trattamento di fine rapporto

Trattamento di fine rapporto: come funziona il TFR Una breve guida sul trattamento di fine rapporto: come si calcola, a quanto ammonta, quando viene pagato e come si fa a chiedere un anticipo del TFR

Come funziona il TFR

Il trattamento di fine rapporto, anche detto TFR, è un elemento della retribuzione che viene corrisposto al lavoratore dipendente al momento della cessazione del rapporto di lavoro, qualunque ne sia la causa (es. licenziamento, pensione etc.).

Quanto si prende di TFR

A norma dell’art. 2120 del codice civile, l’importo del trattamento di fine rapporto viene calcolato sommando per ciascun anno (o frazione di anno) in cui si è lavorato una quota pari all’importo della retribuzione annuale divisa per 13,5.

Il valore delle quote annuali di TFR accantonate viene incrementato attraverso la rivalutazione delle somme, con l’applicazione, alla fine di ogni anno, di un tasso costituito dall’1,5% in misura fissa e dal 75% dell’aumento, rispetto all’anno precedente, dell’indice dei prezzi al consumo ISTAT.

Come si fa a sapere a quanto ammonta il TFR

La quota annuale di TFR che viene accantonata si calcola su  tutte le voci della retribuzione corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro (compresi, quindi, gli incentivi, i premi di rendimento e gli emolumenti periodici come la tredicesima mensilità). Rimangono esclusi i rimborsi spese (cfr. art. 2120 c.c., II comma) e le indennità di trasferta.

A quanto appena detto possono derogare le disposizioni contenute nei contratti collettivi (ad esempio, nel comparto metalmeccanico la tredicesima mensilità non contribuisce ad alimentare la quota annuale del TFR).

Quando si può chiedere un anticipo del TFR

Un importante aspetto della disciplina del TFR è rappresentato dalla possibilità di richiedere l’anticipazione del pagamento di una sua parte nel corso del rapporto lavorativo, anziché alla cessazione dello stesso.

Possono avanzare tale richiesta i dipendenti che abbiano maturato già otto anni di servizio presso lo stesso datore di lavoro (cfr. art. 2120 c.c., sesto comma e segg.).

La richiesta può essere fatta solo una volta nel corso dell’intero rapporto di lavoro e deve essere motivata dalla necessità di sostenere spese sanitarie per terapie o interventi straordinari o dall’acquisto della prima casa di abitazione (per sé o in favore dei propri figli).

Tali esigenze vanno opportunamente documentate, con certificazione delle strutture sanitarie o, nel caso di acquisto della prima casa, con atto notarile.

Anticipo TFR: quanto si può chiedere

Oggetto della richiesta di anticipo TFR è una somma pari al massimo al 70% del TFR maturato al momento dell’istanza. Ovviamente, la somma anticipata viene detratta da quanto successivamente riconosciuto alla cessazione del rapporto di lavoro.

I contratti collettivi, o anche le pattuizioni individuali, possono prevedere condizioni più favorevoli per l’anticipazione del trattamento di fine rapporto. I contratti collettivi possono anche prevedere criteri di priorità per il soddisfacimento delle varie richieste.

In ogni caso, il datore di lavoro è tenuto a soddisfare le richieste di anticipazione TFR entro il limite del 4% del numero totale dei dipendenti. Peraltro, l’azienda può negare l’anticipazione TFR per i lavoratori dipendenti se sia stata dichiarata azienda in crisi.

Quando ti viene pagato il TFR?

Il diritto al TFR matura mensilmente, ma sorge soltanto al termine del rapporto di lavoro; quindi, in costanza dello stesso, si tratta di un diritto futuro, come ribadito più volte dalla Cassazione (cfr. Cass. sez. lav., ord. n. 4360/2023).

Ciò implica, tra l’altro, che in costanza del rapporto di lavoro il dipendente non possa rinunciare al TFR, per il semplice motivo che il relativo diritto non è ancora venuto ad esistenza (la circostanza appena descritta depone a favore del lavoratore, in quanto lo pone al riparo da eventuali pattuizioni di rinuncia concordate con il datore prima della cessazione del rapporto).

Alla cessazione del rapporto di lavoro, il TFR viene erogato automaticamente dal datore di lavoro, senza necessità che il lavoratore presenti alcuna specifica richiesta in tal senso. I tempi di pagamento si aggirano, generalmente, intorno ai 60 giorni dalla cessazione del rapporto, anche se nel settore pubblico il relativo provvedimento deve rispettare il termine di 30 giorni per la durata del procedimento amministrativo.

Sempre per i dipendenti pubblici vigono alcune regole particolari: ad esempio, il TFR viene erogato in un’unica soluzione se ammonta al lordo a meno di 50.000 euro, oppure in due rate se inferiore a 100.000 euro o in tre rate annuali, se supera i 100.000 euro.

Prescrizione TFR

Il diritto al pagamento del TFR, ove non venga versato spontaneamente dal datore di lavoro, si prescrive nel termine di cinque anni dalla cessazione del rapporto di lavoro.

Ciò significa che la relativa richiesta di pagamento deve pervenire entro tale termine, affinché si consideri interrotta la prescrizione.

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reato di diffamazione

Il reato di diffamazione Il reato di diffamazione: gli elementi costitutivi e la differenza tra diffamazione, ingiuria e calunnia. In particolare: la diffamazione a mezzo stampa

Quando si può considerare diffamazione?

La diffamazione è l’offesa alla reputazione altrui che si realizza comunicando con altre persone, in assenza della persona offesa.

Il reato di diffamazione è disciplinato dall’art. 595 del codice penale, il quale prevede precisi requisiti e circostanze che devono sussistere affinché la comunicazione offensiva possa comportare la colpevolezza del soggetto agente.

Quali sono i 3 elementi che costituiscono la diffamazione?

Innanzitutto, deve sussistere l’offesa alla persona altrui, attraverso l’utilizzo di parole che abbiano la potenzialità di lederne la reputazione, ossia la considerazione di cui questa gode presso le altre persone.

Inoltre, tali parole devono essere comunicate (non necessariamente a voce, come vedremo) ad almeno due (o più) persone.

Infine, perché si configuri il reato di cui all’art. 595 c.p., l’espressione diffamatoria deve essere comunicata in assenza della persona offesa.

Va evidenziato, inoltre, che, a norma dell’art. 597 c.p., il reato di diffamazione è punibile a querela della persona offesa.

Qual è la differenza tra calunnia e diffamazione?

La circostanza per cui la diffamazione si configura solo se la comunicazione offensiva avviene in assenza della persona offesa occorre a distinguere tale reato dall’ingiuria, che è invece l’offesa ad una persona presente e in grado di percepire direttamente l’espressione pronunciata (l’ingiuria, peraltro, una volta prevista come reato dall’art. 594 c.p., è oggi depenalizzata).

Oltre che dall’ingiuria, la diffamazione va tenuta distinta anche dal reato di calunnia di cui all’art. 368 c.p., nel quale invece si incolpa un altro soggetto di un reato, sapendo che questi è in realtà innocente.

La diffamazione a mezzo stampa

Un particolare mezzo di comunicazione attraverso cui può essere realizzata la diffamazione è la stampa, o altro mezzo di pubblicità.

In tal caso, la pena è aumentata. In linea generale, infatti, il reato di diffamazione è punito con la reclusione fino ad un anno ed una multa fino a 1.032 euro, mentre la diffamazione a mezzo stampa può comportare la condanna alla reclusione fino a tre anni.

Va anche ricordato che, a norma dell’art. 57 c.p., nel caso di diffamazione a mezzo stampa (così come accade per gli altri reati commessi a mezzo della pubblicazione, come ad es. l’illecita diffusione di particolari notizie relative a un procedimento penale ex art. 685 c.p.), oltre all’autore della pubblicazione, sono puniti anche il direttore o il vicedirettore responsabile che non abbiano esercitato il controllo sul contenuto della pubblicazione stessa, finalizzato ad impedire la commissione del reato.

Un inasprimento della pena prevista dal primo comma dell’art. 595 c.p. è previsto anche quando l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato (art. 595 c.p., secondo comma) o quando essa sia recata ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario.

Diffamazione: la dimostrazione della verità del fatto

La disciplina codicistica del reato di diffamazione prevede che l’imputato non possa dimostrare, a sua discolpa, la verità del fatto attribuito alla persona offesa (art. 596 c.p.).

Se, però, si tratta di un fatto determinato, l’imputato e la persona offesa possono accordarsi per deferire la decisione ad un giurì d’onore, cioè ad un collegio di esperti iscritti in particolari elenchi tenuti dal Tribunale.

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danni allo studente

Danni allo studente, scuola esonerata se la causa è imprevedibile L’ordinanza della Cassazione chiarisce che non vi è responsabilità se il danno dell’alunno a sé stesso risulta imprevedibile

La responsabilità della scuola per danni allo studente

Danni allo studente, la responsabilità della scuola è al centro di una importante decisione della Corte di Cassazione, con la quale sono stati chiariti anche il ruolo del Ministero e della compagnia di assicurazione in casi di questo genere.

Risarcimento del danno che lo studente procura a sé stesso

La vicenda trae origine da un infortunio scolastico occorso ad uno studente, il quale era inciampato da solo su una sedia, procurandosi dei danni fisici.

I genitori dell’alunno minorenne ricorrevano presso il giudice di pace per ottenere il risarcimento del danno, vedendo accolta la propria domanda.

La causa era stata instaurata nei confronti dell’istituto scolastico, che chiamava in garanzia la compagnia di assicurazione. Entrambi i soggetti venivano estromessi dal giudizio, poiché ritenuti privi di legittimazione passiva dal giudice. Quest’ultimo, dunque, dichiarava tenuto al risarcimento del danno il Ministero dell’Istruzione, rimasto contumace (cioè non costituitosi in giudizio).

La decisione del giudice di pace veniva confermata in appello dal Tribunale competente.

L’ordinanza della Cassazione sulla responsabilità della scuola

Contro tali provvedimenti, il Ministero dell’Istruzione proponeva ricorso per Cassazione.

Quest’ultima, con l’ordinanza Cass. n. 14720 del 27 maggio 2024, accoglieva il ricorso, offrendo importanti chiarimenti sia sul rapporto di garanzia assicurativa per danni allo studente, sia sulla natura della responsabilità per i danni allo studente e sia, soprattutto, sulla ripartizione dell’onere della prova tra i vari soggetti coinvolti in fattispecie di questo tipo.

Il rapporto di assicurazione con la scuola e il Ministero

In primo luogo, la Suprema Corte ha ritenuto errata la decisione dei giudici di merito di estromettere dal giudizio, per mancanza di legittimazione passiva, sia l’istituto scolastico, sia la compagnia assicurativa.

Al riguardo, gli Ermellini hanno evidenziato che, pur se la polizza viene sottoscritta dall’istituto scolastico, la stessa deve ritenersi a copertura anche dei danni allo studente di cui risponderebbe il Ministero in luogo dell’istituto stesso, poiché in caso contrario il contratto assicurativo dovrebbe essere considerato privo di causa.

A maggior ragione, inoltre, la copertura di tali danni deve essere garantita in considerazione del fatto che, anche nell’atto di stipula del contratto assicurativo, l’istituto scolastico agisce come mero organo del Ministero dell’Istruzione.

Natura della responsabilità della scuola per danni allo studente

Ciò detto, per la Cassazione si è posta la questione di verificare se, nel caso concreto, ci fosse effettivamente un danno da risarcire.

A tal fine, l’analisi si è spostata sulla natura della responsabilità dell’istituto scolastico e del Ministero nei casi in cui lo studente si procuri da sé il danno, nel corso del normale orario delle lezioni.

Ebbene, la Corte ha chiarito che in tal caso sussista una responsabilità contrattuale, per la cui sussistenza, però, occorre la dimostrazione, da parte del danneggiato, del nesso di causalità tra l’inadempimento dell’istituto scolastico e il danno.

Responsabilità della scuola: prova dell’imprevedibilità del danno

Infatti, la ripartizione dell’onere della prova in tema di danni allo studente prevede la sussistenza di una presunzione di responsabilità in capo all’istituto, sempre che l’alunno riesca a dimostrare il nesso di casualità di cui si è appena detto.

D’altro canto, alla scuola, e per essa al Ministero, è concesso dimostrare, per essere considerata esente da responsabilità, l’imprevedibilità e inevitabilità del danno.

Il Ministero, cioè, anche tramite elementi presuntivi, deve dimostrare che l’evento e il danno fossero imprevedibili e inevitabili, ed è proprio quanto accaduto nel caso concreto deciso dall’ordinanza di Cassazione n. 14720/2024.

Infatti, la presenza dell’insegnante al momento dell’accaduto, il rispetto delle normative di sicurezza da parte dell’ente scolastico e l’imprevedibilità del sinistro sono stati ritenuti dalla Corte elementi sufficienti a ritenere esclusa la responsabilità del Ministero.

In conseguenza, veniva cassata la decisione dei giudici di merito, che avevano accolto la domanda di risarcimento avanzata dai genitori dell’alunno.

 

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class action

Class action Le class action sono azioni collettive a tutela degli interessi omogenei di una serie di soggetti. la disciplina codicistica e le azioni a tutela dei consumatori

In che cosa consiste una class action

La class action è un’azione collettiva con cui un insieme di soggetti (ad es.: consumatori) può chiedere contro un unico soggetto il risarcimento di un danno o altra misura analoga oppure la cessazione di un comportamento lesivo dei propri diritti o interessi.

Quando si può fare una class action

Negli ultimi anni, la class action è stata oggetto di alcune rilevanti innovazioni normative, sia nel nostro ordinamento che a livello europeo, tese a rendere questo strumento ancora più vantaggioso, rispetto all’azione esercitabile singolarmente, per il soggetto che si ritiene danneggiato.

Tali novità legislative mirano, dunque, a favorire l’utilizzo delle azioni collettive, finora ancora poco sperimentate nelle aule dei nostri tribunali.

I procedimenti collettivi di cui al codice di procedura civile

Gli interventi normativi di cui sopra si  è detto disciplinano due diversi istituti, tra loro affini ma che riguardano situazioni differenti.

La legge n. 31/2019, introducendo gli artt. 840-bis e seguenti del codice di procedura civile, individua la disciplina dei procedimenti collettivi, azionabili anche da un singolo utente, oltre che da associazioni iscritte in un apposito elenco tenuto dal Ministero della Giustizia, che tutelino gli interessi di quanti si ritengano lesi da un comportamento tenuto dall’impresa o dal gestore di pubblici servizi.

Quante persone servono per fare una class action

Va notato, quindi, che nel caso dei procedimenti collettivi di cui alla disciplina codicistica, il comportamento lesivo può essere tutelato sia con l’azione individuale di un singolo soggetto (art. 840-bis c.p.c., quarto comma), sia come azione di classe; quest’ultima può essere azionata, a sua volta, da ciascun componente della classe (persona fisica o giuridica) oppure da un’organizzazione o associazione senza scopo di lucro, che abbia tra i suoi fini statutari la tutela dei diritti di cui si lamenta la lesione.

Se un’azione di classe, il cui avvio viene reso conoscibile attraverso appositi portali web, viene avviata da più componenti della medesima classe, si dispone la riunione dei vari ricorsi in un unico procedimento.

Il procedimento collettivo mira all’accertamento della condotta lesiva e può portare alla condanna di risarcimento del danno, alle restituzioni o all’inibizione o divieto di prosecuzione di una determinata condotta.

Una caratteristica da sottolineare propria dei procedimenti collettivi disciplinati dal codice di procedura civile è rappresentata dal fatto che non vi sono particolari limitazioni di materia riguardo all’oggetto degli stessi, a differenza, come vedremo tra breve, delle class action disciplinate dal Codice del Consumo.

Class action: le azioni rappresentative del Codice del consumo

Il d.lgs. 28/2023, recependo la Direttiva UE 1828 del 2020, ha introdotto gli artt. 140-ter e ss. del Codice del consumo (d.lgs. 206/2005).

Le azioni rappresentative a tutela degli interessi collettivi dei consumatori possono essere avviate dalle associazioni dei consumatori iscritte in un elenco tenuto dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy, oppure da organismi pubblici indipendenti (ad esempio, il Garante della Privacy) o da enti designato da altri Stati membri dell’Unione Europea.

A differenza dei procedimenti collettivi disciplinati dal codice di procedura civile, quindi, nelle azioni rappresentative disciplinate dal Codice del Consumo non  è prevista la possibilità che la class action origini dall’azione individualmente avviata da una singola persona (fisica o giuridica) componente della classe.

La class action dei consumatori può essere azionata solo in determinate materie che comportino la lesione di interessi collettivi dei consumatori, come ad esempio in presenza di pratiche commerciali scorrette o di pubblicità ingannevole.

Come nei procedimenti collettivi sopra esaminati, anche le azioni rappresentative a tutela dei consumatori possono portare a provvedimenti inibitori o compensativi a carico del professionista/impresa che ha posto in atto il comportamento lesivo.

Ciò significa che il giudice può vietare a quest’ultimo di tenere un determinato comportamento o condannarlo a restituzioni in favore dei danneggiati o al risarcimento del danno a questi arrecato.

Come aderire alla class action

Tra i vantaggi propri delle class action vi è la possibilità, per gli enti legittimati a proporla, di agire senza necessità di raccogliere preventivamente il mandato di ogni interessato. Gli interessati, inoltre, possono manifestare la propria adesione all’azione anche dopo l’emanazione del provvedimento che chiude il giudizio, per beneficiare delle disposizioni risarcitorie in esso contenute.

Inoltre, la disciplina prevede, a favore dei ricorrenti, agevolazioni istruttorie, anche attraverso misure sanzionatorie a carico dell’impresa che non metta a disposizione materiale probatorio in suo possesso; circostanze, quelle appena descritte, che contribuiscono a rendere più favorevole l’azione collettiva rispetto a quella che potrebbe avviare il singolo danneggiato.

servitù di parcheggio

Servitù di parcheggio L’istituto della servitù di parcheggio e il suo tortuoso riconoscimento da parte della giurisprudenza. La decisiva sentenza delle Sezioni Unite n. 3952 del 2024

Cos’è la servitù di parcheggio?

La servitù di parcheggio è un istituto il cui riconoscimento, nel nostro ordinamento, è stato piuttosto controverso, essendosi susseguiti, nel corso degli anni, differenti orientamenti sul tema sia in giurisprudenza che in dottrina.

Da ultimo, la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, n. 3925 del 13 febbraio 2024, rappresenta un’autorevole pronuncia a favore della configurabilità della servitù di parcheggio, laddove le posizioni contrarie tendevano a ricondurre l’utilizzo di un parcheggio nell’alveo dei diritti contrattuali anziché in quello dei diritti reali.

Cosa sono le servitù prediali

Ma perché l’utilizzo di un parcheggio servente ad un’abitazione non ha trovato da subito pacifica collocazione tra le servitù prediali?

Per comprenderlo, è opportuno ricordare che, secondo l’art. 1027 del codice civile, la servitù prediale consiste nel peso imposto sopra un fondo per l’utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario.

In linea più generale, le servitù prediali rientrano tra i diritti reali di godimento. Si tratta, cioè di diritti che conferiscono al titolare un potere immediato e assoluto sulla cosa. L’immediatezza comporta la possibilità di utilizzare il bene senza l’intervento di terzi. L’assolutezza si sostanzia nella possibilità di far valere nei confronti di chiunque (erga omnes) l’esistenza del vincolo sulla cosa.

La servitù di parcheggio nell’autonomia contrattuale

Chiarito ciò, va rilevato, ai fini della nostra analisi, che, a differenza di altre attività (come il transito sul fondo), il parcheggio di un veicolo non è stato inizialmente riconosciuto come strettamente inerente al fondo, ma piuttosto come un’esigenza della singola persona.

In altre parole, l’accordo con cui il proprietario di un fondo (servente) concede ad un altro soggetto la possibilità di parcheggiare un veicolo, veniva sempre ricondotto dalla dottrina ad una fattispecie obbligatoria (come ad es. un contratto di locazione o di comodato gratuito), anche quando l’area di parcheggio era destinata ad essere utilizzata in funzione della vicinanza ad un altro immobile (abitazione o ufficio di chi utilizza il veicolo: fondo dominante).

Il parcheggio come diritto reale

Cosa implicano le diverse ricostruzioni che possono essere date a questa fattispecie?

Innanzitutto, se l’utilizzatore del parcheggio viene considerato titolare di un diritto personale di godimento (come avviene nel caso della locazione), non potrà avvalersi delle azioni reali a difesa del proprio diritto nei confronti di chiunque, ma potrà solo rivolgersi contro il concedente in base al rapporto obbligatorio in essere.

Inoltre, in caso di alienazione del fondo servente, il nuovo proprietario non sarà tenuto a riconoscere la sussistenza del diritto di parcheggio concesso dal precedente proprietario. Diversamente, laddove il diritto dell’utilizzatore dell’area sia riconosciuto come servitù di parcheggio (quindi inerente al fondo) egli potrà continuare ad esercitare il suo diritto anche nei confronti del nuovo proprietario del fondo servente.

Giurisprudenza sulla servitù di parcheggio

Chiariti i termini della questione e le sue implicazioni pratiche, andiamo ora ad esaminare cosa è avvenuto in dottrina e giurisprudenza riguardo a questo tema.

Un primo orientamento, come si è detto, riteneva di non ammettere la configurabilità di un diritto reale di servitù di parcheggio, poiché si riteneva sussistere un interesse della persona all’attività di parcheggio, piuttosto che un’utilità inerente al fondo dominante.

Successivamente, la Corte di Cassazione, con la sent. 7561/2019, ha aperto all’ammissibilità dell’istituto della servitù di parcheggio, invitando i giudici, in sostanza, ad indagare ed interpretare il contenuto del contratto, per comprendere se le parti abbiano voluto costituire una servitù, individuando un diritto che avesse – come ogni diritto reale – i caratteri dell’assolutezza e dell’immediatezza, oltre che dell’inerenza ai fondi servente e dominante.

Allo stesso tempo, la dottrina ha posto l’attenzione su un altro aspetto decisivo per individuare se, nel caso concreto, si sia in presenza di una servitù di parcheggio o di un diritto personale di godimento: la residua sussistenza, in capo al titolare del fondo servente, di una possibilità di utilizzo del fondo.

Se ciò accade, allora si è in presenza di una servitù, poiché questa comprime, ma non “svuota”, la possibilità di godimento del proprio fondo. Diversamente, una locazione dell’area di parcheggio conferisce l’esclusività di utilizzo dell’area.

La sentenza n. 3925/2024 delle Sezioni Unite

In questo solco si inserisce la sentenza delle Sezioni Unite di cui si diceva in apertura di trattazione.

La sentenza delle SS.UU. n. 3925 del 13 febbraio 2024, infatti, evidenzia l’onere, per i giudici merito, di esaminare il contenuto del contratto, per verificare la sussistenza dei requisiti del diritto reale su cosa altrui (servitù).

Contestualmente, viene evidenziata la necessità che dalla pattuizione emergano con precisione anche altri particolari, come la puntuale localizzazione dell’area destinata al parcheggio: proprio in tal modo, infatti, può dedursi la permanenza di una residua utilità del fondo anche in capo al proprietario del fondo servente.

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accertamento tecnico preventivo

Accertamento tecnico preventivo (ATP) L’accertamento tecnico preventivo è un mezzo istruttorio che può essere richiesto prima dell’instaurazione del giudizio: presupposti e disciplina dell’ATP

Cos’è un accertamento tecnico preventivo?

L’accertamento tecnico preventivo, detto anche ATP, è un mezzo istruttorio che viene assunto in condizioni di urgenza, in vista dell’instaurazione di un giudizio (e quindi prima del giudizio stesso), per accertare lo stato dei luoghi o la condizione di cose in un preciso momento.

Lo scopo dell’ATP è quello di accertare tali condizioni prima che possano cambiare e rendere conseguentemente impossibile un successivo rilievo.

Come si richiede l’ATP ex art. 696 c.p.c.

Il procedimento finalizzato all’accertamento tecnico preventivo rientra tra quelli di istruzione preventiva disciplinati dal codice di procedura civile ed è regolato dall’art. 696 c.p.c. 

L’ATP si richiede con ricorso al giudice che sarebbe competente per il giudizio di merito (o, in casi di eccezionale urgenza, al giudice del luogo in cui la prova deve essere assunta), in cui devono essere indicati i motivi che giustificano l’urgenza del provvedimento richiesto.

Se ritiene di accogliere il ricorso, in considerazione della ragionevole fondatezza dell’istanza (fumus boni iuris) e del possibile pregiudizio paventato dal richiedente derivante dall’eventuale inerzia (periculum in mora), il giudice nomina un consulente tecnico d’ufficio (CTU) e fissa l’udienza a cui partecipano le parti in contraddittorio e il consulente stesso.

Il ricorso per ATP, ove accolto, deve essere notificato alla controparte insieme al decreto di fissazione dell’udienza.

Se il CTU accetta l’incarico, il giudice fissa la data dell’inizio delle operazioni peritali e assegna al consulente un termine per il deposito della relazione conseguente all’accertamento.

Chi paga il CTU in un accertamento tecnico preventivo?

Il carattere di urgenza dell’accertamento tecnico preventivo può essere dovuto a svariate motivazioni, come la deperibilità di un oggetto, il pericolo di alterazione dello stato dei luoghi o la necessità improcrastinabile di provvedere al ripristino degli stessi, senza poter attendere i tempi di un giudizio.

Si tratta, in sostanza, di un procedimento cautelare volto a “immortalare” le condizioni di un luogo o di una cosa, prima che le stesse possano cambiare.

Al sopralluogo finalizzato all’accertamento tecnico preventivo possono presenziare anche i consulenti tecnici di parte (CTP), delle cui osservazioni il CTU deve dar conto.

Una volta depositata la relazione, il procedimento di istruzione preventiva si chiude, con addebito delle relative spese in capo al richiedente. Salva la possibilità che le stesse vengano poi rifondate in caso di instaurazione del giudizio di merito e accoglimento della domanda con contestuale condanna del soccombente al pagamento delle spese di giudizio.

Le valutazioni del CTU nell’accertamento tecnico preventivo

Nel corso del tempo, la disciplina dell’accertamento tecnico preventivo è stata affinata dal legislatore, anche sulla scorta di alcune pronunce della Corte Costituzionale.

In particolare, è stata ammessa la possibilità di svolgere l’ATP anche sulla persona del richiedente o, ove vi sia consenso, sula persona nei cui confronti è diretta l’istanza.

Inoltre, dopo la novella legislativa in vigore dal 2006, l’accertamento tecnico preventivo può anche comprendere valutazioni del CTU sulle cause e sui danni provocati dall’evento sul bene oggetto di accertamento.

L’accertamento preventivo sui crediti ex art. 696 bis

Un’altra novità introdotta dalla novella del 2005 è la possibilità di esperire la consulenza tecnica preventiva anche in assenza di pericolo di dispersione della prova, per l’accertamento e la determinazione di crediti derivanti da fatto illecito o dalla mancata o inesatta esecuzione di obblighi contrattuali (art. 696-bis c.p.c.).

In tal caso, al consulente è demandato anche l’esperimento del tentativo di conciliazione tra le parti.

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diritto di proprietà

Diritto di proprietà Il diritto di proprietà nell’ordinamento italiano: il contenuto, i modi di acquisto e i limiti imposti dalla legge. In particolare: la funzione sociale prevista dalla Costituzione

Cosa si intende per diritto di proprietà

Il diritto di proprietà è il più importante ed esteso dei diritti reali, cioè di quei diritti che individuano il potere del soggetto su una cosa. Come dispone l’art. 832 del codice civile, il titolare del diritto di proprietà su un bene ha diritto di goderne in modo esclusivo e di disporne a proprio piacimento (ad esempio, di venderlo o di donarlo), entro i limiti previsti dall’ordinamento.

Per comprendere quali siano tali limiti, occorre fare riferimento al dettato costituzionale in tema di proprietà.

Il diritto di proprietà nella Costituzione. La funzione sociale

Secondo l’art. 42 della Costituzione, la proprietà deve avere una funzione sociale. Ciò significa che lo scopo di tale istituto non è meramente quello di soddisfare l’interesse del suo titolare: esempi di limitazioni del diritto di proprietà per perseguire una funzione sociale sono la previsione di un prezzo calmierato per gli affitti (si pensi al c.d. equo canone, nell’esperienza dell’ordinamento italiano), l’acquisto per usucapione (di cui si dirà oltre) e l’espropriazione del bene.

Quest’ultima ipotesi è espressamente prevista dal terzo comma della norma appena citata, il quale dispone che la proprietà privata può essere espropriata per motivi di interesse generale, salvo il riconoscimento di un indennizzo in favore del titolare. L’entità di tale indennizzo deve essere giusta, a norma dell’art. 834 c.c., pur non dovendo corrispondere al valore di mercato del bene; a tal riguardo, la Corte Costituzionale ha parlato di “serio ristoro” del sacrificio del privato (in questo senso, vedasi la risalente sentenza Corte Cost. n. 5/1980).

Come si può acquistare il diritto di proprietà?

Su un piano più generale, l’art. 42 Cost. dispone che la proprietà può essere pubblica o privata (a seconda della natura del soggetto titolare del bene) e che la stessa è “riconosciuta e garantita” dalla legge, che ne determina i modi di acquisto ed i limiti.

Quanto ai modi di acquisto, essi possono essere a titolo originario (cioè, quando l’acquisto avviene indipendentemente dalla volontà di un altro soggetto) o a titolo derivativo, come avviene nelle comuni compravendite o donazioni (atti inter vivos) o nelle successioni (atti mortis causa, richiamati anche dall’art. 42 Cost. ultimo comma); particolari modi acquisto della proprietà sono, inoltre, l’espropriazione per pubblica utilità, di cui si è detto sopra, o la confisca.

I modi di acquisto della proprietà a titolo originario sono puntualmente elencati dall’art. 922 del codice civile e sono l’occupazione, l’invenzione, l’accessione, la specificazione, l’unione o commistione e l’usucapione.

Quest’ultima, come più sopra accennato, si sostanzia in un istituto che tutela la funzione sociale della proprietà e valorizza l’operato del soggetto che, pur non effettivo titolare della proprietà sul bene, ne ha esercitato il possesso per un determinato periodo di tempo come se ne fosse stato il proprietario (ad esempio, un soggetto che abbia coltivato, e quindi reso fruttuoso anche per la collettività, un terreno non suo).

Per maggiori dettagli, vi rimandiamo a Usucapione e buona fede

La disciplina civilistica della proprietà

Con particolare riguardo alla proprietà fondiaria (terreni e costruzioni), la normativa civilistica pone una dettagliata disciplina in tema di rispetto delle distanze tra gli immobili, dell’apertura di luci e vedute (es. finestre), di comunione forzosa dei muri, di scarico delle acque etc. (artt. 873 e ss. cod. civ.).

Analogamente, viene disciplinata l’estensione della proprietà, la quale si estende lungo la sua superficie in orizzontale (con diritto del proprietario di recintarne i confini) e in modo verticale, “nella sua proiezione verso il sottosuolo e verso lo spazio aereo soprastante” (artt. 840 e ss. c.c.).

Le azioni a difesa della proprietà

In questo breve excursus sulle linee generali che definiscono il diritto di proprietà nel nostro ordinamento, vanno necessariamente ricordate le azioni a difesa della proprietà, previste dal codice civile, e in particolare le c.d. azioni petitorie previste dagli artt. 948 ss. del codice civile.

Nello specifico, l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.) mira a consentire al proprietario che abbia perso il possesso del bene di rivendicare lo stesso e recuperarlo. Con l’azione negatoria (art. 949 c.c.), invece, il proprietario mira a far accertare il proprio diritto e a far dichiarare l’inesistenza dei diritti affermati da altri sulla cosa.

In tema di diritto di proprietà, ricordiamo anche alcuni casi specifici, come la comunione (in cui la proprietà su un bene spetta a più soggetti) e il condominio; la c.d. proprietà intellettuale su opere e invenzioni (si veda l’articolata disciplina su marchi e brevetti); e la c.d. proprietà fiduciaria.

responsabilità medica

Responsabilità medica: la legge Gelli-Bianco Responsabilità del medico e della struttura sanitaria nella legge Gelli-Bianco: differenze, termini di prescrizione e onere della prova per il paziente

La legge sulla responsabilità per danno da colpa medica

Responsabilità medica: la legge n. 24 del 2017, più nota come legge Gelli-Bianco, rappresenta il provvedimento normativo di riferimento in materia.

Con tale legge sono state introdotte importanti novità che hanno contribuito a delimitare in modo più chiaro i confini della responsabilità sanitaria del medico e della struttura presso cui opera, in caso di danni provocati al paziente.

Imperizia e responsabilità penale del medico nella l. 24/2017

Una prima importante novità apportata dalla legge Gelli-Bianco è stata quella di prevedere una causa di esclusione della punibilità del medico in ambito penalistico.

Il provvedimento, infatti, ha introdotto, nel secondo comma dell’art. 590-sexies del codice penale (relativo alla responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario), la previsione secondo cui è esonerato da responsabilità medica il sanitario che abbia causato l’evento dannoso per il paziente a causa di imperizia, se risulta che lo stesso si sia attenuto alle linee guida sanitarie e alle buone pratiche, ove queste risultino adeguate alle specificità del caso concreto.

Di contro, rimane penalmente responsabile il medico che abbia agito con negligenza o imprudenza.

A conferma di quanto sopra si è successivamente espressa anche la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza Cass. SS.UU. n. 8770 del 2018.

Responsabilità sanitaria nella legge Gelli-Bianco

Anche sul piano civilistico, la Legge Gelli-Bianco si è rivelata importante per definire i contorni della responsabilità sanitaria, introducendo una disciplina che favorisce, in sostanza, la richiesta di risarcimento del danno da parte del paziente nei confronti della struttura anziché del medico.

Al riguardo, è opportuno distinguere le varie ipotesi.

Responsabilità contrattuale

Innanzitutto, quando il sanitario opera nell’ambito di una struttura pubblica o privata, la responsabilità medica è considerata di natura contrattuale, in virtù del c.d. contratto di spedalità tra il paziente e la struttura stessa.

In caso di danno da responsabilità medica, quindi, il paziente potrà agire per il risarcimento direttamente nei confronti della struttura.

È vero che rimane possibile, in linea teorica, agire anche contro il medico, ma l’inquadramento normativo della responsabilità di quest’ultimo rende, in concreto, difficilmente percorribile questa strada.

Responsabilità extracontrattuale

Infatti, la responsabilità del medico dipendente di una struttura (o che operi per essa in ambito intramurario, collaborando con partita Iva) è considerata di natura extracontrattuale.

Prescrizione e onere della prova

Per il paziente, quindi, si presenta più agevole richiedere il risarcimento direttamente alla clinica, dal momento che la natura contrattuale del rapporto che egli ha instaurato con essa (ex artt. 1218 e 1228 c.c.) comporta che il termine di prescrizione dell’azione sia decennale e che l’onere della prova per il danneggiato sia limitato all’esistenza di tale rapporto, sussistendo una presunzione di colpa in capo alla struttura ex art. 1218 c.c.

Un’eventuale richiesta di risarcimento verso il medico ex art. 2043 c.c. (sulla base, quindi, di una responsabilità extracontrattuale o aquiliana, come previsto dall’art. 7 della legge 24/2017), invece, deve rispettare un termine di prescrizione di soli cinque anni e risulta molto più gravosa per il paziente in ordine alla prova, poiché quest’ultimo avrebbe l’onere di dimostrare non solo il danno, ma anche il fatto illecito, il nesso di causalità tra evento e danno e l’elemento soggettivo (dolo o colpa grave) che ha accompagnato la condotta del sanitario.

Azione diretta del paziente contro l’assicurazione

A corollario di quanto sopra, va anche ricordato che il paziente, a norma della Legge Gelli-Bianco, ha azione diretta anche nei confronti dell’impresa di assicurazione della struttura sanitaria, come meglio specificato dal recente Decreto interministeriale n. 232 del 15 dicembre 2023, in vigore dal 16  marzo 2024.

Inoltre, è opportuno evidenziare che la struttura sanitaria ha diritto all’azione di rivalsa nei confronti del medico che abbia agito con dolo o colpa grave e che quest’ultimo può essere destinatario dell’azione per responsabilità amministrativa da parte della Corte dei Conti.

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L’obbligo di assicurazione professionale per il medico

Infine, rimane da considerare il caos in cui il medico operi al di fuori di una struttura sanitaria, e quindi in qualità di libero professionista. In tal caso sussiste un rapporto contrattuale tra lui ed il paziente e proprio per tale motivo egli è tenuto, per legge, a sottoscrivere una polizza assicurativa per eventuali danni arrecati nell’ambito della propria attività professionale.

affidamento condiviso

Affidamento condiviso L’affido condiviso e il principio di bigenitorialità: la centralità degli interessi del minore nei provvedimenti del giudice sulla separazione dei coniugi

L’affidamento condiviso nella separazione

L’affidamento condiviso è la condizione in cui, di regola, si trovano i figli in conseguenza della separazione dei genitori.

L’affido congiunto si contrappone ad altre possibili soluzioni che il giudice può adottare in sede di separazione dei coniugi con prole, come ad esempio l’affido esclusivo ad uno solo dei genitori in considerazione di particolari circostanze (in particolare, quando l’affidamento all’altro genitore, anche in via condivisa, sia contrario all’interesse del minore).

Affido condiviso come funziona

Fino all’emanazione della legge 54/2006, la regola, in tema di affidamento dei figli in sede di separazione, era rappresentata dall’affido esclusivo. Con tale provvedimento legislativo, invece, si è scelto di rendere centrale il ruolo dell’affido condiviso paritario per garantire, da un lato il diritto di ciascun coniuge all’esercizio della responsabilità genitoriale e alla partecipazione alle decisioni più importanti nell’interesse dei figli, e dall’altro, il diritto di questi ultimi alla c.d. bigenitorialità.

Il principio della bigenitorialità

Il principio della bigenitorialità è riassunto nella formula dell’art. 337-ter del codice civile, in base al quale “il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”.

Più in generale, il secondo comma della norma citata evidenzia come oggi l’affidamento condiviso rappresenti la regola, in quanto impone al giudice, in caso di separazione dei coniugi, di valutare prioritariamente “la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori”. Solo quando tale strada non sia percorribile egli è chiamato a stabilire a quale dei genitori i figli debbano essere affidati, fermi restando il diritto e il dovere di ciascuno dei genitori di contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli.

Quali sono le regole per l’affidamento condiviso

Il regime di affido paritario non esclude, peraltro, che tra i due genitori ne sia individuato uno presso la cui abitazione i figli continueranno a dimorare.

Il collocamento dei figli

Al genitore collocatario, di norma, è concessa la possibilità di continuare ad abitare nella casa familiare. In tal caso, all’altro genitore viene garantita la presenza dei figli presso il proprio domicilio (evidentemente, una casa diversa presso cui il coniuge non collocatario è andato a vivere dopo la separazione). Sta al giudice, in assenza di accordo tra le parti, individuare i giorni o i periodi in cui i figli si trasferiscono presso l’abitazione del genitore non collocatario (frequente è, ad esempio, l’adozione di provvedimenti giudiziali che prevedano i c.d. fine settimana alternati presso ciascun genitore).

Una particolare tendenza emersa nelle decisioni della più recente giurisprudenza è quella di prevedere, nell’interesse dei figli, che questi abitino permanentemente nella casa familiare e che ad alternarsi nella presenza all’interno di essa siano gli ex coniugi.

In altre parole, tali provvedimenti mirano a garantire una stabilità emotiva, nei rapporti e nella vita quotidiana, in favore dei figli ed evitare che questi ultimi siano trattati, come si usa dire, come “pacchi postali”, in continua peregrinazione tra le attuali abitazioni dei due genitori. I giudici che seguono tale orientamento impongono, dunque, a ciascun genitore di abbandonare, in determinati giorni, la casa familiare per far posto all’altro coniuge.

Tale filone giurisprudenziale, che annovera anche autorevoli pronunce di legittimità (v. Cass., ord. n. 6810/2023), incontra, per avverso, le critiche di chi vi scorge un’eccessiva gravosità per i coniugi nella gestione della propria vita e dei propri rapporti quotidiani.

Quando decade l’affidamento condiviso

In ultima analisi, con l’affido condiviso viene garantita la partecipazione di entrambi i genitori alle più importanti decisioni relative alla cura e all’educazione dei figli, si pensi ad esempio al percorso scolastico da seguire, alle attività extrascolastiche da praticare o alle scelte in ambito sanitario, come la decisione di sottoporsi o meno ad un vaccino.

In ogni caso, ai figli minori è garantito l’ascolto da parte del giudice, ai sensi dell’473 bis 4 c.p.c. che prevede in capo al minore che abbia compiuto gli anni dodici (o meno, se capace di discernimento) un generale diritto di essere ascoltato in relazione ai provvedimenti giudiziali che lo riguardano.

Infine, va ricordato che ogni provvedimento giudiziale in tema di affidamento dei figli – ivi compreso quello che dispone sull’assegno di mantenimento  – può essere sottoposto a revisione su richiesta di uno dei genitori, ai sensi dell’art. 337-quinquies c.c.

giustizia riparativa

Giustizia riparativa La giustizia riparativa dopo la Riforma Cartabia: lo scopo, le procedure di mediazione, i possibili esiti e i benefici per l’imputato

Giustizia riparativa, cosa si intende

La giustizia riparativa è un modello di giustizia penale incentrato sulla gestione degli effetti pregiudizievoli causati da un reato, anziché sulla punizione dell’autore del reato, come è invece il sistema penale tradizionale.

Oggetto di elaborazioni dottrinali anche molto risalenti nel tempo, il modello di giustizia riparativa ha trovato recente consacrazione sia a livello europeo, con la Direttiva UE n. 29/2012, sia nell’ordinamento italiano, con l’introduzione delle norme contenute negli artt. 42-67 del d.lgs. 150/2022 (c.d. Riforma Cartabia).

Giustizia riparativa e obbligo dell’esercizio dell’azione penale

Il percorso di giustizia riparativa delineato dalla Riforma Cartabia si caratterizza, innanzitutto, per essere un percorso facoltativo, cioè lasciato alla libera scelta dei soggetti coinvolti, e soprattutto non alternativo all’azione penale “tradizionale”.

Il nostro sistema penale, infatti, non lascia scelta alle parti (e in particolare al pubblico ministero) in ordine alla possibilità di esercitare l’azione penale, che è obbligatoria (cfr. art. 112 Costituzione). ciò significa che il p.m., ogni qual volta abbia notizia di un reato, deve attivarsi, ferma restando la possibilità di richiedere l’archiviazione al giudice per le indagini preliminari, ove gli elementi raccolti durante l’indagine non siano ritenuti idonei a sostenere l’accusa.

I possibili benefici per l’imputato

Così intesa, dunque, la giustizia riparativa si pone come un momento di dialogo tra la vittima ed il reo (ed altri soggetti intermediari, come vedremo tra breve), che ha come finalità, da un lato, la ricerca di una riparazione, anche simbolica, degli effetti del reato, all’esito di un percorso in cui la vittima ha anche l’occasione di elaborare l’accaduto e di esprimere sensazioni ed esigenze che invece difficilmente trovano posto nell’azione penale (va precisato che per “vittima”, a questo riguardo, si intende anche il familiare della persona la cui morte è stata causata dal reato, cfr. art. 42 del decreto 150/22).

Dall’altro lato, l’esito positivo del percorso di giustizia riparativa consente al reo di ottenere dei benefici nell’ambito dell’azione penale esercitata dal p.m. (si ricordi che, ove intrapreso, il percorso di giustizia riparativa va di pari passo – senza in alcun modo sostituire – con l’azione penale “tradizionale”).

Riparazione del reato circostanza attenuante

Nello specifico, la riparazione del reato eventualmente conseguita nell’ambito della procedura di giustizia riparativa può essere considerata come circostanza attenuante e quindi comportare una diminuzione della pena; può valere quale rimessione tacita di querela; e può condurre alla sospensione condizionale della pena per un anno.

Giustizia riparativa accessibile senza preclusioni

Va evidenziato che, a norma dell’art. 44 del d.lgs. 150/22 Riforma Cartabia, i programmi di giustizia riparativa sono accessibili per qualsiasi reato, senza preclusioni in relazione alla sua gravità, e possono essere attivati in ogni stato e grado del procedimento penale (art. 129-bis c.p.p.), d’ufficio dal giudice o su richiesta dell’imputato o della vittima.

Come chiedere giustizia riparativa?

Dal punto di vista procedurale, le procedure di giustizia riparativa si svolgono con l’intervento di mediatori terzi abilitati che operano presso gli appositi Centri per la giustizia riparativa, nell’ambito di un sistema che opera sotto la vigilanza del Ministero della Giustizia.

Partecipano ai programmi di giustizia riparativa la vittima del reato, la persona indicata come autore dell’offesa ed eventualmente altri soggetti appartenenti alla comunità, come i familiari, persone di supporto e rappresentanti di enti locali o di altri enti pubblici.

Tali programmi mirano a promuovere il riconoscimento della vittima del reato, la responsabilizzazione dell’imputato e la ricostituzione dei legami con la comunità (art. 43 comma 2 del decreto citato).

Gli esiti della mediazione nella giustizia riparativa

All’esito della procedura di mediazione nella giustizia riparativa, l’esperto redige una relazione in cui, tra l’altro, dà conto degli esiti della stessa e la trasmette al giudice del procedimento penale, il quale, in base alle risultanze, può riconoscere in favore dell’imputato i vantaggi di cui si è detto sopra.

Quanto all’esito del programma di giustizia riparativa, esso, quando positivo, può consistere in un esito simbolico, come ad esempio scuse formali, impegni comportamentali anche pubblici o accordi tra vittima e imputato relativi alla frequentazione di persone o luoghi (art. 56 del decreto citato); oppure in un esito materiale, come il risarcimento del danno, una restituzione o l’adoperarsi dell’imputato per attenuare le conseguenze del reato.

In chiusura, va evidenziato che il principale scopo della giustizia riparativa non è quello di alleviare la pena dell’imputato, ma quello di proporre un percorso alternativo che metta al centro il dialogo e soprattutto il racconto della vittima, per individuare, in concreto, l’azione riparatoria più idonea a ricostruire il legame sociale danneggiato.

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