abusi edilizi sopravvenuti

Abusi edilizi sopravvenuti: le sanzioni valgono per tutti La Corte Costituzionale ha stabilito che anche le autonomie speciali devono attenersi al regime sanzionatorio dettato per gli abusi edilizi sopravvenuti

Abusi edilizi sopravvenuti

Anche le autonomie speciali devono attenersi al regime sanzionatorio dettato dall’art. 38 del TU Edilizia per gli abusi edilizi sopravvenuti. Lo ha affermato la Consulta che, con la sentenza n. 22/2025, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4, comma 10, della legge della Provincia di Bolzano 10 gennaio 2022, numero 1 (Disposizioni collegate alla legge di stabilità provinciale per l’anno 2022), per violazione degli articoli 4 e 8 dello statuto speciale, in quanto in contrasto con le norme fondamentali di riforma economico sociale, quali sono gli articoli 36 e 38 del d.P.R. 6 giugno 2001, numero 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia).

Il regime sanzionatorio della fiscalizzazione dell’abuso

La Corte Costituzionale ha per la prima volta riconosciuto che, al pari dell’articolo 36 del Testo unico edilizia, anche l’articolo 38, nel prevedere un peculiare regime sanzionatorio (fiscalizzazione dell’abuso) per i cosiddetti “abusi edilizi sopravvenuti” (ossia realizzati in conformità a un titolo abilitativo in seguito annullato), mira a proteggere interessi di primaria importanza e di segno complessivamente unitario (in quanto correlati al governo del territorio e alla tutela del paesaggio e dell’ambiente), con conseguente necessità di attuazione uniforme a livello nazionale che non può subire differenziazioni regionali.

Le sanzioni valgono anche per le autonomie speciali

Nella sentenza si afferma, in particolare, “che le specifiche condizioni richieste dall’articolo 38 (impossibilità di procedere alla rimozione dei vizi procedurali e impossibilità tecnica di procedere alla restituzione in pristino), per consentire il pagamento di una sanzione pecuniaria pari al valore venale dell’opera abusiva in luogo della demolizione, costituiscono elementi determinanti del punto di equilibrio tra opposti interessi, individuato dal legislatore statale al fine di un ordinato governo del territorio”.

Pertanto, ha concluso il giudice delle leggi, alle Regioni ad autonomia speciale e alle Province autonome non è dato introdurre ulteriori criteri di valutazione dell’impossibilità di ripristino, né della determinazione del “prezzo” da pagare per evitare la demolizione di un immobile; né, infine, graduare la sanzione in funzione della gravità del danno urbanistico arrecato dalla trasformazione del territorio.

lite temeraria

Lite temeraria Cosa si intende per lite temeraria, quando ricorre la responsabilità aggravata processuale ex art. 96 c.p.c. e qual è l’elemento soggettivo richiesto dalla norma

Lite temeraria e responsabilità aggravata ex art. 96

Con la locuzione “lite temeraria” giuridicamente si fa riferimento ad una posizione giudiziale sostenuta da una parte del processo nella consapevolezza della sua palese infondatezza.

In particolare, l’aver intrapreso una lite temeraria postula a carico della parte una particolare responsabilità processuale aggravata che viene sanzionata dall’art. 96 c.p.c. con l’obbligo di risarcire i danni causati alla controparte.

Tale obbligo si aggiunge, ed è quindi cosa distinta, dalla refusione delle spese prevista, in via generale, dall’art. 91 a carico della parte soccombente nel processo.

Quando si configura lite temeraria?

Presupposto della condanna per responsabilità aggravata, di cui al primo comma dell’art. 96, è la mala fede o la colpa grave di chi agisce o resiste in giudizio sapendo di essere nel torto o non avendo posto l’ordinaria diligenza nel verificare se il proprio diritto fosse effettivamente esistente.

Ulteriore presupposto per la condanna è che la parte che abbia sostenuto una lite temeraria sia risultata in totale soccombenza nel giudizio a seguito della sentenza. Una soccombenza parziale, quand’anche accompagnata dalla condanna alla rifusione delle spese di lite, non può quindi mai comportare la responsabilità aggravata di cui all’art. 96.

Inoltre, la condanna al risarcimento dei danni comportati dallo svolgimento della lite temeraria deve necessariamente conseguire ad una specifica domanda di controparte, non potendo essere dichiarata d’ufficio dal giudice.

Il risarcimento del danno per lite temeraria

Chi propone l’istanza di risarcimento per responsabilità aggravata deve dimostrare l’esistenza del danno subito, il suo nesso consequenziale con lo svolgimento del processo e l’entità del danno.

Il giudice, in ogni caso, può liquidare il risarcimento anche in via equitativa, pur rimanendo a carico della parte istante la prova del danno e l’indicazione della sua quantificazione.

Un’importante precisazione che occorre fare a proposito della pronuncia relativa al risarcimento da responsabilità processuale aggravata è che la stessa può essere domandata soltanto nel medesimo processo in cui è insorta e che la relativa decisione del giudice deve essere contenuta nella sentenza stessa.

Non è quindi configurabile un diritto della parte che abbia subito danni da lite temeraria a chiederne il ristoro in separato procedimento. Ciò vale anche per quanto riguarda i gravami, in quanto nel giudizio di appello possono essere chiesti i danni ex art. 96 c.p.c. solo se il carattere di temerarietà della lite riguardi il contegno processuale della parte tenuto nel grado di impugnazione.

La responsabilità aggravata per colpa lieve

Il secondo comma dell’art. 96 c.p.c. contempla, invece, una distinta fattispecie di responsabilità processuale aggravata, per la cui configurazione è sufficiente l’elemento soggettivo della colpa lieve.

In base a tale norma, infatti, viene pronunciata la condanna al risarcimento dei danni da lite temeraria se si accerta l’inesistenza del diritto in base al quale sia stata chiesta:

  • l’esecuzione di un provvedimento cautelare;
  • la trascrizione di una domanda giudiziale;
  • l’iscrizione di un’ipoteca giudiziale;
  • l’avvio o prosecuzione di un’esecuzione forzata.

La norma prevede che la responsabilità aggravata possa essere accertata, sempre su istanza di parte, quando l’attore/creditore abbia agito senza verificare con la normale prudenza (quindi con colpa lieve) l’effettiva sussistenza del proprio diritto ad agire.

A differenza della fattispecie contemplata dal primo comma, non è quindi necessaria la malafede o colpa grave: ciò perché le ipotesi previste dal secondo comma postulano un’ingerenza nella sfera del danneggiato più immediata e più grave, e quindi esigono un più alto grado di attenzione da parte del creditore procedente nella valutazione dell’effettiva sussistenza del proprio diritto.

Quando si applica l’articolo 96 c.p.c.?

Gli ultimi due commi dell’art. 96 c.p.c. sono di recente introduzione e prevedono due ulteriori specificazioni della disciplina della condanna per lite temeraria.

Il terzo comma, introdotto dalla legge n. 69/2009, prevede un’ipotesi di responsabilità aggravata accertabile dal giudice anche d’ufficio, a differenza di quanto previsto dai primi due commi.

Nello specifico, è previsto in capo al giudice il potere di condannare la parte dichiarata soccombente ai sensi dell’art. 91 al pagamento, in favore della parte vittoriosa, di una somma – ulteriore a quella da riconoscersi a titolo di rifusione delle spese processuali – da determinarsi in via equitativa.

Infine, il quarto ed ultimo comma dell’art. 96 c.p.c. dispone che in tutte le ipotesi contemplate dal medesimo articolo (cioè, tutto quanto abbiamo sopra esaminato) il giudice debba condannare la parte condannata per lite temeraria anche ad un pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma di denaro da quantificarsi tra i 500 e i 5.000 euro (norma introdotta dalla recente Riforma Cartabia, d.lgs. 149/22).

giurista risponde

Il pagamento al creditore apparente: la tutela dell’art. 1189 c.c. Il debitore adempiente può invocare la tutela di cui all’art. 1189 c.c. quando sussiste una situazione in cui il pagamento avvenga in conflitto tra i creditori?

Quesito con risposta a cura di Angela De Girolamo e Ilaria Iacobone

 

Poiché l’art. 1189 c.c. è diretto a tutelare il solo debitore che paghi il creditore che appia “univocamente” tale, cioè la situazione in cui il pagamento avvenga in mancanza di un conflitto, noto al debitore, sulla relativa legittimazione, tale disposizione non è, di regola, applicabile nel caso in cui siano espressamente rivolte al debitore, prima del pagamento, pretese contrastanti da diversi potenziali aventi diritto (disponendo del resto il debitore di diversi e adeguati strumenti di tutela della sua posizione, per tale eventualità), salvo solo il caso eccezionale in cui alcune di suddette pretese appaiono, già prima facie, manifestamente infondate e pretestuose ovvero vi sia un ordine giudiziale che imponga il pagamento in favore di uno dei pretendenti (Cass., sez. III, 23 ottobre 2024, n. 27439 (pagamento al creditore apparente).

Nel caso di specie, il Supremo Consesso compie una precisa ricognizione del perimetro applicativo dell’art. 1189 c.c., che disciplina il pagamento effettuato dal debitore nei confronti di colui che appare essere il creditore (creditore apparente). In virtù di tale articolo, il legislatore ha stabilito che il debitore è liberato dall’adempimento dell’obbligazione allorquando dia prova di aver eseguito la prestazione nei confronti di un soggetto che, senza essere il creditore o, comunque, un soggetto legittimato ex art. 1188 c.c., appaia essere legittimato in base a circostanze univoche e dimostra, altresì, di essere stato in buona fede. Di talché, dall’analisi della disposizione in esame emerge che affinché l’adempimento in favore di un soggetto diverso da quello legittimato a riceverlo determini la liberazione ex art. 1189 c.c., occorre che ricorrano due distinti presupposti: uno di carattere soggettivo (la buona fede del debitore) e l’altro di carattere oggettivo (le circostanze univoche che facciano apparire il ricevente come soggetto legittimato). La ratio della norma è, dunque, quella di tutelare l’affidamento incolpevole del debitore che in buona fede ritiene di adempiere la sua obbligazione, pagando il creditore legittimato a riceve la prestazione (e non il creditore apparente).

Sulla base di tale analisi, i giudici della Corte di Cassazione, nella sentenza oggetto di attenzione, hanno ravvisato la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 1189 c.c., da parte dei giudici della Corte d’Appello di Milano, poiché questi non avevano valutato, nell’individuare l’effettivo titolare del diritto di pagamento, una pluralità di circostanze di fatto, tra cui l’esistenza di più creditori rispetto al premo assicurativo. Invero, nel momento in cui vengono avanzate più pretese in ordine al pagamento dell’obbligazione, tra loro contrastanti e ad opera di soggetti diversi, è palese la sussistenza di una controversia in punto di autenticità delle sottoscrizioni (precedente effettuate) e, quindi, di riflesso, anche sulla autenticità della titolarità del diritto al pagamento.

Ciò posto, la Corte di Cassazione stabilisce che la sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Milano sia inficiata da un vizio c.d. di sussunzione, poiché ha ricondotto nell’alveo del perimetro applicativo dell’art. 1189 c.c. una fattispecie concreta che, in realtà, non rientra in tale campo applicazione. Difatti, la disciplina enucleabile dall’art. 1189 c.c. non è passibile di applicazione allorquando, in primo luogo, siano avanzate – espressamente – al debitore pretese tra loro contrastanti e provenienti da soggetti in conflitto tra loro circa l’adempimento di un’obbligazione e, in secondo luogo, quando non sussistono circostanze oggettive ovvero univoche che inducono il debitore ad effettuare il pagamento nei confronti di uno dei “creditori”.

La Corte di Cassazione, conclude, stabilendo che in tali casi viene in soccorso, non già l’art. 1189 c.c., ma l’art. 687 c.p.c. La norma, nello specifico, disciplina il c.d. sequestro conservativo. Di tale autonoma figura di sequestro ci si può avvalere allorché tra le parti del rapporto sinallagmatico sorga una controversia circa i diritti e gli obblighi nascenti dallo stesso rapporto, così come nell’ipotesi in cui, avendo il debitore chiesto un accertamento negativo del proprio obbligo, intenda medio tempore sottrarsi alle conseguenze negative dell’inadempimento, ossia alla mora debendi.

Sulla base di tali principi, i giudici di legittimità, nel caso attenzionato, accolgono il ricorso incidentale avanzato dagli eredi dello stipulante la polizza assicurativa e cassano la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinviano alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione.

 

(*Contributo in tema di “Il pagamento al creditore apparente: la tutela dell’art. 1189 c.c.”, a cura di Angela De Girolamo e Ilaria Iacobone, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

supporto formazione e lavoro

Supporto formazione e lavoro: le indicazioni INPS L'INPS fornisce nuove indicazioni per usufruire del Supporto Formazione e Lavoro dopo le modifiche normative

Supporto formazione e lavoro

La misura del Supporto formazione e lavoro è stata prevista dal dl n. 48/2023 e successivamente modificata dalla legge di bilancio 2025, offrendo un ampliamento delle mensilità di indennità di partecipazione per i beneficiari che stanno frequentando corsi di formazione.

L’INPS, con il messaggio 17 febbraio 2025 n. 595, ha fornito importanti indicazioni operative riguardanti la proroga della misura del Supporto per la formazione e lavoro (SFL). Ora, con il messaggio 3 marzo 2025, n. 765, fornisce indicazioni per garantire un supporto continuo ai lavoratori in formazione, facilitando l’accesso a opportunità di sviluppo professionale e chiarisce che, per il riconoscimento dell’ampliamento delle mensilità, il SFL acquisirà automaticamente le domande in stato “accolta” dalla piattaforma del Sistema Informativo per l’Inclusione Sociale e Lavorativa (SIISL).

L’importanza del corso di formazione

È fondamentale che i beneficiari stiano frequentando un corso di formazione che si concluda dopo le 12 mensilità di fruizione.

Se l’aggiornamento del Patto di servizio personalizzato (PSP) non viene registrato entro la scadenza delle 12 mensilità, spiega l’istituto, la domanda sarà sospesa e, dopo 90 giorni, considerata “terminata”; tuttavia, se l’aggiornamento del PSP viene registrato tardivamente, deve comunque essere associato alla formazione in corso.

Tempistiche e validità dell’aggiornamento del PSP

Per le domande con pagamento della dodicesima mensilità nei mesi di gennaio e febbraio 2025, l’aggiornamento del PSP sarà considerato valido se registrato entro il mese successivo.

A partire dai rinnovi di marzo 2025, la verifica dell’aggiornamento dovrà avvenire entro il mese stesso della fruizione.

In caso di sospensione della domanda, l’aggiornamento del PSP deve essere registrato nei mesi in cui il corso di formazione è attivo ed entro la scadenza delle 12 mensilità.

Nessuna nuova domanda necessaria

Per beneficiare della proroga del SFL non è richiesta, ricorda infine l’Inps, la presentazione di una nuova domanda, semplificando così il processo per i lavoratori coinvolti.

 

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riscatto contributi omessi

Riscatto contributi omessi: le novità del Collegato lavoro Riscatto contributi omessi: anche il lavoratore e i suoi superstiti hanno il diritto di chiedere la rendita vitalizia con oneri a loro carico

Riscatto contributi omessi: contesto normativo e novità

La legge n. 203/2024, entrata in vigore il 12 gennaio 2025, ha modificato l’articolo 13 della legge n. 1338/1962, introducendo importanti novità in materia di riscatto dei contributi previdenziali omessi dal datore di lavoro. Questa modifica legislativa rappresenta un passo significativo verso la tutela dei diritti dei lavoratori, offrendo loro la possibilità di sanare periodi contributivi scoperti e di garantire una pensione più adeguata.

Riscatto contributi: il diritto del lavoratore

La nuova disposizione riconosce anche al lavoratore e ai suoi superstiti il diritto di richiedere la costituzione di una rendita vitalizia a proprio carico per gli oneri contributivi omessi e prescritti dovuti dal datore di lavoro. Questo significa che, anche in caso di inadempienza del datore di lavoro, il lavoratore può intervenire per colmare le lacune contributive e assicurarsi una copertura previdenziale completa.

Requisiti e modalità di richiesta

Per ottenere la rendita vitalizia, il lavoratore deve dimostrare l’esistenza e la durata del rapporto di lavoro, la qualifica ricoperta e le somme percepite a titolo di retribuzione. La richiesta può essere presentata solo dopo che sia decorso il termine di prescrizione per l’esercizio delle facoltà previste dai commi 2 e 5 dell’articolo 13 della legge n. 1338/1962.

Riscatto contributi: il ruolo dell’INPS

L’INPS, con la circolare n. 48 del 24 febbraio 2025, ha fornito le istruzioni amministrative necessarie per l’applicazione della nuova normativa. L’Istituto sottolinea l’importanza della verifica della prescrizione dei diritti del datore di lavoro e del lavoratore, nonché della corretta documentazione del rapporto di lavoro.

La prova del rapporto di lavoro

Un aspetto cruciale è la prova del rapporto di lavoro. Il lavoratore deve fornire documentazione che attesti l’effettiva prestazione lavorativa, la sua durata e la retribuzione percepita. A tal fine, possono essere utilizzati diversi tipi di documenti, come contratti di lavoro, buste paga, comunicazioni aziendali e testimonianze.

Implicazioni e vantaggi per i lavoratori

La nuova normativa offre ai lavoratori una maggiore tutela e la possibilità di sanare periodi contributivi scoperti, anche in situazioni complesse. Questo rappresenta un importante passo avanti verso una maggiore equità nel sistema previdenziale.

Le novità in sintesi

  • Autonomia del lavoratore: il lavoratore e i suoi eredi possono ora agire autonomamente, senza limiti di tempo.
  • Onere finanziario: il lavoratore si assume interamente l’onere del riscatto.
  • Prescrizione: la richiesta di riscatto da parte del lavoro è possibile solo dopo la prescrizione dei diritto del datore di lavoro e del lavoratore in sostituzione.
  • Prova del rapporto: il lavoratore deve dimostrare il periodo di lavoro.
  • Ruolo dell’INPS: l’INPS verifica la corretta applicazione della normativa e nella circolare detta regole specifiche per la richiesta della rendita a seconda che l’istanza venga presentata prima o dopo l’entrata in vigore del collegato lavoro, legge n. 203/2024.

 

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reato di rapina impropria

Reato di rapina impropria Reato di rapina impropria: definizione, differenze con la rapina propria, configurabilità del tentativo e giurisprudenza

Cos’è la rapina impropria

La rapina impropria è disciplinata dall’articolo 628, comma 2, del Codice Penale italiano. Si configura quando, dopo aver commesso un furto, l’autore utilizza violenza o minaccia per assicurarsi il possesso della refurtiva o garantirsi l’impunità. Questo reato si distingue dalla rapina propria, prevista dal comma 1 dello stesso articolo. Nella rapina propria infatti la violenza o la minaccia precedono o accompagnano l’atto di sottrazione del bene.

Differenza tra rapina impropria e rapina propria

La principale differenza tra rapina impropria e rapina propria risiede nel momento in cui si manifesta la violenza o la minaccia:

  • Rapina propria: la violenza o la minaccia sono utilizzate per vincere la resistenza della vittima e appropriarsi del bene.
  • Rapina impropria: la sottrazione del bene avviene senza l’uso di violenza o minaccia. Queste vengono impiegate successivamente, al fine di mantenere il possesso del bene sottratto o per assicurarsi l’impunità.

Configurabilità del tentativo di rapina impropria

La giurisprudenza ha affrontato la questione della configurabilità del tentativo per questo tipo di reato. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 35425 del 27 giugno 2023, ha stabilito che il tentativo è configurabile quando l’agente, dopo aver compiuto atti idonei e inequivocabili diretti alla sottrazione della cosa altrui, utilizza violenza o minaccia per assicurarsi l’impunità, anche se la sottrazione non si è concretamente realizzata. Questo orientamento conferma che, ai fini della configurabilità del reato, è sufficiente l’uso di violenza o minaccia in seguito ad atti preparatori al furto, indipendentemente dal completamento della sottrazione.

Giurisprudenza rilevante

  • Cassazione Penale, Sezioni Unite, sentenza n. 34952 del 19 aprile 2012: ha chiarito che, per il perfezionamento della rapina impropria, è sufficiente l’apprensione del bene altrui, senza necessità di un effettivo impossessamento, inteso come acquisizione di una signoria autonoma sul bene sottratto.
  • Corte Costituzionale, sentenza n. 190 del 31 luglio 2020: nel confrontare questo tipo di rapina con figure similari la Consulta ha affermato: 1. Il ricorso alla violenza o alla minaccia nella rapina propria e impropria non segue sempre uno schema fisso. Spesso un furto inizialmente non violento degenera in rapina propria se la vittima oppone resistenza o se l’oggetto è difficile da sottrarre. Al contrario, una rapina impropria può essere pianificata, prevedendo l’uso della violenza per garantirsi la fuga. 2.La rapina impropria non richiede il pieno possesso del bene da parte dell’agente per consumarsi, ma ciò non giustifica un trattamento giuridico diverso dalla rapina propria. Ciò che rileva è la contestualità tra la violenza e l’aggressione patrimoniale, che rende il reato più grave del semplice furto. 3. L’immediatezza della violenza è essenziale per equiparare la rapina impropria a quella propria, giustificando misure come l’arresto in flagranza e il diritto alla legittima difesa, che cessano quando tale contestualità viene meno.
  • Corte Costituzionale n. 86/2024: illegittimo dal punto di vista costituzionale l’ 628, secondo comma, del codice penale, poiché non prevede una riduzione di pena fino a un terzo nei casi in cui il fatto di rapina risulti di lieve entità, considerando natura, mezzi, modalità o circostanze dell’azione, nonché la tenuità del danno o del pericolo. Per effetto di questa decisione, la corte ha esteso l’illegittimità anche al primo comma dello stesso articolo, con analoga previsione di riduzione della pena in presenza di fatti di minore gravità.

 

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permesso di costruire

Permesso di costruire Permesso di costruire: definizione, normativa di riferimento, rilascio, differenza con la SCIA e giurisprudenza

Cos’è il permesso di costruire?

Il permesso di costruire è un atto amministrativo che autorizza l’inizio di un intervento edilizio, che deve rispettare una serie di normative urbanistiche, ambientali e tecniche. Si tratta di uno degli strumenti più importanti per garantire che le opere edilizie siano conformi ai piani regolatori comunali, alle leggi sul paesaggio, alla sicurezza e alla qualità dell’ambiente urbano.
Esso è disciplinato dal Testo Unico dell’Edilizia (D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380), che ha sostituito la precedente “concessione edilizia”, stabilendo regole uniformi su tutto il territorio nazionale.

Normativa di riferimento

Il D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 è la normativa principale che regola il permesso di costruire. Il Testo Unico dell’Edilizia ha armonizzato e semplificato le procedure di rilascio di autorizzazioni edilizie, offrendo indicazioni precise su come e quando ottenere il permesso di costruire.

Gli articoli salienti

Alcuni articoli salienti di questa normativa sono:
• l’articolo 10: che stabilisce che il permesso di costruire è necessario per gli interventi edilizi che comportano una modificazione sostanziale dell’uso del suolo, come nuovi edifici, ampliamenti e modifiche strutturali significative;
• l’art. 11: che definisce le caratteristiche del permesso di costruire, ossia la trasferibilità ai successori e aventi causa, la sua irrevocabilità e onerosità. Il permesso di costruire inoltre non incide sulla titolarità della proprietà o di altri diritti reali e non comporta limitazioni dei diritti dei terzi;
• l’articolo 12: che stabilisce i presupposti per il suo rilascio;
• l’art. 15: che stabilisce l’efficacia temporale e la decadenza del permesso a costruire;
• l’articolo 20: che regolamenta il procedimento per il rilascio e i tempi, stabilendo anche le modalità di ricorso in caso di diniego.
Oltre al Testo Unico, ogni comune ha una propria normativa edilizia che deve essere rispettata. I regolamenti locali possono prevedere ulteriori specifiche, come le modalità di presentazione della domanda, i documenti necessari e le procedure per il rilascio.

Quando viene rilasciato il permesso di costruire?

Il permesso viene rilasciato quando si ha intenzione di realizzare interventi edilizi che comportano una modificazione sostanziale del territorio, come la costruzione di nuovi edifici, la ristrutturazione o l’ampliamento di edifici esistenti, qualsiasi intervento che modifichi l’assetto urbanistico di un’area.
La richiesta viene presentata al comune, il quale deve verificarne la conformità rispetto al piano regolatore e ad altre normative settoriali (sicurezza, ambiente, paesaggio, salute pubblica, ecc.).

Una volta ottenuto il permesso, il richiedente ha un termine per avviare i lavori e, generalmente, è obbligato a completare l’opera entro i termini stabiliti.

Differenza tra permesso di costruire e SCIA

Una delle principali distinzioni nel panorama delle autorizzazioni edilizie riguarda la differenza tra permesso di costruire e SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività). Mentre il permesso di costruire è obbligatorio per le opere più rilevanti e che impattano maggiormente sull’urbanistica, la SCIA si applica a interventi più semplici che non modificano in modo sostanziale il territorio o la struttura edilizia esistente.

Permesso di costruire vs SCIA

• Permesso di Costruire: richiesto per interventi edilizi complessi o per nuove costruzioni che possano influire sul piano regolatore, sull’assetto urbano o sull’ambiente. L’amministrazione pubblica ha il compito di valutare la conformità del progetto con le normative urbanistiche e ambientali.
• SCIA: la SCIA è una dichiarazione che il soggetto interessato presenta per avviare determinati lavori edilizi. L’intervento deve essere conforme agli strumenti urbanistici vigenti, ma, in questo caso, non è necessaria l’autorizzazione preventiva da parte dell’amministrazione, che potrà solo controllare la correttezza dell’intervento successivamente.

La SCIA è spesso usata per interventi di minore impatto, come lavori di manutenzione ordinaria, interventi di ristrutturazione leggera o modifiche interne a edifici esistenti, mentre il permesso si applica in casi in cui l’opera comporta una vera e propria trasformazione del territorio.

Giurisprudenza rilevante

Nel corso degli anni, la giurisprudenza ha avuto un ruolo fondamentale nell’interpretare e applicare la normativa, risolvendo le controversie relative alla sua applicazione:

Consiglio di Stato n. 962/2025

Il soggetto legittimato a impugnare un permesso di costruire, come un proprietario confinante, deve rispettare termini specifici per presentare il ricorso. Questi termini decorrono dal momento in cui i lavori hanno inizio (c.d. an dell’edificazione) o, eventualmente, da quando l’interessato ne viene a conoscenza.
Trascorsi i 60 giorni previsti per l’impugnazione, il ricorso è considerato tardivo e non può essere esaminato dal giudice, indipendentemente dalla conformità dell’opera al titolo edilizio.

Cassazione n. 23186/2018

La totale difformità dal permesso di costruire, secondo l’articolo 31 del Testo Unico dell’Edilizia (DPR 380/2001), si verifica quando l’intervento edilizio realizzato si discosta completamente da quello autorizzato. Questo avviene in due casi principali:

1. Modifica sostanziale dell’organismo edilizio – Se l’opera costruita differisce integralmente per tipologia, forma, volumetria o destinazione d’uso rispetto a quanto previsto nel permesso di costruire.

2. Superamento dei volumi autorizzati – Se vengono realizzati volumi edilizi eccedenti i limiti approvati, tali da costituire un’unità edilizia autonoma o comunque significativa rispetto al progetto iniziale. In sintesi, la totale difformità si ha quando l’opera costruita è radicalmente diversa da quella autorizzata, tanto da configurare un nuovo organismo edilizio.

TAR Campania – Salerno n. 1611/2015

E’ illegittimo che un’Amministrazione richieda, come condizione per il rilascio del permesso di costruire, la dimostrazione della regolarità del richiedente nei confronti dei tributi comunali. Tale pretesa altera la finalità del potere amministrativo, utilizzandolo per scopi estranei rispetto a quelli stabiliti dalla legge, che disciplina il permesso di costruire con criteri specifici e autonomi.

 

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cavedio

Il cavedio Cavedio: definizione, normativa di riferimento, natura condominiale, ripartizione delle spese e giurisprudenza

Cos’è il cavedio?

Il cavedio è uno spazio aperto interno a un edificio, spesso di forma quadrangolare o rettangolare, che ha la funzione di garantire l’illuminazione e la ventilazione naturale degli ambienti circostanti. Viene comunemente utilizzato negli edifici con più unità immobiliari, soprattutto nei centri storici, per migliorare il comfort abitativo.

Normativa di riferimento

La disciplina di questo spazio non è espressamente regolata nel Codice Civile, ma trova riferimento negli articoli che riguardano le parti comuni dell’edificio e la servitù di veduta:

  • 1117 c.c.: stabilisce che alcune parti dell’edificio sono comuni a tutti i condomini, a meno che non risulti diversamente dal titolo;
  • 840 c.c.: definisce l’estensione della proprietà del suolo, indicando che il proprietario può godere del sottosuolo e dello spazio sovrastante nei limiti previsti dalla legge;
  • 907 c.c.: disciplina le distanze legali per le aperture e le vedute, aspetto rilevante quando il cavedio confina con proprietà private.

Natura condominiale del cavedio

La giurisprudenza ha chiarito che il cavedio può essere considerato bene comune o di proprietà esclusiva a seconda delle sue caratteristiche:

  • se serve più unità immobiliari: viene considerato parte comune dell’edificio, rientrando nella disciplina dell’art. 1117 c.c.;
  • se serve esclusivamente un’unità immobiliare: viene considerato pertinenza del singolo proprietario.

Ripartizione spese di manutenzione del cavedio

Le spese per la manutenzione di questo spazio devono essere suddivise in base alla sua natura.

  • Se è condominiale: i costi di pulizia, manutenzione e riparazione vengono suddivisi tra tutti i condomini secondo i millesimi di proprietà.
  • Se è di proprietà esclusiva: il titolare dell’unità immobiliare cui esso appartiene è responsabile delle spese.
  • Se poi ha una funzione mista (ad esempio, permette il passaggio di impianti comuni ma è utilizzato da un singolo proprietario), la ripartizione delle spese dipende dall’effettivo utilizzo e dalla destinazione d’uso.

Giurisprudenza rilevante

La giurisprudenza ha fornito chiarimenti in merito alla natura condominiale del cavedio e alla ripartizione delle spese:

  • Cassazione civile n. 4865/2023: Il cavedio, o pozzo luce, è un piccolo cortile condominiale che fornisce aria e luce a locali secondari. La sua proprietà è presunta comune, salvo prova contraria di proprietà esclusiva tramite titolo anteriore o usucapione.
  • Cassazione n. 16800/2023: L’uso del cavedio comune è regolato dall’articolo 1102 del Codice Civile: ogni condomino può utilizzarlo senza alterarne la funzione o impedire agli altri di farne uso. Installazioni come tubature o stendibiancheria sono legittime se necessarie e non modificano la natura del cavedio. Invece, strutture fisse che ne limitano l’uso comune sono vietate.
  • Cassazione n. 5358/2018: Un condomino non può usare il cavedio comune in modo esclusivo, alterandone la funzione e impedendo agli altri di usarlo. L’uso autonomo è lecito solo se non pregiudica gli altri. Il giudice può ordinare la rimozione di modifiche che rendono il cavedio accessorio esclusivo di un appartamento. Il diritto d’uso del singolo non giustifica alterazioni che limitano l’uso comune.
  • Cassazione n. 17556/2014: Il cavedio è considerato parte comune dell’edificio condominiale a causa della sua funzione primaria di fornire aria e luce a locali secondari come bagni e disimpegni. Questa natura condominiale deriva dalla presunzione di contitolarità necessaria tra tutti i condomini che beneficiano del cavedio, poiché la sua utilità per le parti comuni dell’edificio stabilisce una presunzione di proprietà condivisa. Questa presunzione è supportata dall’articolo 1117 del Codice Civile, che include i cortili tra le parti comuni.

 

sospeso l'avvocato

Sospeso l’avvocato che difende i coniugi e poi assiste uno contro l’altro La Cassazione afferma che va sospeso l'avvocato che rappresenta entrambi i coniugi e poi ne assiste uno contro l'altro in violazione dell'art. 68 CDF

La Cassazione sulla Deontologia Forense

Sospeso l’avvocato che inizialmente rappresenta entrambi i coniugi durante una separazione e successivamente assiste solo uno dei due in procedure legali contro l’altro. Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 4844/2025 depositata martedì 25 febbraio 2025.

Sospeso l’avvocato per violazione deontologica

La sentenza n. 4844/2025 della Cassazione conclude una procedura avviata da una donna che ha segnalato come l’avvocato attualmente rappresentante del marito in azioni legali contro di lei fosse lo stesso che aveva assistito entrambi durante la separazione.

Il CDD ha sanzionato l’avvocato, ma questi ha contestato la decisione davanti al CNF, che ha comunque confermato la decisione riducendo però la sospensione a un anno.

L’avvocato ha impugnato nuovamente presso la Corte di Cassazione.

L’art. 68 del CDF

La S.C. ha ritenuto legittime le conclusioni del CNF sulla base dei documenti forniti, confermando così l’infrazione disciplinare prevista dall’articolo 68 del Codice deontologico Forense. Tale norma vieta espressamente di accettare incarichi contro una parte già assistita in passato: in particolare, il comma 4 vieta all’avvocato che abbia rappresentato congiuntamente coniugi o conviventi in controversie familiari di assisterne solo uno nei successivi conflitti tra i due.

 

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violenza privata

Violenza privata: guida al reato ex art. 610 c.p. Il reato di violenza privata: in cosa consiste, normativa di riferimento, configurazione del reato e giurisprudenza

Cos’è il reato di violenza privata?

Il reato di violenza privata è previsto e punito dall’art. 610 del codice penale italiano. Questo reato si configura quando un soggetto, mediante violenza o minaccia, costringe un altro soggetto a fare, tollerare o omettere qualcosa contro la propria volontà. La violenza privata è considerata un delitto contro la libertà personale. La norma tutela infatti la libertà morale, ossia il diritto di ciascun individuo a decidere autonomamente delle proprie azioni.

Normativa di riferimento

L’articolo 610 del codice penale stabilisce che “chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare o omettere qualcosa, è punito con la reclusione fino a quattro anni”. La pena è aumentata se il fatto è commesso ad esempio con l’uso di armi o da più persone riunite.

Come si configura il reato di violenza privata?

Il reato si configura attraverso due elementi principali:

  1. Violenza o minaccia: l’uso della forza fisica o la prospettazione di un male ingiusto e imminente per costringere la vittima.
  2. Costrizione: la vittima è obbligata a compiere, tollerare o omettere un’azione contro la propria volontà.

Elemento oggettivo e soggettivo del reato

Elemento oggettivo: consiste nella condotta violenta o minacciosa che porta alla costrizione della vittima. La violenza può essere fisica o morale, mentre la minaccia deve essere tale da incutere il timore nella vittima di un male ingiusto.

Elemento soggettivo: richiede il dolo generico, ossia la volontà cosciente di costringere un’altra persona a compiere un atto contro la propria volontà. Non è necessario che il soggetto agente persegua un fine specifico, ma basta la consapevolezza della natura costrittiva dell’atto.

Come viene punito il reato di violenza privata?

Il reato di violenza privata è punito con la reclusione fino a quattro anni. La pena può essere aumentata in presenza di aggravanti, come:

  • l’uso di armi;
  • il compimento del fatto da più persone riunite;
  • la recidiva specifica o reiterata del reato.

Aspetti procedurali del reato di violenza privata

Azione penale: il reato è punibile previa querela della persona. Offesa. E’perseguibile d’ufficio invece quando il reato viene commesso in danno di un soggetto incapace a causa dell’età o dell’infermità o quando è commesso in presenza delle aggravanti indicate nel comma 2 della norma.

Competenza: la competenza per il giudizio è del tribunale monocratico.

Prescrizione: il reato si prescrive in sei anni, salvo interruzioni dovute a atti processuali.

Misure cautelari: In presenza di gravi indizi di colpevolezza, il giudice può disporre misure cautelari personali.

Giurisprudenza rilevante

La giurisprudenza italiana ha fornito interpretazioni significative per chiarire i confini del reato di violenza privata:

Cassazione n. 10360/2019: l’elemento oggettivo del reato previsto dall’art. 610 c.p. consiste nell’uso della violenza o della minaccia con lo scopo di costringere qualcuno a compiere, tollerare o omettere un’azione. Affinché si configuri il reato, la violenza o la minaccia devono essere finalizzate a determinare un effetto ulteriore, ossia la costrizione della vittima. Ne consegue che l’atto violento o minaccioso non deve coincidere con l’evento stesso di costrizione: se la violenza si esaurisce nella mera imposizione a tollerare, senza un ulteriore effetto coercitivo, il delitto di cui all’art. 610 c.p. non può ritenersi integrato.

Cassazione penale n. 32534/2020: il reato di violenza privata previsto e disciplinato dall’art. 610 c.p è integrato anche dalla condotta di chi parcheggia l’auto all’interno del cortile condominiale in modo da impedire agli altri condomini l’accesso ai propri garage.

Cassazione penale n. 1174/2020: Il reato di violenza privata ha natura istantanea e si perfeziona nel momento in cui la vittima subisce una costrizione che limita la sua libertà di scelta e di azione. Non ha rilevanza il fatto che gli effetti di tale costrizione possano perdurare nel tempo o che la persona offesa possa successivamente liberarsene.

 

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