cassa integrazione guadagni

Cassa Integrazione Guadagni Cassa Integrazione guadagni: cos'è, come funziona e quale impatto ha avuto sull'istituto decreto legislativo n. 148/2015

Cassa Integrazione Guadagni: come funziona

La Cassa Integrazione Guadagni (CIG) è uno strumento fondamentale per il sostegno dei lavoratori in Italia durante periodi di crisi aziendali o difficoltà economiche.

Consente di garantire una parte della retribuzione ai dipendenti, evitando licenziamenti di massa e favorendo la continuità lavorativa. Un aspetto fondamentale del sistema di CIG è la sua regolamentazione, che nel corso degli anni ha subito importanti modifiche.

Da segnalare quelle introdotte dal Decreto Legislativo 148/2015, che ha modernizzato il quadro normativo della Cassa Integrazione.

In questo articolo esploreremo cos’è la Cassa Integrazione, le principali tipologie, e come il Decreto 148/2015 abbia influenzato il sistema, introducendo importanti novità sia per le imprese che per i lavoratori.

Cos’è la CIG

La Cassa Integrazione Guadagni (CIG) è una misura di sostegno al reddito che interviene quando un’impresa, per motivi economici, temporaneamente non può garantire ai propri dipendenti il normale orario di lavoro. Grazie alla CIG, l’azienda ha la possibilità di sospendere o ridurre l’attività lavorativa, mentre i dipendenti ricevono una parte del loro stipendio grazie all’intervento dello Stato.

La Cassa Integrazione può essere richiesta in diversi casi, come ad esempio in seguito a una crisi aziendale, a situazioni di mercato difficili, o a eventi straordinari come calamità naturali o pandemie.

Tipologie di Cassa Integrazione

Esistono principalmente tre tipologie di Cassa Integrazione:

Cassa Integrazione Ordinaria (CIGO)

Si applica alle aziende non editi e a quelle industriali e artigiani dell’edilizia che affrontano una temporanea difficoltà economica o organizzativa. La CIGO è concessa per 13 settimane, fatte salve eventuali proroghe, che in certe zone possono elevare il limite a 24 mesi.

Cassa Integrazione Straordinaria (CIGS)

È utilizzata da aziende in difficoltà più gravi, come quelle in ristrutturazione, riorganizzazione o in crisi aziendale. La CIGS è destinata a grandi imprese e a determinati settori, ed è regolamentata da norme più stringenti rispetto alla CIGO.

Cassa Integrazione in Deroga (CIGD)

È una misura di sostegno speciale che può essere attivata in situazioni straordinarie, come crisi aziendali che non rientrano nei criteri delle altre forme di CIG. Viene applicata anche in caso di difficoltà di piccole e medie imprese o in settori non coperti da altre misure.

Decreto Legislativo 148/2015: novità e conseguenze

Il Decreto Legislativo 148 del 14 settembre 2015 ha rappresentato una pietra miliare per la riforma degli ammortizzatori sociali in Italia, modificando e migliorando il sistema di Cassa Integrazione. Questo decreto ha avuto un impatto significativo su come la CIG viene concessa e gestita, introducendo una serie di innovazioni a favore sia delle imprese che dei lavoratori. Vediamo le principali modifiche.

  1. Razionalizzazione e unificazione ammortizzatori sociali

Prima del Decreto 148/2015, esistevano diverse forme di ammortizzatori sociali, ma con criteri e modalità di accesso differenti, a seconda delle dimensioni dell’impresa e delle specifiche situazioni. Il decreto ha introdotto una razionalizzazione del sistema, cercando di semplificare le procedure e di rendere più uniforme l’accesso agli ammortizzatori.

Il decreto ha, infatti, unificato il trattamento di integrazione salariale per tutte le tipologie di CIG, anche per le imprese di piccole dimensioni. Ha creato maggiore uniformità e maggiore accessibilità alla Cassa Integrazione, estendendo la possibilità di utilizzare gli ammortizzatori sociali anche alle aziende più piccole, che prima avevano difficoltà a beneficiare di questi strumenti.

  1. Durata e utilizzo della CIG

Il Decreto ha anche modificato la durata del trattamento di CIG, introducendo una maggiore flessibilità. In particolare, ha previsto che le agevolazioni per la CIGO vengano concesse solo per periodi determinati (a seconda della gravità della crisi aziendale). Questo permette di ridurre il rischio di abuso di questo strumento da parte delle imprese, incentivando l’adozione di soluzioni più durature e strutturali per uscire dalla crisi.

Inoltre, il decreto ha limitato l’utilizzo della CIG in deroga, che viene concessa solo per situazioni eccezionali. L’idea è quella di incentivare il ricorso a forme ordinarie di integrazione salariale, garantendo al contempo maggiore equità tra le aziende di diverse dimensioni e settori.

  1. Maggiore controllo e trasparenza

Una delle innovazioni più importanti introdotte dal Decreto 148/2015 è l’aumento dei controlli sulle modalità di accesso agli ammortizzatori sociali. Le aziende sono tenute a fornire una documentazione dettagliata riguardo le motivazioni che giustificano il ricorso alla CIG. In questo modo, il governo intende prevenire eventuali abusi e garantire che le risorse vengano utilizzate esclusivamente per aiutare le imprese in difficoltà reali.

  1. Sostegno a settori strategici e a imprese

Il Decreto ha esteso anche l’ambito di applicazione della CIGS per le imprese in crisi e per quelle che devono affrontare ristrutturazioni aziendali. Inoltre, ha previsto misure di sostegno specifico per i settori in difficoltà, come il settore industriale e quello agricolo, attraverso una maggiore personalizzazione delle forme di ammortizzatore sociale.

Come richiedere la Cassa Integrazione Guadagni

La procedura per richiedere la Cassa Integrazione varia a seconda della tipologia, ma in generale le imprese devono inviare una richiesta formale all’INPS, accompagnata dalla documentazione che giustifica la necessità di ricorrere alla CIG. L’INPS, a sua volta, valuta la richiesta e decide se concedere l’ammortizzatore. La durata e l’importo del trattamento dipendono dalle specifiche condizioni aziendali e dalla tipologia di CIG richiesta.

 

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festival di sanremo

Festival di Sanremo: addio alla Rai? Festival di Sanremo: dal 2026 gara pubblica, l’affidamento alla RAI è illegittimo, non rispetta le norme sui contratti pubblici

Festival di Sanremo: affidamento illegittimo alla RAI

Illegittimo l’affidamento diretto del Festival di Sanremo alla RAI da parte del Comune di Sanremo.  Dal 2026, l’organizzazione del Festival dovrà passare attraverso una gara pubblica. La decisione, contenuta nella sentenza del TAR Liguria n. 843/2024, nasce dal ricorso presentato dai discografici italiani, rappresentati dal presidente dell’Associazione Fonografici Italiani.

Festival della canzone italiana: concessione marchio

Nel 2023, il presidente dell’Associazione Fonografici Italiani la sua etichetta discografica  contestano la concessione diretta del Marchio “Festival della Canzone Italiana” alla RAI, senza una procedura di evidenza pubblica.

La convenzione, infatti, garantiva alla RAI l’uso esclusivo del marchio e l’organizzazione delle edizioni 2024 e 2025. Il Comune avrebbe dovuto invece rispettare le norme europee e nazionali sui contratti pubblici, aprendo il bando a operatori del settore.

Festival di Sanremo:  la convenzione tra Comune e RAI

La convenzione per il Festival di Sanremo prevede che la RAI organizzi l’evento a sue spese, presentando un progetto-programma al Comune per l’approvazione. In cambio, ottiene i diritti di sfruttamento economico del marchio e del Festival. Il Comune fornisce supporto logistico e floreale e riceve un corrispettivo, oltre a una percentuale sui ricavi generati dalla RAI.

Il TAR ha evidenziato che questa convenzione è un “contratto attivo”, poiché la RAI trae un’opportunità di guadagno. Pertanto, la concessione dovrebbe seguire i principi di trasparenza, concorrenza e imparzialità, previsti dalla normativa vigente.

Marchio e format: entità distinte

Un punto centrale della sentenza riguarda la distinzione tra il marchio e il format. Il TAR ha stabilito che il marchio “Festival della Canzone Italiana” non è inscindibilmente legato al format ideato dalla RAI. Dal 1951 al 1991, infatti, il Comune ha gestito il Festival autonomamente. La RAI si è infatti limitata trasmettere la manifestazione canora in televisione.

Negli ultimi anni poi, il format del Festival è stato modificato più volte, dimostrando l’assenza di un legame indissolubile tra marchio e organizzazione. Nel 2021, ad esempio, il Festival si è svolto senza pubblico per via della pandemia e in altre edizioni sono stati introdotti cambiamenti significativi nelle modalità di gara e conduzione.

Le difese della RAI e del Comune di Sanremo

La RAI ha sostenuto di essere titolare esclusiva del diritto d’autore sul format e di aver investito interamente nella sua creazione. Il TAR però ha respinto questa tesi, affermando che il contratto con il Comune riguarda lo sfruttamento del marchio, non del format.

Il Comune, dal canto suo, ha difeso la convenzione come immodificabile, sottolineando la necessità di un legame tra organizzazione e trasmissione televisiva. Questa posizione non ha convinto i giudici, che hanno ritenuto possibile separare i due ruoli, come avveniva prima del 1991.

Festival di Sanremo: negata la qualifica di bene culturale

Il Tar ha escluso che il Festival, il marchio o il format possano essere qualificati come beni culturali ai sensi del Codice dei beni culturali. Si tratta di diritti immateriali e di una manifestazione circoscritta nel tempo e nello spazio, non assimilabile a espressioni di identità culturale collettiva.

Conseguenze sul Festival di Sanremo

Le edizioni 2024 e 2025 rimangono salve, poiché l’organizzazione è già in fase avanzata. Tuttavia, dal 2026, il Comune dovrà aprire una gara pubblica per assegnare la gestione del Festival. La RAI, quindi, potrebbe non essere più l’organizzatrice principale dell’evento. La sentenza segna un cambiamento epocale per il Festival di Sanremo. Dal 2026, nuovi operatori potranno concorrere per gestire l’evento, garantendo maggiore trasparenza e concorrenza. La competizione potrebbe portare a innovazioni significative nel panorama musicale e mediatico italiano.

 

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giurista risponde

Procedure di gara: il termine per ricorrere Quali i termini per ricorrere nelle procedure di gara?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Nell’ambito delle procedure di gara, ai fine dell’esperibilità del ricorso, trova applicazione il termine decadenziale dei trenta giorni, laddove la comunicazione degli esiti di gara abbia esaustivamente soddisfatto l’interesse sostanziale conoscitivo; nel caso contrario trova applicazione il termine di quarantacinque giorni (T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 25 settembre 2024, n. 1721).

Preliminarmente, è opportuno ricordare che l’art. 120 del codice del processo amministrativo prevede che il termine decorre, per il ricorso principale ed i motivi aggiunti, dalla ricezione della comunicazione di cui all’art. 90 del D.Lgs. 36/2023 oppure dal momento in cui gli atti sono messi a disposizione per tutti i concorrenti non esclusi, ai sensi dell’art. 36 del medesimo codice dei contratti pubblici.

Dunque, la decorrenza del termine per ricorrere differisce che si tratti di ricezione della comunicazione ex art. 90 oppure della messa a disposizione degli atti ex art. 36, mediante la procedura dell’accesso.

A tal proposito soccorrono le regole cardine della pienezza conoscitiva strumentali all’inviolabilità del diritto di difesa, costituzionalmente tutelato.

Pertanto, nell’ambito delle controversie ex art. 120 c.p.a., laddove la comunicazione degli esiti di gara (ex art. 90) abbia esaustivamente soddisfatto l’interesse sostanziale conoscitivo e non sia necessario attendere la messa a disposizione per tutti i concorrenti non esclusi, trova applicazione il tradizionale termine decadenziale dei trenta giorni ai fini dell’esperibilità del ricorso avverso gli atti di gara. Nel caso contrario in cui la conoscenza di atti ulteriori e diversi assurga a condizione ineludibile per poter acquisire una pienezza conoscitiva, rintracciabile mediante l’istituto dell’accesso formale, allora opera la logica della dilazione temporale con un’estensione fino ai quarantacinque giorni.

 

(*Contributo in tema di “Procedure di gara: il termine per ricorrere”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

pitbull senza museruola

Pitbull senza museruola sul bus: è reato Interruzione di pubblico servizio quando il passeggero pretende di salire su un autobus con un pitbull senza guinzaglio e museruola

Interruzione di pubblico servizio

Pitbull senza museruola sul bus è reato di interruzione di pubblico servizio ex articolo 340 del Codice penale. La norma punisce chiunque cagioni un’interruzione o un turbamento del regolare svolgimento di un servizio pubblico o di pubblica necessità. La recente sentenza della Corte di Cassazione n. 45289/2024 ha chiarito che chi pretende di salire su un autobus con un cane senza guinzaglio e museruola anche in presenza del volere contrario e legittimo del conducente dellautobus, commette questo reato.

Autobus fermo per un cane senza museruola

Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguarda un utente che ha preteso di salire su un autobus con un pit bull di grossa taglia senza museruola e senza guinzaglio. Il conducente, conformemente al regolamento del trasporto pubblico, ha impedito l’accesso all’animale. Ne è scaturita una lunga discussione, che ha ritardato la partenza dellautobus di circa quarantacinque minuti. Il padrone del cane, peraltro, ha mantenuto un atteggiamento intimidatorio nei confronti dell’autista e degli altri passeggeri. La Corte di Cassazione per queste ragioni ha confermato la condanna per interruzione di pubblico servizio, rigettando ogni pretesa difensiva. Il ricorrente aveva lamentato l’assenza di un regolamento esposto all’interno del mezzo e invocato l’attenuante della provocazione. Questi argomenti però sono stati respinti.

Obbligo di rispettare il regolamento di viaggio

Il conducente di un autobus ha il dovere di far rispettare il regolamento di viaggio. Questo include prescrizioni specifiche sull’accesso con animali domestici, come l’uso obbligatorio del guinzaglio e della museruola per i cani di grossa taglia o considerati potenzialmente pericolosi. Il regolamento ha una base giuridica solida e tutela la sicurezza di tutti i passeggeri. In questa vicenda, il conducente ha agito quindi nel rispetto dei propri obblighi e non ha assunto una condotta provocatoria. La Cassazione ha chiarito infatti che non si può configurare l’attenuante della provocazione quando il soggetto “provocatore” esercita un dovere istituzionale con equilibrio e senza intenti vessatori.

Esclusa l’attenuante della provocazione

La difesa aveva invocato l’attenuante della provocazione, sostenendo che il comportamento del conducente avesse scatenato la reazione dell’imputato. La Suprema Corte però ha respinto questa tesi, ricordando i criteri applicativi dell’attenuante. Secondo l’articolo 62 del Codice penale, essa sussiste infatti solo se il comportamento del provocatore è oggettivamente ingiusto e compiuto con intenti di dispetto o di faziosità. Nel caso concreto, l’autista ha svolto solo il proprio dovere, facendo rispettare una norma regolamentare. Non si tratta, dunque, di un comportamento ingiusto, ma di un’azione lecita e doverosa.

Irrilevanza dell’errore sulle attenuanti

Un ulteriore punto sollevato dalla difesa riguardava la mancata esposizione del regolamento sul mezzo pubblico. L’imputato riteneva di essere stato tratto in errore e che l’assenza della regola visibile giustificasse la sua reazione. La Cassazione ha ribadito l’irrilevanza di questo errore ai fini delle attenuanti. Ai sensi dell’articolo 59, comma 3, del Codice penale, le circostanze attenuanti erroneamente supposte dall’autore non possono essere valutate a suo favore. Di conseguenza, anche l’ignoranza del regolamento non esime dalla responsabilità penale.

Cassazione sul reato di interruzione di pubblico servizio

Dalla decisione emerge in conclusione che il reato di interruzione di pubblico servizio si configura quando un soggetto impedisce o turba il normale svolgimento di un servizio pubblico, causando un ritardo significativo o una sospensione temporanea. Nel caso del pit bull senza museruola, la discussione prolungata e latteggiamento intimidatorio del padrone hanno impedito la ripartenza dell’autobus, causando un disagio ai passeggeri e al servizio stesso. Questa condotta integra quindi pienamente il reato previsto dall’articolo 340 del Codice penale.

divorzio breve

Divorzio breve: la guida Divorzio breve: la legge n. 55/2015 ha ridotto i tempi del divorzio riducendo il tempo   di attesa dalla separazione consensuale o giudiziale

Divorzio breve: la legge n. 55/2015

Il divorzio breve, introdotto in Italia dalla Legge n. 55 del 2015, ha segnato un’importante evoluzione nel diritto di famiglia italiano. Questa legge ha ridotto significativamente il tempo necessario per ottenere la dissoluzione legale del matrimonio, migliorando così l’efficienza del sistema giuridico e rispondendo alle esigenze di una società sempre più dinamica. In questo articolo, esploreremo l’istituto alla luce della Legge n. 55/2015, analizzando i suoi effetti pratici e le implicazioni per i coniugi coinvolti.

Cos’è il divorzio breve?

Il divorzio breve è un’innovazione legislativa che ha ridotto i tempi necessari per ottenere il divorzio in Italia, abbattendo i periodi del divorzio successivi alla separazione previsti dalla Legge n. 898 del 1970. Questa normativa stabiliva infatti che i coniugi dovessero essere separati per almeno tre anni prima di poter chiedere il divorzio. Con l’introduzione della Legge n. 55/2015, queste tempistiche sono state ridotte. Questo cambiamento ha rappresentato una semplificazione per molte coppie, rendendo più rapida la conclusione di un matrimonio che, per vari motivi, è giunto al capolinea. L’obiettivo della riforma è stato quello di alleggerire il carico di lavoro dei tribunali e rispondere alle necessità di una società in rapido cambiamento, in cui i legami coniugali si deteriorano più velocemente.

Legge n. 55/2015: modificati i tempi

La Legge n. 55/2015, approvata il 6 maggio 2015, ha modificato l’art. 3 della Legge n. 898 del 1970 (Legge sul Divorzio), che disciplinava i tempi del divorzio. Prima di tale riforma, come anticipato, i coniugi dovevano essere separati legalmente da almeno tre anni per poter ottenere il divorzio. Con l’introduzione del nuovo istituto, i tempi di separazione sono stati drasticamente ridotti, con l’intento di rendere più rapido e accessibile il processo di dissoluzione del matrimonio

La legge ha stabilito infatti che:

  • in presenza di una separazione consensuale, ossia quando i coniugi sono d’accordo sulla separazione e sugli effetti accessori (come l’affidamento dei figli e il mantenimento), il tempo di separazione necessario per chiedere il divorzio è ridotto a 12 mesi.
  • Nell’ipotesi invece di una separazione giudiziale, che viene avviata quando i coniugi non riescono a trovare un accordo e devono ricorrere al tribunale per risolvere le questioni relative alla separazione, il termine per chiedere il divorzio è ridotto a 6 mesi.  

Questa modifica ha reso il processo di divorzio più veloce ed efficiente, contribuendo a ridurre il tempo di attesa per chi desidera mettere fine a un matrimonio.

Come funziona il divorzio breve?

Lo scioglimento del matrimonio breve non cambia le modalità di separazione, ma agisce esclusivamente sui tempi in cui è possibile chiedere il divorzio. Vediamo come funziona nei due principali scenari

  1. La procedura di divorzio breve consensuale può essere avviata dopo 12 mesi dalla separazione consensuale. Il vantaggio principale è che, in questo caso, non è necessario il passaggio in tribunale, se non sono presenti figli minorenni o non ci sono altre problematiche legali da risolvere.
  2. Il divorzio breve giudiziale invece può essere avviato dopo che la separazione legale è stata dichiarata dal giudice. In questo caso i coniugi possono chiedere il divorzio dopo soli 6 mesi. Questo significa che, in caso di separazione giudiziale, i tempi per il divorzio sono molto più rapidi rispetto a quelli previsti prima della legge n. 55/2015.

Divorzio breve quali vantaggi

La Legge n. 55/2015 ha portato numerosi vantaggi, tanto per i coniugi quanto che per il sistema giuridico.

Maggiore rapidità

Il principale vantaggio è rappresentato dalla riduzione dei tempi. Le coppie che hanno già intrapreso un processo di separazione, ma che non sono ancora riuscite a ottenere il divorzio, possono finalmente porre fine al loro matrimonio con maggiore tempestività. Questo è particolarmente importante in un contesto in cui le persone cercano di risolvere rapidamente le difficoltà familiari per poter ricominciare una nuova vita.

Minore conflittualità

La possibilità di concludere rapidamente la procedura consente alle parti di evitare prolungamenti inutili e tensioni prolungate. I tempi più brevi incoraggiano infatti i soggetti coinvolti a trovare una soluzione pacifica.

Semplificazione delle procedure giudiziarie

La legge ha prodotto anche l’effetto di ridurre il carico di lavoro dei tribunali, perché la procedura è meno complessa. Con l’abbattimento dei tempi di separazione, il numero di casi pendenti in tribunale si è ridotto con conseguente alleggerimento del sistema giudiziario.

Maggiore tutela per i minori

Questo modo di procedere più rapido è senza dubbio positivo anche per i figli minorenni. La procedura accelerata riduce il periodo di conflitto e di incertezza familiare e i minori riescono ad adattarsi più velocemente alla nuova situazione.

Divorzio breve: svantaggi

Nonostante i numerosi vantaggi, l’istituto non è privo di criticità. Alcuni esperti ritengono che i tempi ridotti non permettono una riflessione adeguata sui danni emotivi della separazione per i coniugi e i figli minori. La rapidità della procedura potrebbe ridurre inoltre il tempo disponibile per una negoziazione accurata degli accordi, soprattutto per quanto riguarda la custodia dei figli e la divisione equa  dei beni.

 

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concorso in magistratura

Concorso in magistratura: 350 posti, come partecipare Concorso in magistratura: pubblicato il decreto che bandisce il concorso per 350 magistrati ordinari, domande ammesse fino al 17 gennaio 2025

Concorso in magistratura: 350 Posti

Il Ministero della Giustizia ha bandito un concorso in magistratura per 350 posti da magistrato ordinario. La procedura è regolata dal Decreto Ministeriale del 10 dicembre 2024, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 100 del 17 dicembre 2024.

Presentazione delle domande

I candidati possono inviare la domanda dalle ore 12:00 del 17 dicembre 2024 fino alle ore 12:00 del 17 gennaio 2025. La partecipazione avviene esclusivamente online tramite il portale del Ministero della Giustizia. Per l’accesso è necessario autenticarsi con SPID di secondo livello, Carta d’Identità Elettronica o CNS. La compilazione del modulo prevede il pagamento di un contributo di segreteria pari a 50 euro tramite PagoPA.

Requisiti di partecipazione

I candidati devono soddisfare i seguenti requisiti generali:

  • cittadinanza italiana e pieno esercizio dei diritti civili;
  • condotta morale incensurabile;
  • idoneità fisica all’impiego;
  • regolarità con gli obblighi di leva, se previsti;
  • non essere stati dichiarati inidonei per quattro concorsi precedenti.

Inoltre, è necessario possedere una laurea in giurisprudenza (corso di almeno quattro anni) o rientrare in specifiche categorie professionali, come magistrati onorari con sei anni di servizio, abilitati alla professione forense, o dipendenti pubblici con qualifiche dirigenziali.

Prove concorso in magistratura

Il concorso comprende una prova scritta e una prova orale.

Prova scritta concorso in magistratura

I candidati redigeranno tre elaborati su diritto civile, diritto penale e diritto amministrativo, ciascuno della durata di otto ore.

Prova orale concorso in magistratura

L’esame orale include materie giuridiche come diritto civile, diritto penale, procedura civile, diritto costituzionale e comunitario. Inoltre, si verifica la conoscenza di una lingua straniera scelta tra inglese, francese, spagnolo e tedesco.

Graduatoria e comunicazioni

La graduatoria finale viene redatta in base ai punteggi delle prove. A parità di punteggio, prevalgono titoli di preferenza come la minore età anagrafica o il servizio lodevole nella pubblica amministrazione.

Il diario delle prove scritte sarà pubblicato l’11 marzo 2025 sulla Gazzetta Ufficiale e sul sito del Ministero della Giustizia. Eventuali aggiornamenti seguiranno le stesse modalità.

 

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innovazioni in condominio

Innovazioni in condominio Cosa sono le innovazioni condominiali, quali sono le maggioranze necessarie per deliberarle e quali diritti ha il condomino dissenziente

Cosa sono le innovazioni in condominio

Le innovazioni in condominio sono quegli interventi che migliorano o rendono più comode da utilizzare le cose comuni.

Trattandosi di interventi che vanno oltre la semplice manutenzione del bene, mutandone, invece, in qualche modo la natura o la destinazione sostanziale, le innovazioni sono soggette ad una particolare disciplina codicistica e possono essere deliberate solo con maggioranze qualificate, individuate dall’art. 1120 del codice civile.

Quale maggioranza per le innovazioni?

Nel dettaglio, per l’approvazione di un intervento innovativo sulle parti comuni è necessario il voto della maggioranza degli intervenuti in assemblea, che rappresenti almeno i due terzi del valore dell’edificio.

La legge n. 220 del 2012, però, ha introdotto alcune ipotesi, corrispondenti ad innovazioni oggettivamente meritevoli di apprezzamento, per le quali è sufficiente, per l’approvazione assembleare, la consueta maggioranza di cui all’art. 1136 c.c. secondo comma (cioè la maggioranza degli intervenuti che rappresenti la metà del valore dell’edificio).

Le ipotesi

Tali ipotesi sono le seguenti:

  • interventi che migliorino la sicurezza e la salubrità dell’edificio o dei suoi impianti;
  • interventi tesi all’eliminazione delle barriere architettoniche;
  • innovazioni mirate al miglioramento dell’efficienza energetica dell’edificio;
  • realizzazione di posti auto al servizio delle unità immobiliari;
  • realizzazione di impianti di produzione di energia con fonti rinnovabili;
  • realizzazione di impianti centralizzati per la ricezione radiotelevisiva, anche via satellite o cavo.

Richiesta di innovazioni in condominio

La richiesta di realizzazione di un intervento che costituisca innovazione condominiale può provenire anche da un singolo condomino.

A fronte di tale richiesta, l’amministratore è tenuto a convocare apposita assemblea entro trenta giorni.

Il proponente deve indicare il contenuto specifico della propria istanza, descrivendo anche le possibili modalità di esecuzione dell’intervento. Se l’amministratore non ritiene sufficientemente precisa la richiesta, deve chiedere le opportune integrazioni al condomino.

Quali sono le innovazioni vietate ex art. 1120 c.c.

Un aspetto importante della disciplina relativa alle innovazioni condominiali è quello individuato dall’ultimo comma dell’art. 1120 c.c., che vieta tutti quegli interventi suscettibili di mettere in pericolo la stabilità o la sicurezza del fabbricato o che ne ledano il decoro architettonico (peggiorandone, cioè, il suo aspetto estetico e il suo carattere di pregio).

Altrettanto vietate, in base alla norma appena citata,  sono le innovazioni che renderebbero inservibili alcune parti comuni anche per un solo condomino.

Quali sono le innovazioni voluttuarie

La disciplina codicistica delle innovazioni condominiali è completata dalle disposizioni dell’art. 1121 c.c., secondo il quale ciascun condomino ha il diritto di essere esonerato dalla relativa spesa, quando l’innovazione comporti una spesa molto gravosa o sia da considerare innovazione voluttuaria rispetto alle condizioni dell’edificio.

Resta fermo il diritto dell’esonerato e dei suoi eredi, in qualunque tempo, di decidere di partecipare ai vantaggi offerti dall’opera, versando in un momento successivo gli importi corrispondenti alle spese di esecuzione e manutenzione.

L’esonero di cui sopra, però, è previsto solo se l’innovazione consista in opere o impianti che possono essere utilizzati separatamente dai vari condomini. Diversamente, in caso di opera non suscettibile di utilizzo separato, la sua realizzazione non è consentita, a meno che la maggioranza dei condomini che la desiderano non intendano sopportarne integralmente la spesa.

In chiusura, va segnalato che molti degli aspetti sopra descritti coinvolgono la discrezionalità dell’interprete (e cioè dei condomini, dell’amministratore e dello stesso giudice, qualora dalla realizzazione dell’innovazione derivi una controversia legale). Starà a questi ultimi, cioè, di volta in volta, cercare di capire, innanzitutto, se l’intervento rappresenti un’innovazione (secondo quanto si è detto in apertura di articolo) o una mera modifica; se esso sia suscettibile di utilizzo separato (si pensi a un impianto centralizzato), o meno (ad esempio, un c.d. cappotto termico).

Ancora, sarà il condomino a dover dimostrare in giudizio se l’innovazione comporti una spesa che possa considerarsi voluttuaria (prevedendo, ad esempio, l’installazione di finiture o l’utilizzo di materiali di particolare pregio); e, infine, se l’innovazione leda i suoi diritti di singolo condomino, rendendogli inservibile una parte comune (si pensi all’installazione di un manufatto che oscuri una finestra della sua unità immobiliare).

abitazione signorile o popolare

Abitazione signorile o popolare: classamento ai fini delle imposte Imposte ipotecarie e catastali: per determinarle è necessario il classamento e a tal fine rilevano le opinioni comuni

Abitazione signorile o popolare e imposte

Abitazione signorile o popolare: in materia di imposte ipotecarie e catastali, la recente sentenza n. 31725/2024 della Corte di Cassazione chiarisce un principio importante sul classamento delle abitazioni. La classificazione di un immobile come “signorile”, “civile” o “popolare“, in assenza di specifiche definizioni legislative, dipende dalle opinioni comuni prevalenti in un determinato contesto storico e territoriale.

Imposte ipotecarie e catastali: classamento immobile

La pronuncia pone fine a una vicenda che ha inizio quando un contribuente contesta il classamento di un immobile. L’immobile, inizialmente classificato nella categoria A/1 (abitazione signorile), è infatti ritenuto dal proprietario privo delle caratteristiche di lusso necessarie per inquadrarlo in detta categoria. Per questo presenta un’istanza per il riclassamento dell’immobile in categoria A/2 (abitazione civile), ma l’Agenzia delle Entrate respinge la richiesta. Il contribuente ricorre quindi alla Commissione Tributaria Provinciale (CTP) che però rigetta il ricorso. Secondo la CTP, per ottenere una revisione del classamento è necessaria una modifica sostanziale dell’immobile o una richiesta di revisione formale avanzata dal Comune. La situazione, secondo la Commissione, non rientra nelle ipotesi previste dalla normativa.

In seguito la Commissione Tributaria Regionale (CTR) della Liguria ribalta la decisione. La CTR  evidenzia diverse carenze nell’immobile che lo rendono non conforme alla categoria A/1:

  • superficie reale inferiore a quella indicata dall’Agenzia delle Entrate;
  • mancanza di caratteristiche di pregio, come ottima esposizione e finiture di lusso;
  • vani con altezze ridotte e locali igienici piccoli e privi di finestre;
  • posizione dell’immobile in una zona non di assoluto pregio.

Revisione classamento: serve una prova concreta e attuale

L’Agenzia delle Entrate impugna la decisione della CTR in Cassazione. L’ente sostiene che, secondo l’articolo 38 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR), la revisione del classamento dovrebbe essere basata su una prova concreta e attuale di una riduzione della redditività dell’immobile. La CTR però, a detta dell’Agenzia, ha ignorato questo requisito fondamentale.

La Corte di Cassazione respinge il ricorso dell’Agenzia, dichiarandolo inammissibile. I giudici  chiariscono che la CTR ha fondato la propria decisione su elementi oggettivi legati allo stato effettivo dell’immobile. La questione della redditività ex articolo 38 TUIR non è applicabile al caso in esame, poiché quella norma riguarda l’imposizione fiscale sui redditi, mentre la controversia verte sulla corretta attribuzione della categoria catastale.

L’importanza delle opinioni comuni per il classamento

Un punto centrale della sentenza riguarda la qualificazione delle abitazioni. La Cassazione ribadisce che la classificazione di un immobile come “signorile”, “civile” o “popolare” non deriva da un criterio legislativo rigido. Essa deve riflettere piuttosto le opinioni comuni di un determinato contesto spazio-temporale. Questa posizione conferma un principio fondamentale nel diritto catastale: il procedimento di classamento è di tipo accertativo e deve tenere conto della realtà fattuale dell’immobile. L’assenza di caratteristiche di lusso pertanto, come finiture pregiate o posizione esclusiva, rende non giustificabile l’attribuzione della categoria A/1.

Per la Corte quindi il contribuente ha il diritto di richiedere, in qualsiasi momento, la correzione dei dati catastali. Questo principio, già affermato in precedenti sentenze, si fonda sul fatto che la rendita catastale non ha natura definitiva. Essa può essere modificata quando emergono nuove informazioni o errori nei dati dichiarati. Negare al contribuente la possibilità di correggere gli errori originari equivale a cristallizzare un’imposizione fiscale distorta e questo contrasta con il principio di capacità contributiva sancito dall’articolo 53 della Costituzione italiana.

 

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responsabilità precontrattuale

Responsabilità precontrattuale: risarcito l’interesse negativo Responsabilità precontrattuale: se una delle parti si ritira dall’accordo l’altra parte ha diritto al risarcimento del danno emergente

Responsabilità precontrattuale e danno emergente

La responsabilità precontrattuale ricollegabile al contratto non concluso comporta il risarcimento del danno emergente (interesse negativo) non delle utilità (interesse positivo) che il contraente adempiente avrebbe conseguito se l’altra parte avesse concluso l’accordo. Lo ha precisato il Consiglio di Stato nella sentenza n. 8668/2024, ribadendo anche l’importanza della prova del danno richiesto.

Procedura di gara annullata

Una società specializzata nella gestione di impianti di depurazione propone alla Regione Campania un progetto per il completamento e la gestione dell’impianto di depurazione di Napoli Est. Dopo una serie di valutazioni positive e l’assegnazione di un termine per adeguare la proposta, la Regione  avvia una procedura di gara. In seguito a una rivalutazione delle proprie priorità in materia di depurazione, la Regione decide però di revocare la delibera iniziale, che aveva ammesso la proposta della società e, di conseguenza, annulla la procedura di gara. La società, sentendosi danneggiata da queste decisioni, presenta ricorso al TAR, sostenendo che l’amministrazione aveva agito illegittimamente. La società chiede quindi il risarcimento dei danni. Il TAR respinge il ricorso, ma la società  presenta appello, di cui la Regione chiede il respingimento.

Richiesta risarcitoria legittima

Una sezione del Consiglio di Stato riconosce la responsabilità precontrattuale della Regione Campania per aver interrotto un accordo contrattuale in corso, causando un danno economico alla società. Legittima quindi la richiesta risarcitoria. Viene però ordinata una perizia contabile per accertare i costi sostenuti dalla società per il progetto, definire il valore dell’investimento, e gli altri costi sostenuti.

Il Consiglio di Stato in via definitiva rileva che la controversia verte sul risarcimento del danno subito dalla società a seguito dell’annullamento, da parte della Regione Campania, di una gara d’appalto per la gestione di un impianto di depurazione. Il focus della vicenda richiede nello specifico la verifica della sussistenza del danno da lesione dellinteresse negativo (danno emergente) derivante dalla accertata responsabilità contrattuale. Respinta invece la richiesta risarcitoria derivante da lucro cessante.

Responsabilità precontrattuale: il danno richiesto va provato

Per accertare il danno emergente il perito stima alcuni costi, come quelli per le fideiussioni, ma trova difficoltà nel quantificare con precisione i costi di preparazione del progetto a causa della mancanza di documentazione dettagliata e del tempo trascorso. La società giustifica questa mancanza di documentazione dettagliata sostenendo che gran parte dei costi risalgono a prima del 2003 e che, a causa dei termini di conservazione previsti dalla legge, non è più in possesso di tutta la documentazione. La società propone quindi un metodo di calcolo alternativo.

Il Consiglio di Stato ritiene che sia però necessario stabilire se questo metodo di calcolo sia sufficiente a dimostrare in modo convincente l’entità del danno subito dalla società, in assenza di una documentazione contabile più precisa. La Regione, dal canto suo, contesta la validità del metodo proposto e ritiene che la società non abbia fornito prove sufficienti per quantificare il danno. Il giudice dell’appello ritiene quindi opportuno valutare le argomentazioni di entrambe le parti e decidere se il metodo proposto dalla società sia accettabile per determinare l’ammontare del risarcimento.

Danno emergente: risarcito nei limiti della spesa provata

Fatta questa premessa il Consiglio di Stato precisa che la responsabilità precontrattuale si basa sul principio di buona fede e correttezza nelle trattative. Essa tutela il contraente leso da comportamenti scorretti altrui, limitando il risarcimento all’interesse negativo.

Nel caso in esame, il Collegio esclude tuttavia il risarcimento di spese relative alla predisposizione del progetto, perché non supportate da documentazione probatoria adeguata. Non è sufficiente infatti fornire un principio di prova generico; è necessario dimostrare in modo rigoroso il danno subito, come stabilito dall’art. 2697 c.c. e ribadito da recenti decisioni (Cons. Stato, Sez. IV, 16 novembre 2022, n. 10092).

Il verificatore non ha riscontrato prove documentali sufficienti per diverse voci di costo, tra cui spese per consulenze (€ 178.000), trasferte (€ 4.000), e redazione del progetto (€ 900.000). Questi importi non risultano verificabili né giustificabili con documenti amministrativi o contabili. Inoltre, non emergono elementi che attestino il loro riconoscimento da parte della Regione Campania.

L’unica eccezione riguarda i costi della polizza fideiussoria, pari a 62.100. Per tale voce di costo, la documentazione depositata ha dimostrato l’effettivo sostenimento della spesa, consentendo al Collegio di riconoscere il risarcimento.

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società per azioni

Società per azioni Guida alla società per azioni: cosa sono le azioni, a quanto ammonta il capitale minimo e quali sono i sistemi di gestione

Cos’è una società per azioni

La società per azioni è un modello di società di capitali solitamente utilizzato per imprese di grandi dimensioni, le cui quote di partecipazione sociale sono rappresentate da azioni.
Nell’ordinamento italiano le s.p.a. devono avere un capitale minimo di 50.000 euro; tale capitale è suddiviso in un certo numero di parti, ognuna delle quali rappresenta un’azione. Il numero complessivo di cui si compone il capitale sociale e il valore di ciascuna azione (uguale per tutte le azioni) sono indicate nell’atto costitutivo della società.

I vantaggi della s.p.a.

La s.p.a. è dotata di personalità giuridica distinta da quella dei suoi soci ed ha autonomia patrimoniale perfetta.
Ciò significa che i creditori della società possono far valere le proprie ragioni solo sul patrimonio sociale, senza avere la possibilità di aggredire il patrimonio personale dei singoli soci.

L’atto costitutivo delle spa

La società per azioni nasce con un contratto o con atto unilaterale cui deve seguire la stipula dell’atto costitutivo e dello statuto. Questi ultimi atti devono necessariamente essere formalizzati con atto pubblico presso lo studio di un notaio, il quale poi provvede all’iscrizione della s.p.a. presso il Registro delle Imprese.
Nell’atto costitutivo devono essere indicati, tra l’altro, la denominazione della società, l’ammontare del capitale sottoscritto, il numero di azioni in cui lo stesso si suddivide ed il relativo valore, le generalità dei soci e il numero di azioni ad essi attribuito e il sistema di gestione adottato.
Il capitale sociale deve essere sottoscritto per intero al momento della costituzione (la sottoscrizione rappresenta l’impegno giuridico a versare il capitale dichiarato), ma è sufficiente il versamento iniziale del solo 25% dei conferimenti in denaro.
È possibile, inoltre, partecipare alla società per azioni effettuando conferimenti in natura (ad esempio crediti, beni immobili, etc.), che devono essere accompagnati da apposita perizia di stima da allegare all’atto costitutivo.

Che cos’è un’azione

L’azione, dunque, rappresenta la partecipazione del socio ed è incorporata in un documento chiamato titolo azionario, liberamente trasferibile (cioè, ogni socio può cedere le proprie azioni senza necessità di ottenere il consenso degli altri soci).
Le società di maggiori dimensioni possono fare ricorso al mercato per reperire più diffusamente i capitali di rischio e collocare le azioni societarie. Per le società che scelgono di quotarsi in borsa sono previsti particolari obblighi di trasparenza a tutela dei risparmiatori (l’autorità amministrativa cui è demandata la vigilanza in materia è la Consob).
Le azioni ordinarie conferiscono al titolare il diritto di voto, il diritto alla partecipazione agli utili e il diritto alla partecipazione alla divisione del patrimonio sociale in occasione della liquidazione.
Altri tipi di azione sono le azioni privilegiate e le azioni di risparmio, cui corrispondono maggiori benefici economici ma più limitati diritti di voto.
Le s.p.a. possono anche emettere obbligazioni, per reperire più facilmente capitale di rischio. Le obbligazioni danno diritto alla restituzione del capitale e al percepimento degli interessi, ma non conferiscono poteri di voto.

I sistemi di gestione delle società per azioni

Il sistema di gestione tradizionale della s.p.a. è composto da tre organi: l’assemblea dei soci, l’organo di amministrazione e l’organo di controllo.
All’assemblea sono demandate alcune importanti decisioni, come la nomina degli amministratori e l’approvazione del bilancio (il “peso” del voto di ogni socio dipende dal numero di azioni da questi posseduto). L’organo di amministrazione (collegio o amministratore unico) provvede alla gestione della società, mentre al collegio sindacale sono demandati poteri di supervisione in particolar modo in materia di conti.
È possibile per i soci decidere di adottare sistemi di gestione diversi da quello tradizionale, indicando tale scelta nell’atto costitutivo.
In particolare, è possibile scegliere il c.d. sistema dualistico, in cui sono presenti solo l’organo di amministrazione e quello di controllo; a quest’ultimo sono demandati i poteri solitamente riservati all’assemblea dei soci.
Il c.d. sistema monistico, invece, prevede la presenza del solo organo di amministrazione, al cui interno è nominato un comitato di controllo.