evasometro

Evasometro: cos’è e come funziona Evasometro 2025: cos’è, a che cosa serve, come funziona, che soggetti colpisce e quali sono le novità del 2025

Cos’è l’evasometro

L’evasometro torna al centro del sistema di controllo fiscale italiano, rinnovato e potenziato per il 2025. Con l’obiettivo di contrastare in modo più incisivo l’evasione fiscale, l’Agenzia delle Entrate ha aggiornato gli strumenti di monitoraggio dei flussi finanziari, introducendo nuove regole di incrocio dei dati e automatismi di analisi.

L’evasometro è uno strumento di analisi dei flussi finanziari utilizzato dall’Agenzia delle Entrate per individuare potenziali anomalie tra i redditi dichiarati e i movimenti bancari. Il suo scopo è prevenire e accertare situazioni di evasione fiscale e di infedeltà dichiarativa, tramite l’elaborazione di dati provenienti da conti correnti, carte di credito, investimenti e transazioni elettroniche.

Si tratta di un sistema introdotto originariamente nel 2012, poi sospeso e rimodulato negli anni, fino a essere riproposto con nuove caratteristiche nel 2025, grazie alle potenzialità offerte dall’intelligenza artificiale e dal machine learning.

Come funziona

Nel 2025, l’evasometro opera attraverso un sistema completamente automatizzato, alimentato da banche dati pubbliche e private. Tra le principali fonti di dati analizzate vi sono:

  • i movimenti suconti correnti bancari e postali;
  • le transazioni con carte di pagamento;
  • i dati suinvestimenti mobiliari e immobiliari;
  • le operazioni dicompravendita online e criptovalute;
  • versamenti e i prelievi in contanti oltre soglie considerate anomale.

L’analisi avviene mediante algoritmi predittivi che valutano la coerenza tra i dati finanziari e le dichiarazioni fiscali. In caso di scostamenti rilevanti, l’evasometro genera delle segnalazioni automatiche, che possono portare a:

  • un invito al contraddittorio da parte dell’Agenzia;
  • l’apertura di una verifica o accertamento fiscale;
  • l’invio di alert preventivi tramite il cassetto fiscale.

Soglie di anomalia

Previste due soglie di scostamento, superate le quali scatta il controllo:

  • scostamento del 20% tra reddito ricostruito e quello che il contribuente ha dichiarato;
  • scostamento di 10 volte l’importo dell’assegno sociale. Poiché questo assegno annuale è pari a circa 7000 euro, significa che deve esserci uno scarto di 70.000 euro per far scattare l’accertamento.
  • Attenzionati anche i soggetti con debiti fiscali superiori ai 50.000 euro, se titolari di patrimoni esteri incoerenti con la dichiarazione.

Chi colpisce l’evasometro

L’evasometro si rivolge a persone fisiche, partite IVA, liberi professionisti e imprese, senza distinzione settoriale. Tuttavia, i controlli sono più probabili nei confronti di:

  • soggetti convolumi di movimentazioni finanziarie incoerenti rispetto al reddito dichiarato;
  • contribuenti che presentanoanomalie nei versamenti IVA o imposte dirette;
  • professionisti e imprese che operano in settori a maggiore rischio evasione (es. edilizia, ristorazione, commercio al dettaglio).

Novità 2025: cosa cambia

Le principali novità introdotte nel 2025 con il nuovo evasometro riguardano:

  1. maggior precisione dellanalisi algoritmica: l’Agenzia utilizza ora strumenti di intelligenza artificiale per valutazioni più accurate e per ridurre il numero di falsi positivi;
  2. interoperabilità tra banche dati: viene potenziato lo scambio informativo tra Agenzia delle Entrate, INPS, Guardia di Finanza, Anagrafe tributaria e piattaforme digitali, inclusi marketplace e gestori di servizi online;
  3. trasparenza preventiva per il contribuente: è previsto l’invio di notifiche preventive ai contribuenti tramite PEC o cassetto fiscale, con invito alla regolarizzazione spontanea, in linea con i principi delloStatuto del contribuente (L. 212/2000);
  4. controllo sui flussi digitali: rientrano nel perimetro dell’evasometro anche iwallet digitali, le operazioni su criptovalute e i pagamenti effettuati tramite app fintech;  
  5. silver notice, un sistema di cooperazione su base internazionale che permette di interrogare le banche dati relativa ai patrimoni di oltre 50 paesi, con una cadenza che potrebbe essere mensile, come richiesto della Guardia di Finanza.

Considerazioni finali

Il nuovo evasometro 2025 si inserisce in un più ampio contesto di digitalizzazione della macchina fiscale, volto a rendere più efficiente l’attività di controllo senza aggravare il carico amministrativo per i contribuenti. È quindi fondamentale che cittadini, professionisti e imprese adottino comportamenti trasparenti e coerenti, mantenendo una documentazione contabile ordinata e regolare.

L’attività dell’evasometro non si configura come accertamento automatico, ma come strumento di analisi del rischio fiscale. La collaborazione tra contribuente e Amministrazione, attraverso il contraddittorio preventivo, rimane un principio fondamentale a tutela della correttezza e della lealtà nel rapporto tributario.

 

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Decreto coesione: i bonus under 35 e donne Decreto coesione: pubblicati dal Ministero del lavoro e dal MEF i decreti attuativi sugli sgravi contributivi per under 35 e donne

I decreti attuativi per giovani e donne

Pubblicati il 9 maggio 2025 sul sito del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali i due decreti attuativi, firmati in data 11 aprile 2025, relativi ai bonus per le assunzioni di giovani e donne, come previsti dalla legge di conversione del Decreto coesione agli articoli 22 e 23.

I decreti definiscono i criteri per l’esonero contributivo. L’esonero è per le assunzioni a tempo indeterminato di under 35 mai occupati stabilmente e la trasformazione di contratti a termine in contratti stabili. L’altro bonus riguarda invece l’assunzione di donne disoccupate da tempo e senza retribuzione regolare. L’obiettivo è incentivare il lavoro di qualità e a tempo indeterminato, con una particolare attenzione al Mezzogiorno.

Decreto coesione: under 35

Ai datori di lavoro privati che assumono personale non dirigenziale con contratto subordinato e indeterminato o convertono in indeterminato un contratto determinato spetta per 24 mesi un esonero contributivo.

Per le assunzioni dal 1° settembre 2024 al 31 dicembre 2025 l’esonero è del 100% (esclusi premi e contributi INAIL) nel limite di 500 euro.

Per i datori che assumono in determinate regioni del Sud Italia l’esonero, dalla data di autorizzazione della della Commissione UE e fino al 31 dicembre 2025, spetta un esonero nel limite di 650 euro. L’esonero non può superare in ogni caso il 50% dei costi salariali di cui al punto 31, articolo 2 del Regolamento UE n. 651/2014.

L’agevolazione spetta ai datori che assumono giovani che non hanno ancora compiuto 35 anni, non sono mai stati occupati a tempo indeterminato o che hanno compiuto l’apprendistato, senza però essere assunti stabilmente. Sono esclusi i rapporti di lavoro domestico e di apprendistato.

DL coesione: bonus donne

I datori che dal 1° settembre 2024 e fino al 31 dicembre 2025 assumono con contratto a tempo indeterminato donne senza impiego da almeno 24 mesi, hanno diritto a un esonero contributivo per un periodo massimo di 24 mesi.

L’esonero spetta anche ai datori che, dalla data di autorizzazione della Commissione UE e fino al 31 dicembre 2025, assumono donne  di specifiche regioni del Sud Italia (Zona Economica Speciale unica per il Mezzogiorno).

I datori che assumono donne dal 1 settembre 2024 al 31 dicembre 2025, in settori specifici, individuati ogni anno con decreto dal Ministero del Lavoro, hanno diritto a un esonero contributivo per un periodo massimo di 12 mesi. 

Sono invece esclusi dal beneficio il lavoro domestico e di apprendistato.

 

 Leggi anche l’articolo dedicato al Decreto coesione: cosa prevede la legge

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reddito di libertà

Reddito di libertà: cos’è e come ottenerlo Reddito di libertà: cos’è, a chi spetta, da quali norme è disciplinato e come presentare la domanda dal 12 maggio 2025

Reddito di libertà: cos’è

Il reddito di libertà è stato introdotto per aiutare le donne vittime di violenza. In relazione alle domande che verranno presentato a partire dal 5 marzo 2025, la misura consisterà in un supporto economico pari a 500 euro mensili (salvo incrementi previsti da disposizioni di legge successive) per un periodo massimo di 12 mesi.  Il pagamento delle 12 mensilità avverrà in un’unica soluzione. La misura non è soggetta a IRPEF. La circolare INPS n. 54 del 5 marzo 2025 fornisce le indicazioni necessarie per presentare la domanda.

Normativa di riferimento

  • Decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modifiche dalla legge 17 luglio 2020, n. 77: ha istituito il Fondo per il reddito di libertà delle donne vittime di violenza;
  • D.P.C.M del 17 dicembre 2020: ha definito i criteri di ripartizione delle risorse per il 2020 del “Fondo per il reddito di libertà per le donne vittime di violenza”;
  • messaggi INPS 4352 del 7 dicembre 2021; n. 1053 del 7 marzo 2022; n. 2453 del 16 giugno 2022 e n. 3363 del 13 settembre 2022: hanno fornito indicazioni per l’accoglimento delle domande anche dopo il trasferimento all’INPS delle risorse statali e regionali anni 2021- 2022 e 2023, ripartite con i criteri indicati nel D.P.C.M. 1° giugno 2022.
  • Legge di bilancio 2024 n. 213/2023 (art. 1 comma 187): ha reso strutturale il Reddito di libertà incrementando il Fondo di 10 milioni di euro per ogni anno 2024, 2025 e 2025 e sei milioni per il 2027 per garantire l’indipendenza economica e l’emancipazione delle donne vittime di violenza e in condizioni di povertà.
  • Decreto 2 dicembre 2024 ha definito i criteri di ripartizione delle risorse riferite agli anni 2024, 2025 e 2026, di 30 milioni di euro (10 milioni di euro ogni anno 2024, 2025 e 2026) e ha modificato la disciplina del contributo.

A chi spetta il reddito di libertà

Il reddito di libertà spetta alle donne con o senza figli, vittime di violenza domestica seguite dai centri antiviolenza e dai servizi sociali.

Le destinatarie devono essere residenti nel territorio italiano e avere la cittadinanza italiana, comunitaria o extracomunitaria (in possesso di carta di soggiorno per familiari extracomunitari di cittadini dell’unione europea o in possesso di regolare permesso di soggiorno UE o del permesso per protezione speciale). Alle cittadine italiane sono equiparate le straniere con status di rifugiate politiche o di protezione sussidiaria.

Requisiti di accesso

Per poter accedere al reddito di libertà sono necessarie due attestazioni:

  • il centro antiviolenza, nella persona del suo rappresentante legale, deve dichiarare che ha in carico la donna e che la stessa ha intrapreso un percorso di emancipazione e di autonomia;
  • il servizio sociale invece deve attestare lo stato di bisogno transitorio della donna a causa della situazione urgente e straordinaria che la stessa sta vivendo.

Regime transitorio

Abbiamo visto che il reddito di libertà è presente da qualche anno. Per questo la circolare INPS n. 54/2025 ricorda che le domande che erano state presentate e che non erano state accolte conservano priorità purché ripresentate entro 45 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto 2 dicembre 2024 (ossia entro il 18 aprile 2025) per dimostrare la permanenza dei requisiti necessari. La mancata ripresentazione della domanda comporterà infatti la decadenza definitiva, fatta salva la possibilità di presentare una nuova domanda.

Domande 2025: presentazione e esito

La domanda per il Reddito di Libertà 2025 deve essere presentata dalle donne interessate, direttamente o tramite un rappresentante, al Comune di riferimento, utilizzando il modulo SR208, disponibile sul sito INPS. Il Comune trasmette la richiesta all’INPS, che assegna un codice univoco determinante per la graduatoria regionale, nei limiti delle risorse disponibili. La domanda può essere inoltrata online tramite SPID, CIE o CNS. È ammessa una sola richiesta per ogni donna vittima di violenza. Devono essere compilati tutti i campi del modulo, inclusa l’attestazione del bisogno e la dichiarazione del percorso di emancipazione rilasciata da un centro antiviolenza. Nella richiesta deve essere indicato anche il metodo di pagamento prescelto tra conto corrente, libretto di risparmio, carta prepagata.

Il sistema verifica la correttezza dei dati nella domanda per il Reddito di Libertà prima dell’invio e della registrazione. Dopo la trasmissione, viene eseguita un’istruttoria automatizzata per controllare il budget disponibile e la titolarità dell’IBAN. L’esito può essere: “Accolta in pagamento”, “Accolta in attesa di IBAN” o “Non accolta per insufficienza di budget”. Se l’IBAN non è valido, la domanda resta in attesa.  Gli operatori comunali devono aggiornare eventuali IBAN errati e segnalare problemi tramite PEC. L’esito è consultabile dai Comuni e comunicato all’interessata. Un manuale comunque è disponibile nel servizio online dedicato.

Reddito di libertà: domande online dal 12 maggio 2025

L’INPS, con il messaggio 7 maggio 2025, n. 1429 informa che dal 12 maggio 2025 è attivo il servizio per la presentazione online delle nuove domande per il reddito di libertà.

Le donne in possesso dei requisiti, comprese quelle che non hanno ripresentato la domanda entro il 18 aprile 2025, possono presentare la domanda utilizzando il modulo SR208, tramite i comuni di riferimento.

Le domande sono accolte sulla base delle risorse disponibili a livello regionale tenendo conto della data e dell’ora di invio delle stesse. Quelle presentate nel 2025, comprese quelle ripresentate entro il 18 aprile 2025, restano valide fino al 31 dicembre 2025.

 

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affidamento diretto

Affidamento diretto Affidamento diretto negli appalti pubblici: cos'è, come funziona e cosa prevede il nuovo Codice

Cos’è l’affidamento diretto

L’affidamento diretto è una modalità semplificata di acquisizione di beni, servizi e lavori da parte delle pubbliche amministrazioni, che consente di assegnare un contratto senza gara formale, nel rispetto di determinati limiti economici e presupposti normativi. Con l’entrata in vigore del Codice dei contratti pubblici – D.lgs. 31 marzo 2023, n. 36, l’istituto dell’affidamento diretto ha subito importanti modifiche e semplificazioni, con l’obiettivo di rendere più snelle le procedure sotto soglia.

Trattasi quindi di una procedura di selezione del contraente che consente alla stazione appaltante di individuare un operatore economico senza pubblicazione di un bando di gara e senza previa consultazione di più soggetti, pur restando obbligatorio il rispetto dei principi di legalità, trasparenza, rotazione e buon andamento.

L’affidamento diretto rappresenta un importante strumento di semplificazione per le pubbliche amministrazioni, soprattutto in ambito sotto soglia. Tuttavia, la sua efficacia dipende dalla corretta applicazione delle regole procedurali e dal rispetto dei principi di imparzialità e trasparenza. Il nuovo Codice degli appalti pubblici ha consolidato la legittimità di questo istituto, introducendo regole più chiare e una digitalizzazione delle procedure che punta a una maggiore accountability.

La normativa di riferimento

La disciplina dell’istituto quindi è contenuta nel:

  • Codice dei contratti pubblici – D.lgs. n. 36/2023, in particolare agli artt. 49 e 50;
  • Allegato II.1 al Codice, che dettaglia le soglie di rilevanza comunitaria e sotto soglia;
  • Linee guida dell’ANAC, tra cui il Vademecum del 30 luglio 2024 sugli affidamenti diretti;
  • Normativa previgente (D.lgs. n. 50/2016), oggi abrogata, utile per confronto interpretativo.

Quando è possibile l’affidamento diretto: soglie economiche

Ai sensi dell’art. 50 del nuovo Codice, è possibile ricorrere all’affidamento diretto per importi inferiori a:

  • € 150.000 per lavori;
  • € 140.000 per servizi e forniture, anche nei settori speciali e per le centrali di committenza.

All’interno di queste soglie, la stazione appaltante può procedere con affidamento diretto, previa motivazione nella determina a contrarre e verifica dei requisiti generali e speciali dell’operatore economico selezionato.

Come funziona l’affidamento diretto: procedura

La procedura, pur semplificata, deve rispettare passaggi fondamentali:

  1. determina a contrarre semplificata: atto amministrativo che autorizza l’avvio della procedura, motivando la scelta dell’affidamento diretto;
  2. individuazione dell’operatore: può avvenire tramite indagini di mercato, elenco fornitori o rotazione tra precedenti affidatari;
  3. verifica dei requisiti: l’operatore deve possedere i requisiti di ordine generale (art. 94) e, se previsto, i requisiti tecnico-professionali;
  4. stipula del contratto: può avvenire anche in forma semplificata, con tracciabilità finanziaria e rispetto della normativa anticorruzione;
  5. pubblicazione degli esiti: gli esiti dell’affidamento diretto devono essere pubblicati sulla piattaforma digitale di approvvigionamento o sul sito dell’amministrazione.

Differenze con la procedura negoziata

Affidamento diretto

Procedura negoziata

Nessun obbligo di confronto concorrenziale

Consultazione di un numero minimo di operatori

Utilizzabile solo sotto soglia

Utilizzabile entro soglie specifiche

Maggiore rapidità e semplicità

Maggiore formalizzazione della procedura

I principi da rispettare

Anche in caso di affidamento diretto, la PA deve rispettare i principi generali dell’evidenza pubblica:

  • Rotazione: evitare affidamenti ripetuti allo stesso operatore senza adeguata motivazione;
  • Trasparenza: pubblicare gli atti rilevanti sul profilo del committente;
  • Concorrenza potenziale: anche se non è richiesta la consultazione di più operatori, la PA deve giustificare la scelta dell’affidatario.

Vantaggi e rischi dell’affidamento diretto

La procedura presenta indubbi vantaggi ma anche rischi inevitabili.

Vantaggi:

  • procedura rapida e snella;
  • costi inferiori di gestione amministrativa;
  • adattabilità a esigenze urgenti o di valore limitato.

Rischi:

  • eccessiva discrezionalità nella scelta del fornitore;
  • possibili violazioni del principio di rotazione;
  • contenziosi se la scelta non viene adeguatamente motivata.

Per prevenire criticità, l’ANAC ha predisposto un vademecum operativo (luglio 2024) con indicazioni sulle best practices in tema di rotazione, indagini di mercato e scelta dell’affidatario.

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demansionamento

Demansionamento: cos’è e cosa comporta Demansionamento: significato, normativa, conseguenze e tutela del lavoratore

Cosa si intende per demansionamento

Il demansionamento rappresenta una delle problematiche più delicate nel rapporto di lavoro subordinato, poiché incide direttamente sulla posizione professionale, sulla dignità e sulla crescita del lavoratore. Esso si verifica quando un dipendente viene assegnato a mansioni inferiori rispetto a quelle per cui è stato assunto o che ha successivamente acquisito. In taluni casi, può costituire un comportamento illegittimo del datore di lavoro e dar luogo a responsabilità risarcitoria.

In ambito giuslavoristico, il demansionamento è definito, nello specifico, come il mutamento unilaterale in pejus delle mansioni affidate al lavoratore, ovvero l’assegnazione a compiti di contenuto professionale inferiore, che comportano una regressione nella carriera, nella professionalità o nel prestigio acquisito.

Il concetto si differenzia dal legittimo esercizio dello jus variandi, ovvero il potere del datore di lavoro di modificare le mansioni del dipendente nell’ambito della categoria o dell’inquadramento previsto dal contratto collettivo o individuale.

L’art. 2103 del codice civile

La disciplina del demansionamento trova la sua fonte principale nell’articolo 2103 del codice civile, così come riformulato dal decreto legislativo n. 81/2015, attuativo del Jobs Act.

Il testo dell’art. 2103 c.c. prevede:

  • Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, o a quelle corrispondenti alla categoria legale o al livello di inquadramento.
  • È possibile il cambio di mansioni, anche inferiori, solo nei seguenti casi:
    • In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incida sulla posizione del lavoratore;
    • In caso di accordo individuale stipulato in sede protetta (sindacato, DTL, commissioni di certificazione);
    • In caso di inidoneità fisica o psichica, accertata dal medico competente, che impedisca lo svolgimento delle mansioni originarie.

Quando il demansionamento è illegittimo

Il demansionamento è illecito quando:

  • non è giustificato da alcuna delle ipotesi previste dalla legge;
  • viene attuato in modo arbitrario o punitivo;
  • determina un svuotamento delle mansioni o una loro sostanziale dequalificazione;
  • avviene senza alcun confronto o accordo con il lavoratore nelle sedi protette previste dalla normativa.

La giurisprudenza ha chiarito che non basta un mero cambiamento di attività: è necessario valutare il contenuto qualitativo e quantitativo delle mansioni, l’autonomia decisionale, il livello di responsabilità e l’impatto sulla professionalità acquisita. È ritenuto illegittimo anche il cosiddetto demansionamento per inerzia, che si verifica quando al dipendente non vengono più affidate mansioni significative o viene lasciato inattivo per periodi prolungati.

Risarcimento danno da demansionamento

L’illegittimo demansionamento può comportare un danno risarcibile, che può assumere diverse forme:

1. Danno patrimoniale, riconducibile alla perdita di:

  • opportunità professionali o economiche;
  • premi, indennità o benefit legati alle mansioni precedenti.

2. Danno non patrimoniale

  • per il danno alla dignità, all’immagine professionale e alla salute psicofisica del lavoratore;
  • per la lesione della personalità giuridica e della vita relazionale.

Il lavoratore ha diritto a chiedere:

  • Il risarcimento del danno subito;
  • Il ripristino delle mansioni originarie;
  • In alcuni casi, la risoluzione del rapporto con indennità sostitutiva (art. 2119 c.c. per giusta causa).

Per ottenere il risarcimento, il lavoratore deve fornire prova del danno subito, anche mediante presunzioni o prove documentali, come perizie mediche, relazioni psicologiche o testimonianze.

Come tutelarsi in caso di demansionamento

Chi ritiene di essere stato demansionato può:

  • rivolgersi a un legale esperto in diritto del lavoro;
  • Inviare una diffida al datore di lavoro per contestare formalmente l’assegnazione a mansioni inferiori;
  • promuovere un tentativo di conciliazione in sede sindacale o presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro;
  • come ultima ratio agire in giudizio per ottenere la tutela dei propri diritti.

Giurisprudenza della Cassazione

Cassazione n. 27867/2024: il diritto al risarcimento per danno professionale, biologico o esistenziale non sorge automaticamente con l’inadempimento del datore di lavoro. È indispensabile che il lavoratore, fin dall’inizio della causa, specifichi e dimostri l’esistenza di un danno concreto e oggettivamente verificabile al proprio modo di lavorare, che abbia modificato le sue abitudini e relazioni, portandolo a scelte di vita diverse per la sua realizzazione personale. Non basta quindi provare la sola possibilità che la condotta del datore di lavoro abbia causato un danno; il lavoratore ha l’onere di provare sia il demansionamento subito sia il danno non patrimoniale e il legame di causa tra questo e l’inadempimento del datore di lavoro, come stabilito dall’articolo 2697 del Codice Civile.

Cassazione n. 6257/2024: il danno da demansionamento non richiede una prova specifica predeterminata, potendo essere accertato attraverso ogni mezzo probatorio ammesso dalla legge. In particolare, elementi come il livello e il volume dell’attività lavorativa svolta, la natura delle competenze professionali coinvolte, la durata dell’assegnazione a compiti di produzione rispetto alle precedenti mansioni impiegatizie, il nuovo ruolo lavorativo conseguito dopo eventuali corsi di formazione, e le richieste avanzate ai superiori per un incarico più adeguato, possono costituire indizi significativi per presumere l’esistenza e l’entità del danno subito dal lavoratore a causa della dequalificazione professionale.

 

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incidente animale selvatico

Incidente animale selvatico: la responsabilità Incidente animale selvatico: chi risponde dei danni, conseguenze civili e penali e Cassazioni recenti

Responsabilità incidente con animale selvatico

Il dover affrontare le conseguenze di un incidente con un animale selvatico rappresenta un problema crescente in Italia. Questi incidenti possono causare danni materiali e fisici alle persone coinvolte, oltre che alla fauna selvatica.

La responsabilità per gli incidenti con animali selvatici dipende soprattutto dal luogo in cui si verifica l’incidente. La giurisprudenza negli ultimi anni ha sancito alcuni importanti principi al fine di individuare i soggetti responsabili.

  • Per regola generale i danni causati dalla fauna selvatica sono risarcibili dallo Stato (pubblica amministrazione) in base all’articolo 2052 del Codice Civile. Questo perché la responsabilità non si basa sulla custodia degli animali, ma sulla loro proprietà o utilizzo. Dato che le specie selvatiche protette dalla legge n. 157/1992 sono considerate patrimonio indisponibile dello Stato e la loro cura e gestione sono affidate a enti pubblici per la tutela ambientale, la responsabilità per i danni ricade su questi ultimi.
  • Diverse e recenti sentenze della Corte di Cassazione individuano nella Regione il soggetto pubblico responsabile, al fine di garantire una tutela effettiva al soggetto danneggiato.
  • Nell’ipotesi in cui il sinistro si dovesse verificare in autostrada il responsabile civile dei danni subiti dal conducente sarà l’Ente che ha in concessione il tratto autostradale, teatro dello scontro.

Conseguenze civili e penali

Gli incidenti con animali selvatici possono avere conseguenze sia civili che penali.

  • Conseguenze civili: le vittime di un incidente con un animale selvatico possono richiedere il risarcimento dei danni materiali e fisici subiti.
  • Conseguenze penali: in alcuni casi, gli incidenti con animali selvatici possono essere considerati reati penali, ad esempio se l’incidente è causato da imprudenza o negligenza.

Risarcimento del danno da fauna selvatica

Per ottenere il risarcimento del danno da fauna selvatica, è necessario dimostrare che l’incidente è stato causato da un animale selvatico e che si è verificato in un luogo pubblico o su un terreno di proprietà di terzi. È inoltre necessario dimostrare il nesso causale tra l’evento e il danno subito.

Cassazione su incidente animale selvatico

Ecco una serie di massime della Cassazione in materia:

Cassazione n. 197/2025

I danni provocati dalla fauna selvatica comportano la responsabilità risarcitoria della Pubblica Amministrazione, in quanto le specie protette sono considerate patrimonio indisponibile dello Stato e affidate alla cura e gestione di enti pubblici per la salvaguardia ambientale. Di conseguenza, l’azione di risarcimento e la legittimazione passiva spettano unicamente alla Regione. Questo deriva dal fatto che la Regione detiene la competenza legislativa in materia di patrimonio faunistico, anche se le attività amministrative di programmazione, coordinamento e controllo della tutela e gestione della fauna selvatica sono delegate ad altri enti. In altre parole, la responsabilità ultima e l’obbligo di risarcire i danni ricadono sulla Regione in virtù della sua competenza normativa sul patrimonio faunistico.

Cassazione n. 9043/2025

Per ottenere il risarcimento dei danni da fauna selvatica, il danneggiato deve provare sia il fatto dannoso e il legame causa-effetto con l’animale, sia di aver agito con la dovuta cautela in base al contesto ambientale. In un incidente veicolo-animale selvatico, la legge presume una pari responsabilità sia del conducente che del proprietario dell’animale, richiedendo una valutazione caso per caso per superare tali presunzioni. Se il danneggiato è anche il conducente, deve quindi dimostrare sia la dinamica dell’incidente e il ruolo dell’animale protetto, sia la propria condotta di guida prudente in relazione ai rischi ambientali.

Cassazione n. 17253/2024

Quando si chiede il risarcimento per danni causati dalla fauna selvatica, la decisione se applicare l’articolo 2043 o l’articolo 2052 del Codice Civile non cambia la natura della richiesta. Piuttosto, influisce su chi deve dimostrare cosa in tribunale. Di conseguenza, un eventuale errore nella scelta dell’articolo di legge da applicare non porta a una decisione definitiva sul merito della questione. In altre parole, la scelta tra i due articoli riguarda solo le regole sulla prova, non il diritto al risarcimento in sé.

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danno da perdita di chance

Danno da perdita di chance Danno da perdita di chance: cos’è, normativa, prova, calcolo, differenze con il lucro cessante e giurisprudenza della Cassazione

Cos’è la perdita di chance

Il danno da perdita di chance è una particolare  voce di danno risarcibile nel nostro ordinamento, che riguarda la perdita di una concreta possibilità di ottenere un vantaggio futuro, sia esso economico, lavorativo o esistenziale. Non si tratta del mancato conseguimento del risultato, ma della frustrazione della probabilità seria e concreta di conseguirlo. Nel tempo, la giurisprudenza ha progressivamente riconosciuto la risarcibilità di questo danno, delineandone i presupposti, i criteri di prova e le modalità di liquidazione.

Definizione giuridica

La perdita di chance è intesa come il pregiudizio attuale e autonomo derivante dalla perdita della possibilità, seria e fondata, di conseguire un risultato favorevole. Non è, quindi, il danno futuro legato al mancato guadagno (lucro cessante), ma un danno attuale, rappresentato dalla scomparsa di un’opportunità concreta, con un valore patrimoniale o non patrimoniale proprio.

Normativa di riferimento

La perdita di chance non è regolata da una norma specifica, ma viene riconosciuta in base ai principi generali della responsabilità civile:

  • Art. 2043 c.c. (danno extracontrattuale): “Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.”
  • Art. 1223 c.c. (danno da inadempimento contrattuale): prevede il risarcimento per la perdita subita e il mancato guadagno, includendo anche il valore della chance.

Come si prova il danno da perdita di chance

La prova della perdita di chance è uno degli aspetti più complessi, poiché si tratta di un evento non realizzatosi, ma che avrebbe potuto realizzarsi in base a una certa probabilità. Secondo la giurisprudenza, la chance, per essere risarcibile, deve essere:

  • seria: non meramente ipotetica o astratta;
  • concreta: basata su elementi oggettivi e verificabili;
  • attuale: riferita a una perdita già maturata.

La recente pronuncia della Cassazione n. 18568/2024 ha infatti chiarito che il risarcimento del danno da chance si configura come il ristoro per la perdita della concreta possibilità di ottenere un determinato risultato, possibilità che ha un valore giuridico ed economico autonomo rispetto al mancato raggiungimento del risultato stesso.

La prova può essere fornita tramite:

  • documentazione (es. bandi, graduatorie, offerte di lavoro);
  • testimonianze;
  • elementi statistici o peritali;
  • ricostruzioni logiche e presuntive, purché fondate.

Come si calcola la perdita di chance

Il giudice può procedere con liquidazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., valutando:

  1. il valore del risultato perduto (es. stipendio, premio, incarico);
  2. la probabilità di conseguirlo, espressa anche in termini percentuali;
  3. il nesso causale tra condotta illecita e perdita dell’opportunità.

La Cassazione ha più volte ribadito che la liquidazione del danno da perdita di chance debba avvenire sulla base di una valutazione probabilistica del vantaggio perso, la quale deve essere fondata su elementi oggettivi e attendibili.

Differenza tra perdita di chance e lucro cessante

La perdita di chance e il lucro cessante rappresentano due concetti distinti:

Elemento

Perdita di chance

Lucro cessante

Oggetto

Perdita di una possibilità

Perdita di un guadagno certo o altamente probabile

Natura

Danno attuale e autonomo

Danno futuro e conseguente

Prova richiesta

Probabilità seria e concreta

Prova rigorosa della certezza del guadagno

Liquidazione

Equitativa e proporzionale alla probabilità

Quantificazione precisa o fondata su proiezioni

Ambiti applicativi danno da perdita di chance

Il danno da perdita di chance è riconosciuto in numerosi contesti:

  • Diritto del lavoro: mancata assunzione, esclusione illegittima da un concorso pubblico;
  • Responsabilità medica: perdita della possibilità di guarigione o sopravvivenza;
  • Procedimenti amministrativi: mancata aggiudicazione di un appalto pubblico;
  • Responsabilità contrattuale: ritardo o inadempimento che esclude opportunità economiche.

Giurisprudenza della Cassazione

Cassazione n. 5641/2018: il concetto di chance, originariamente sviluppato per danni patrimoniali, mal si adatta alla sfera del danno non patrimoniale, richiamando l’attenzione sulla distinzione cruciale tra il danno inteso come evento lesivo e l’accertamento del nesso di causalità.

Cassazione n. 31136/2022: nel valutare una richiesta di risarcimento per danno alla persona, il giudice deve innanzitutto stabilire se la domanda mira al risarcimento totale per l’evento dannoso o per la perdita di chance, trattandosi di danni concettualmente differenti che richiedono una diversa valutazione del nesso causale. Se si lamenta la perdita di un bene della vita, il giudice deve verificare, attraverso un ragionamento ipotetico, se un comportamento alternativo avrebbe con maggiore probabilità evitato il danno. Diversamente, nel caso di perdita di chance, l’accertamento riguarda se la condotta abbia causato la perdita di una concreta possibilità di ottenere un risultato sperato, e non il mancato ottenimento del risultato in sé, poiché l’oggetto del risarcimento è proprio la perdita di tale opportunità.

Cassazione n. 25910/2023: Chi chiede il risarcimento per perdita di chance deve dimostrare l’esistenza concreta e significativa dell’opportunità perduta, il potenziale beneficio che ne sarebbe derivato e il legame causale tra la condotta dannosa o l’inadempimento e la perdita di tale opportunità.

 

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pubblico ufficiale

Il pubblico ufficiale Pubblico ufficiale: chi è, normativa, tipologie e differenze rispetto all’incaricato di pubblico servizio

Chi è il pubblico ufficiale

La figura del pubblico ufficiale riveste un ruolo centrale nel diritto penale e amministrativo italiano. Si tratta infatti di quei soggetti che, nell’esercizio delle loro funzioni, rappresentano direttamente la Pubblica Amministrazione, esercitando poteri autoritativi o certificativi. Capire chi è il pubblico ufficiale e quali sono le sue responsabilità è fondamentale per interpretare correttamente molte norme del nostro ordinamento.

Normativa di riferimento

La definizione giuridica di pubblico ufficiale è contenuta nell’articolo 357 del Codice Penale, che dispone:

“1. Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. 2. Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi, e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi.”

La norma specifica che la pubblica funzione implica l’esercizio di poteri autoritativi o certificativi, cioè la capacità di incidere direttamente nella sfera giuridica dei soggetti privati, manifestando la volontà della Pubblica Amministrazione.

Tipologie di pubblici ufficiali

In base all’attività svolta, i pubblici ufficiali possono essere suddivisi in varie categorie:

  • pubblici ufficiali legislativi: parlamentari, consiglieri regionali e comunali;
  • pubblici ufficiali giudiziari: magistrati, cancellieri, ufficiali giudiziari;
  • pubblici ufficiali amministrativi: sindaci, assessori, dirigenti pubblici, ufficiali di stato civile;
  • agenti di polizia giudiziaria: carabinieri, poliziotti, guardie di finanza, limitatamente a specifiche funzioni.

Anche i notai, nella redazione degli atti notarili, agiscono in qualità di pubblici ufficiali, attribuendo fede privilegiata ai documenti redatti.

Funzioni e poteri del pubblico ufficiale

Il pubblico ufficiale esercita:

  • poteri autoritativi, cioè può adottare provvedimenti che incidono unilateralmente sulle situazioni giuridiche dei privati (es. ordinanze, sanzioni);
  • poteri certificativi, ovvero può redigere atti pubblici che fanno piena prova fino a querela di falso (es. registrazione di nascite o decessi, verbalizzazioni ufficiali).

In virtù di questi poteri, il pubblico ufficiale gode di una particolare tutela penale, ma al contempo è soggetto a responsabilità aggravate in caso di reati contro la Pubblica Amministrazione.

Differenze tra pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio

Sebbene entrambe le figure collaborino con la Pubblica Amministrazione, vi sono differenze sostanziali:

Criterio

Pubblico ufficiale

Incaricato di pubblico servizio

Definizione

Soggetto che esercita pubbliche funzioni con poteri autoritativi o certificativi

Soggetto che svolge un’attività di pubblico interesse senza poteri autoritativi né certificativi

Funzione

Autoritativa e certificativa

Esecutiva o strumentale

Esempi

Sindaco, carabiniere, cancelliere, ufficiale di stato civile

Addetto a società di trasporti pubblici, personale sanitario convenzionato

Reati applicabili

Reati contro la Pubblica Amministrazione, inclusi quelli che presuppongono l’esercizio di pubblici poteri

Reati compatibili con l’assenza di pubblici poteri

Il pubblico ufficiale, dunque, ha una funzione più pregnante e rilevante dal punto di vista giuridico rispetto all’incaricato di pubblico servizio, proprio perché rappresenta in maniera diretta la volontà della Pubblica Amministrazione.

Responsabilità penale del pubblico ufficiale

I pubblici ufficiali sono destinatari di una disciplina penale speciale che riguarda i reati contro la Pubblica Amministrazione, tra cui:

  • Peculato (art. 314 c.p.).
  • Corruzione propria (art. 319 c.p.).
  • Concussione (art. 317 c.p.).
  • Abuso d’ufficio (art. 323 c.p.).
  • Falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale in atto pubblico (art. 479 c.p.).

La qualità di pubblico ufficiale è una condizione soggettiva che aggrava la responsabilità penale e comporta conseguenze particolarmente rilevanti.

Giurisprudenza

Cassazione n. 11341/2022:  i consiglieri regionali, in quanto membri del gruppo partitico di riferimento, sono da considerarsi pubblici ufficiali per tutte le attività connesse all’esercizio della funzione legislativa pubblica all’interno dell’assemblea regionale. Questa qualifica si estende alle iniziative intraprese tramite il gruppo consiliare, in quanto espressione della loro partecipazione alla funzione legislativa. In sostanza, l’esercizio del mandato di consigliere regionale e l’operare attraverso il gruppo di appartenenza nell’ambito dell’attività legislativa regionale attribuiscono la qualifica di pubblico ufficiale.

Cassazione n. 5550/2022:  Per stabilire se una persona sia un pubblico ufficiale, non conta se lavora per un ente pubblico o privato, né che tipo di contratto abbia. L’elemento decisivo è il tipo di attività che svolge concretamente. Anche un privato può essere considerato pubblico ufficiale se la sua attività è di natura pubblica. Allo stesso modo, è incaricato di pubblico servizio chiunque svolga un servizio pubblico, indipendentemente dal fatto che sia un dipendente pubblico o meno. In sostanza, ciò che definisce la qualifica è la natura pubblica del servizio svolto, non la forma giuridica del datore di lavoro o del rapporto lavorativo.

Cassazione n. 17972/2019: riveste la qualifica di pubblico ufficiale il soggetto che, pur in forza di un contratto privatistico di collaborazione coordinata e continuativa per un incarico di consulenza e supporto alla direzione sanitaria regionale, partecipa alla formazione della volontà dell’ente e all’attuazione dei suoi obiettivi istituzionali. Ciò si verifica anche quando l’attività svolta ha una rilevanza interna al procedimento amministrativo. In sintesi, la natura pubblica della funzione esercitata prevale sulla forma privatistica del rapporto di lavoro, qualora l’attività del soggetto contribuisca concretamente alle decisioni e alle finalità dell’amministrazione.

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giurista risponde

Riduzione o mantenimento in schiavitù Quando rileva la situazione di necessità della vittima ai fini della punibilità del delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia

 

In tema di riduzione o mantenimento in schiavitù, presupposto della condotta approfittatrice del soggetto agente è la situazione di necessità da porsi in relazione non con lo stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., quanto piuttosto con la nozione di bisogno delineata in tema di usura aggravata e allo stato di bisogno utilizzato nella rescissione del contratto; la predetta condizione deve essere intesa come qualsiasi situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale del soggetto passivo adatta a condizionarne la volontà personale, coincidendo con la definizione di “posizione di vulnerabilità” nell’ambito della disciplina europea individuata nella decisione quadro dell’Unione Europea del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta di esseri umani (Cassazione, sez. III, 21 gennaio 2025, n. 2450).

La Corte di Assise ha dichiarato colpevoli tre imputati delle condotte rispettivamente loro ascritte di riduzione in schiavitù, di tentata alienazione della persona offesa, di tentata estorsione, di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione e di cessione di sostanze stupefacenti. In sede di appello, la Corte di Assiste d’appello ha parzialmente riformato la decisione di primo grado oggetto di gravame, assolvendo uno degli imputati dal delitto di tentata alienazione perché il fatto non sussiste, rideterminando la pena, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alle contestate aggravanti, riducendo altresì la pena nei confronti di altro imputato, ferma restando l’acclarata responsabilità penale di costoro.

Avverso la predetta sentenza è stato proposto ricorso in Cassazione deducendo, tra gli altri motivi di ricorso presentati dagli imputati per il tramite dei loro difensori, l’insussistenza del delitto di riduzione in schiavitù posto che, secondo le argomentazioni del ricorrente, non sarebbe riscontrabile la mancanza di libertà di movimento da parte della persona offesa, l’impossibilità di comunicare con terze persone, la sottrazione del passaporto e la privazione dei mezzi di sussistenza, come formalmente contestato.

In merito al motivo di censura oggetto di interesse, la Suprema Corte, nel dichiarare il ricorso non fondato, ha analizzato la struttura nonché i presupposti del reato di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù di cui all’art. 600 c.p. Il delitto in parola è un reato a fattispecie plurima ed è integrato alternativamente dalla condotta di chi esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli spettanti al proprietario – implicando così la reificazione della vittima ed ex se lo sfruttamento – ovvero dalla condotta di riduzione o mantenimento di una persona in stato di soggezione continuativa in relazione alla quale è richiesta la prova dell’imposizione di prestazioni integranti lo sfruttamento della vittima (prestazioni lavorative o sessuali, accattonaggio o comunque il compimento di attività illecite).

In particolare, la condizione personale della vittima del delitto di cui all’art. 600 c.p. qualificabile come “servitù” è caratterizzata da uno stato di soggezione continuativa, provocato e mantenuto con una delle modalità indicate al comma 2, ossia mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento della situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha l’autorità sulla persona, che si sostanza nel costringere o indurre la persona stessa a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento.

Pertanto, ai fini della configurabilità del delitto di riduzione in stato di schiavitù o di servitù di una persona in stato di soggezione continuativa è richiesto, oltre la prova dell’imposizione alla persona offesa di prestazioni integranti una delle predette forme di sfruttamento di cui al comma 1 dell’art. 600 c.p., preliminarmente la dimostrazione che il soggetto agente ha ridotto o mantenuto la persona sfruttata in servitù tramite una delle modalità alternative indicate al comma 2.

Orbene, come espresso dalla Suprema Corte, il reato di riduzione in schiavitù non richiede la totale privazione della libertà personale, ma è sufficiente una significativa compromissione della capacità di autodeterminazione delle persona offesa, idonea a configurare lo stato di soggezione richiesto dalla norma incriminatrice (Cass. 21 maggio 2020, n. 15662). Di conseguenza, la soggezione continuativa non viene meno in presenza di una limitata autonomia della vittima che non intacchi il contenuto essenziale della posizione di supremazia del soggetto attivo del reato.

Inoltre, i giudici di legittimità si sono espressi riguardo la “situazione di necessità” in cui deve versare la vittima ritenendo che costituisca presupposto della condotta approfittatrice del soggetto agente che essa non deve porsi in relazione con lo stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., quanto piuttosto con la nozione di bisogno delineata in tema di usura aggravata (art. 644, comma 5, n. 3 c.p.) e allo stato di bisogno utilizzato nella rescissione del contratto (art. 1418 c.c.); la predetta condizione deve essere intesa come qualsiasi situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale del soggetto passivo, adatta a condizionarne la volontà personale coincidendo con la definizione di “posizione di vulnerabilità” nell’ambito della disciplina europea individuata nella decisione quadro dell’Unione Europea del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta di esseri umani (Cass. 25 gennaio 2007, n. 2841).

Pertanto, si ha approfittamento della situazione di vulnerabilità della persona offesa anche quando l’autore del reato, conscio della condizione di debolezza fisica, psichica o esistenziale della persona offesa, se ne sia subdolamente avvalso per accedere alla sua sfera interiore, manipolandone la capacità critica e le tensioni emotive e per tale via inducendola in uno stato di remissività così da ridurla a mezzo per soddisfare più agevolmente il proprio proposito di sfruttamento sul piano lavorativo ovvero imponendo obblighi di facere.

Sulla base di tali coordinate ermeneutiche, la Suprema Corte ha ritenuto che l’imputata si sia avvalsa della condizione oggettiva di vulnerabilità e inferiorità psichica della persona offesa, costringendola a prostituirsi, a lavorare fino a tarda notte e a consegnarle i proventi dell’attività di meretricio.

Alla luce delle argomentazioni esposte, la Suprema Corte ha, quindi, dichiarato l’infondatezza dei ricorsi presentati, rigettandoli e condannando i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

 

(*Contributo in tema di “Riduzione o mantenimento in schiavitù”, a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

Tenore di vita accertabile con elementi presuntivi Il tenore di vita può essere accertato anche con elementi presuntivi per quantificare l'assegno di mantenimento

Tenore di vita assegno di mantenimento

Per stabilire l’assegno di separazione, la valutazione del tenore di vita durante il matrimonio e delle condizioni economiche dei coniugi dopo la separazione può basarsi su indizi e deduzioni. È fondamentale però che tale valutazione sia fondata su un’analisi specifica e dettagliata delle circostanze reali. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 11611/2025.

Nessun mantenimento per la moglie

Una donna ricorre in appello contro due sentenze che, in virtù della separazione dal marito le assegnavano la casa familiare, le addebitavano la separazione e obbligavano l’ex marito a versare 1.000 euro mensili per il mantenimento del figlio, oltre all’80% delle spese straordinarie. La donna contestava l’addebito della separazione a suo carico e chiedeva il mantenimento in suo favore.

Tenore di vita: moglie impossibilitata a conservarlo

La Corte d’Appello riforma la decisione di primo grado. Essa respinge la richiesta di addebito della separazione alla moglie e riconosce alla donna un assegno di mantenimento di 800 euro mensili (oltre rivalutazione Istat). Il resto della decisione viene confermato. Per la Corte il tenore di vita matrimoniale era sostenuto principalmente dal reddito dell’uomo. Lo stesso aveva infatti revocato i mandati professionali alla moglie (avvocato) e si era appropriato dei risparmi comuni. Nonostante la capacità professionale della donna e la futura divisione dei beni, la Corte riconosce una riduzione delle sue disponibilità economiche e la sua incapacità di mantenere le precedenti condizioni di vita. L’assegno di 800 euro appare pertanto equo. L’uomo a questo punto ricorre in Cassazione.

Assegno mantenimento: rileva il tenore di vita

La Cassazione accoglie il primo motivo del ricorso e dichiara assorbiti tutti gli altri. Nella motivazione ricorda che l’articolo 156, comma 1, del codice civile stabilisce che il coniuge a cui non sia addebitabile la separazione ha diritto a ricevere dall’altro quanto necessario per mantenere il tenore di vita goduto durante il matrimonio, qualora non abbia redditi adeguati.

In sede di separazione (a differenza del divorzio), il parametro per valutare l’adeguatezza dei redditi è il mantenimento del tenore di vita matrimoniale. Questo perché il vincolo coniugale permane e sussiste ancora il dovere di assistenza materiale.

Tenore di vita accertabile con elementi presuntivi

Per quantificare l’assegno, il giudice di merito deve quindi necessariamente accertare il tenore di vita della coppia durante la convivenza. Nel compiere questa valutazione deve considerare i redditi dichiarati fiscalmente, altri elementi economici come il patrimonio (anche mobiliare), uno stile di vita agiato, o redditi non dichiarati. Tale accertamento può basarsi anche su elementi presuntivi, ma deve essere concreto.

Nel caso specifico, la Cassazione critica la Corte d’Appello per aver stabilito la prevalenza del contributo economico dell’uomo nel determinare il tenore di vita coniugale senza descrivere in alcun modo quale fosse tale tenore di vita.

Peggioramento delle condizioni di vita della moglie da specificare

Allo stesso modo, la Corte territoriale ha ritenuto peggiorate le condizioni economiche della donna dopo la separazione senza specificare quali fossero prima e dopo. La Corte di Cassazione contesta quindi alla Corte d’Appello di aver espresso un’opinione sulla maggiore incidenza del reddito dell’uomo nel sostenere il tenore di vita familiare e sul peggioramento della situazione economica della donna senza aver prima chiaramente definito e valutato le reali circostanze economiche in cui versava la famiglia e ciascun coniuge. La mancanza di una precisa determinazione delle effettive condizioni di vita dei coniugi ha portato la Corte d’Appello a decidere sull’obbligo e sull’entità dell’assegno di mantenimento senza avere una comprensione concreta del loro pregresso tenore di vita familiare e delle loro attuali risorse individuali. Alla Corte d’Appello in diversa composizione il compito di decidere su questi punti nel rispetto di quanto affermato in sentenza.

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