incarichi società partecipate

Incarichi amministratori partecipate: cade il divieto La Consulta ritiene il divieto di conferimento di nuovi incarichi nelle partecipate illegittimo costituzionalmente, salvo che nelle ipotesi di provenienza politica

Incarichi società partecipate

E’ incostituzionale il divieto di conferimento di nuovi incarichi di amministratore di società partecipate per chi abbia già ricoperto nell’anno precedente analoghi incarichi. Il divieto permane nelle ipotesi di provenienza politica del nominato. E’ quanto affermato dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 98-2024, pubblicata ieri, che si è pronunciata sulle questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal TAR Lazio, delle norme che stabiliscono il divieto di conferire incarichi di amministratore di enti privati, sottoposti a controllo pubblico da parte degli enti locali (province o comuni), a coloro i quali nell’anno precedente abbiano svolto analoghi incarichi presso altri enti della stessa natura.

La qlc

La fattispecie esaminata dalla Consulta coinvolgeva un manager pubblico che, per aver ricoperto, nell’anno precedente, il ruolo di amministratore delegato presso una società controllata da un comune, non ha potuto ottenere lo stesso incarico presso altra società partecipata.

Il giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme del decreto legislativo n. 39 del 2013 nella parte in cui, con riguardo a ipotesi simili, non consentono la conferibilità del nuovo incarico. Questo divieto, infatti, si pone in contrasto con le previsioni della legge di delega (la n. 190 del 2012) e, quindi, con l’art. 76 Cost., che non consente al Governo, nell’esercizio della delega conferitagli dal Parlamento, di introdurre ipotesi limitative che non siano state previste dal legislatore delegante.

La decisione della Consulta

Nella motivazione, la Corte precisa che “la legge di delega ha circoscritto la non conferibilità degli incarichi amministrativi di vertice – per quanto assume rilievo nella fattispecie oggetto di giudizio – solo alle ipotesi di provenienza politica del nominato, cioè solo ai casi in cui costui abbia svolto, nell’anno precedente, incarichi di natura politica. Tali non sono gli incarichi di amministratore di enti di diritto privato sottoposti a controllo pubblico, che la legge di delega non ha incluso tra le posizioni di provenienza ostative”.

Le richiamate previsioni della legge di delega costituiscono “il frutto di un bilanciamento tra l’accesso al lavoro dei professionisti, che è stato parzialmente sacrificato mediante la previsione della non conferibilità degli incarichi per provenienza politica, e l’imparzialità dell’azione amministrativa, che va assicurata anche nelle forme della mera ‘apparenza’ di imparzialità”.

Tuttavia, l’estensione di questa garanzia preventiva anche ad ipotesi prive di qualsiasi percepibile collegamento con lo svolgimento di incarichi “politici” è estranea, ha concluso la Corte, all’obiettivo perseguito dal legislatore delegante e, pertanto, non poteva essere introdotta dalla legge delegata.

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notifica telematica riforma cartabia

La notifica telematica dopo la Riforma Cartabia Il ruolo dell’avvocato nell’attività di notifica telematica degli atti dopo la Riforma Cartabia. L’obbligo di notifica via PEC e il ruolo residuale dell’ufficiale giudiziario

L’obbligo di notifica telematica dopo la Riforma Cartabia

La notifica telematica degli atti giudiziari e stragiudiziali è una modalità di notifica introdotta negli ultimi anni, di pari passo con lo sviluppo del c.d. processo telematico, fino a divenire, con le novità normative introdotte dalla Riforma Cartabia, la principale modalità di notifica degli atti, a scapito delle modalità più tradizionali quali la consegna a mano e la spedizione via posta cartacea.

Particolarmente significativa è l’innovazione normativa in tema di notifica relativa all’aspetto soggettivo: come vedremo tra breve, l’art. 137 c.p.c. individua nella figura dell’avvocato il soggetto principalmente deputato all’attività di notifica, mentre ha perso la sua centralità, a questo riguardo, l’ufficiale giudiziario.

L’avvocato e la notifica a mezzo PEC

Iniziamo col ricordare in cosa consiste la notifica di un atto giudiziario: è quell’attività con la quale si intende portare a conoscenza del destinatario l’atto, con modalità prescritte dalla legge, che, una volta osservate, comportano la c.d. conoscenza legale dell’atto (che è cosa diversa dalla conoscenza effettiva: una volta eseguita la notificazione nei termini prescritti dalla legge, l’atto si intende conosciuto dal destinatario).

Orbene, la legge n. 221 del 2012 ha modificato l’art. 3-bis della l. n. 53 del 1994, prevedendo che anche gli avvocati potessero procedere alla notifica degli atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale, utilizzando la posta elettronica certificata.

Con la recente Riforma Cartabia, attuata con il d.lgs. n. 149 del 2022, si è andati ancora oltre, arrivando, come si diceva, a rendere centrale la figura dell’avvocato nel procedimento di notifica e relegando la notifica tramite ufficiale giudiziario ad evento residuale.

I rapporti tra avvocato e ufficiale giudiziario nell’attività di notifica ex art. 137 c.p.c.

Il nuovo secondo comma dell’art. 137 c.p.c., infatti, affianca espressamente l’avvocato all’ufficiale giudiziario tra i soggetti che eseguono la notificazione.

Ma la vera novità è rappresentata dall’aggiunta degli ultimi due commi. Il sesto pone l’accento sulla figura dell’avvocato, disponendo che questi esegue le notificazioni nei casi e con le modalità previste dalla legge (vedi paragrafo seguente).

Il settimo ed ultimo comma sancisce, invece, il ruolo residuale dell’ufficiale giudiziario, il quale esegue la notificazione su richiesta dell’avvocato, qualora questi non abbia l’obbligo di eseguirla a mezzo PEC o con altra modalità prevista dalla legge, o quando, sussistendo tale obbligo, l’avvocato non dichiari che la notificazione con tali modalità non sia possibile.

Pertanto, il quadro attuale della notifica degli atti è il seguente: è l’avvocato a doverla eseguire, e di regola deve utilizzare la PEC. Quando ciò non sia possibile, l’avvocato può rivolgersi all’ufficiale giudiziario, che provvederà alla consegna a mani o per posta cartacea.

Una precisazione importante è che, nel caso appena descritto, in cui l’avvocato si rivolga all’ufficiale giudiziario perché la notifica via PEC non è andata a buon fine, di tale circostanza deve essere dato atto nella relazione di notificazione (anche detta relata di notifica) dell’ufficiale giudiziario.

Va ricordato anche che, come stabilisce il terzo comma dell’art. 137, se l’atto da notificare è un documento informatico e il destinatario non possiede una casella PEC, l’ufficiale giudiziario consegna una copia cartacea dell’atto, dichiarandola conforme all’originale (viceversa, l’avvocato crea una copia informatica quando l’atto originale da notificare sia cartaceo, attestandone la conformità: v. art. 3-bis l. 53/94, secondo comma).

Le modalità di notifica telematica ex art. 3-bis legge 53/1994

Quanto alle modalità della notifica telematica, la norma cardine è rappresentata dall’art. 3-bis della legge n. 53 del 1994, in base al quale la notifica a mezzo PEC va effettuata necessariamente all’indirizzo risultante da pubblici elenchi, nei confronti dei soggetti (persone fisiche e giuridiche) che siano tenuti ad iscrivervi il proprio recapito telematico o che, pur non essendovi tenuti, abbiano scelto di effettuare tale iscrizione.

La notifica telematica si perfeziona, per il soggetto notificante, nel momento in cui viene generata la ricevuta di accettazione, mentre per il destinatario si perfeziona quando viene generata la ricevuta di avvenuta consegna.

Quanto all’orario della notifica telematica, non vi sono limiti orari per effettuarla, ma è da precisare che l’invio della PEC dopo le ore 21 vale a individuare il perfezionamento della notifica per il destinatario alle ore 7 del giorno successivo.

separazione assegnazione casa familiare

Separazione: la casa va al padre malato In tema di separazione, il Tribunale di Perugia ha affermato che, in caso di padre gravemente malato, la soluzione maggiormente conforme all'interesse dei minori sia quella che consente al marito di continuare a vivere nella casa coniugale

Separazione e assegnazione della casa familiare

Il caso in esame prende avvio dalla richiesta di separazione personale presentata dalla moglie nei confronti del marito, dal cui matrimonio erano nati due figli.

In particolare, la moglie aveva esposto che la famiglia aveva vissuto nella casa di proprietà del suocero, concessa in comodato d’uso alla coppia già prima del matrimonio. La moglie, dopo aver rappresentato che il marito aveva avuto una relazione extraconiugale, aveva riferito di aver indugiato nella richiesta di separazione in quanto, nel frattempo, il marito si era ammalato.

La moglie aveva fatto presente che, a causa dello stato di malattia, il marito era sottoposto a frequenti cicli di chemioterapia, limitando fortemente la sua capacità di gestione dei figli minori.

La moglie aveva poi concluso chiedendo la pronuncia di separazione con addebito al marito, l’affidamento condiviso dei figli minori, con collocazione prevalente presso di sé e conseguente l’assegnazione a sé della casa coniugale, oltre all’assegno di mantenimento.

Il marito, che si era costituito in giudizio, dopo aver riferito del proprio grave stato di salute, aveva negato di avere intrattenuto relazioni extraconiugali, riferendo che era stata semmai la moglie ad intrattenerne in passato e ad intrattenerne attualmente una stabile. Inoltre, in ragione dell’asserito comportamento vessatorio della moglie, il marito aveva avanzato a propria volta domanda di addebito della separazione alla moglie ed aveva chiesto assegnarsi a sé, in considerazione delle proprie condizioni di salute, la casa coniugale, con collocamento paritario dei bambini e mantenimento diretto nei rispettivi tempi di permanenza.

L’assegnazione della casa in caso di coniuge gravemente malato

Il Tribunale di Perugia, con ordinanza del 22 marzo 2024, ha disposto, per quanto qui rileva, l’assegnazione della casa al marito malato.

Il Tribunale, nell’affrontare la propria decisone in tema di assegnazione della casa coniugale, ha anzitutto rilevato che il marito “è affetto da una gravissima malattia (…), per la quale si sottopone a cicli ripetuti di chemioterapia. Dall’assegnazione alla (moglie) della casa coniugale deriverebbe la necessità per il (marito), di spostarsi a vivere in altra abitazione; evenienza, questa, che potrebbe pregiudicare gravemente la sua serenità, meritevole di essere preservata e tutelata proprio in considerazione delle difficili condizioni di salute. Al cambiamento di ambiente domestico -che per un malato oncologico in stadio avanzato può già essere di grave pregiudizio – si aggiungerebbe la difficoltà di reperire una abitazione adatta alle sue necessità, dunque posta al piano terra, che abbia spazi adeguati per i figli, nelle immediate vicinanze delle quale deve essere agevole parcheggiare e dalla quale non sia complicato muoversi per recarsi in ospedale o per far transitare eventuali altri mezzi”.

In tal senso, ha aggiunto il Giudice di primo grado, l’interesse dei figli minori non si pone in contrasto con quello del padre “ma ad esso si affianca, nella misura in cui si consideri che condizioni di vita quanto più possibile serene e stabili per il padre sono le uniche che consentiranno ai figli di essere esposti il meno possibile alla sofferenza inevitabilmente connessa alla malattia del genitore e di condividere con lui momenti di vita “normale””.

Sulla scorta di quanto sopra riferito e per quanto qui rileva il Tribunale ha ritenuto che, allo stato attuale, “la soluzione maggiormente conforme all’interesse dei minori sia quella che consente al padre di continuare a vivere nella casa coniugale. Qualunque altra soluzione, tale da imporre al (marito) di lasciare la casa coniugale, rischierebbe di pregiudicare grandemente le sue già difficili condizioni di vita e di salute, pregiudicando quindi inevitabilmente anche l’andamento del rapporto con i minori. La casa coniugale deve dunque rimanere nella disponibilità del(padre), alla quale va provvisoriamente assegnata”.

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giurista risponde

Applicazione automatica pene accessorie e reati tentati e non consumati L’applicazione automatica delle pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p. può essere estesa anche alle fattispecie di reato tentate e non consumate?

Quesito con risposta a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin

 

In assenza di specifica previsione normativa, considerata la pervasività delle pene accessorie e la diversificata gamma di reati sessuali, non è possibile estendere l’applicazione automatica delle pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p. alle fattispecie tentate. La questione è, comunque, oggetto di contrasto giurisprudenziale. – Cass., sez. III, 5 marzo 2024, n. 9312.

A seguito di una condanna inflitta in primo grado con rito alternativo per i reati di maltrattamenti e tentata violenza sessuale aggravata ai danni della moglie, il Procuratore della Repubblica ha proposto ricorso in Cassazione denunciando l’asserita violazione di legge per la mancata applicazione automatica all’imputato delle pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p., sostenendo la compatibilità di tale disposizione anche con le fattispecie tentate (e non solo consumate).

La Suprema Corte non ha condiviso la doglianza ed ha, pertanto, ritenuto infondato il ricorso.

Preliminarmente la Corte rileva che l’art. 609nonies c.p. si riferisce ai “delitti” da intendersi come consumati e non tentati; evidenzia, inoltre, che il delitto tentato costituisce una figura autonoma rispetto alla fattispecie consumata, distinguendosi da questa perché caratterizzata da un minor grado di offensività, pur essendo perfetta in tutti i suoi elementi costitutivi (fatto tipico, antigiuridicità e colpevolezza). L’autonomia dogmatica del tentativo, pertanto, comporta che gli effetti giuridici previsti dalla norma penale per la consumazione del reato non possono estendersi automaticamente anche alla sua figura, a fortiori se manca una disposizione di legge che lo preveda.

E’ proprio da questo vulnus normativo che è sorta una divergenza di opinioni tra dottrina e giurisprudenza. La prima ritiene, pressoché in modo stabile da oltre quarant’anni, che il problema debba essere affrontato in base al singolo caso concreto, escludendo a monte la possibilità di una soluzione univoca e generalizzata. La giurisprudenza, invece, anche al di fuori delle ipotesi relative ai reati sessuali, ha pressoché risolto positivamente la questione rinvenendo, nella punibilità del tentativo, la medesima ratio repressiva dell’applicazione della pena nei delitti consumati.

Il tema è tuttora dibattuto e non risolto ed è, peraltro, oggetto di contrasto non solo tra dottrina e giurisprudenza, ma anche tra le Sezioni della Corte di Legittimità.

Nel caso di specie, la Corte, nella propria motivazione, ha richiamato e condiviso le argomentazioni della sentenza pronunciata dalle Sezioni Unite Suraci (Cass., Sez. Un., 3 luglio 2019, n. 28910) in cui è stata evidenziata la distinzione tra le pene principali e quelle accessorie: mentre le prime hanno una funzione retributiva, di prevenzione generale e speciale, oltre che rieducativa, quelle accessorie, specialmente quelle interdittive e inabilitative, hanno una funzione prettamente specialpreventiva, oltre che di rieducazione personale, perché mirano a realizzare il forzoso allontanamento del reo dal contesto professionale, operativo e/o sociale nel quale sono maturati i fatti criminosi, per impedirgli di reiterare in futuro la sua condotta criminosa. Proprio in virtù dello specifico finalismo preventivo, è necessario modulare l’applicazione delle pene accessorie al disvalore del fatto e alla personalità del reo così che, in relazione allo specifico caso concreto, non necessariamente la durata della pena accessoria deve riprodurre quella della pena principale, così come prevede l’art. 37 c.p. Il Supremo Consesso, sulla base di queste considerazioni, ha espresso il seguente principio di diritto: “Le pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p.”.

Aderendo a tali considerazioni, la Corte ritiene che, in mancanza di una disposizione espressa, e in ragione della forte invasività che caratterizza le pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p., non è possibile la loro automatica applicazione anche alle ipotesi solo tentate.

Così decidendo, pertanto, la Sezione Terza della Cassazione si è posta in continuità con uno dei suoi precedenti giurisprudenziali nel quale ha affermato che le misure di sicurezza personali previste, dall’art. 609nonies, comma 3, c.p., in caso di determinati reati consumati aggravati, sono applicabili solo nel caso di condanna a fattispecie consumate ivi previste, e non alle ipotesi tentate. Tale interpretazione si impone non solo in virtù della littera legis della disposizione, ma anche al fine di evitare il paradosso che la tentata violenza sessuale aggravata venga punita più gravemente rispetto ad una violenza sessuale consumata ma non aggravata. – Cass., sez. III, 24 maggio 2017, n. 25799.

*Contributo in tema di “Applicazione automatica delle pene accessorie”, a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

dipendente assegnazione vicino figli

Statali con figli piccoli: assegnati vicino alla famiglia La Consulta ha stabilito che il dipendente pubblico con figli fino a 3 anni di età può chiedere l'assegnazione temporanea nel luogo dove è fissata la residenza familiare

Figli piccoli e assegnazione temporanea

“Il dipendente pubblico con figli fino a tre anni di età, può chiedere di essere temporaneamente assegnato ad una sede di servizio della provincia o regione in cui è fissata la residenza familiare”. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 99-2024, depositata oggi, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 42˗bis, comma 1, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui prevede che il trasferimento temporaneo del dipendente pubblico, con figli minori fino a tre anni di età, possa essere disposto «ad una sede di servizio ubicata nella stessa provincia o regione nella quale l’altro genitore esercita la propria attività lavorativa», anziché «ad una sede di servizio ubicata nella stessa provincia o regione nella quale è fissata la residenza della famiglia o nella quale l’altro genitore eserciti la propria attività lavorativa».

Trasferimento temporaneo: la ratio

La Corte ha innanzitutto chiarito che “il trasferimento temporaneo dei dipendenti pubblici che siano genitori di figli minori di tre anni, proponendosi di favorire la ricomposizione dei nuclei familiari nei primissimi anni di vita dei figli nel caso in cui i genitori si trovino a vivere separati per esigenze lavorative, è chiaramente preordinato alla realizzazione dell’obiettivo costituzionale di sostegno e promozione della famiglia, dell’infanzia e della parità dei genitori nell’accudire i figli”.

Proprio alla luce di una simile ratio dell’istituto, “non risulta ragionevole – e quindi in contrasto con l’art. 3 Cost. – consentire il trasferimento temporaneo solo nella provincia o regione in cui lavora l’altro genitore: una simile limitazione non assicura, infatti, una tutela adeguata in favore di quei nuclei familiari in cui entrambi i genitori lavorano in regioni diverse da quelle in cui è stata fissata la residenza familiare” ha sentenziato il giudice delle leggi.

Smart working e velocità dei trasporti

D’altronde, ha concluso la Consulta, “si tratta di un’ipotesi che nella realtà è divenuta sempre meno rara, anche alla luce delle trasformazioni che hanno investito sia le modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative (attraverso le nuove tecnologie), sia i sistemi di trasporto”.

In relazione a tali casi, appare pienamente rispondente alla finalità dell’istituto consentire almeno a uno dei genitori di lavorare, nel primo triennio di vita del figlio, in una sede che si trova nella regione o nella provincia in cui è stata fissata la residenza della famiglia e in cui è domiciliato il minore (ai sensi dell’art. 45, comma secondo, del codice civile).

Secondo la Corte costituzionale, infine, “un simile ampliamento dell’ambito di applicazione dell’istituto dell’assegnazione temporanea, oltre a risultare coerente con la finalità di protezione della famiglia e di sostegno all’infanzia, risponde all’esigenza di preservare la più ampia autonomia dei genitori nelle scelte concernenti la definizione dell’indirizzo familiare”.

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transazione medico

La transazione del medico non libera l’ospedale La Cassazione ha precisato che la transazione del medico con il paziente, non impedisce a quest’ultimo di domandare il risarcimento all’ospedale, ma ne determina la sola diminuzione del quantum debeatur

Responsabilità medica: la transazione del medico

Nel caso in esame, i genitori di un bambino nato, con una grave menomazione a causa del ritardo con cui la ginecologa si era risolta a praticare il taglio cesareo, avevano transatto con il medico.

Rispetto alla suddetta circostanza, la Corte d’appello aveva ritenuto che l’azienda ospedaliera non potesse avvalersi della transazione intervenuta tra i genitori del bambino ed il medico.

Avverso tale decisione la società di assicurazioni e l’azienda ospedaliera avevano proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

La transazione del medico non libera la struttura sanitaria

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 15216-2024, ha rigettato, per quanto qui rileva, le doglianze formulate dalla parte ricorrente.

In particolare, la Corte ha rilevato come il Giudice di merito avesse correttamente escluso che la transazione conclusa dal medico, dipendente dell’ospedale, con i danneggiati potesse essere invocata dall’azienda ospedaliera o dai suoi assicuratori, in relazione alla domanda risarcitoria proposta nei confronti della stessa dai danneggiati.

A tal proposito il Giudice di legittimità ha ripercorso il quadro normativo di riferimento, affermando che la transazione conclusa dal medico non impedisce ai pazienti di introdurre e coltivare la domanda di risarcimento avanzata nei confronti dell’ospedale.

In particolare, il Giudice di legittimità ha precisato che l’errore del medico costituisce “un mero presupposto di fatto per il sorgere della responsabilità dell’ospedale: e come tutti i presupposti di fatto potrà essere accertato dal giudice incidenter tantum, senza efficacia di giudicato nei confronti del medico”

Resta fermo, ha precisato la Corte, che la conclusione della transazione non è priva di ricadute pratiche, dal momento che la sua esistenza determina, nei confronti dei danneggiati, la riduzione del quantum debeatur.

In altri termini, secondo la Cassazione, l’azienda ospedaliera non può pretendere di avvalersi dall’accordo transattivo a cui non ha partecipato, per ridurre il proprio debito “a quanto concordato tra le parti della transazione alla quale è rimasta estranea”.

Responsabilità solidale ospedale e medico

Inoltre, ha rilevato la Corte “l’ospedale e il medico rispondono in solido nei confronti del paziente: e al creditore di una obbligazione solidale è sempre consentito transigere la lite con uno dei coobbligati, con l’effetto di sciogliere il vincolo solidale rispetto al transigente e riservare i propri diritti nei confronti degli altri. La liberazione d’uno dei coobbligati, pertanto, non impedisce affatto di accertare la responsabilità di quest’ultimo nel diverso rapporto tra il danneggiato e i restanti coobbligati, ma comporta unicamente che, nel compiere tale accertamento, il giudice indagherà incidenter tantum sulla esistenza o meno di una condotta colposa da parte del medico. Diversamente opinando, prosegue la decisione, si perverrebbe al risultato per cui qualsiasi transazione stipulata dal danneggiato con l’autore materiale del danno libererebbe ipso facto anche «l’ausiliato»”.

Altrimenti opinando, ha proseguito la Corte, si giungerebbe alla conseguenza per cui la solidarietà si trasformerebbe in un istituto addirittura dannoso per il danneggiato, costringendolo a rifiutare transazioni anche vantaggiose per evitare di perdere il diritto a conseguire il danno differenziale dal preponente.

 

 

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sottrazione minori

Sottrazione di minori: disciplina e sanzioni Una breve guida sulla sottrazione di minori, un reato che il nostro Codice Penale disciplina in tre varianti negli articoli 573, 574 e 574 bis c.p.

Il reato di sottrazione di minore

La sottrazione di minore è un reato disciplinato dal Codice Penale italiano, che mira a proteggere i minori da azioni illecite che possono compromettere il loro benessere e la loro crescita. Questo reato è regolato principalmente dagli articoli 573, 574 e 574 bis del Codice Penale. Vediamo in dettaglio cosa prevedono questi articoli e quali sono le implicazioni legali.

Sottrazione consensuale di minorenni

L’articolo 573 del Codice Penale punisce chiunque sottrae un minore ultra quattordicenne, con il consenso di quest’ultimo, al genitore che ne esercita la responsabilità genitoriale o al tutore o lo ritiene contro la volontà di questi soggetti. La pena prevista è la reclusione fino a due anni. Il minore, anche se esprime il consenso alla sottrazione non può essere considerato come compartecipe al reato, bensì oggetto materiale dell’illecito penale. Il suo consenso quindi non conduce all’applicazione dell’attenuante di cui all’articolo 62  n. 5 del Codice penale. Trattasi di un reato punibile a querela della persona responsabile del minore.

Sottrazione di persone incapaci

L’articolo 574 del Codice Penale si occupa della sottrazione di persone incapaci, includendo sia i minori di anni 14 che gli adulti incapaci di intendere e di volere. La pena prevista è la reclusione da uno a tre anni. Il reato si configura in presenza della sottrazione o della ritenzione di questi soggetti deboli al tutore, al curatore e a coloro che ne hanno la vigilanza, la custodia, la responsabilità genitoriale. Anche in questo caso il reato è perseguibile a querela della persona che esercita la responsabilità genitoriale, del tutore o del curatore. La stessa pena è prevista nei confronti di chi sottrae o ritiene un minore ultra quattordicenne, senza il suo consenso, per finalità diverse da quelle della libidine o del matrimonio.

Sottrazione e trattenimento di minore all’estero

L’articolo 574 bis punisce chi sottrae un minore portandolo all’estero o trattenendolo all’estero contro la volontà del genitore o del tutore legale. La pena prevista è la reclusione da uno a quattro anni. Se il fatto è commesso nei confronti di un minore ultra quattordicenne e con il suo consenso, la pena va da sei mesi a tre anni.  Se il fatto viene commesso da un genitore, la condanna conduce anche alla sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale.

Implicazioni legali e consigli pratici

La sottrazione di minore è un reato grave che può comportare pesanti conseguenze legali. È fondamentale che i genitori e i tutori legali comprendano i propri diritti e le implicazioni di queste norme. In caso di sottrazione, è consigliabile rivolgersi immediatamente alle autorità competenti e cercare assistenza legale, ma non solo.

Per prevenire questo tipo di reato è necessario educare i minori sui rischi associati alla sottrazione e vigilare, ossia svolgere un’attività di monitoraggio delle relazioni e delle attività dei minori.

Nel caso in cui il reato si sia già perfezionato è necessario compiere due step fondamentali: il primo richiede la segnalazione immediata del caso alle autorità, il secondo  invece consiste nella richiesta di un supporto legale. 

 

 

fondo garanzia mutuo prima casa

Mutui casa: per giovani e famiglie garanzia fino al 90% Istruzioni e chiarimenti sul Fondo di garanzia per i mutui prima casa nella nuova guida realizzata dall'Abi e dalle associazioni dei consumatori per il 2024

La guida sul fondo di garanzia acquisto prima casa

Agevolazioni e corsie preferenziali per giovani e famiglie numerose che acquistano una prima casa. Grazie al fondo di garanzia per i mutui prima casa infatti questi soggetti possono arrivare ad ottenere una garanzia addirittura fino al 90% del capitale di finanziamento richiesto. Questi ed altri chiarimenti sono illustrati nella guida 2024 preparata dall’Abi (Associazione bancaria italiana) e dalle principali associazioni dei consumatori con l’obiettivo di spiegare ai cittadini il funzionamento dello strumento pubblico del Fondo di garanzia, a quali mutui si applica e chi può farne richiesta.

La guida è in formato digitale, realizzata con un linguaggio semplice e accessibile e disponibile anche sulla pagina dedicata sul sito Abi.

Fondo di garanzia per i mutui prima casa: cos’è

Il Fondo di garanzia per i mutui prima casa, si ricorda, è destinato a favorire l’accesso ai mutui per l’acquisto – o per acquisto e ristrutturazione per efficientamento energetico – della prima casa a beneficio dei cittadini che non siano proprietari di altri immobili a uso abitativo, rilasciando garanzie pari al 50% della quota capitale su mutui ipotecari erogati per un importo non superiore a 250 mila euro.

Le condizioni e le agevolazioni

In generale, per l’accesso alla garanzia del Fondo non sono previsti limiti di reddito dei mutuatari.

Specifiche agevolazioni sono tuttavia previste per categorie di clienti individuati come “prioritari” quali in particolare: giovani e giovani coppie, con mutuatario di età inferiore ai 36 anni; e nuclei familiari monogenitoriali con figli minori. Per questi soggetti fino al 31 dicembre 2024 è previsto che, se l’importo del mutuo è superiore all’80% del prezzo dell’immobile da acquistare, la garanzia del Fondo può arrivare fino all’80% della quota capitale del finanziamento. Per le famiglie numerose la garanzia può invece arrivare fino al 90%.

Come accedere al fondo

Per richiedere di usufruire della misura, occorre compilare il modulo pubblicato sul sito di Consap, che si occupa della gestione del Fondo (www.consap.it/fondo-prima-casa/) e presentarlo ad una delle banche e degli intermediari finanziari aderenti all’iniziativa, il cui elenco è disponibile sul sito del gestore del Fondo.

stipendio contanti

Stipendio in contanti: quando è possibile? Lo stipendio in Italia non può essere corrisposto in contanti, ci sono però delle eccezioni a questa regola, vediamo in quali casi

Stipendio in contante

E’possibile di ricevere lo stipendio in contanti anziché tramite i tradizionali mezzi di pagamento tracciabili?  Questa soluzione può risultare particolarmente vantaggiosa per chi non possiede un conto corrente bancario e non intende aprirne uno per evitare le spese di gestione.

E’ opportuno tuttavia ricordare che il pagamento dello stipendio in contanti è generalmente vietato in Italia. Esistono però diverse soluzioni per i lavoratori che non possiedono un conto corrente. Vediamo quindi in dettaglio come un lavoratore senza conto corrente possa ricevere il proprio stipendio e quali sono le condizioni previste dalla legge.

Divieto di pagamento in contanti

Per prima cosa occorre chiarire che il nostro ordinamento giuridico vieta al datore di lavoro di corrispondere lo stipendio in contanti direttamente al lavoratore. È importante conoscere e rispettare le normative per evitare sanzioni e garantire la tracciabilità dei pagamenti. Il datore di lavoro infatti non può pagare il dipendente in contanti, ma deve utilizzare metodi tracciabili. Vediamo quali sono:

  • Carta Prepagata

Una prima soluzione per chi non possiede un conto corrente è l’uso di una carta prepagata. Queste carte, attivabili presso le banche o gli uffici postali, non richiedono l’associazione a un conto corrente. I pagamenti tramite carta prepagata sono tracciabili, poiché il datore di lavoro deve conservare le ricevute dei versamenti effettuati.

  • Versamento su conto corrente di terzi

Un’altra opzione è la richiesta di versamento dello stipendio su un conto corrente intestato a una terza persona, come un familiare o un amico. La legge italiana permette questo tipo di operazione, a condizione che ci sia una delega scritta e datata in cui il lavoratore autorizzi il pagamento su un conto diverso dal proprio. La delega è molto importante perchè:

  • esime il datore di lavoro da responsabilità future relative all’inadempimento del pagamento dello stipendio;
  • protegge il datore di lavoro da possibili sospetti di lavoro “in nero” durante i controlli fiscali;
  • fornisce una giustificazione legale al terzo che riceve le somme di denaro sul proprio conto corrente.
  • E-Wallet

Un’alternativa moderna per ricevere il pagamento dello stipendio è anche l’uso di e-wallet, come PayPal, che permette il trasferimento rapido di somme di denaro con elevata tracciabilità.

Soci di cooperative

Ci sono poi situazioni particolari, come quelle che riguardano i soci di cooperative che svolgono attività lavorativa e che possono ricevere il pagamento della retribuzione tramite versamenti sul “libretto del prestito” aperto presso la cooperativa, purché richiesto formalmente dal socio lavoratore e debitamente registrato.

Eccezioni alla regola

È possibile in ogni caso ricevere il pagamento dello stipendio in contanti, rispettando alcune condizioni. Il pagamento deve avvenire presso la banca o l’ufficio postale dove il datore di lavoro ha il conto corrente, consentendo una registrazione immediata dell’operazione e garantendo la tracciabilità del trasferimento di denaro. Tuttavia, questa modalità è discrezionale per il datore di lavoro, che non è obbligato a utilizzarla.

Categorie di lavoratori escluse dal divieto

L’eccezione al divieto di effettuare il pagamento dello stipendio in contanti riguarda comunque anche certe categorie di lavoratori:

  • lavoratori domestici;
  • beneficiari di borse di studio;
  • tirocinanti;
  • titolari di rapporti autonomi di natura occasionale.

Sanzioni in caso di violazione

Il datore di lavoro che effettua il pagamento dello stipendio in contanti in casi non consentiti è soggetto a sanzioni amministrative che variano da 1.000 a 5.000 €. L’entità della sanzione dipende dal numero di mensilità pagate in contanti, non dal numero di lavoratori coinvolti.

L’alcoltest non vale come prova La Cassazione ha ricordato che, poiché l’esame strumentale tecnico non costituisce una prova legale, l’accertamento della concentrazione alcolica può avvenire in base ad elementi sintomatici per tutte le ipotesi di cui all’art. 186 cod. strada

Guida in stato di ebbrezza

Nel caso di specie, l’automobilista ha proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione avverso la sentenza di merito con cui era stato ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 186 cod. strada, recante “Guida sotto l’influenza dell’alcool”.

In particolare, il ricorrente ha rilevato come, nel corso del giudizio di merito, non fosse stata comprovata la sussistenza dello stato di ebrezza, poiché il suo tasso alcolemico, all’epoca dei fatti, era stato rilevato in ragione delle sole dichiarazioni rese dagli agenti intervenuti. Invero il ricorrente ha contestato la carenza di dati tecnici obiettivi, la cui assenza non avrebbe consentito di stabilire in termini certi il livello di alcol effettivamente presente nel suo sangue al momento dei fatti.

Lo stato di ebrezza, secondo le doglianze formulate dall’imputato, non avrebbe potuto essere infatti dimostrato dagli elementi sintomatici riscontrati all’epoca dei fatti, quali, il suo stato confusionale, gli urti della sua autovettura al marciapiedi e la mancata risposta alle sollecitazioni degli agenti.

Etilometro non costituisce prova legale

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 20763-2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Nella specie, il Giudice di legittimità ha anzitutto contestato la fondatezza del ricorso proposto per motivi processuali, ritenendolo pertanto inammissibile.

Ciò posto, la Corte ha ad ogni modo affrontato brevemente la doglianza eccepita, ricordando la precedente giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto, secondo la quale “poiché l’esame strumentale non costituisce una prova legale, l’accertamento della concentrazione alcolica può avvenire in base ad elementi sintomatici per tutte le ipotesi di reato previste dall’art. 186 cod. strada e, qualora vengano oltrepassate le soglie superiori, la decisione deve essere sorretta da congrue motivazioni”.

Sulla scorta di quanto sopra riferito, la Suprema Corte ha pertanto concluso il proprio esame rilevando che “in assenza di espletamento di un valido esame alcolimetrico, il giudice di merito può trarre il proprio convincimento in ordine alla sussistenza dello stato di ebrezza dalla presenza di adeguati elementi obiettivi e sintomatici, che, nel caso in esame, i giudici di merito hanno congruamente individuato in aspetti quali lo stato comatoso e di alterazione manifestato dal (ricorrente) alla vista degli operatori, certamente riconducibile ad uso assai elevato di bevande alcoliche (..) per come evincibile dalla riscontrata presenza di un forte odore acre di alcol, nonché dall’assoluta sua incapacità di controllare l’autoveicolo in marcia e di rispondere alle domande rivoltegli dagli agenti”.

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