spese condominiali

Spese condominiali a carico del proprietario Spese condominiali: il decreto ingiuntivo per recuperarle va azionato nei confronti del proprietario non dell’assegnatario

Spese condominiali

L’amministratore di condominio deve riscuotere dai condomini le spese condominiali. La riscossione nell’interesse comune però deve avvenire nei confronti titolari dei diritti reali delle singole unità condominiali. Lo ha stabilito il Tribunale di Roma nella sentenza n. 13.632 del 2 settembre 2024, dopo aver revocato il decreto ingiuntivo emesso nei confronti della ex moglie a cui era stato assegnato l’immobile condominiale del coniuge in sede di divorzio. Non è la donna infatti la legittimata passiva dell’azione, ma l’ex marito, nella sua qualità di proprietario dell’appartamento.

Recupero spese: l’assegnataria non è legittima passiva

Un Condominio ottiene un decreto ingiuntivo per il pagamento di alcuni oneri condominiali.  Al decreto si oppone l’ingiunta, contestando la propria legittimazione passiva dell’azione. Ella  occupa infatti l’unità condominiale perché le è stata assegnata in sede di separazione. Il Condominio chiede quindi la chiamata in causa del proprietario effettivo per sentirlo condannare al pagamento degli oneri condominiali richiesti nel decreto ingiuntivo. Il Giudice accoglie la domanda e condanna il proprietario a pagare le spese, con conseguente revoca del decreto ingiuntivo emesso nei confronti della moglie.

La decisione viene impugnata e nel frattempo i coniugi divorziano e il Tribunale competente assegna la casa alla donna.

La ex moglie a questo punto, in sede di appello fa presente  che “l’impossibilità di azionare il credito direttamente in danno dellassegnatario del cespite immobiliare deriva dal principio di diritto per cui la sentenza di separazione e/o divorzio fa stato solo ed unicamente tra le parti e non nei confronti dei terzi, ivi compreso il condominio. Il coniuge assegnatario, non proprietario, è infatti titolare di un atipico diritto personale di […] godimento e non di un vero diritto reale che avrebbe potuto semmai giustificare lazione diretta in proprio danno. Lutilizzo del cespite immobiliare da parte del coniuge assegnatario deve essere, quindi, paragonato per estensione analogica a quello del conduttore.” 

Spese condominiali a carico dei titolari dei diritti reali

In sentenza il Tribunale, nel mettere ordine tra le varie tesi dei contendenti, chiarisce che “l’amministratore di condominio ha diritto di riscuotere i contributi per la manutenzione e per lesercizio delle parti e dei servizi comuni esclusivamente da ciascun condomino, e cioè dalleffettivo proprietario o titolare di diritto reale sulla singola unità immobiliare, sicché è esclusa un’azione diretta nei confronti del coniuge o del convivente assegnatario dellunità immobiliare adibita a casa familiare, configurandosi il diritto al godimento della casa familiare come diritto personale di godimento sui generis.” 

Il Tribunale richiama infatti alcune decisioni della Cassazione alla luce delle quali ricorda che il legittimato passivo dell’azione di recupero delle spese condominiali è il proprietario, non chi appare come tale. Corretta la distinzione tra spese straordinarie a carico del proprietario e spese dovute l coniuge assegnatario. Vero però che l’assegnazione dell’immobile al coniuge costituisce un diritto personale di godimento e non un diritto reale.

Tal diritto personale di godimento quindi “non rileva ai fini della pretesa dell’amministratore condominiale – ai sensi degli artt. 1123, 1130 n. 3 c.c. e 63, comma 1, disp. att. c.c. – volta a riscuotere i contributi e le spese per la manutenzione delle cose comuni ed i servizi nell’interesse comune, restando esclusa un’azione diretta nei confronti dell’assegnatario della singola unità immobiliare.”

 

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indennità di discontinuità

Indennità di discontinuità L'indennità di discontinuità è un sostegno economico erogato dall'INPS a favore dei lavoratori dello spettacolo. Online fino al 30 aprile 2025 il servizio per la domanda IDIS

Indennità di discontinuità: cos’é

L’indennità di discontinuità è un sostegno economico a favore dei lavoratori del settore dello spettacolo erogato dall’INPS. 

L’IDIS è riconosciuta ai lavoratori iscritti al Fondo Pensione Lavoratori nello Spettacolo:

  • autonomi, anche con rapporti di collaborazione coordinata e continuativa;
  • subordinati a tempo determinato (che prestano attività artistica o tecnica connessa con la produzione e la realizzazione di spettacolo);
  • subordinati a tempo determinato (operatori di cabine di sale cinematografiche; impiegati e tecnici dipendenti; maschere, custodi, guardarobieri, autisti, lavoratori dipendenti da imprese esercenti il noleggio e la distribuzione dei film; ecc.);
  • intermittenti a tempo indeterminato, non titolari della indennità di disponibilità.

Come fare domanda per l’IDIS

Dal 15 gennaio 2025 è possibile presentare la domanda di indennità di discontinuità in favore dei lavoratori dello spettacolo. L’istanza va presentata esclusivamente in via telematica utilizzando i canali messi a disposizione per i cittadini sul portale INPS, tramite il servizio di Contact Center integrato, telefonando al numero verde 803 164 da rete fissa (gratuitamente) oppure al numero 06 164164 da rete mobile (a pagamento, in base alla tariffa applicata dai diversi gestori). È possibile presentare domanda anche attraverso gli Istituti di Patronato.

Vai al servizio sul portale INPS

Il termine per presentare domanda è stato prorogato fino al 30 aprile 2025, alla luce delle modifiche introdotte dalla legge di bilancio 2025 al D.Lgs. n. 175/2023.

Le novità della legge di bilancio 2025

Con il messaggio 15 gennaio 2025, n. 149 l’INPS ha fornito ulteriori precisazioni sull’Indennità di Discontinuità (IDIS), alla luce delle modifiche introdotte dalla Legge di bilancio al decreto legislativo 30 novembre 2023 n. 175.

Oltre al termine ultimo di presentazione della domanda, la Legge di bilancio 2025, infatti, ha introdotto modifiche migliorative ai requisiti per l’indennità, innalzando il tetto reddituale imponibile fino a 30mila euro e riducendo a 51 il numero delle giornate di contribuzione accreditate al Fondo Pensioni per i Lavoratori dello Spettacolo (FPLS).

modello red

Modello RED: cos’è, a cosa serve, quando si presenta Guida al modello RED: che cos’è, quali sono i soggetti tenuti a presentarlo ed entro quando bisogna inviare il RED 2024

Che cos’è il modello RED

Il modello RED è il documento telematico che i percettori di pensione devono compilare per dichiarare quei redditi che risultano rilevanti ai fini del riconoscimento di alcune prestazioni economiche.

Vi sono, infatti, alcune prestazioni assistenziali previste dalla legge – come la maggiorazione sociale o l’integrazione del minimo della pensione – per il cui riconoscimento devono ricorrere determinati requisiti reddituali (c.d. prestazioni collegate al reddito).

Perciò, l’Inps, cioè l’ente erogatore di tali prestazioni, deve essere messo in condizioni di conoscere i redditi percepiti dal titolare di trattamento pensionistico, per valutare correttamente se questi abbia diritto a tali ulteriori prestazioni.

Quali sono i pensionati che devono presentare il modello RED?

Con il modello RED, quindi, vengono comunicati tutti quei redditi che non vengono dichiarati con le ordinarie comunicazioni annuali.

In particolare, devono compilare il modello RED:

  • i pensionati che non sono tenuti ad inviare all’Agenzia delle Entrate la dichiarazione dei redditi con modello 730 o con modello Redditi PF e che siano percettori di redditi ulteriori alla pensione (es. redditi immobiliari);
  • i pensionati che abbiano presentato la dichiarazione dei redditi ma che non erano tenuti a indicarvi determinati redditi, ulteriori alla pensione (es. interessi bancari), che invece influiscono sul riconoscimento o meno delle prestazioni economiche erogate dall’Inps;
  • i pensionati che percepiscono redditi che vanno dichiarati in modo diverso all’Agenzia delle Entrate (es. redditi da lavoro autonomo: al riguardo, vedi il nostro approfondimento sul Divieto di cumulo pensione con redditi da lavoro autonomo);
  • sono, inoltre, tenuti alla compilazione del modello RED i pensionati che hanno il coniuge o un altro familiare percettori di redditi che influiscono sulla determinazione del diritto a prestazioni erogate dall’Inps.

Chi non deve inviare il Modello Red

Di converso, non sono tenuti all’invio del modello RED i pensionati che hanno inviato all’Agenzia delle Entrate la dichiarazione dei redditi (o che non sono tenuti all’invio della stessa) e che non percepiscono ulteriori redditi, oltre a quelli dichiarati.

Come si presenta il modello RED 2024

Il modello RED si può presentare rivolgendosi a un CAF autorizzato, dove si potrà ricevere l’opportuna assistenza, oppure collegandosi in modo autonomo sul sito www.inps.it, autenticandosi con Spid o Carta Nazionale dei Servizi.

Per chi sceglie di inviare da sé il modulo, da quest’anno è possibile fare affidamento sul modello RED precompilato, che prende il posto del modello RED semplificato. In sostanza, si tratta di una funzione molto utile che permette di completare l’inserimento dei propri dati reddituali semplicemente confermando, integrando o rettificando i dati precompilati.

Scadenza modello RED: quando si deve fare il Red 2024

L’Inps ha già comunicato, con il messaggio n. 3301 dello scorso 4 ottobre, che la scadenza per il Modello RED 2024, relativo ai redditi percepiti nel 2023, è fissata al 28 febbraio 2025.

Il mancato invio della dichiarazione, ove dovuta, può portare alla sospensione o revoca della prestazione collegata al reddito da parte dell’Inps, a seguito di successivi controlli.

Ai fini della dichiarazione reddituale, l’INPS ha messo a disposizione dal 23 dicembre 2024, la videoguida personalizzata, per facilitare i pensionati (circa 700mila) tenuti a inviare il modello Red, utilizzando comodamente da casa il RED Precompilato entro la scadenza del 28 febbraio 2025.

La video guida, oltre a ricordare la scadenza per l’invio, le diverse modalità di trasmissione della dichiarazione per il 2022, le modalità per gli espatriati prima e dopo il 2022, permette anche di verificare – tramite il servizio Consulente digitale delle pensioni – l’eventuale diritto a ulteriori prestazioni.

cessione del quinto

Cessione del quinto: la procedura INPS L'istituto ha implementato la procedura telematica "Quote Quinto" per il trasferimento sulle pensioni delle cessioni del quinto dello stipendio

Procedura “Quote Quinto”

Cessione del quinto, implementata la procedura telematica da parte dell’Inps.

“L’articolo 43, d.p.r. 5 gennaio 1950, n. 180 disciplina il trasferimento sulla pensione delle cessioni del quinto dallo stipendio. In caso di pensionamento dell’interessato prima dell’estinzione del prestito, la cessione dallo stipendio viene trasferita in automatico sulla pensione” spiega in una nota l’istituto.

Con il messaggio 13 gennaio 2023, n. 244, l’INPS ha illustrato le nuove linee interpretative, che hanno consentito il superamento dei criteri adottati per la gestione amministrativa delle traslazioni su pensione delle cessioni stipendiali.

L’operatività delle nuove linee interpretative è stata, quindi, demandata al compimento del progetto di reingegnerizzazione della procedura dedicata: “Quote Quinto”.

Il progfetto di reingegnerizzazione di Quote Quinto

Con il messaggio 9 agosto 2024, n. 2830, l’Istituto comunica che il progetto di reingegnerizzazione della procedura “Quote Quinto” è stato completato, consentendo la messa a regime della gestione unificata dei piani di ammortamento delle cessioni stipendiali con quelli da pensione e la dismissione del vecchio applicativo, con contestuale trasferimento nella nuova procedura dei piani di ammortamento registrati nello stato “attivo” o “sospeso”.

Il messaggio tratta:

  • le traslazioni assoggettabili alla nuova procedura;
  • la notifica delle traslazioni stipendiali su pensione;
  • l’istruttoria e le dichiarazioni di benestare;
  • la gestione dei piani di ammortamento;
  • rapporti con le banche e gli intermediari finanziari.

Funzione automatica di controllo

Con il messaggio 10 gennaio 2025, n. 85 l’Istituto comunica, inoltre, che la procedura telematica “Quote Quinto” è stata implementata con una funzione automatica di controllo, destinata a bloccare i contratti di rinnovo di cessione nel caso in cui la relativa stipula sia antecedente al pagamento dei 2/5 delle rate pattuite nel contratto.

contratti di rinnovo di cessione notificati prima dell’attivazione della funzione di blocco automatico, che sono nella procedura “Quote Quinto” in stato “proposto”, sono oggetto di verifica amministrativa da parte delle strutture territoriali competenti dell’INPS.

diritto soggettivo

Diritto soggettivo: cos’è e la differenza con l’interesse legittimo Diritto soggettivo: situazione giuridica soggetti a cui l’ordinamento riconosce piena tutela, che si distingue dall’interesse legittimo

Cos’è il diritto soggettivo?

Il diritto soggettivo è il potere riconosciuto e tutelato dall’ordinamento giuridico, che permette a un soggetto di agire per soddisfare un proprio interesse, senza necessità di ulteriori approvazioni o autorizzazioni. Questo diritto attribuisce al titolare una posizione giuridica di supremazia rispetto a terzi, i quali sono obbligati a rispettarlo. Esempi comuni sono il diritto di proprietà, il diritto alla salute o il diritto alla libertà personale.

Normativa di riferimento

Il diritto soggettivo trova fondamento nella Costituzione italiana e nei principi generali del diritto civile. Alcuni riferimenti normativi sono:

  • Articolo 2 della Costituzione: riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come individuo che nelle formazioni sociali.
  • Articolo 832 del Codice Civile: disciplina il diritto di proprietà, uno dei diritti soggettivi patrimoniali più significativi.
  • Articolo 2043 del Codice Civile: tutela i diritti soggettivi contro i danni ingiusti, stabilendo l’obbligo di risarcimento.

Giurisprudenza sul diritto soggettivo

La giurisprudenza ha spesso contribuito a definire i confini e le caratteristiche del diritto soggettivo. La Corte di Cassazione e il Consiglio di Stato hanno chiarito che il diritto soggettivo si distingue per la sua piena ed esclusiva tutela giuridica, che può essere fatta valere sia in sede civile che amministrativa.

Un esempio significativo è rappresentato dalle controversie sul diritto alla salute (art. 32 Cost.), in cui i giudici hanno ribadito che tale diritto non può essere compresso da vincoli amministrativi se non nei limiti previsti dalla legge.

Differenza tra diritto soggettivo e interesse legittimo

Una distinzione fondamentale in diritto pubblico è quella tra diritto soggettivo e interesse legittimo.

Diritto soggettivo: rappresenta una posizione di vantaggio pienamente tutelata, che non dipende dall’intervento della Pubblica Amministrazione. Ad esempio, il diritto di proprietà consente al titolare di disporre del bene senza subordinare il suo esercizio ad alcun permesso.

Interesse legittimo: riguarda la posizione di chi, pur avendo un interesse concreto e attuale, deve fare affidamento sull’azione o sull’omissione della Pubblica Amministrazione per realizzarlo. Ad esempio, il richiedente di una concessione edilizia ha un interesse legittimo che si realizza solo con l’emanazione di un preciso provvedimento amministrativo.

Tipologie di interessi legittimi

Gli interessi legittimi sono pretensivi quando il titolare può pretendere che la Pubblica Amministrazione adotti un certo provvedimento per soddisfare il suo interesse. Sono invece oppositivi quando il titolare dell’interesse può opporsi all’adozione di un certo provvedimento da parte della pubblica Amministrazione che risulti pregiudizievole per la sua sfera giuridica.

Tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi

La tutela dei diritti soggettivi è di competenza del giudice ordinario, mentre quella degli interessi legittimi spetta generalmente al giudice amministrativo. Tuttavia, esistono situazioni, come nei casi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in cui questa autorità giudiziaria si occupa anche di controversie che riguardano i diritti soggettivi.

 

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carta dei principi

Avvocati tenuti ad un uso consapevole dell’AI Carta dei principi Avvocati AI: il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Milano realizza il progetto HOROS, per l’uso consapevole dell’AI

Carta dei principi degli avvocati nell’uso dell’AI

La “Carta dei principi per un uso consapevole di strumenti di intelligenza artificiale in ambito forense” ha visto la luce grazie all’Ordine degli Avvocati di Milano.

Nel documento il Presidente dell’Ordine che ha realizzato il progetto mette in evidenza le potenzialità dell’Intelligenza artificiale, ma anche i rischi collegati a un uso scorretto di questo strumento. L’obiettivo da perseguire consiste infatti nell’adattamento della professione forense alle nuove tecnologie senza intaccare i principi fondanti dell’attività forense.

Il titolo dato alla Carta dei principi è particolarmente significativo. “Horos”infatti vuole dire “confine” a significare i limiti che gli avvocati devono stabilire in relazione all’uso dell’intelligenza artificiale in ambito Forense.

Principi sull’uso della AI

La Carta si apre con l’esposizione dei principi generali che gli avvocati devono rispettare nell’utilizzo dell’intelligenza artificiale: legalità, correttezza, trasparenza e responsabilità nel rispetto della normativa interna e comunitaria.

L’Ai inoltre non deve ledere i diritti, ma soprattutto la fiducia dei clienti nei riguardi dell’avvocatura. Vengono poi dettagliati i principi della Carta a cui gli avvocati devono attenersi, ovvero:

  • dovere di correttezza;
  • trasparenza nell’uso dell’intelligenza artificiale;
  • centralità della decisione umana;
  • protezione dei dati e riservatezza;
  • Sicurezza informatica;
  • valutazione del rischio dell’utilizzo di sistemi AI in ambito forense;
  • diversità e sostenibilità ambientale;
  • formazione continua e Re-Skilling;
  • tutela del diritto d’autore.

Questa Carta vuole essere di ispirazione affinché altri Consigli dell’Ordine realizzino un proprio documento. La tecnologia ha un impatto notevole sulla giustizia da diversi anni. L’avvento dell’intelligenza artificiale rappresenta una vera e propria rivoluzione a cui i giuristi non possono restare indifferenti. Occorre però un uso consapevole e misurato di questo strumento potentissimo, che può rappresentare un valido aiuto nella tutela dei diritti.  L’intelligenza artificiale infatti non deve essere utilizzata solo per migliorare l’efficienza del lavoro dei giuristi, ma come uno strumento al servizio della giustizia.

 

 

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condanna alle spese

Condanna alle spese processuali: non è censurabile in Cassazione La condanna alle spese processuali da parte del giudice di merito rientra nel suo potere discrezionale e non è censurabile in Cassazione

Spese processuali

“La facoltà di disporre la compensazione tra le parti delle spese di lite rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà”. Ne segue che la pronuncia di condanna alle spese processuali, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione”. E’ quanto affermato dalla prima sezione civile della Cassazione con ordinanza n. 25940/2024.

La vicenda

Nella vicenda, il tribunale di Ancona aveva respinto la domanda di risarcimento danni all’immagine personale e professionale del ricorrente in conseguenza dell’ingiusto protesto di un assegno. In appello, anche la corte, svolta la premessa in ordine all’attuale abbandono giurisprudenziale della tesi del danno in re ipsa, così che la semplice illegittimità del protesto, pur costituendo un indizio in ordine all’esistenza di un danno alla reputazione, non è di per sé sufficiente per la liquidazione del danno, essendo necessarie la gravità della lesione e la non futilità del danno stesso, da provarsi anche mediante presunzioni semplici, rigettava il gravame.

La questione approdava quindi innanzi alla Cassazione.

Danno alla reputazione per illegittimità del protesto

La Cassazione coglie l’occasione per ribadire che “la semplice illegittimità del protesto, pur costituendo un indizio in ordine all’esistenza di un danno alla reputazione, non è, di per sé sufficiente per la liquidazione del danno, essendo necessarie la gravità della lesione e la non
futilità del danno, da provarsi anche mediante presunzioni semplici, fermo restando inoltre l’onere del danneggiato di allegare gli elementi di fatto dai quali possa desumersi l’esistenza e l’entità del pregiudizio (v., in senso conforme ai riferimenti dell’impugnata sentenza, Cass. Sez. 3n. 2226-12, Cass. Sez. 6-1 n. 21865-13, Cass. Sez. 1n. 23194-13)”. Si tratta invero, affermano gli Ermellini “di principio del tutto pacifico, peraltro sostenuto da rilievi comuni a distinte fattispecie, sia per le persone fisiche che per le persone giuridiche; principio declinato dal rilievo che ogni pregiudizio arrecato ai diritti immateriali della personalità costituzionalmente protetti, ivi compreso quello all’immagine e alla reputazione commerciale o professionale, non costituisce
un mero danno-evento, e cioè in re ipsa, ma deve essere oggetto di allegazione e prova, anche tramite presunzioni semplici (cfr. tra le più recenti Cass. Sez. 3 n. 19551-23, Cass. Sez. 3 n. 34026-22, Cass. Sez. 1 n. 11446-17; e v. pure, in altre fattispecie di danno del genere, Cass. Sez. 1 n. 479-23, Cass. Sez. 1 n. 26801-23)”.
Per cui, “l’epilogo indiscusso del percorso giurisprudenziale induce a rifiutare qualsivoglia automatismo valutativo” e l’insistere su un difforme criterio da parte del ricorrente, “senza argomenti idonei a un mutamento di indirizzo – integra la condizione di inammissibilità del mezzo ai sensi dell’art. 360-bis, n. 1, cod. proc. civ.”.

Condanna alle spese e decisione

Infine, in ordine al governo delle spese, la Corte non ritiene vi sia stata l’asserita violazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ., essendo, come sopra specificato, nella facoltà del giudice disporre o meno la compensazione tra le parti e la pronuncia di condanna alle spese non è censurabile in Cassazione (v. Cass. Sez. Un. 14989-05, cui adde, ex allis, Cass. Sez. 6-3 n. 11329-19).
Da qui l’inammissibilità del ricorso.

Allegati

giurista risponde

Azione di riduzione del prezzo L'acquirente può avvalersi dell'azione di riduzione del prezzo anche nei casi di mancanza di qualità promesse o essenziali?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi

 

L’azione di riduzione del prezzo va considerata esperibile da parte dell’acquirente anche nelle fattispecie contemplate dall’ art. 1497 c.c., relative alla mancanza delle qualità promesse ovvero delle qualità essenziali per l’uso a cui la cosa è destinata (Cass., sez. II, 16 febbraio 2024, n. 4245).

La doglianza dalla quale prende l’avvio la pronuncia oggetto di commento riguarda il motivo di ricorso con il quale l’acquirente denuncia la violazione degli artt. 1490, 1492, 1497 c.c. nonché dell’art. 112 c.p.c. nella misura in cui l’impugnata sentenza, una volta inquadrato il caso di specie nell’ambito dell’art. 1497 c.c. poiché il bene oggetto della compravendita non era idoneo all’uso, ha statuito che l’unico rimedio fosse la risoluzione e quindi disatteso le domande di diminuzione del prezzo e di risarcimento del danno proposte in via principale. La Corte di Appello territorialmente competente, infatti, aveva argomentato nel senso che fosse da confermare la decisione del primo giudice che aveva accolto la sola domanda di risoluzione del contratto. Secondo questa, la natura dei vizi del bene era di ostacolo all’accoglimento delle domande proposte in via principale ex art. 1492 c.c., poiché entrambe presuppongono che il vincolo contrattuale permanga. In presenza di vendita di bene affetto da vizi, l’art. 1492 c.c. consente al compratore di chiedere (ove non esclusa dagli usi per determinati vizi) la risoluzione del contratto oppure la riduzione del prezzo, ma solo ove i vizi accertati risultino contenuti nei limiti di usuale tollerabilità. Ove invece, come nel caso di specie, i vizi si traducano in mancanza delle qualità essenziali, il rimedio deve essere solo la risoluzione del contratto come previsto dall’art. 1497 c.c.

La Cassazione, tuttavia, ritiene che questo orientamento sia in contrasto con la direzione in cui si stanno muovendo dottrina e giurisprudenza maggioritarie. Ad avviso della Suprema Corte, invero, i rapporti tra rimedi in caso di vizi ex art. 1490 c.c. e quelli in caso di mancanza delle qualità promesse o essenziali contenuti nell’art. 1497 c.c., risentono ancora dell’idea secondo la quale la tutela giurisdizionale vincolata a previsioni di rimedi specifici. In conseguenza di ciò, il passaggio da un rimedio all’altro determinerebbe tendenzialmente un mutamento dell’oggetto del processo. Questa lettura appare da superare in favore di una concezione moderna e “sostanzialistica” del diritto di azione che ricostruisca l’azione giudiziaria come atipica. Un diritto processuale che assume per presupposto l’affermazione della titolarità di un diritto sostanziale riconosciuto dall’ordinamento e per finalità la richiesta di un provvedimento giurisdizionale diretto nel suo contenuto a soddisfare il bisogno specifico di tutela. Ma se l’azione deve guardare alla sostanza del diritto fatto valere allora ne discende logicamente l’ammissibilità di ogni meccanismo idoneo a raggiungere tale risultato. Così acquistano cittadinanza domande complesse o gradate o che si configurino quali richieste di provvedimenti non ancora tipizzati legalmente purché rispondenti allo specifico bisogno di tutela fatto valere.

Questo il collegamento col caso concreto all’esame della Seconda sezione. Fin dall’inizio del processo l’acquirente aveva manifestato l’ordine di priorità che riteneva soddisfare il suo bisogno di tutela, ponendo al primo posto l’interesse al mantenimento della proprietà sulla cosa acquisita attraverso lo scambio contrattuale e in posizione subordinata l’interesse ad avviare una vicenda risolutiva. D’altra parte, prosegue la Corte, è proprio l’art. 1497 c.c., il quale si limita a disporre che in mancanza di qualità essenziali sono applicabili le disposizioni generali sulla risoluzione per inadempimento, che non esclude logicamente un permanente interesse dell’attore al mantenimento in vita del rapporto contrattuale. Argomentando a contrario, ad avviso della pronuncia, si perverrebbe all’assurda conclusione per cui sarebbe il convenuto a delineare l’ordine dei rimedi.

Sono le formule letterali degli artt. 1490 e 1497 c.c. che, frutto di retaggi culturali passati, vanno calate nel dinamismo delle relazioni economiche e degli interessi ambientati nel clima moderno, liberando le direzioni del diritto sostanziale dagli eccessivi vincoli restrittivi codificati nelle disposizioni di legge. Questa lettura conferma quegli orientamenti giurisprudenziali che argomentano nel senso di ritenere la presenza di vizi e la mancanza di qualità assoggettate alla stessa disciplina.

 

(*Contributo in tema di “Azione di riduzione del prezzo”, a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

giudizio abbreviato

Giudizio abbreviato escluso per i delitti puniti con ergastolo Giudizio abbreviato: la Corte Costituzionale conferma la legittimità dell'art. 438, comma 1-bis del codice di procedura penale

Giudizio abbreviato e delitti puniti con l’ergastolo

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 2/2025, depositata il 17 gennaio 2025, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione all’art. 438, comma 1-bis, del codice di procedura penale. Tale norma prevede l’inammissibilità del giudizio abbreviato per i delitti puniti con l’ergastolo, confermando così la scelta del legislatore di escludere per questi reati la possibilità di accedere al rito premiale.

La normativa contestata

L’art. 438, comma 1-bis, c.p.p., introdotto con modifiche normative recenti, stabilisce che il giudizio abbreviato non può essere richiesto per i delitti per i quali è prevista la pena dell’ergastolo.

Questa disposizione, secondo la Corte di assise di Cassino rimettente, violerebbe i principi costituzionali di uguaglianza, ragionevolezza e diritto alla difesa, creando una disparità di trattamento rispetto ad altri imputati che possono accedere ai benefici del rito abbreviato.

Le questioni di legittimità sollevate

Nella specie, la Corte era stata chiamata a giudicare la responsabilità di un imputato per il reato di omicidio aggravato da motivi abietti e futili per il quale è prevista la pena dell’ergastolo. L’imputato aveva chiesto il rito abbreviato e il Gip aveva dichiarato la richiesta inammissibile atteso che il delitto rientrava, appunto, nella previsione di cui all’art. 438, comma 1-bis, c.p.p.

Ciò, secondo la corte rimettente contrasterebbe con gli artt. 3 e 27 Cost., accomunando fattispecie di reato punite con la pena dell’ergastolo con altre che, invece, come nel caso di specie, pervengono a tale pena soltanto in ragione della contestazione delle circostanze aggravanti.

La decisione della Corte Costituzionale

La Corte Costituzionale, respingendo le questioni di legittimità, ha affermato che l’art. 438, comma 1-bis, c.p.p. non viola i principi costituzionali invocati.

La Corte ha sottolineato che l’esclusione del rito abbreviato per i delitti puniti con l’ergastolo è una scelta discrezionale del legislatore, finalizzata a preservare la gravità del trattamento sanzionatorio per i reati più gravi e a garantire il pieno svolgimento del contraddittorio nelle fasi dibattimentali.

Secondo la Corte, inoltre, richiamando un precedente (cfr. sent. n. 163/1992), “l’esclusione del giudizio abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo risponde a criteri di ragionevolezza e proporzionalità, tenuto conto della particolare rilevanza sociale e morale di tali delitti, nonché della necessità di assicurare un’adeguata valutazione probatoria in sede dibattimentale.”

Per cui non vi è alcuna “ingiustificata disparità di trattamento rispetto agli altri reati, trattandosi di situazioni non omogenee”.

nuovi limiti contante

Nuovi limiti contante anche per le prepagate Nuovi limiti contante per chi entra ed esce dai paesi UE, per chi li supera e non lo dichiara sequestro e sanzioni

Denaro contante: limiti per chi entra ed esce dall’UE

Nuovi limiti al contante. Il limite per l’utilizzo del denaro contante nelle transazioni in Italia è di 5.000 euro. Nessun limite di importo invece è previsto per chi desidera tenere in casa dei contanti per affrontare delle spese che ha in programma. Il discorso cambia quando ci si reca all’estero. Per chi entra o esce dall’Europa è infatti previsto il divieto di detenere importi superiori a 10.000 euro.

Adeguamento alla normativa UE

Il decreto legislativo n. 211 del 10 dicembre 2024, pubblicato sulla GU del 2 gennaio 2025, al fine di adeguare la normativa interna al Regolamento UE 2018/1672, che riguarda i controlli sul denaro contante in entrata o in uscita dell’UE, è in vigore dal 17 gennaio 2025.

Il testo però prevede dei limiti che, ad essere ben precisi, non si riferiscono solo al denaro contante, ma anche:

  • alle carte prepagate (“carte non nominative … che contengono valore in moneta o liquidità o vi danno accesso ovvero che possono essere usate per operazioni di pagamento, per l’acquisto di beni o servizi o per la restituzione di valuta, qualora non collegata a un conto corrente e ad altri mezzi di pagamento”)
  • e ad altri mezzi di pagamento.

Chi decide quindi di recarsi in un paese UE deve tenere conto di questo limite. Chi detiene ad esempio dei contanti e una carta prepagata e superi il valore di 10.000 euro ha l’obbligo di farne denuncia alla dogana.

Denaro contante e altri valori da dichiarare

I imiti di valore imposti per il passaggio in entrata e in uscita dai paesi UE è previsto al fine di scongiurare la commissione del reato di riciclaggio e di reati strumentali al finanziamento di attività criminali.

Detto questo, il limite dei 10.000 euro previsto dal decreto legislativo di adattamento al Regolamento UE a cosa si riferisce?

Senza dubbio al denaro contante, a seguire agli assegni turistici come i traveller’s chèque, agli assegni, ai vaglia cambiari, agli ordini di pagamento al portatore emessi senza indicazione specifica del nome del beneficiario, a quelli emessi in favore di un beneficiario fittizio, o a quelli che richiedono la sola consegna per il passaggio del titolo.

Il soggetto che porti con sé uno o più dei suddetti strumenti di pagamento per un valore superiore ai 10.000 euro metterlo a disposizione della Agenzia delle dogane e dei monopoli ai fini del controllo.

Il limite di importo deve essere rispettato anche se il denaro o uno degli altri strumenti di pagamento interessati vengono inviati in un plico a mezzo posta. Non occorre cioè che la persona li porti con sé.

Mancata dichiarazione denaro contante

Il decreto legislativo prevede il sequestro e l’applicazione di sanzioni piuttosto elevate nei confronti di coloro che non dichiarano il superamento del limite di importo dei 10.000 euro. Vediamo in che termini e in che misura.

Sequestro percentuale

Per la parte di importo non dichiarato oltre il limite dei 10.000 euro il decreto prevede:

  • il sequestro nella misura del 50% se il valore supera la soglia dei 10.000 euro e l’eccedenza non supera i 10.000;
  • la percentuale del sequestro sale al 70% dell’importo eccedente i 10.000 se l’eccedenza supera i 10.000 ma non i 100.000 euro;
  • il sequestro infine è totale se, al netto della soglia, l’importo supera i 100.000 euro.

Nei casi in cui il soggetto fornisca informazioni inesatte sull’importo è previsto il sequestro:

  • nella misura 25% della differenza tra quanto trasferito e quanto dichiarato, se la differenza non supera i 10.000 euro;
  • la percentuale sale al 35% se la differenza tra trasferito e dichiarato supera i 10.000,00 ma non i 30.000,00 euro;
  • passa al 70% se la differenza tra trasferito supera i 30.000 ma non i 100.000,00 euro;
  • è totale infine se la differenza tra quanto dichiarato e quanto si tenta di trasferire supera l’importo di 100.000,00 euro.

Il decreto nel modificare l’articolo 7 del decreto legislativo n. 195/2008 prevede che il soggetto a cui è stata contestata l’omessa dichiarazione o la dichiarazione inesatta o completa possa chiedere l’estinzione della violazione effettuando il pagamento in misura ridotta, in percentuale variabile, sulla parte di denaro eccedente la soglia prevista.

Sanzioni amministrative

Qualora si commettano violazioni consistenti nell’omesso adempimento dichiarativo si dispone l’applicazione della sanzione pecuniaria amministrativa minima di 900,00 euro.

Se la violazione consiste invece nell’aver fornito informazioni inesatte o incomplete in relazione all’obbligo dichiarativo, allora è prevista la sanzione amministrativa minima di 500,00 euro.

 

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