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Spese sanità: prima vanno sacrificate le altre spese Prima di sacrificare le spese per la sanità, afferma la Consulta vanno prioritariamente ridotte le altre spese indistinte

Spese sanità: l’intervento della Consulta

Spese sanità: prima di sacrificarle devono essere prioritariamente ridotte le altre spese indistinte. In un contesto di risorse scarse, «per fare fronte a esigenze di contenimento della spesa pubblica dettate anche da vincoli euro unitari, devono essere prioritariamente ridotte le altre spese indistinte, rispetto a quella che si connota come funzionale a garantire il “fondamentale” diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost., che chiama in causa imprescindibili esigenze di tutela anche delle fasce più deboli della popolazione, non in grado di accedere alla spesa sostenuta direttamente dal cittadino, cosiddetta out of pocket». È quanto si legge nella sentenza n. 195/2024, con cui la Corte costituzionale ha deciso il ricorso della Regione Campania avverso l’art. 1, commi 527 e 557, della legge 30 dicembre 2023, n. 213 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2024 e bilancio pluriennale per il triennio 2024-2026).

Spese sanità: le questioni

La Corte ha dichiarato non fondate diverse questioni, che riguardavano la legittimità della misura, le modalità e la durata del concorso delle regioni agli obiettivi di finanza pubblica, stabilite dalla legge di bilancio 2024 nelle more della nuova governance economica europea, che, peraltro, mostrano la volontà del legislatore statale di non far gravare il suddetto contributo sulle spese relative alla missione 12, Diritti sociali, politiche sociali e famiglia, e alla missione 13, Tutela della salute.

La sentenza ha però sollecitato il legislatore, al fine di «scongiurare l’adozione di “tagli al buio”», ad «acquisire adeguati elementi istruttori sulla sostenibilità dell’importo del contributo da parte degli enti ai quali viene richiesto» e a non trascurare, per garantire maggiore effettività al principio di leale collaborazione, il coinvolgimento della Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica, di cui l’art. 5 della legge 5 maggio 2009, n. 42.

Illegittimità costituzionale art. 1, co. 527, legge bilancio 2024

La sentenza ha poi dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 527, quinto periodo, della legge di bilancio per il 2024, ma solo nella parte in cui non esclude dalle risorse che è possibile ridurre, a seguito del mancato versamento del contributo dovuto da parte delle regioni, quelle spettanti per il finanziamento dei diritti sociali, delle politiche sociali e della famiglia e, in particolare, della tutela della salute.

Ciò in quanto, «nemmeno nel caso in cui la regione non abbia versato la propria quota del contributo alla finanza pubblica, lo Stato può “rispondere” tagliando risorse destinate alla spesa costituzionalmente necessaria, tra cui quella sanitaria – già, peraltro, in grave sofferenza per l’effetto, come si è visto, delle precedenti stagioni di arditi tagli lineari – dovendo quindi agire su altri versanti che non rivestono il medesimo carattere»: il diritto alla salute, infatti, «coinvolgendo primarie esigenze della persona umana», non può essere sacrificato «fintanto che esistono risorse che il decisore politico ha la disponibilità di utilizzare per altri impieghi che non rivestono la medesima priorità».

Illegittimità costituzionale art. 1 comma 557 l. 213/2023

Da ultimo, la sentenza ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 557 dell’art. 1 della legge n. 213 del 2023, nella parte in cui non prevede che il decreto del Ministro della salute, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, diretto a individuare i criteri e le modalità di riparto, nonché il sistema di monitoraggio dell’impiego delle somme, del «Fondo per i test di Next-Generation Sequencing per la diagnosi delle malattie rare», sia adottato d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano.

la decisione di quotazione

La decisione di quotazione La decisione di quotazione in borsa, una delle scelte più difficili da intraprendere nel corso di vita di una società

Decisione di quotazione in borsa

La decisione di quotazione in Borsa è una delle scelte più difficili e importanti da intraprendere nel corso di vita di una società, in quanto tale procedimento può creare valore per gli azionisti e influire positivamente su tutti gli aspetti di gestione ordinaria dell’attività d’impresa.

Opportunità per le aziende

Secondo una visione convenzionale, tale processo è una fase da perseguire ai fini di crescita aziendale. La quotazione in Borsa rappresenta da sempre un’opportunità per le aziende che hanno l’ambizione di crescere. Del resto, non è possibile affermare che una società abbia necessariamente bisogno di quotarsi in Borsa per espandersi. Basti pensare al contesto italiano attuale, nel quale, tra le tante piccole imprese familiari, si osservano alcune imprese di grandi dimensioni e longeve – anche queste principalmente a conduzione familiare –, che dispongono di un capitale chiuso. Come dato di fatto, è possibile affermare che, secondo Pagano et al., «Nei Paesi Europei, come la Germania e l’Italia, le società quotate sono l’eccezione invece che la regola, e molte società private sono molto più grandi rispetto alla media delle società quotate».

Il panorama italiano

A favore di ciò, è possibile osservare alcuni dati del mondo italiano: parte delle più grandi società italiane non è quotata in Borsa. Tra queste, è possibile ricordare la storica Ferrero, fondata nel dopoguerra dall’omonima famiglia, che ha chiuso il bilancio consolidato 2022/2023 al 31 agosto 2023 con un fatturato di circa 17 miliardi di euro; un’altra società italiana famosa in tutto il mondo che presenta un capitale chiuso è la Barilla. La multinazionale conta circa 10 mila dipendenti in tutto il mondo e un fatturato di circa 4,872 miliardi di euro al 2023. Ancora, altra grande azienda italiana non quotata è Lavazza, con 3,06 miliardi di euro di fatturato al 2023.

Per quel che riguarda le società quotate, al 30 settembre 2024, i mercati di Borsa Italiana ne contano 426, di cui, 339 sono costituite da un Market Cap inferiore a 1 miliardo di euro e sono considerate PMI. Ciò fa comprendere il grande lavoro che sta svolgendo Borsa Italiana Spa, Gruppo Euronext di invogliare sempre più imprese ad accedere al mercato dei capitali di rischio nonostante queste siano considerate medie e piccole da un punto di vista dimensionale, cercando di confrontarsi con il contesto internazionale e anche intercontinentale. Il contesto italiano sta cercando di incentivare le aziende con alto potenziale di crescita a quotarsi per fare in modo che queste crescano e favoriscano lo sviluppo del mercato dei capitali italiano, meno efficiente di altri mercati intercontinentali.

Quotazione in borsa e crescita aziendale

Anche se la quotazione in Borsa non è un fattore cruciale per la crescita aziendale, l’aspetto dimensionale può in parte influire sulla decisione di quotazione: più la società è grande e maggiore sarà la probabilità che questa si quoti in Borsa per aprire il proprio capitale (Pagano et al., 1998).

Ciò aprirebbe un divario tra il modello societario degli Stati Uniti e quello italiano: la differenza sostanziale, che ora si sta cercando di ridurre, come dimostrano i numerosi incentivi degli ultimi anni (si consideri il D.L. 50/2017 a favore della quotazione delle PMI), è che, mentre nel primo contesto è possibile trovare società che si quotano anche nelle prime fasi di vita, nel secondo, come già osservato, le imprese affrontano un viaggio molto lungo prima di arrivare alla quotazione e, certe volte, può essere una scelta da non voler prendere in considerazione.

Comprendere il perché di questa discrepanza significherebbe dover analizzare una serie di fattori contestuali per ambo i modelli: l’efficienza del mercato dei capitali, il contesto legale (alta protezione degli investitori vs. bassa protezione degli investitori), la struttura proprietaria (proprietà frazionata vs. alta concentrazione proprietaria), la presenza dello Stato nella proprietà delle società e tanti altri aspetti. In ogni caso, è possibile affermare che l’aspetto dimensionale di una società può influire sulla scelta di quotazione in Borsa, poiché tutti i costi relativi a tale procedimento non aumentano proporzionalmente, dunque, peserebbe di più sulle società più piccole.

 

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pignoramento della pensione

Pignoramento della pensione: limiti Il pignoramento della pensione è soggetto a specifici limiti per garantire al titolare il minimo vitale per il suo sostentamento

Cos’è il pignoramento della pensione

Il pignoramento della pensione è un argomento di grande interesse per molti pensionati italiani, soprattutto per coloro che si trovano in difficoltà economiche e rischiano di vedere una parte della propria pensione decurtata per estinguere alcuni debiti.

In questo contesto, l’articolo 545 del Codice di Procedura Civile stabilisce i limiti e le modalità con cui è possibile procedere al pignoramento delle somme erogate come pensione.

Cosa dice l’articolo 545 del Codice di Procedura Civile

L’articolo 545 del Codice di procedura civile regola il pignoramento dei crediti che il debitore vanta nei confronti di terzi, tra i quali rientrano anche le pensioni. Questo articolo prevede specifiche limitazioni per tutelare il diritto alla sussistenza del debitore, affinché non si vedano compromessi i mezzi di sostentamento minimo necessari per vivere dignitosamente.

La legge cerca infatti di bilanciare la necessità di soddisfare i crediti con il diritto del debitore a conservare una parte delle proprie entrate, soprattutto quando queste derivano dai trattamenti pensionistici.

La pensione, infatti, può essere pignorata solo in parte. Il comma 7 statuisce che: “Le somme da chiunque dovute a titolo di pensione, di indennità che tengono luogo di pensione o di altri assegni di quiescenza, non possono essere pignorate per un ammontare corrispondente al doppio della misura massima mensile dellassegno sociale, con un minimo di 1.000 euro. La parte eccedente tale ammontare è pignorabile nei limiti previsti dal terzo, dal quarto e dal quinto comma nonché dalle speciali disposizioni di legge”. 

Pignoramento della pensione: il minimo “vitale”

Il minimo vitale è un concetto fondamentale nella regolamentazione del pignoramento della pensione. L’articolo 545 stabilisce infatti che una parte della pensione debba sempre rimanere intoccabile, per garantire che il pensionato non resti senza i mezzi necessari per il suo sostentamento.

Se l’importo della pensione è già basso e il pignoramento ridurrebbe eccessivamente la somma disponibile per il mantenimento, il giudice può intervenire per ridurre l’ammontare pignorabile, sempre tenendo conto delle esigenze di vita del pensionato.

Dal 2022 il minimo della pensione impignorabile è di euro 1.000,00. Questo significa che le pensioni inferiori a 1.000,00 mensili non possono essere pignorate; le pensioni di importo superiore possono essere pignorate, ma solo per la parte eccedente.

Ad ogni modo, per limporto eccedente il minimo vitale, il pignoramento è possibile solo per un quinto delleccedenza (e non per l’intera eccedenza).

I crediti impignorabili

L’art. 545 del Codice di procedura civile “elenca” i crediti impignorabili, stabilendo al comma 1, che “Non possono essere pignorati i crediti alimentari, tranne che per cause di alimenti, e sempre con lautorizzazione del presidente del Tribunale o di un giudice da lui delegato e per la parte dal medesimo determinata mediante decreto”, e al successivo comma 2 che “Non possono essere pignorati crediti aventi ad oggetto sussidi di grazia o di sostentamento a persone comprese nellelenco dei poveri, oppure sussidi dovuti per maternità, malattia o funerali da casse di assicurazione, da enti di assistenza o da istituti di beneficenza. 

Inoltre, alcuni tipi di pensione sono esenti da pignoramento in determinati casi. Per esempio, le pensioni di invalidità civile, le indennità di accompagnamento e le altre prestazioni assistenziali non possono essere pignorate, poiché sono destinate a garantire la sussistenza del beneficiario in situazioni di difficoltà o invalidità. Queste indennità sono, infatti, tutelate da leggi specifiche che le rendono impignorabili, a prescindere dall’importo.

Pignoramento Agenzia delle Entrate

Qualora il pignoramento sia effettuato dall’agente della riscossione, la vigente normativa prevede ulteriori limiti: la quota pignorabile non deve superare un decimo se la pensione è inferiore o pari a euro 2.500, un settimo se è compresa tra 2.500 e 5.000 euro e un quinto se è maggiore di 5.000 euro.

Nel caso in cui i creditori pignoranti sono più di uno e i crediti eterogenei, si può pignorare fino al doppio quinto della pensione: quindi si può arrivare sino al 40% della parte eccedente il minimo vitale.

 

Leggi anche: Pignoramento pensioni

braccialetto elettronico

Braccialetto elettronico: carcere per chi impedisce il funzionamento Braccialetto elettronico: il giudice può disporre la custodia cautelare in carcere per chi lo manomette o ne impedisce il funzionamento

Braccialetto elettronico: le novità del decreto giustizia

Braccialetto elettronico: il decreto legge n. 178/2024 contenente misure urgenti sulla giustizia torna ad occuparsene. L’articolo 7 del decreto interviene su alcune norme del codice di procedura penale. L’obiettivo è quello di rendere più efficace questo strumento di controllo a tutela soprattutto delle donne vittime di violenza e di stalking.

Fattibilità del controllo con il  braccialetto elettronico

A questo scopo dopo l’articolo 97 bis delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale la riforma inserisce ex novo l’articolo 97 ter. La norma è incentrata sulle modalità di accertamento della fattibilità tecnica e operativa del controllo tramite braccialetto elettronico.

L’accertamento della fattibilità tecnica e operativa, disciplinato dagli articoli 275-bis, 282-bis e 282-ter del codice, riguarda, in particolare, la verifica preliminare necessaria per stabilire le modalità di controllo che il giudice prescrive. La polizia giudiziaria, eventualmente supportata da operatori specializzati della società incaricata dei servizi tecnici o elettronici, deve effettuare questa verifica senza ritardi e comunque entro 48 ore.

Detta verifica comprende:

  • la possibilità di attivare e far funzionare i mezzi elettronici o tecnici previsti;
  • l’analisi delle caratteristiche specifiche del luogo di applicazione (es. distanza, copertura di rete, qualità della connessione, tempi di trasmissione dei segnali);
  • la gestione operativa degli strumenti e altre circostanze rilevanti per valutare l’efficacia del controllo sulle prescrizioni imposte all’

Concluse queste operazioni, la polizia giudiziaria deve redigere un rapporto tecnico. Questo documento certifica la fattibilità del controllo e lo trasmette senza ritardi, entro ulteriori 48 ore, all’autorità giudiziaria competente. Il giudice, sulla base di questo rapporto, valuta eventuali misure cautelari, inclusa l’applicazione congiunta o la sostituzione con misure più restrittive. 

Carcere per chi ne impedisce il funzionamento regolare

Per rendere più efficace il controllo con il braccialetto elettronico il decreto giustizia interviene anche sull’art. 276 c.p.p, che si occupa dei provvedimenti che il giudice può adottare in caso di trasgressione alle prescrizioni imposte.

La nuova versione prospettata dal decreto del comma 1 ter dell’art. 276 c.p.p prevede che in caso di violazione delle disposizioni relative agli arresti domiciliari, come il divieto di allontanarsi dalla propria abitazione o da un altro luogo di dimora privata, oppure in caso di manomissione o di comportamenti gravi o reiterati che compromettono o ostacolano il corretto funzionamento dei dispositivi elettronici e degli strumenti tecnici di controllo previsti dall’articolo 275-bis, anche quando utilizzati ai sensi degli articoli 282-bis e 282-ter, il giudice procede alla revoca della misura e alla sua sostituzione con la custodia cautelare in carcere, salvo che il fatto risulti di lieve entità.

 

Leggi anche: Decreto giustizia: tutte le novità

giurista risponde

Appropriazione indebita: quando si consuma il reato Ai fini della individuazione del tempus commissi delicti con riferimento al reato di appropriazione indebita, a rilevare è il momento in cui viene realizzata la prima condotta appropriativa o il momento in cui la persona offesa viene a conoscenza del comportamento illecito?

Quesito con risposta a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti

 

Il delitto di appropriazione indebita è reato istantaneo che si consuma con la prima condotta appropriativa, nel momento in cui l’agente compie un atto di dominio sulla cosa con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria, con la conseguenza che il momento in cui la persona offesa viene a conoscenza del comportamento illecito è irrilevante ai fini della individuazione della data di consumazione del reato e di inizio della decorrenza del termine di prescrizione (Cass., sez. II, 27 settembre 2024 n. 36177).

Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a valutare se il reato ascritto all’imputato si fosse estinto, prima dell’emanazione della sentenza di primo grado, per intervenuta prescrizione.

In primo e secondo grado i giudici di merito avevano considerato il reato non estinto per prescrizione, individuando quale data di commissione del medesimo quella in cui l’imputato aveva negato alle parti civili la restituzione delle somme di denaro richiestegli, ritenendo inoltre, alla luce di tale data, tempestiva la proposizione della querela.

Viene proposto quindi ricorso per Cassazione, contestando l’erronea individuazione del tempus commissi delicti, nonché la tardività nella proposizione della querela.

In particolare, si obiettava che il reato di appropriazione indebita doveva considerarsi perfezionato alla data della scadenza del contratto di deposito irregolare, dovendo ritenersi, in primo luogo, tardiva la proposizione della querela da parte dei titolari delle somme di denaro di cui si chiedeva la restituzione e, in secondo luogo, il reato estinto per intervenuta prescrizione, già prima della emanazione della sentenza di primo grado.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, dichiarando inammissibile il ricorso alla luce della manifesta infondatezza delle censure proposte, ha ricordato quando stabilito da una risalente ma sempre attuale pronunzia di legittimità (Cass. pen., sez. II, 2 febbraio 1972, n. 6872), secondo cui l’inutile scadenza del termine di adempimento di una obbligazione civilistica che imponga la restituzione di una cosa altrui non determina, né prova, di per sé, la consumazione del reato di appropriazione indebita; perché ciò avvenga è necessario che, in base a concludenti circostanze di fatto (che possono anche essere diverse dal dare alla cosa una destinazione incompatibile con il titolo del suo precedente e legittimo possesso, e possono consistere anche nel rifiuto ingiustificato della restituzione), sia rivelato il carattere intenzionale (caratterizzante l’elemento soggettivo del reato) della omessa restituzione, nel senso che in quest’ultima coincida, in uno con l’elemento materiale del reato (intrinsecamente inerente alla protrazione non più giustificata del possesso nella persona dell’agente), anche l’elemento soggettivo, inerente alla volontà di invertire il titolo del possesso medesimo appropriandosi della cosa al fine di trarne ingiusto profitto.

Nel caso di specie, il tempus commissi delicti, come correttamente valutato dai giudici di merito, era coinciso con la data in cui l’imputato aveva spedito una lettera raccomandata alle parti civili, ricusando la loro richiesta di restituzione degli importi detenuti e con la quale veniva di fatto esteriorizzato l’animus domini dell’odierno imputato in merito alle somme di denaro detenute, restando del tutto irrilevante, ai fini penalistici, la scadenza del termine entro la quale andava adempiuta l’obbligazione civilistica restitutoria.

Ritenendo quindi corrette le valutazioni operate dai giudici di merito, la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso e infondate le censure prospettate.

(*Contributo in tema di “Appropriazione indebita: quando si consuma il reato”, a cura di Stella Maria Liguori e Claudia Nitti, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

inps sui social

Inps sui social: ecco i canali dell’istituto Disponibili i canali Inps sui social: Facebook, WhatsApp, Instagram, X e LinkedIn, un ponte tra istituzione e cittadini

Inps sui social

Disponibili i canali social INPS su Facebook, WhatsApp, Instagram, X e LinkedIn. Lo rende noto l’Inps con un comunicato sul proprio sito.

L’Istituto si è impegnato, infatti, a utilizzare i social network per avvicinarsi ai cittadini, semplificando l’accesso ai propri servizi e rafforzando la fiducia attraverso una comunicazione chiara e immediata.

Questo approccio mira a fornire informazioni accurate e complete in un contesto sempre più vulnerabile alla disinformazione.

Ecco le pagine tematiche e come funzionano:

Facebook

A partire dal 2025, l’INPS sarà presente su Facebook con due pagine tematiche:

  • INPS per la Famiglia;
  • INPS – Credito e Welfare Dipendenti Pubblici.

Questi profili offriranno notizie aggiornate sui servizi, le prestazioni e, in generale, sul mondo del welfare.Per garantire una comunicazione più efficace e contrastare la diffusione di profili non ufficiali, le precedenti pagine INPS per i Lavoratori Migranti e INPS Giovani saranno integrate nelle pagine verificate.

WhatsApp

Da circa un anno, l’INPS è attivo su WhatsApp con il canale ufficiale INPS per tutti, dedicato a imprese, pensionati, lavoratori, famiglie e cittadini.

Questo canale consente di ricevere informazioni tempestive su temi attuali e rilevanti.

Instagram

Il profilo Instagram inps_social racconta l’Istituto principalmente attraverso immagini.

Grazie a visual tematici, fotografie, storie e quiz, l’account si propone di rendere la cultura previdenziale accessibile anche alle generazioni più giovani.

X

Il canale X @INPS_it offre aggiornamenti e notizie in tempo reale sui servizi e le iniziative dell’Istituto.

LinkedIn

I profili LinkedIn INPS_official e Ufficio Stampa INPS pubblicano aggiornamenti sui servizi dell’Istituto e promuovono iniziative di studio e ricerca, come il progetto VisitINPS, oltre a opportunità di lavoro tramite bandi di concorso pubblico.

Canali ufficiali

Questi sono i canali e i profili social ufficiali gestiti dalla comunicazione dell’Istituto. Qualsiasi altro profilo che utilizzi il nome o il logo dell’INPS, avvisa l’istituto, potrebbe fornire informazioni errate, incomplete o inaffidabili.

lavoro domenicale

Lavoro domenicale: più benefici perché più penoso Il lavoro domenicale è più penoso, il lavoratore ha diritto a benefici particolari, non solo di natura economica, ma anche contrattuale

Lavoro domenicale: diritti economici e non solo

Il lavoro domenicale è una realtà per molti settori, ma comporta sacrifici significativi che devono essere riconosciuti. La sentenza n. 31712/2024 della Cassazione sottolinea l’importanza di una tutela adeguata per i lavoratori, sia in termini economici che di benefici contrattuali.

Quid pluris anche non economico

La Corte d’Appello ha confermato la decisione con cui il giudice id primo grado ha riconosciuto ai lavoratori turnisti impiegati presso un aeroporto il diritto a una maggiorazione del 30% della retribuzione giornaliera per il lavoro svolto di domenica. I lavoratori, inquadrati nel CCNL Multiservizi, avevano sostenuto che il semplice riposo compensativo non era sufficiente a compensare i sacrifici legati alla prestazione domenicale.

La Corte ha stabilito che il lavoro domenicale richiede un trattamento aggiuntivo, anche in assenza di specifiche previsioni nel contratto collettivo. Secondo la sentenza, il riposo compensativo non copre pienamente i disagi derivanti dal lavoro in un giorno dedicato, per la maggioranza delle persone, agli interessi personali e familiari. La Corte ha sottolineato che tale sacrificio deve essere compensato con un quid pluris, che può consistere in una maggiorazione economica o in altri benefici contrattuali.

Compenso economico o vantaggi contrattuali

La Corte di Cassazione ha confermato l’orientamento della Corte d’Appello e ha ribadito che il lavoro domenicale comporta una maggiore penosità, che deve essere riconosciuta attraverso un compenso adeguato. Tale compenso può essere economico oppure consistere in vantaggi contrattuali che migliorino il trattamento complessivo del lavoratore.

Il contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) è cruciale nella regolamentazione dei diritti dei lavoratori. Tuttavia, in alcuni casi, la normativa generale può supplire alle eventuali lacune del CCNL. La Corte ha infatti evidenziato che l’assenza di una maggiorazione specifica per il lavoro domenicale non implica la rinuncia ai diritti previsti dall’ordinamento.

Lavoro domenicale: il differimento del riposo non basta

La Cassazione ha anche chiarito che il differimento del riposo settimanale a un giorno diverso dalla domenica non compensa il sacrificio specifico legato al lavoro festivo. La semplice traslazione del giorno di riposo, infatti, non aggiunge alcun valore economico o simbolico al lavoratore. Pertanto, il giudice può intervenire per riconoscere un compenso aggiuntivo, valutando equitativamente il danno subito dal lavoratore.

La normativa italiana, con riferimento agli articoli 1226 e 2056 del Codice Civile, consente al giudice di determinare in via equitativa un risarcimento quando il danno non può essere quantificato con precisione. Nel caso del lavoro domenicale, tale principio è stato applicato per riconoscere una maggiorazione salariale per i sacrifici personali e familiari del lavoratore.

 

 

Leggi anche: Riposo compensativo: la Cassazione fa chiarezza

Allegati

cessione case prefabbricate

Cessione case prefabbricate: quale aliquota Iva L'Agenzia delle Entrate fornisce chiarimenti sull'aliquota Iva applicabile alla cessione delle case prefabbricate

Aliquota IVA cessione case prefabbricate

Cessione case prefabbricate: l’Agenzia delle Entrate con la risposta ad interpello n. 246/2024 del 5 dicembre scorso, ha fornito chiarimenti in merito all’aliquota Iva applicabile.
Nel caso di specie l’Amministrazione ha risposto all’interpello di una società che chiedeva delucidazioni sulla possibilità di assoggettare la cessione della casa prefabbricata alle aliquote  ridotte del 4 e del 10% nel caso di presentazione, da parte del cliente,  di una dichiarazione per l’applicazione dell’aliquota IVA agevolata.

Soluzione prospettata dal contribuente

A  parere  della  Società  le  aliquote  agevolate  saranno  applicabili  sulla  base  della dichiarazione  resa dal cliente a  seguito della quale è tenuta ad emettere  fattura,  che  registrerà  attraverso  il  sistema  di  dichiarazione  elettronica  (OSS)  nello  Stato  di  appartenenza.

L’Istante indica la transazione nella Dichiarazione IVA nel sistema OSS come operazione effettuata in Italia e paga l’IVA ricevuta a saldo della fattura nel proprio Stato, che poi la riverserà all’Italia.

Parere dell’Agenzia delle Entrate

“L’One Stop Shop (OSS o Sportello Unico) è un regime opzionale IVA che consente a un soggetto passivo di dichiarare e pagare l’IVA in un unico Stato membro, quello dove è identificato ai fini IVA, a fronte di operazioni dallo stesso effettuate a favore  di  privati consumatori UE,  siano esse cessioni  di  beni  o  prestazioni  di  servizi (B2C).

OSS

Lo Stato UE di identificazione provvederà poi alla ripartizione dell’imposta così  raccolta  tra  i  vari  Stati  UE  di  consumo  di  beni  e  servizi,  in  base  agli  importi  delle  transazioni ivi effettuate, rilevanti ai fini IVA”. Queste le premesse dell’Agenzia delle Entrate. “Si tratta dunque di una misura di semplificazione in quanto i soggetti passivi IVA che optano per tale regime, anziché identificarsi in tutti gli Stati UE per l’assolvimento  degli  obblighi  di  dichiarazione  e  di  versamento  dell’imposta  dovuta  a  fronte  delle  cessioni di beni e/o prestazioni di servizi ivi effettuate, dichiarano e versano l’IVA nel solo Stato membro di registrazione/identificazione per l’imposta dovuta sulle forniture  transfrontaliere di beni e/o servizi” proseguono le Entrate.

Nella fattispecie in esame, la Società afferma di essere un soggetto passivo IVA registrato in uno Stato dell’UE, dove ha optato per il regime in commento e pertanto alla  stessa si applicano le disposizioni di cui articolo 74­ septies del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 (Decreto IVA) quando effettua, nel territorio dello Stato, le operazioni ivi riportate.

In relazione a dette operazioni (i.e. B2C, effettuate nel territorio dello Stato), oltre a  dichiarare e  versare  nel  proprio Stato la  relativa imposta  dovuta in  Italia, la  norma  appena richiamata dispensa l’Istante anche dagli obblighi di cui al Titolo II del Decreto IVA, tra cui quelli di fatturazione, registrazione, tenuta dei registri contabili, ecc. (cfr. articolo 74­septies, comma 4, del Decreto IVA).

Cessioni di case prefabbricate in legno

In merito alle cessioni di case prefabbricate in legno, la Risoluzione Ministeriale  503351 del 12 marzo 1974 chiarisce che:

1. si applica l’aliquota IVA ordinaria al 22 per cento quando il cliente ”acquista i  pezzi della casa prefabbricata e li fa montare e mettere in opera dalla stessa impresa che li produce o da terzi”. In questo caso, ”il contratto ha per oggetto il semplice acquisto  dei singoli pezzi e poiché tali pezzi costituiscono l’oggetto della ordinaria produzione dell’impresa che li fabbrica…”, è da ritenere ”che il negozio giuridico si debba qualificare come una compravendita e, pertanto, il corrispettivo relativo vada assoggettato all’I.V.A. con l’aliquota ordinaria…”;

2. si applica l’aliquota IVA del 4% o del 10% quando ”il committente affida ad  un’impresa la costruzione di una casa, da effettuare con i pezzi fabbricati dall’impresa stessa”.

La fattispecie

Nel caso di specie, dalle informazioni fornite, la  fattispecie  prospettata dalla società è riconducibile all’ipotesi 1 della citata risoluzione: il cliente italiano in realtà non sta acquistando  una casa, come affermato dall’Istante, bensì pezzi di una casa (precisamente le pareti).

La Società offre anche opzioni supplementari, quali infissi, scale e pavimenti, che, tuttavia, anche considerandole unitamente alle pareti, non permettono di affermare che oggetto della  transazione  sia  una  casa/immobile.

All’operazione prospettata, per come così ricostruita, si rende dunque applicabile  l’aliquota IVA ordinaria del 22 per cento. A diverse conclusioni potrebbe giungersi nell’ipotesi in cui la fornitura in oggetto  avvenga nell’ambito di un contratto di appalto che abbia per oggetto la costruzione e la  consegna di una casa ”chiavi in mano” a cui, al ricorrere dei relativi presupposti, può  essere riconosciuta l’aliquota IVA del 4 o del 10 per cento.

perenzione

Perenzione: la guida Perenzione: istituto che determina l’estinzione del processo amministrativo se le parti restano inattive per un periodo determinato

Perenzione nel processo amministrativo

La perenzione è un istituto giuridico che regola la scadenza di certi termini processuali. Essa determina infatti la cessazione automatica di un’azione legale se la stessa non viene svolta entro il periodo previsto dalla legge. Questo concetto ha un’importanza fondamentale per garantire l’efficienza e la certezza dei processi amministrativi. In Italia, la perenzione è disciplinata dal DLgs n. 104/2010, noto come Codice del Processo Amministrativo, che ha introdotto diverse norme in materia di scadenze processuali e decadenze dei ricorsi.

In questo articolo, esamineremo gli articoli 81-85 del DLgs n. 104/2010, che regolano la perenzione nel processo amministrativo, approfondendo la sua applicazione pratica e le principali pronunce giuridiche che hanno contribuito a chiarire l’ambito di operatività di questo istituto.

Cos’è la perenzione?

La perenzione si verifica quando un’azione legale, che non venga portata avanti nel tempo previsto dalla legge, perde efficacia, determinando la decadenza del ricorso.

Nel contesto del processo amministrativo, la perenzione si applica principalmente ai ricorsi giurisdizionali amministrativi, che, se non attivati o non seguiti con le necessarie attività procedurali (come il deposito di documenti o l’avanzamento della causa), cadono in perenzione, estinguendosi automaticamente.

La perenzione ha quindi lo scopo di velocizzare i processi ed evitare l’accumulo di cause non attuali, ottimizzando il lavoro dei tribunali amministrativi e delle autorità competenti.

Codice del processo amministrativo: artt. 81-85

Come anticipato, la perenzione trova la sua disciplina negli articoli 81, 82. 83, 84 e 85 del decreto legislativo n. 104/2010, che ha disposto il riordino del processo amministrativo. Analizziamo singolarmente queste norme.

Articolo 81 – Perenzione: un ricorso è considerato perento se non viene compiuto alcun atto di procedura per un anno. Il termine di un anno non decorre dal momento della presentazione di un’istanza per la fissazione dell’udienza, fino a quando non vi sia una decisione su di essa, salvo eccezioni.

Articolo 82 – Perenzione dei ricorsi ultraquinquennali: se un ricorso rimane pendente per più di cinque anni dalla sua presentazione, la segreteria notifica alle parti l’obbligo per il ricorrente di presentare una nuova istanza di fissazione dell’udienza entro 120 giorni. Tale istanza deve essere firmata dal ricorrente e dal suo avvocato. In mancanza di questa istanza, il ricorso è dichiarato perento. Se invece viene comunicata la fissazione dell’udienza senza la notifica precedente, il ricorso può essere deciso solo se il ricorrente dichiara interesse alla decisione, altrimenti è dichiarato perento con decreto.

Articolo 83 – Effetti della perenzione: La perenzione si applica automaticamente (di diritto) e può essere rilevata anche d’ufficio. Ogni parte sopporta le proprie spese processuali.

Articolo 84 – Rinuncia: Una parte può rinunciare al ricorso in qualsiasi fase del processo attraverso: 1. una dichiarazione scritta firmata dalla parte stessa o dall’avvocato con mandato speciale, da depositare presso la segreteria; 2. una dichiarazione resa in udienza e registrata nel verbale. Il rinunciante deve sostenere le spese degli atti compiuti, salvo diversa decisione del collegio. La rinuncia deve essere notificata alle altre parti almeno 10 giorni prima dell’udienza. Se non vi è opposizione, il processo si estingue. Il giudice può comunque dedurre la perdita di interesse alla causa da fatti o comportamenti delle parti.

Articolo 85 – Procedura per lestinzione e limprocedibilità: l’estinzione e l’improcedibilità possono essere dichiarate con un decreto del presidente o di un magistrato delegato. Il decreto è comunicato alle parti dalla segreteria. Le parti hanno 60 giorni dalla comunicazione per opporsi al collegio mediante atto notificato a tutte le altre parti. Il giudizio di opposizione è deciso con un’ordinanza che, se accoglie l’opposizione, fissa una nuova udienza. In caso di rigetto, le spese sono a carico dell’opponente senza possibilità di compensazione. L’ordinanza è comunicata alle parti e può essere impugnata in appello. Se l’estinzione o l’improcedibilità si verificano durante l’udienza di discussione, vengono dichiarate con sentenza.

Giurisprudenza sulla perenzione

La giurisprudenza ha avuto un ruolo cruciale nell’interpretare e applicare i principi della perenzione, cercando di chiarire i contorni di questa disciplina e di bilanciare le esigenze di celerità dei processi con la tutela dei diritti degli utenti del processo amministrativo.

Consiglio di Stato sentenza n. 4318/2017

Nel processo amministrativo, il termine di perenzione previsto dall’art. 81, comma 1, del D.Lgs. n. 104/2010 (Codice del Processo Amministrativo) non decorre se la mancata fissazione dell’udienza da parte della Segreteria dipende da un’omissione di quest’ultima. In tali circostanze, l’inerzia del procedimento non può essere attribuita alle parti, che non hanno la possibilità di intervenire in un’attività procedurale demandata esclusivamente all’ufficio. Le parti hanno quindi il diritto di fare affidamento sull’obbligo della Segreteria di fissare l’udienza d’ufficio.

Consiglio di  Stato sentenza n. 3017/2018

La perenzione nel processo amministrativo ha una duplice natura: privatistica, perché presuppone una tacita rinuncia delle parti alla prosecuzione del giudizio; pubblicistica, in quanto mira a soddisfare l’interesse pubblico a una rapida definizione delle controversie relative all’esercizio del potere amministrativo. Questo istituto risponde quindi all’esigenza di garantire la chiusura delle situazioni giuridiche coinvolgenti la Pubblica Amministrazione entro un termine ragionevole. 

Consiglio di Stato sentenza n. 3426/2019

Nel giudizio amministrativo, il giudice può rilevare una sopravvenuta carenza di interesse alla decisione della causa anche in assenza delle formalità previste dall’art. 84 del D.Lgs. n. 104/2010. Tale valutazione può basarsi su fatti o atti univoci intervenuti successivamente alla proposizione del ricorso, nonché sul comportamento delle parti, che possono fornire elementi utili a dimostrare la perdita di interesse alla prosecuzione del giudizio.

Effetti della perenzione

La perenzione ha effetti rilevanti sul processo amministrativo. Quando si applica la perenzione, il ricorso diventa inefficace, e il procedimento legale si estingue senza che sia necessaria una pronuncia di merito. Ciò significa che il ricorrente perde la possibilità di far valere i propri diritti in quel determinato processo, e il ricorso non potrà più essere ripreso nemmeno su richiesta della parte. I termini di perenzione sono dunque strumenti utilizzati per accelerare i procedimenti amministrativi e per evitare l’accumulo di ricorsi inerti. Tuttavia, la legge consente alcune deroghe, soprattutto nei casi in cui vi siano impedimenti giustificati che impediscono al ricorrente di proseguire l’azione.

 

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responsabilità precontrattuale

Responsabilità precontrattuale Responsabilità precontrattuale: violazione dei principi base nelle trattative contrattuali sanciti dagli artt. 1337 e 1338 c.c. 

Responsabilità precontrattuale, cos’è

La responsabilità precontrattuale civile rappresenta un aspetto fondamentale del diritto civile italiano, in materia di contratti. Essa è disciplinata fondamentalmente dagli articoli 1337 e 1338 del codice civile. La stessa si configura quando una delle parti viola il principio di buona fede durante la fase le trattative contrattuali o nella formazione dell’accordo. La responsabilità precontrattuale civile si fonda quindi sull’obbligo di correttezza e buona fede, costituendo una garanzia fondamentale per il corretto svolgimento della fase che precede la stipula vera e propria dell’accordo.

Buona fede e lealtà nelle trattative: art. 1337 c.c.

L’articolo 1337 c.c. impone alle parti di agire con buona fede, comportandosi lealmente e nel rispetto degli interessi reciproci. Questo obbligo risulta violato in presenza di alcuni comportamenti, tra i quali rivestono particolare rilievo i seguenti:

  • interruzione immotivata delle trattative: soprattutto se l’altra parte confidava ragionevolmente nella conclusione del contratto;
  • omissione di informazioni rilevanti: come le cause di invalidità del contratto conosciute dalla parte che le nasconde (art. 1338 c.c.);
  • condotte ingannevoli o pregiudizievoli: che si realizzano quando, ad esempio, si induce una controparte a stipulare un contratto svantaggioso o lesivo.

Queste violazioni possono causare un danno risarcibile, comprendente sia il danno emergente (spese sostenute) che il lucro cessante (perdita di opportunità economiche).

Responsabilità precontrattuale civile: natura

Sulla qualificazione della natura della responsabilità precontrattuale civile il dibattito giuridico è ancora aperto. Alcuni ritengono che la stessa abbia extracontrattuale, basandosi sull’articolo 2043 c.c., altri invece la considerano di natura contrattuale, facendo riferimento all’articolo 1218 c.c. Indipendentemente dalla sua natura però tutti sono concordi nel ritenere che questa responsabilità tuteli l’interesse negativo, ovvero il diritto a non essere coinvolti in trattative infruttuose.

Contratti per adesione: regole e limiti particolari

I contratti per adesione, spesso caratterizzati da clausole prestabilite, devono rispettare particolari formalità per evitare abusi nella fase delle trattative. Gli articoli 1341 e 1342 c.c. regolano queste situazioni, stabilendo che:

  • le condizioni generali dell’accordo sono valide solo se il cliente le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle al momento della stipula;
  • mentre per quanto riguarda le clausole onerose, le stesse diventano efficaci solo con una specifica approvazione scritta.

La giurisprudenza, nel tempo, ha combattuto gli abusi legati a questi contratti, dichiarando nulle clausole particolarmente gravose o poco trasparenti. Le norme sui contratti per adesione, infatti mirano a bilanciare la necessità della velocità negli scambi economici e la tutela dei contraenti più deboli, prevenendo situazioni di squilibrio e abuso.

Comunicazione delle cause di invalidità: art. 1338 c.c.

Nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede nelle trattative contrattuali l’articolo 1338 c.c. pone a carico delle parti l’obbligo di informare l’altra parte su eventuali cause di invalidità del contratto conosciute o conoscibili con la normale diligenza. Il principio sancito da questa norma mira a evitare che una delle parti venga coinvolta in trattative inutili o in contratti invalidi.

La mancata comunicazione obbliga il responsabile a risarcire i danni subiti dalla controparte.Tuttavia, anche l’altra parte ha il dovere di agire con diligenza per individuare eventuali vizi contrattuali.

Il valore giuridico delle trattative

Le trattative, pur non essendo elementi costitutivi del contratto, rivestono un ruolo giuridico rilevante. Esse preparano il contratto futuro, ma non obbligano le parti a concluderlo. Un comportamento negligente o doloso che violi la fiducia della controparte può generare una responsabilità a tutela l’interesse delle parti a non subire danni derivanti da aspettative ragionevolmente create. Trattasi di una responsabilità però che non tutela solo l’interesse economico, ma anche la fiducia reciproca necessaria per una collaborazione produttiva.

Responsabilità precontrattuale: ultime della Cassazione

Gli articolo 1337 e 1338 c.c contengono principi dal contenuto ampio e come tali in continua evoluzione. La Cassazione riveste un ruolo fondamentale nell’aggiornamento dei concetti di lealtà, buona fede e correttezza nell’ambito delle trattative precontrattuali e nel definire l’ambito applicato o di queste norme. Vediamo quindi quali sono le ultime pronunce degli Ermellini sulla responsabilità precontrattuale civile.

Cassazione n. 28767/2204

“Per ritenere integrata la responsabilità precontrattuale occorre che:

  • tra le parti siano in corso trattative;
  • che queste siano giunte ad uno stadio idoneo a ingenerare nella parte che invoca l’altrui; il ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto;
  • esse siano state interrotte, senza giustificato motivo, dalla parte cui si addebita detta responsabilità;
  • pur nell’ordinaria diligenza della parte che invoca la responsabilità non sussistano fatti idonei ad escludere il suo ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto.”

Cassazione n. 27102/2024

“In materia di responsabilità precontrattuale derivante dalla violazione della regola di condotta, posta dall’articolo 1337 cod. civ., la tutela del corretto dipanarsi dell’iter formativo del negozio, costituisce una forma di responsabilità extracontrattuale, cui vanno applicate le relative regole in tema di distribuzione dell’onere della prova. Ne consegue che, qualora gli estremi del comportamento illecito siano integrati dal recesso ingiustificato di una parte, grava non su chi recede la prova che il proprio comportamento corrisponde ai canoni di buona fede e correttezza, ma incombe, viceversa, sull’altra parte l’onere di dimostrare che il recesso esula dai limiti della buona fede correttezza postulati dalla norma di qua.”

Cassazione n. 19022/2023

“La responsabilità precontrattuale prevista dall’art. 1337 cod. civ., coprendo nei limiti del cosiddetto interesse negativo, tutte le conseguenze immediate e dirette della violazione del dovere di comportarsi secondo buona fede nella fase preparatoria del contratto, secondo i criteri stabiliti dagli artt. 1223 e art. 2056 cod. civ., si estende al danno per il pregiudizio economico derivante dalle rinunce a stipulare un contratto, ancorché avente contenuto diverso, rispetto a quello per cui si erano svolte le trattative, se la sua mancata conclusione si manifesti come conseguenza immediata e diretta del comportamento della controparte, che ha lasciato cadere le dette trattative quando queste Erano giunte al punto di creare un ragionevole affidamento nella conclusione positiva di esse; e se altresì affermato che il danno risarcibile per responsabilità precontrattuale consiste “nei limiti dello stretto interesse negativo (contrapposto all’interesse all’adempimento), rappresentato sia dalle spese inutilmente sopportate… Sia dalla perdita di ulteriori occasioni per la stipulazione con altri di un contratto altrettanto maggiormente vantaggioso, e dunque non comprende, in particolare, il lucro cessante risarcibile se il contratto non fosse stato poi adempiuto o fosse stato risolto per colpa della controparte“.

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