esdebitazione in cosa consiste

Esdebitazione: in cosa consiste L’esdebitazione nelle procedure di risoluzione delle crisi da sovraindebitamento: in particolare, l’esdebitazione del debitore incapiente

Cosa si intende per esdebitazione

L’esdebitazione consiste nella cancellazione definitiva dei debiti ed è prevista come conseguenza del positivo esito delle procedure di risoluzione delle crisi da sovraindebitamento.

La composizione delle crisi di sovraindebitamento, cioè di quelle situazioni in cui il debitore non è in grado di far fronte ai propri obblighi nei confronti dei creditori, è stata al centro di alcuni importanti interventi normativi degli ultimi anni, a cominciare dalla legge n. 3 del 2012, le cui disposizioni sono sostanzialmente confluite nel nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII).

Esdebitazione e procedure per il sovraindebitamento

In linea generale, le procedure in parola sono destinate ai piccoli imprenditori o ai consumatori, cioè a chi non esercita attività d’impresa. In altre parole, sono dedicate a quei soggetti che non possono accedere alla liquidazione giudiziale (una volta si definivano soggetti non fallibili, prima che il fallimento venisse sostituito normativamente dalla liquidazione giudiziale).

Legge 3 del 2012

Con la legge 3 del 2012, in particolare, furono introdotte tre diverse procedure di risoluzione della crisi: il piano del consumatore (oggi “ristrutturazione dei debiti del consumatore”, artt. 67 e segg. del CCII), l’accordo con i creditori (anche detto concordato minore) e la liquidazione del patrimonio.

Il primo è destinato solo al consumatore e prevede alcuni aspetti molto vantaggiosi per il debitore, a cominciare dal fatto che non vi è bisogno del consenso dei creditori per ottenere l’accesso alla procedura, ma solo del parere positivo del giudice, adito tramite l’intervento di un Organismo di Composizione della Crisi (OCC).

Si tratta, in sostanza, di sottoporre al giudice una serie di documentazioni, che dimostrino la difficoltà del debitore ad adempiere ai propri obblighi, per richiedere l’approvazione di un piano di rientro.

Per i piccoli imprenditori è invece possibile proporre l’accordo con i creditori, che viene siglato se ottiene il consenso della maggioranza dei creditori.

Ovviamente queste procedure presentano un vantaggio anche per i creditori, poiché consentono loro di recuperare almeno una parte del credito, con procedure più snelle rispetto a quelle tradizionali esecutive.

Le esdebitazioni nel Codice della crisi

La terza procedura prevista è la liquidazione del patrimonio del debitore, attivabile in via alternativa alla proposta per la composizione della crisi, e alla quale può seguire l’esdebitazione (si tratta della c.d. liquidazione controllata ex art. 278 ss. del CCII, la cui disciplina discende da quella precedentemente prevista dalla legge 3 del 2012 in tema di liquidazione del patrimonio del debitore).

L’esdebitazione comporta la completa liberazione dai debiti, con conseguente inesigibilità di quelli  rimasti insoddisfatti all’esito della liquidazione.

L’esdebitazione conseguente alla liquidazione controllata è pronunciata con decreto dal tribunale, contestualmente alla dichiarazione di chiusura della procedura.

L’esdebitazione del debitore incapiente

Una particolare disciplina è dedicata all’esdebitazione del debitore incapiente, prevista in origine dall’art. 14-quaterdecies della legge 3/12 ed oggi contenuta nell’art. 283 del Codice della Crisi.

Come intuibile, tale soluzione può essere scelta da chi si trovi nelle condizioni di non poter offrire ai creditori alcuna utilità e che non abbia particolari prospettive di guadagno futuro.

L’esdebitazione del sovraindebitato incapiente può essere chiesta solo una volta nella vita, a condizione che il giudice consideri il soggetto meritevole, cioè ritenga che egli abbia assunto, a suo tempo, le obbligazioni usando l’ordinaria diligenza.

Cosa succede dopo esdebitazione

Ove rispettate tutte le condizioni di legge, il giudice concede con decreto l’esdebitazione al debitore incapiente, con l’unico obbligo per quest’ultimo di presentare una dichiarazione annuale, per quattro anni, in cui siano indicate le eventuali sopravvenienze attive. Se queste raggiungono almeno il dieci per cento dei crediti dovuti, vengono destinate al soddisfacimento dei creditori.

I creditori possono opporsi al decreto di esdebitazione, sollecitando il giudice ad una nuova decisione, contro la quale le parti possono proporre reclamo. In mancanza di opposizione, pertanto, e salvo gli obblighi connessi alla dichiarazione annuale di cui si è detto sopra, il soggetto richiedente è liberato da tutti i debiti.

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notifica ritardo ufficiale giudiziario

Notifica in ritardo: risponde l’ufficiale giudiziario Per il ritardo nella spedizione o nel recapito della notifica a mezzo posta, risponde solo l'ufficiale giudiziario e non anche l'agente postale

Notifiche a mezzo posta

Per il ritardo nella spedizione o nel recapito dell’atto notificato a mezzo del servizio postale, ex art. 1228 c.c. risponde solo l’ufficiale giudiziario e non anche l’agente postale che è mero ausiliario. Questo quanto si ricava dall’ordinanza della terza sezione civile della Cassazione n. 17892-2024.

La vicenda

Nella vicenda, un uomo si recava all’ufficio postale per ritirare 7 avvisi di ricevimento di atti giudiziari, per i quali si vedere chiedere il costo delle raccomandate CAD che l’ufficiale giudiziario aveva emesso essendovi tenuto ex lege. L’uomo rifiutava il pagamento e non ritirava gli avvisi e chiedeva e otteneva dal Giudice di Pace di Acri decreto ingiuntivo di consegna. La questione approdava in appello, a seguito di opposizione della società, e infine in Cassazione.

Innanzi agli Ermellini, il ricorrente lamentava che “erroneamente il giudice di appello non ha considerato che in caso di notifica di atto giudiziario l’ufficiale postale è un mero ausiliario dell’ufficiale giudiziario, sicché il rapporto si instaura unicamente tra l’avvocato richiedente la notifica e l’Ufficio UNEP, che effettua il servizio di notifica e, ove non effettui la notifica a mani, può ricorrere alla notifica a mezzo posta”.

Agente postale ausiliario dell’ufficiale giudiziario

Per il Palazzaccio, il motivo è fondato e va accolto.

Come ha avuto già modo di affermare la giurisprudenza, infatti, scrivono i giudici, “l’agente postale è un ausiliario dell’ufficiale giudiziario (v. Cass., 18/2/2015, n. 3263), e pertanto, “in tema di notificazioni a mezzo posta, li relativo servizio si basa su di un mandato ex lege tra colui che richiede la notificazione e l’ufficiale giudiziario che la esegue, eventualmente avvalendosi, quale ausiliario, dell’agente postale, nell’ambito di un distinto rapporto obbligatorio, al quale il notificante rimane estraneo. Ne consegue che, in caso di ritardo nella consegna dell’avviso di ricevimento relativo alla notifica di atti giudiziari effettuati a mezzo posta, nei confronti del richiedente la notifica risponde, ai sensi dell’art. 1228 cod. civ., esclusivamente l’ufficiale giudiziario, non anche l’agente postale del quale costui si avvalga” (così Cass., 12/02/2018, n. 3292; Cass., 24/11/2021, ท. 36505).

Tale principio è stato esplicitamente confermato dalla giurisprudenza costituzionale (Corte Cost. n. 477/2002; Corte Cost., n. 28/2004), proseguono dalla S.C. che, “nel dichiarare l’illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 149 c.p.c. e dell’art. 4, comma 3, legge n. 890 del 1982 (notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), nella parte in cui prevede che la notificazione si perfeziona – per il notificante – alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario, anziché a quella, antecedente, di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, ha appunto affermato che gli effetti della notificazione a mezzo posta devono essere ricollegati – per quanto riguarda il notificante – al solo compimento delle formalità a lui direttamente imposte dalla legge, ossia alla consegna dell’atto da notificare all’ufficiale giudiziario, essendo la successiva attività di quest’ultimo e dei suoi ausiliari – quale appunto l’agente postale – sottratta in toto al controllo ed alla sfera di disponibilità del notificante medesimo”.

In altri termini, il rapporto obbligatorio si instaura tra “il richiedente la notifica e l’ufficiale giudiziario, mentre l’agente postale è un semplice ausiliario cui può far ricorso l’ufficiale giudiziario incaricato della notificazione”.

Risulta pertanto evidente che “tra l’ufficiale giudiziario e l’agente postale intercorre un rapporto obbligatorio, sulla cui base l’agente postale, in qualità di ausiliario, adempie al suo incarico, ed è all’ufficiale giudiziario che l’agente postale deve rispondere.  L’art. 6 L. n. 890 del 1982 conferma l’indicata ricostruzione, in quanto prevede che il pagamento della indennità per lo smarrimento dei pieghi ‘è effettuato all’ufficiale giudiziario’, il quale ne corrisponde l’importo ‘alla parte che ha richiesto la notificazione dell’atto, facendosene rilasciare ricevuta’.

La decisione

Per cui, “nei confronti dei terzi (tra i quali è compreso ovviamente il richiedente la notificazione), in caso di ritardo nella spedizione o nel recapito dell’atto notificato a mezzo del servizio postale, ai sensi dell’art. 1228 del codice civile risponde pertanto solo l’ufficiale giudiziario che dell’agente postale si è avvalso quale ausiliario”.

In sostanza, la chiara dizione contenuta nelle norme di cui alla legge n. 890/1982 consente di dare questa spiegazione: “il servizio di notificazione si basa su di un mandato ex lege tra l’avvocato che richiede la notificazione e l’ufficio notifiche che presta il servizio”.

In definitiva, il ricorso è accolto.

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Portale delle vendite pubbliche: accesso tramite Spid Dal 7 luglio il Portale delle vendite pubbliche ha una versione aggiornata che permette l'accesso anche tramite Spid

Nuovo Portale delle vendite pubbliche

Dal 7 luglio il nuovo Portale delle Vendite Pubbliche è attivo in una versione aggiornata che consente l’accesso anche tramite Spid. Lo comunica il ministero della Giustizia, con una nota del Dgsia diretta al CNF e a tutti i Consigli degli Ordini degli Avvocati.

Si tratta, comunica il dicastero, di un “sostanziale aggiornamento dell’architettura applicativa ed un ampliamento delle possibilità di autenticazione, aggiungendo all’autenticazione tramite CNS quella tramite le modalità SPID e CIE”.

Criticità in fase di risoluzione

Il ministero raccomanda di utilizzare “una sola modalità di autenticazione tra quelle disponibili, evitando di cambiarla nell’ambito della stessa sessione, in quanto è stata riscontrata al riguardo un’instabilità del sistema in corso di risoluzione”. Altra problematica, alla luce dei collaudi effettuati, riguarda alcune tipologie di smart-card tramite CNS che creano delle criticità in fase di autenticazione.

Tuttavia, entrambe sono in corso di analisi e risoluzione.

Segnalazioni eventuali problematiche

Il ministero invita, comunque, a “segnalare prontamente eventuali problematiche di autenticazione con smart-card all’indirizzo email assistenzapvp@reply.it o assistenzatecnicapvp.dgsia@giustizia.it in modo da consentire le opportune attività di risoluzione ed a privilegiare in tali casi l’accesso tramite SPID”.

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Niente indennità di impiego ai dirigenti del NOCS La Consulta conferma che non è incostituzionale la mancata estensione ai dirigenti del NOCS dell'indennità di impiego

Indennità di impiego dirigenti NOCS

Polizia di Stato: non è incostituzionale la mancata estensione ai dirigenti del NOCS dell’indennità di impiego spettante al personale non dirigente. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale con la sentenza n. 134/2024. “La mancata estensione ai dirigenti del Nucleo operativo centrale di sicurezza della Polizia di Stato dell’indennità di impiego istituita, per il personale operativo non dirigente dello stesso reparto, dall’accordo sindacale recepito dal d.P.R. n. 51 del 2009, non contrasta con gli artt. 3 e 36 della Costituzione” ha deciso la Corte dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, della legge 30 novembre 2000, n. 356, e, in via subordinata, dell’art. 45, comma 30, del decreto legislativo 29 maggio 2017, n. 95.

La qlc

Le questioni erano state sollevate dal TAR Lazio, che aveva lamentato una irragionevole disparità di trattamento tra i dirigenti del NOCS e le corrispondenti figure apicali del GIS dell’Arma dei carabinieri, cui è riconosciuta un’indennità – quella di incursore – volta a compensare gli specifici rischi connessi all’impiego operativo, nonché tra il personale non dirigenziale del NOCS e i dirigenti dello stesso nucleo, oltre che la lesione, ai danni di questi ultimi, del principio della proporzionalità della retribuzione alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, di cui all’art. 36 Cost.

Dirigenti NOCS e GIS: nessuna discriminazione

La Corte ha escluso anzitutto la discriminazione tra i dirigenti del NOCS e quelli del GIS, evidenziando come le posizioni a raffronto risultino eterogenee. Infatti, il GIS, oltre ad operare come unità speciale di polizia, sotto la direzione del Ministero dell’interno, per far fronte ad esigenze di sicurezza nazionale, agisce anche quale forza speciale appartenente al Comando interforze per le operazioni delle Forze speciali (COFS) e svolge interventi anche all’estero. “Ed è in forza di tale duplice ruolo che il GIS, a differenza del NOCS, è qualificato come reparto incursore (e percepisce la relativa indennità), tanto che ai suoi componenti, ufficiali e sottufficiali, è richiesto il conseguimento dello speciale brevetto militare di incursore, il cui possesso non è, invece, prescritto per gli appartenenti all’omologo nucleo operativo della Polizia di Stato” ha affermato il giudice delle leggi.

A giudizio della Corte, “una disparità di trattamento non sussiste neppure tra i dirigenti del NOCS e gli appartenenti allo stesso reparto privi di qualifica dirigenziale, non essendo tali categorie professionali comparabili per via della eterogeneità dei rispettivi status giuridico ed economico”.

La Corte ha osservato, tra l’altro, che la scelta legislativa di non estendere l’indennità per i poliziotti in possesso della qualifica di operatore NOCS ai dirigenti del medesimo reparto riguarda la disciplina, non ancora contrattualizzata, dei dirigenti delle Forze di polizia, mentre l’indennità di cui si tratta è stata riconosciuta ai poliziotti in possesso della qualifica di operatore NOCS in sede sindacale.

La soluzione adottata dal legislatore non impedisce – precisa la Corte – una volta che l’area negoziale istituita, anche per i dirigenti delle Forze di polizia ad ordinamento civile, dall’art. 46 del d.lgs. n. 95 del 2017, trovi attuazione, che il riallineamento retributivo auspicato dal rimettente possa essere raggiunto, attraverso le apposite procedure negoziali.

Indennità di impiego trattamento economico accessorio

La sentenza ha, altresì, chiarito che gli operatori del NOCS conservano comunque l’indennità di impiego dopo il conseguimento della qualifica dirigenziale, anche se il relativo ammontare non viene adeguato alla nuova posizione apicale.

È stata, infine, esclusa anche la violazione dell’art. 36 Cost., sul rilievo che l’indennità di impiego costituisce soltanto una parte del trattamento economico accessorio spettante al personale in servizio presso il NOCS, mentre la verifica della proporzionalità della retribuzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato deve investire, come più volte chiarito dalla Corte, il trattamento economico del lavoratore nel suo complesso e non i singoli elementi che lo compongono, né le sole prestazioni accessorie.

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tregua fiscale sintesi misure

Tregua fiscale: sintesi delle misure Tregua fiscale: sintesi delle misure adottate dallo Stato per consentire ai contribuenti di regolarizzare la propria posizione fiscale in maniera agevolata

Tregua fiscale: cos’è

La tregua fiscale consiste in una serie di misure straordinarie con le quali lo Stato permette ai contribuenti e alle imprese che siano in ritardo nei pagamenti delle imposte, di porre rimedio alla propria situazione debitori versando importi ridotti grazie a sconti significativi e facilitazioni nei pagamenti rateali.

Negli ultimi anni lo Stato ha previsto tutta una serie di agevolazioni per i contribuenti al fine di favorire la ripresa dell’economia e di superare le difficoltà di natura economica e finanziaria che hanno colpito il paese a partire dalla pandemia del 2020.

Definizione agevolata comunicazioni d’irregolarità

La Legge di Bilancio 2023 consente una definizione agevolata delle comunicazioni degli esiti del controllo automatizzato delle dichiarazioni. Questo riguarda i pagamenti rateali in corso al 1° gennaio 2023, con una riduzione delle sanzioni al 3% dell’imposta residua dopo i versamenti rateali effettuati entro il 31 dicembre 2022.

Definizione irregolarità formali

Le irregolarità formali, che non influenzano la determinazione della base imponibile per imposte sui redditi, IVA e IRAP, possono essere sanate con un pagamento di 200 euro per ciascun periodo d’imposta. Il pagamento può essere effettuato entro il 31 ottobre 2023, o in due rate entro il 31 ottobre 2023 e il 31 marzo 2024. La regolarizzazione richiede il pagamento delle somme dovute e la rimozione delle irregolarità.

Rottamazione debiti

Il decreto legge n. 51/2023 ha esteso al 30 giugno 2023 il termine per presentare domanda di adesione alla Definizione agevolata (Rottamazione-quater). La comunicazione delle somme dovute sarà trasmessa entro il 30 settembre 2023. Il pagamento delle prime tre rate è previsto entro il 15 marzo 2024, con scadenze successive il 31 maggio, il 31 luglio e il 30 novembre 2024. Gli interessi al 2% annuo decorrono dal 1° novembre 2023.

Leggi anche Rottamazione e procedure art. 13 Dlgs 74/2000

Definizione agevolata atti procedimento di accertamento

La legge di Bilancio 2023 permette la definizione agevolata degli atti del procedimento di accertamento con una riduzione delle sanzioni a 1/18 del minimo previsto. Questa agevolazione si applica agli accertamenti con adesione, agli avvisi di accertamento, rettifica e liquidazione non impugnati e impugnabili al 1° gennaio 2023.

Definizione agevolata liti pendenti

La legge permette di definire agevolmente le liti pendenti al 1 gennaio 2023 con l’Agenzia delle Entrate, pagando un importo pari al valore della controversia. Le domande devono essere presentate entro il 30 settembre 2023.

Stralcio debiti fino a mille euro

La legge prevede l’annullamento automatico, al 31 marzo 2023, dei debiti fino a mille euro affidati all’Agente della riscossione tra il 1° gennaio 2000 e il 31 dicembre 2015. Per enti diversi dalle amministrazioni statali, è possibile deliberare lo stralcio integrale entro il 31 marzo 2023. 

Conciliazione giudiziale controversie tributarie

La legge introduce una conciliazione agevolata delle controversie tributarie pendenti al 15 febbraio 2023. Le sanzioni sono ridotte a 1/18 del minimo e si può rateizzare in 5 anni. L’accordo per la conciliazione deve essere sottoscritto entro il 30 settembre 2023.

Ravvedimento speciale delle violazioni tributarie

Questo istituto permette di regolarizzare le violazioni relative alle dichiarazioni fiscali fino al periodo d’imposta al 31 dicembre 2021. La sanzione è ridotta a 1/18 del minimo. La procedura di regolarizzazione deve essere perfezionata entro il 31 maggio 2024.

Regolarizzazione omessi pagamenti rate

La normativa consente di regolarizzare i pagamenti omessi o carenti relativi a rate di accertamenti con adesione, avvisi di accertamento, rettifica, liquidazione e conciliazioni giudiziali. I versamenti devono essere scaduti al 1° gennaio 2023 e non ancora oggetto di cartella di pagamento con conseguente notifica o atto di intimazione.

 

Per tutte le informazioni di dettaglio su normative, circolari e schede informative si consiglia di visitare la pagina dedicata del sito dell’Agenzia delle Entrate

suicidio assistito consulta requisiti

Suicidio assistito: la Consulta torna sul fine vita La Corte Costituzionale ribadisce gli attuali requisiti per l'accesso al suicidio assistito e ne precisa il significato richiamando la sentenza del 2019

Suicidio assistito: la Consulta ribadisce i requisiti

Suicidio assistito. La Consulta torna ad esprimersi sul fine vita e ribadisce gli attuali requisiti, alla luce della propria storica sentenza del 2019, precisandone il significato. “Nella perdurante assenza di una legge che regoli la materia, i requisiti per l’accesso al suicidio assistito restano quelli stabiliti dalla sentenza n. 242 del 2019, compresa la dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale, il cui significato deve però essere correttamente interpretato in conformità alla ratio sottostante a quella sentenza. Tutti questi requisiti – (a) irreversibilità della patologia, (b) presenza di sofferenze fisiche o psicologiche, che il paziente reputa intollerabili, (c) dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale, (d) capacità del paziente di prendere decisioni libere e consapevoli – devono essere accertati dal servizio sanitario nazionale, con le modalità procedurali stabilite in quella sentenza” afferma infatti il giudice delle leggi nella sentenza n. 135/2024, dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal GIP di Firenze sull’art. 580 del codice penale.

La qlc

Questioni che miravano ad estendere l’area della non punibilità del suicidio assistito oltre i confini stabiliti dalla Corte con la precedente sentenza del 2019 e che nascevano da un procedimento penale contro tre persone che hanno aiutato un paziente affetto da sclerosi multipla di grado avanzato, in stato di quasi totale immobilità, ad accedere al suicidio assistito in una struttura privata svizzera.

Il GIP ha rilevato che il paziente si trovava in una condizione di acuta sofferenza, determinata da una patologia irreversibile e aveva formato la propria decisione in modo libero e consapevole, ma non era tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale. Pertanto, ha ritenuto che non sussistessero tutte le condizioni di non punibilità del suicidio assistito fissate dalla Corte nella sentenza n. 242 del 2019.

Il GIP, a questo punto, ha chiesto alla Corte di rimuovere il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, ritenendolo in contrasto con i principi costituzionali di eguaglianza, di autodeterminazione terapeutica, di dignità della persona, nonché con il diritto al rispetto della vita privata riconosciuto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nel giudizio di legittimità costituzionale è stato ammesso l’intervento di due donne affette da analoghe patologie, a sostegno delle questioni prospettate. Numerosi amici curiae, inoltre, hanno depositato opinioni favorevoli o contrarie all’accoglimento delle questioni.

Requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale

La Corte ha, anzitutto, escluso che il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale determini irragionevoli disparità di trattamento tra i pazienti.

La sentenza n. 242 del 2019 non aveva riconosciuto un generale diritto di terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza intollerabile determinata da una patologia irreversibile, ma aveva soltanto «ritenuto irragionevole precludere l’accesso al suicidio assistito di pazienti che – versando in quelle condizioni, e mantenendo intatte le proprie capacità decisionali – già abbiano il diritto, loro riconosciuto dalla legge n. 219 del 2017 in conformità all’art. 32, secondo comma, Cost., di decidere di porre fine alla propria vita, rifiutando il trattamento necessario ad assicurarne la sopravvivenza. Una simile ratio, all’evidenza, non si estende a pazienti che non dipendano da trattamenti di sostegno vitale, i quali non hanno (o non hanno ancora) la possibilità di lasciarsi morire semplicemente rifiutando le cure. Le due situazioni sono, dunque, differenti».

Autodeterminazione terapeutica

Quanto all’autodeterminazione terapeutica, la Corte ha ribadito che “ogni paziente ha un diritto costituzionale di rifiutare qualsiasi trattamento medico non imposto per legge, anche se necessario per la sopravvivenza”.

Il diritto, nella sostanza invocato dal GIP di Firenze, a una generale sfera di autonomia nelle decisioni che coinvolgono il proprio corpo è però più ampio del diritto a rifiutare il trattamento medico, e va necessariamente bilanciato con il contrapposto dovere di tutela della vita umana, specie delle persone più deboli e vulnerabili. Ciò al fine di evitare non soltanto ogni possibile abuso, ma anche la creazione di una «pressione sociale indiretta» che possa indurre quelle persone a farsi anzitempo da parte, ove percepiscano che la propria vita sia divenuta un peso per i familiari e per i terzi.

“Il compito di individuare il punto di equilibrio più appropriato tra il diritto all’autodeterminazione e il dovere di tutela della vita umana spetta primariamente al legislatore, nell’ambito della cornice precisata dalla Corte nella propria giurisprudenza” ha affermato ancora la Consulta rinnovando l’invito al legislatore a pronunciarsi.

Inalienabile dignità della vita umana

La Corte ha poi sottolineato che, dal punto di vista dell’ordinamento, ogni vita è portatrice di una inalienabile dignità, indipendentemente dalle condizioni in cui si svolge. La nozione “soggettiva” di dignità evocata dall’ordinanza di rimessione e connessa alla concezione che il paziente ha della propria persona – nozione alla quale pure la Corte «non è affatto insensibile» – finisce poi per coincidere con quella di autodeterminazione. Anche rispetto ad essa resta quindi necessario un bilanciamento, a fronte del contrapposto dovere di tutela della vita umana.

La Corte ha negato inoltre la violazione del diritto alla vita privata riconosciuto dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nella sentenza Karsai contro Ungheria del 13 giugno scorso, in effetti, la stessa Corte di Strasburgo ha escluso che l’incriminazione dell’assistenza al suicidio violi il diritto alla vita privata di una persona affetta da una patologia degenerativa del sistema nervoso in stato avanzato, riconoscendo un ampio margine di apprezzamento a ciascuno Stato nel bilanciamento tra tale diritto e la tutela della vita umana.

Tuttavia, la Consulta ha precisato che la nozione di trattamenti di sostegno vitale deve essere interpretata dal servizio sanitario nazionale e dai giudici comuni in conformità alla ratio della sentenza n. 242 del 2019.

I principi del 2019

Questa sentenza si basa sul riconoscimento del diritto fondamentale del paziente a rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività. La nozione include quindi anche procedure – quali, ad esempio, l’evacuazione manuale, l’inserimento di cateteri o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali – normalmente compiute da personale sanitario, ma che possono essere apprese anche da familiari o “caregivers” che assistono il paziente, sempre che la loro interruzione determini prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo.

La Corte ha inoltre precisato che, ai fini dell’accesso al suicidio assistito, non vi può essere distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può chiedere l’interruzione, e quella del paziente che non vi è ancora sottoposto, ma ha ormai necessità di tali trattamenti per sostenere le sue funzioni vitali. Dal momento che anche in questa situazione il paziente può legittimamente rifiutare il trattamento, egli si trova già nelle condizioni indicate dalla sentenza n. 242 del 2019.

D’altra parte, la Corte ha riaffermato la necessità del puntuale rispetto delle condizioni procedurali fissate dalla sentenza n. 242 del 2019. È dunque necessario, per tutti i fatti successivi al 2019, che le condizioni e le modalità di esecuzione dell’aiuto al suicidio siano verificate da strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale nell’ambito della «procedura medicalizzata» di cui alla legge n. 219 del 2017, previo parere del comitato etico territorialmente competente, senza che possa venire in rilievo l’ipotetica equivalenza di procedure alternative in concreto seguite. Resta naturalmente impregiudicata la necessità di un attento accertamento, da parte del giudice penale, di tutti i requisiti del reato, compreso l’elemento soggettivo.

Auspicio intervento legislativo

Infine, la Corte ha espresso il forte auspicio che “il legislatore e il servizio sanitario nazionale assicurino concreta e puntuale attuazione ai principi fissati dalla propria precedente sentenza, ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina, nel rispetto dei principi oggi richiamati”. La consulta ha, quindi, ribadito “lo stringente appello, già formulato in precedenti occasioni, affinché sia garantita a tutti i pazienti una effettiva possibilità di accesso alle cure palliative appropriate per controllare la loro sofferenza, secondo quanto previsto dalla legge n. 38 del 2010“.

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avvocati domande bandi assistenza

Avvocati: al via le domande per i bandi assistenza Cassa Forense ha pubblicato le domande di partecipazione per i bandi assistenza 8, 9, 12, 14 e 15 del 2024

Domande bandi Cassa Forense

Al via le domande per partecipare ai bandi assistenza di Cassa Forense. L’ente previdenziale degli avvocati, infatti, ha pubblicato le domande di partecipazione a diversi bandi indetti per l’anno 2024, sia a sostegno della professione che della famiglia.

Nello specifico, le domande di partecipazione sono aperte a far data dal 16 luglio per i seguenti bandi:

Bando n. 8/2024

per l’assegnazione di contributi ai fini dell’organizzazione degli studi – Persone Fisiche (art. 3 lett. a2 Reg. Assistenza, prestazioni a sostegno della professione), con termine di scadenza per l’invio della domanda al 30/09/2024;

Bando n. 9/2024

per l’assegnazione di contributi ai fini dell’organizzazione degli studi – Persone Giuridiche (art. 3 lett. a2 Reg. Assistenza, prestazioni a sostegno della professione), con termine di scadenza per l’invio della domanda al 30/09/2024;

Bando n. 12/2024

per l’assegnazione di contributi per famiglie numerose (art. 10 lett. d Reg. Assistenza, prestazioni a sostegno della famiglia), con termine di scadenza per l’invio della domanda al 15/10/2024;

Bando n. 14/2024

per l’assegnazione di contributi in favore per favorire l’esercizio della professione da parte di iscritti con disabilità (art. 3 lett. a7 Reg. Assistenza, prestazioni a sostegno della professione), con termine di scadenza per l’invio della domanda al 30/09/2024;

Bando n. 15/2024

per l’assegnazione di contributi per attrezzare una sala video conferenze nello studio legale (art. 3 lett. a2 Reg. Assistenza, prestazioni a sostegno della professione), con termine di scadenza per l’invio della domanda al 30/09/2024.

Come fare domanda

Tali domande potranno essere presentate esclusivamente tramite l’apposita procedura on-line attivata nell’area riservata del sito internet della Cassa.

È possibile consultare il testo integrale dei bandi nell’apposita area dedicata  del sito internet della Cassa.

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Sospeso l’avvocato che non paga l’affitto

Illecito disciplinare avvocato

Va sospeso l’avvocato che non paga l’affitto. Commette, infatti, un illecito disciplinare l’avvocato che non adempie le obbligazioni verso terzi derivanti da un contratto di locazione, causando un debito di oltre 50.000 euro per bollette di utenze e canoni insoluti. Il Consiglio Nazionale Forense (CNF) nella sentenza n. 118/2024 ha ritenuto che tale comportamento violi l’art. 64 del Codice Deontologico Forense. Gli avvocati invero hanno il dovere di adempiere a tutte le loro obbligazioni, anche verso i terzi. La violazione di tale dovere può comportare l’applicazione di sanzioni disciplinari, come la sospensione dall’attività professionale.

Canoni e bollette non pagate: procedimento disciplinare per l’avvocato

Un avvocato viene sottoposto a un procedimento disciplinare a cui consegue la sanzione disciplinare della sospensione dall’attività professionale per 4 mesi. Il legale è stato ritenuto responsabile del mancato pagamento dei canoni di locazione dell’unità immobiliare adibita a studio, delle utenze di acqua e gas e degli oneri condominiali.

Il legale si è reso responsabile anche della violazione degli obblighi di custodia e di manutenzione degli impianti, occupando i locali in violazione della normativa sulla sicurezza, per poi abbandonarli lasciandoli in un grave stato di degrado, inagibilità e inutilizzabilità con conseguenti danni e oneri a carico del locatore.

L’avvocato impugna la decisione del Consiglio Distrettuale di Disciplina davanti al CNF invocando  la propria assenza di responsabilità, eccependo il travisamento dei fatti e il difetto di prova e contestando l’eccessività della sanzione.

L’avvocato che non paga i canoni lede l’immagine della categoria

Per il CNF però il ricorso dell’avvocato è infondato e va rigettato.

L’avvocato ha il dovere di adempiere puntualmente alle proprie obbligazioni, anche nei confronti dei terzi. Tale dovere deriva sia da norme giuridiche che deontologiche. L’articolo 64 del Codice di deontologia forense obbliga l’avvocato ad adempiere le obbligazioni che lo stesso assume in confronti dei terzi. Il mancato adempimento di detti obblighi crea un danno all’affidamento dei terzi nella capacità dell’avvocato di rispettare i propri doveri professionali. Tale condotta inoltre, danneggia l’immagine della professione forense nel suo complesso.

L’illecito risulta ancora più grave perché l’avvocato non ha adempiuto ai propri obblighi contrattuali neanche dopo aver ricevuto protesti, sentenze, atti di precetto e richieste di pignoramento.

Corretta la sanzione applicata, la violazione del solo articolo 64 del codice deontologico prevede infatti la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione da un minimo di 2 a un massimo di 6 mesi. Sulla misura della sanzione hanno inciso la durata a delle condotte, i danni economici arrecati al locatore, i precedenti disciplinari del legale e il discredito che tali condotte hanno arrecato all’immagine della categoria forense nel suo complesso.

Allegati

condominio amministratore revocato rieletto

Condominio: l’amministratore revocato può essere rieletto Il tribunale di Tempio Pausania ricorda che il divieto di rieleggere l'amministratore revocato dal giudice è solo temporaneo

Amministratore revocato dal giudice

Il divieto di nomina dell’amministratore di condominio revocato dal giudice ha carattere temporaneo e non comprime in via definitiva il diritto dello stesso di ricevere nuovamente l’incarico. E’ quanto precisato dal tribunale di Tempio Pausania, con la sentenza n. 126/2024.

La vicenda

Nella vicenda, alcuni condomini impugnavano la delibera assembleare avente ad oggetto la rielezione del precedente amministratore, revocato con sentenza della Corte d’appello, in quanto adottata in violazione del comma 13 dell’art. 1129 del codice civile.

Il condominio, dal canto suo, si costituiva e contestava quanto dedotto dagli attori, chiedendo il rigetto del ricorso.

Amministratore revocato divieto di nomina temporaneo

Il giudice pronunciandosi sull’eccezione di parte attrice concernente la violazione del co. 13 dell’art. 1129 c.c., ha affermato preliminarmente che “la giurisprudenza è ormai consolidata nell’affermare che il divieto di nomina dell’amministratore revocato dal tribunale è temporaneo e non comprime definitivamente il diritto dello stesso di ricevere l’incarico, rilevando soltanto per la designazione assembleare immediatamente successiva al decreto di rimozione”.

Il divieto di nomina, posto dal riformato art. 1129 co. 13 c.c., “funziona, in realtà, nei confronti dell’assemblea – ha proseguito il tribunale – precludendole di eludere la revoca giudiziale con una delibera che riconfermi l’amministratore rimosso dal tribunale, e ciò pure se siano ormai venute meno le ragioni che avevano determinato la sua revoca (cfr. Cass. 23743/2020)”.

La decisione

Nel caso di specie, a seguito della revoca, la funzione di amministratore è stata esercitata per due annualità da un altro soggetto, con la conseguenza che la rielezione avvenuta con la delibera impugnata appare perfettamente legittima. Del resto, conclude il giudicante rigettando il ricorso, l’operato dell’amministratore “rimane inevitabilmente soggetto al giudizio dell’assemblea condominiale, unico vero controllore dell’attività dell’amministratore, la quale potrà decidere di non rinnovare alla scadenza il mandato affidatogli, o anche prima di tale data potrà deliberare la sua revoca”.

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corruzione di minorenni reato

Corruzione di minorenni: il reato ex art. 609-quinquies c.p. Il reato di corruzione di minorenni (art. 609-quinquies c.p.) è punito con la reclusione da uno a cinque anni

Corruzione di minorenni: interesse tutelato e normativa

A seguito dei correttivi operati sulla previsione di cui all’art. 609-quinquies c.p. dalla L. 172/2012, successivamente dal D.Lgs. 39/2014, nonché, da ultimo, dalla L. 238/2021 (cd. Legge europea 2019-2020), la norma in esame consta di quattro commi, i primi due costituenti le figure-base della fattispecie, mentre il terzo e quarto configurazioni aggravate.

In particolare, ai sensi della disposizione in commento, risponde penalmente chiunque compie atti sessuali in presenza di persona minore di anni quattordici, al fine di farla assistere (comma 1), nonché chiunque fa assistere una persona minore di anni quattordici al compimento di atti sessuali, ovvero mostra alla medesima materiale pornografico, al fine di indurla a compiere o a subire atti sessuali (comma 2).

Il bene giuridico tutelato nel delitto di corruzione di minorenni consiste nella salvaguardia di un sereno sviluppo psichico della sfera sessuale di soggetti di età minore, che non deve essere turbato dal trauma che può derivare dall’assistere ad atti sessuali compiuti con ostentazione da altri.

Corruzione di minorenni: l’ipotesi di cui al comma 1

Come anticipato, il comma 1 della disposizione sanziona penalmente chiunque compie atti sessuali in presenza di persona minore di anni quattordici, al fine di farla assistere.

L’elemento oggettivo di tale configurazione consiste nel compimento di atti sessuali in presenza del minore. Appare condivisibile quella dottrina che ritiene che la pura e semplice esibizione degli organi genitali al minore, qualunque sia la sua finalizzazione, non costituisca compimento di «atti sessuali» in senso stretto.

Per converso, in giurisprudenza si afferma che nella nozione di atto sessuale rilevante ai fini della configurabilità del reato in esame rientra qualsiasi comportamento, anche di mero intenzionale esibizionismo, collegabile alle manifestazioni della vita sessuale.

Basta la presenza del minore

Occorre, poi, sottolineare che il delitto in esame richiede la sola presenza del minore: infatti, se gli atti sessuali coinvolgono direttamente il minore infraquattordicenne, ovvero di età compresa fra i quattordici ed i sedici anni, se legato dai vincoli di parentela o di familiarietà all’agente previsti dall’art. 609quater, comma 1, n. 2), ricorrerà il reato di atti sessuali con minorenne.

È opportuno precisare che a differenza della fattispecie di cui all’art. 609bis, ai fini della sussistenza del reato di corruzione assumono rilievo anche gli atti di bestialità o necrofilia commessi alla presenza di un minore.

La rilevanza del consenso del minore

Si pone, infine, il problema della rilevanza o meno del consenso del minore. In particolare, se il minore volontariamente assiste al compimento di atti sessuali, non ricorrono i presupposti per l’applicazione della causa di giustificazione di cui all’art. 50 c.p. (atteso che il consenso proviene da persona incapace di prestarlo consapevolmente); se, invece, il minore infraquattordicenne viene costretto ad assistere agli atti sessuali ricorrerà tanto il reato di cui all’art. 609quinquies, tanto il reato mezzo commesso per coartare la volontà del minore (violenza privata, minaccia, sequestro di persona).

Esibizione di foto pedopornografiche

Ai fini della configurabilità del delitto, inoltre, è sufficiente l’esibizione, a persona minore degli anni 14, di foto pedopornografiche (ad esempio, minori con genitali in mostra), in modo tale da coinvolgere emotivamente la persona offesa e compromettere la sua libertà sessuale. Si afferma, altresì, che il delitto sia configurabile anche nel caso in cui tali atti, pur compiuti a distanza, siano condivisi con il minore mediante videochat, nel corso della loro commissione, posto che il mezzo di comunicazione telematica, volutamente utilizzato dall’agente, consente di ritenere gli atti commessi in presenza della persona offesa (Cass. 12-4-2023, n. 15261).

Corruzione di minorenni: l’ipotesi di cui al comma 2

Si è detto come, ai sensi del comma 2 della disposizione in commento, è sanzionato penalmente chiunque fa assistere una persona minore di anni quattordici al compimento di atti sessuali, ovvero mostra alla medesima materiale pornografico, al fine di indurla a compiere o a subire atti sessuali.

Trattasi di figura inedita, introdotta dalla L. 172/2012, nota come legge di ratifica della Convenzione di Lanzarote, ed avente carattere sussidiario, in quanto configurabile solo ove il fatto non costituisca più grave reato.

In particolare, attraverso tale disposto si sono ampliati i margini di tutela del minore, inserendo nella norma condotte oggettivamente più gravi. Se, infatti, in entrambe le configurazioni-base, il disvalore del reato si sostanzia essenzialmente nel fatto che un minore assista al compimento di atti sessuali, privo del necessario «bagaglio» di maturità psico-fisica, nella prima figura tale situazione costituisce lo scopo perseguito dal reo, mentre nella seconda la medesima situazione, come anche il mostrare materiale pornografico, sono finalizzati ad indurre il minore a compiere o subire atti sessuali.

Si tratta di un autonomo delitto comune doloso, la cui configurazione sostanzialmente colma lacune di tutela, in più occasioni, segnalate, presenti nella previgente corruzione di minorenni, della quale peraltro ripropone il medesimo trattamento sanzionatorio per come rimodulato dalla novella del 2012. Si afferma in giurisprudenza che le condotte poste in essere mediante comunicazione telematica – pur svolgendosi in assenza di contatto fisico con la vittima – sono riconducibili alla fattispecie di cui all’art. 609quinquies, comma 2, c.p., poiché il far assistere persona minore di anni 14 al compimento di atti sessuali o il mostrare alla medesima materiale pornografico al fine di indurla a compiere o a subire atti sessuali non richiede necessariamente la presenza fisica degli interlocutori (si pensi all’invio di materiale pornografico a mezzo di «whatsapp») (Cass. 11-5-2020, n. 14210).

Figure circostanziali aggravanti

La novità disciplinare dovuta, invece, al D.Lgs. 39/2014 si traduce nella previsione di talune figure circostanziali aggravanti. In particolare, per effetto del neointrodotto comma 3 della disposizione in esame, si prevede un incremento sanzionatorio, nel caso in cui il fatto sia commesso da più persone riunite, da persona che fa parte di un’associazione per delinquere e al fine di agevolarne l’attività, o con violenze gravi, ovvero ancora se dal fatto deriva al minore, a causa della reiterazione delle condotte, un pregiudizio grave.

Il novero di tali figure circostanziali è stato, da ultimo, integrato dalla cd. Legge europea 2019-2020, al caso in cui dal fatto deriva pericolo di vita per il minore. 

Come già per le fattispecie di cui agli artt. 602ter e 609ter, il legislatore opera analogo correttivo anche in relazione al delitto che si esamina. Ancora una volta, a trovare attuazione è il disposto dell’art. 9, lett. f) della Direttiva 2011/93/UE, il quale prevede che gli Stati membri adottino le misure necessarie affinché sia considerata quale aggravante, con riferimento ai reati sessuali su minori (specificamente indicati negli artt. da 3 a 7 della direttiva stessa) la circostanza per la quale «l’autore del reato, deliberatamente o per negligenza, ha messo in pericolo la vita del minore».

Sempre nel novero delle aggravanti rientra la norma (stavolta dovuta alla L. 172/2012) applicabile al caso in cui il colpevole sia l’ascendente, il genitore, anche adottivo, o il di lui convivente, il tutore, ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore è affidato, o che abbia con quest’ultimo una relazione di stabile convivenza.

Elemento soggettivo

Sul piano soggettivo, in entrambe le configurazioni (quella originaria e quella frutto dei correttivi del 2012) rileva il dolo specifico, dovendo la cosciente e volontaria realizzazione delle condotte tipizzate essere finalizzata nei modi anzidetti. Si ritiene in giurisprudenza che tale dolo specifico sia incompatibile con la configurazione eventuale.

Si è precisato, altresì, che il delitto di corruzione di minorenne commesso mediante esibizione di materiale pornografico è caratterizzato, stante il fine di indurre il minore infraquattordicenne a compiere o subire atti sessuali, dal dolo specifico, la cui sussistenza può essere desunta anche dalle circostanze di tempo e luogo della condotta, laddove indicative delle specifiche finalità dell’atto (Cass. 2-8-2022, n. 30435).

Consumazione e tentativo

Il delitto si consuma col compimento degli atti sessuali alla presenza del minore. Il tentativo appare senz’altro configurabile. Si configura il reato anche nel caso di una presenza temporanea del minore in occasione dello svolgimento di un rapporto sessuale tra adulti.

Pena e procedibilità

La pena è la reclusione da 1 a 5 anni per le due configurazioni di base, aumentata fino ad un terzo, per l’ipotesi aggravante di cui al comma 3, e fino alla metà per quella di cui al comma 4.

L’arresto in flagranza è facoltativo mentre il fermo non è consentito.

Si procede d’ufficio e la competenza spetta al Tribunale monocratico.

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