensi, ad esempio, al caso del soggetto che istiga alla commissione della violenza sessuale la pluralità di soggetti che successivamente, riuniti e simultaneamente presenti sul luogo del delitto, commetteranno materialmente il reato.

Elemento oggettivo

È costituito dalla commissione di atti di violenza sessuale di gruppo.

Ai fini della configurabilità del reato di cui si tratta, non è necessaria l’estrinsecazione da parte di tutti i componenti dei comportamenti di cui all’art. 609bis c.p., atteso che devesi tenere conto della forza intimidatoria che la presenza del gruppo esercita sulla vittima dell’abuso sessuale (Cass. 13-5-2005, n. 17843).

Nel medesimo senso, più di recente, la Corte ha sostenuto che ricorre la fattispecie di violenza sessuale di gruppo, pur quando non tutti i componenti del gruppo compiano atti di violenza sessuale, essendo sufficiente che dal compartecipe sia comunque fornito un contributo causale alla commissione del reato, anche nel senso del rafforzamento della volontà criminosa dell’autore dei comportamenti tipici di cui all’art. 609bis c.p. (Cass. 25-3-2010, n. 11560). Nella medesima occasione, la Corte ha, altresì, sostenuto che l’art. 609octies c.p., nell’individuazione della condotta punibile, si riferisce espressamente a tutti gli «atti di violenza sessuale di cui all’art. 609bis c.p.» e quindi anche alle ipotesi previste nel comma 2 di detta norma. Inoltre, si è affermato che risponde del reato di violenza sessuale di gruppo chi, pur non avendo compiuto atti di minaccia o di violenza, dia un contributo causale alla commissione del fatto, anche solo partecipando ad un segmento dell’azione delittuosa (Cass. 20-4-2010, n. 15089). In sostanza, la «partecipazione» al reato di violenza sessuale di gruppo non è limitata al compimento, da parte del singolo, di un’attività tipica di violenza sessuale, ma ricomprende qualsiasi condotta partecipativa, tenuta in una situazione di effettiva presenza non da mero «spettatore», sia pure compiacente, sul luogo ed al momento del reato, che apporti un reale contributo materiale o morale all’azione collettiva (Cass. 22-4-2022, n. 15659).

Elemento soggettivo

Il reato di violenza sessuale di gruppo è caratterizzato dal dolo generico consistente nella volontà dell’atto sessuale, con la coscienza di tutti gli elementi essenziali del fatto. L’abbassamento delle difese da parte della vittima, che, temendo per la propria vita o incolumità fisica, finisce per accedere senza apparenti reazioni di contrasto alle violenze a suo danno, non vale in alcun modo ad elidere la violenza o ad alimentare dubbi circa la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato in capo ai rei.

Circostanze aggravanti ed attenuanti

I commi 3 e 4 della disposizione in esame sono dedicati alle figure circostanziali del delitto in esame. In particolare, ai sensi del comma 3: «si applicano le circostanze aggravanti previste dall’art. 609ter».

Per effetto dei correttivi alla disposizione citata, dovuti al cd. «Codice rosso» (L. 69/2019), le aggravanti previste dall’art. 609ter per il delitto di violenza sessuale, in luogo di determinare un generico aumento di pena (come nella formulazione precedente, configurando una ipotesi di aggravante ad efficacia comune, dunque con incremento sanzionatorio fino ad un terzo della pena-base) si rendono applicabili direttamente e per rinvio, in precetto e sanzione.

Quanto alle attenuanti, ai sensi del comma 4 della disposizione in commento: «La pena è diminuita per il partecipante la cui opera abbia avuto minima importanza nella preparazione o nella esecuzione del reato. La pena è altresì diminuita per chi sia stato determinato a commettere il reato quando concorrono le condizioni stabilite dai numeri 3) e 4) del comma 1 e dal comma 3 dell’art. 112».

La circostanza attenuante del contributo di minima importanza di cui all’art. 609octies, comma 4, c.p. può essere riconosciuta solo quando l’apporto del concorrente, tanto nella fase preparatoria quanto in quella esecutiva, sia stato di minima, lievissima e marginale efficacia eziologica, e, quindi, del tutto trascurabile nell’economia generale della condotta criminosa, sicché non è sufficiente, per la sua configurabilità, la minore efficienza causale del correo rispetto a quella degli altri, ma è necessaria la «minima» efficienza causale dell’attività compiuta (Cass. 2-8-2017, n. 38616). Si riconosce, altresì, un disvalore attenuato nel caso in cui il soggetto sia stato determinato a commettere il reato, alle condizioni stabilite nelle norme che si richiamano, alla cui lettera si rinvia.

Secondo l’interpretazione costante della giurisprudenza, deve escludersi l’applicabilità al delitto in esame dell’attenuante di cui all’ultimo comma dell’art. 609bis c.p. (ipotesi di minore gravità), in quanto prevista soltanto per la violenza sessuale individuale. La questione ha formato oggetto anche di un intervento della Corte Costituzionale la quale, con la sentenza 26-7-2005, n. 325, ha ritenuto che l’omessa previsione dell’attenuante dei «casi di minore gravità» per la violenza sessuale di gruppo non può essere ritenuta espressione di una scelta del legislatore palesemente irragionevole, arbitraria o ingiustificata, contrastante con l’art. 3 Cost. in quanto la violenza sessuale di gruppo, proprio a causa della presenza di più persone riunite, cagiona una lesione particolarmente grave e traumatica della sfera di autodeterminazione della libertà sessuale della vittima e ciò la differenzia, anche sul terreno qualitativo, dagli atti di violenza sessuale posti in essere da una sola persona, tanto da giustificare la maggiore severità del relativo trattamento sanzionatorio.

Si pone, inoltre, il più generale problema della applicabilità o meno ai concorrenti necessari nel reato di violenza sessuale di gruppo, delle circostanze aggravanti ed attenuanti relative al concorso eventuale (artt. 112 e 114 c.p.); il legislatore mostra di avere, in linea teorica, aderito all’indirizzo giurisprudenziale che ne sostiene l’inapplicabilità: solo così si spiega il richiamo della attenuante della partecipazione di minima importanza (che sarebbe stato sovrabbondante, aderendo alle tesi della generale applicabilità).

Pena e procedibilità

Per effetto dei correttivi dovuti alla suddetta L. 69/2019, la pena è la reclusione da otto a quattordici anni (ante riforma era la reclusione da sei a dodici anni) salvo gli aumenti o le diminuzioni in presenza delle circostanze di cui ai commi 3 e 4.

Il reato è procedibile d’ufficio e la competenza è del Tribunale collegiale. Le misure cautelari personali sono applicabili; il fermo è consentito e l’arresto in flagranza è obbligatorio.