Cassa Forense: online il certificato di iscrizione L'ente previdenziale degli avvocati comunica che è disponibile la funzione per il rilascio del certificato attestante l'iscrizione nonchè la certificazione fiscale dei versamenti

Due comunicazioni di Cassa Forense informano gli avvocati che sono disponibili le funzioni web per il rilascio di certificati necessari ai fini previdenziali e fiscali.

Certificato di iscrizione alla Cassa online

Dal 10 settembre, in particolare, comunica l’ente previdenziale degli avvocati è in linea la funzione web per il rilascio, in tempo reale, del certificato attestante l’iscrizione alla Cassa per agli avvocati e praticanti iscritti alla Gestione Previdenziale.

La procedura, appositamente realizzata è disponibile sul sito nella sezione “accesso riservato – posizione personale – istanze on line – iscrizioni – certificato iscrizione cassa avvocato/praticante.

Certificazione fiscale dei versamenti

A partire dal 23 settembre scorso, inoltre, è disponibile online la funzione per ottenere la Certificazione dei versamenti contributivi eseguiti nell’anno solare, valida ai fini fiscali.

pensione anticipata

Pensione anticipata: i 35 anni di contributi effettivi non servono Pensione anticipata: la Cassazione cambia orientamento e afferma che i 35 anni di contributi effettivi non servono

Pensione anticipata e contributi effettivi

Per la pensione anticipata non servono più i 35 anni di contributi effettivi versati. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione in due sentenze che vanno a sovvertire il precedente orientamento giurisprudenziale. Si tratta delle decisioni n. 24916/2024 e 24952/2024, entrambe del 17 settembre 2024, che hanno posto fine a due controversie tra due lavoratrici e l’INPS.

Pensione anticipata: valore dei contributi figurativi

In entrambi i casi le lavoratrici hanno convenuto in giudizio l’INPS per chiedere di far valere, ai fini della pensione anticipata (legge Fornero- Monti n. 214/2011), anche i contributi figurativi per malattia o disoccupazione. Le autorità giudiziarie adite però hanno respinto le domande delle lavoratrici. La pensione anticipata infatti, per disposizione di legge, non permetterebbe di accreditare i contributi figurativi per disoccupazione o malattia. Le due lavoratrici hanno quindi appellato le decisioni delle Corti perché il comma 10 dell’art. 24 del decreto legge n. 201/2011, convertito nella legge n. 214/2011, consente di conteggiare i contributi figurativi.

Cassazione: i 35 anni di contributi effettivi non servono

La Corte di Cassazione, in entrambe le cause, ricorda che il sistema pensionistico è stato modificato dalla riforma contenuta nella legge n. 214/2011. Le modifiche di questa legge hanno coinvolto anche la pensione anticipata, eliminando il requisito dei 35 anni di contribuzione effettiva.

Il comma 10 dell’art. 24 al comma 1 recita infatti testualmente: “A decorrere dal 1° gennaio 2019 e con riferimento ai soggetti la cui pensione è liquidata a carico dell’AGO e delle forme sostitutive ed esclusive della medesima, nonché della gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, l’accesso alla pensione anticipata è consentito se risulta maturata un’anzianità contributiva di 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne.”

La norma è chiara, essa cita l’anzianità contributiva e la sua durata, non specifica che deve essere effettiva.

Diversa è invece la formulazione del comma 11 dell’art. 24, il quale dispone che: “Fermo restando quanto previsto dal comma 10, per i lavoratori con riferimento ai quali il primo accredito contributivo decorre successivamente al 1° gennaio 1996 il diritto alla pensione anticipata, previa risoluzione del rapporto di lavoro, può essere conseguito, altresì, al compimento del requisito anagrafico di sessantatre anni, a condizione che risultino versati e accreditati in favore dell’assicurato almeno venti anni di contribuzione effettiva (…)”

La decisione dell’INPS, di rigettare le domande di pensione anticipata avanzata dalle lavoratrici, non trova quindi alcun fondamento normativo, al contrario, essa conduce alla disapplicazione della  legge.

Contributi effettivi se il primo accredito è successivo al 1° gennaio 1996

Il legislatore quando ha voluto includere tra i requisiti necessari per conseguire la pensione anticipata i soli contributi effettivi lo ha specificato. Poiché però il comma 10 dell’art. 24 del decreto legge n. 201/2011 non lo specifica, la contribuzione figurativa non può ritenersi esclusa.

La contribuzione effettiva è infatti richiesta per il lavoratore, il cui primo accredito contributivo, si verifica dopo il 1° gennaio 1996.

Con queste due sentenze la Cassazione cambia direzione rispetto al precedente orientamento giurisprudenziale. La Cassazione n. 30265/2022 riteneva infatti che la riforma conservasse il requisito dei 35 anni di contributi effettivi necessari per conseguire la pensione anticipata, in totale contrasto con la lettera della legge, come evidenziato dalle due sentenze 2024.

 

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legittimo impedimento

Legittimo impedimento negato se il viaggio è per motivi familiari Legittimo impedimento: il viaggio all’estero dell'avvocato per motivi di famiglia non è un’impossibilità assoluta che legittima il rinvio d’udienza 

Legittimo impedimento avvocato

Il legittimo impedimento non si configura se il motivo  addotto per il rinvio è un viaggio all’estero per motivi familiari. Lo hanno chiarito le SU della Corte di Cassazione nella sentenza n. 24268-2024.

Avvocato non adempie al mandato: sospeso per un anno

Una donna si rivolge a Consiglio dell’Ordine degli Avvocati locale nel quale espone di essersi rivolta a un avvocato per avviare una causa di lavoro. La stessa dichiara di aver consegnato al professionista, a titolo di anticipo, 300,00 euro.

La donna, qualche tempo dopo, contattava l’avvocato per chiedere aggiornamenti sulla pratica e dopo alcune rassicurazioni apprendeva dagli uffici giudiziari che in realtà il procedimento non era stato iscritto a ruolo. La cliente si era quindi recata dall’avvocato per chiedere spiegazioni e lo stesso gli aveva spiegato che era preferibile avviare una conciliazione. La donna fa presente però che l’avvocato, una volta ottenuta l’autorizzazione per avanzare la proposta conciliativa, le riferiva di non ricordarsi della stessa, chiedendo di essere ricontattato. A quel punto l’esponente revocava il mandato, chiedeva la restituzione del racconto e della documentazione trasmessa senza ricevere però riscontro alcuno. Il Consiglio di Disciplina disponeva il rinvio giudizio dell’avvocato per essere venuto meno al dovere di adempiere al mandato e per  non aver provveduto alla restituzione dei documenti alla cliente. Il giudizio disciplinare si concludeva con la sospensione dell’avvocato dall’esercizio della professione per la durata di un anno.

Legittimo impedimento: il CNF nega il rinvio d’udienza

Il legale impugnava la decisione davanti al Consiglio Nazionale Forense, che accogliendo in parte il ricorso, riduceva la sospensione a sei mesi. L’avvocato ricorreva infine davanti alla Corte di Cassazione e con il secondo motivo di doglianza fa presente di aver presentato istanza di rinvio formalizzata in data 9 ottobre 2023 per un impedimento a comparire all’udienza del 18 ottobre 2023. Istanza che però il CNF non ha preso in considerazione.

Legittimo impedimento: impossibilità assoluta non mera difficoltà

La Cassazione dando precedenza a questo motivo procedurale precisa che, secondo costante giurisprudenza delle Sezioni Unite nel giudizio disciplinare che si svolge davanti al Consiglio Nazionale Forense l’incolpato ha il diritto di ottenere il rinvio dell’udienza se sussiste un legittimo impedimento a comparire ai sensi dell’articolo 420 ter c.p.p. L’impedimento però deve essere assoluto e non può essere rappresentato da una difficoltà qualsiasi.

Il viaggio all’estero per motivi familiari non è un’impossibilità assoluta a comparire

Nel caso di specie l’avvocato ha presentato istanza di rinvio dell’udienza del 18 ottobre 2023 perché quel giorno si sarebbe trovato all’estero per motivi familiari. Il CNF però non ha disposto il differimento perché il ricorrente non ha dato prova del suo legittimo impedimento che, come già precisato, deve essere rappresentato da un impedimento assoluto e non da una mera situazione di difficoltà. In assenza di prove relative all’indifferibilità del viaggio all’estero, il solo acquisto dei biglietti non dimostra l’ineluttabilità dell’impegno. L’avvocato  ben sapeva che il viaggio in Albania sarebbe stato incompatibile con la sua presenza in udienza. La condizione di impossibilità a comparire fatta valere dal legale nel ricorso non è quindi corredata da un riscontro idoneo. Ragione per la quale il motivo relativo al legittimo impedimento deve essere respinto.

 

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terzo trasportato

Terzo trasportato: va risarcito se il conducente è ubriaco Il terzo trasportato da un conducente ubriaco va risarcito se vittima di sinistro, il suo concorso di colpa va valutato caso per caso

Terzo trasportato e diritto al risarcimento

Il terzo trasportato da un conducente in stato di ebbrezza se rimane coinvolto in un sinistro stradale non ha sempre colpa a titolo di concorso (art. 1227 c.c). In questi casi non si può escludere il diritto del terzo al risarcimento del danno. Spetta al giudice di merito, per quantificare il danno, accertare caso per caso, l’eventuale concorso di colpa della vittima. Lo ha affermato la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 24920/2024.

Lesioni da sinistro stradale e risarcimento del danno

Un soggetto trasportato a bordo di un autoveicolo, resta vittima di un sinistro stradale e riporta lesioni personali. Per i danni subiti il terzo chiede il risarcimento al vettore e all’assicurazione del veicolo.

Terzo trasportato responsabile al 50%

Il Tribunale la Corte d’appello ritengono che il trasportato sia responsabile al 50%, ai sensi dell’art. 1227 c.c. Lo stesso ha infatti accettato di farsi trasportare da un conducente in evidente stato di ebrezza.

Parte soccombente ricorre in Cassazione lamentando la mancata dimostrazione dello stato di ebrezza del conducente, così come la mancata dimostrazione della percepibilità di detta condizione.

La colpa del terzo trasportato va valutata nel singolo caso

La Cassazione richiama dapprima alcuni importanti principi in materia di RCA sanciti dalla Direttiva 2009/103 e poi una sentenza della Corte di Giustizia UE. Conclusa l’analisi di questi testi gli Ermellini affermano due importanti principi di diritto ai fini del decidere.

  • Il primo afferma che: l‘art. 1227, comma primo, c.c., interpretato in senso coerente con la Direttiva 2009/103, non consente di ritenere, in via generale ed astratta, che sia sempre e necessariamente in colpa la persona la quale, dopo aver accettato di essere trasportata a bordo d’un veicolo a motore condotto da persona in stato di ebbrezza, rimanga coinvolta in un sinistro stradale ascrivibile a responsabilità del conducente. Una simile interpretazione infatti contrasterebbe con l’art. 13, § 3 della Direttiva 2009/103, nella parte in cui vieta agli Stati membri di considerare “senza effetto”, rispetto all’azione risarcitoria spettante al trasportato, “qualsiasi disposizione di legge (…) che escluda un passeggero dalla copertura assicurativa in base alla circostanza che sapeva o avrebbe dovuto sapere che il conducente del veicolo era sotto gli effetti dell’alcol”. Spetterà dunque al giudice di merito valutare in concreto, secondo tutte le circostanze del caso, se ed in che misura la condotta della vittima possa dirsi concausa del sinistro, fermo restando il divieto di valutazioni che escludano interamente il diritto al risarcimento spettante al trasportato nei confronti dell’assicuratore del vettore”.
  • Il secondo invece sancisce che “l’accertamento della esistenza e del grado della colpa della persona che, accettando di farsi trasportare da un conducente in stato di ebbrezza, patisca danno in conseguenza d’un sinistro stradale, è apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, se rispettoso dei parametri dettati dal primo comma dell’art. 1227 c.c.”.

 

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giurista risponde

Donazione indiretta di immobile e collazione ereditaria Qualora il donante paghi soltanto una parte del prezzo di un immobile, può configurarsi la donazione indiretta del bene oggetto di compravendita?

Quesito con risposta a cura di Matteo Castiglione e Nicola Pastoressa

 

La donazione indiretta dell’immobile non è configurabile quando il donante paghi soltanto una parte del prezzo del bene, giacché la corresponsione del denaro costituisce una diversa modalità per attuare l’identico risultato giuridico-economico dell’attribuzione liberale dell’immobile esclusivamente nell’ipotesi in cui ne sostenga l’intero costo. – Cass., sez. II, 12 giugno 2024, n. 16329.

Con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi dell’istituto della donazione indiretta, che si concretizza quando, come nella vicenda in questione, il denaro corrisposto dal disponente contribuisce alla conclusione della compravendita di un bene immobile.

La questione posta al vaglio della Suprema Corte muove dall’atto con il quale una coerede aveva convenuto in giudizio la sorella, onde ottenere la dichiarazione di apertura della successione della madre, in virtù di testamento pubblico che la nominava erede universale ed istituiva, altresì, un legato in sostituzione di legittima in favore della convenuta. La coerede legataria, con autonoma domanda giudiziale, aveva eccepito la nullità del testamento, lamentando il difetto di forma dell’atto e l’incapacità naturale della de cuius. Qualora, viceversa, il testamento fosse stato ritenuto valido, attesa la rinuncia al legato e l’attribuzione della quota di legittima, in via subordinata aveva chiesto la riduzione della donazione della liberalità disposta dalla defunta madre in favore di parte attrice, avente ad oggetto la metà di un immobile di proprietà della disponente.

Costituendosi in giudizio, la coerede donataria aveva obiettato che, ai fini della formazione della massa ereditaria, avrebbe dovuto tenersi conto anche di altra donazione di diverso immobile già ricevuto dalla sorella.

Il Tribunale, disposto lo scioglimento della comunione su base testamentaria, aveva accertato la composizione della massa ereditaria e, con separata ordinanza, aveva statuito il prosieguo del giudizio per la stima dei cespiti.

Entrambe le coeredi, dunque, avevano impugnato la sentenza non definitiva, eccependone in primo luogo la nullità, per avere il Tribunale deciso in composizione monocratica e non collegiale, in violazione dell’art. 50-bis c.p.c. Una delle appellanti aveva altresì dedotto la nullità del testamento pubblico per falsità dell’atto, dolendosi, anch’ella, dell’incapace di intendere e volere della disponente.

Nel disattendere i suesposti motivi di gravame, la Corte d’Appello aveva osservato che l’erede aveva comunque dato esecuzione alle disposizioni testamentarie, chiedendo che venisse formata la massa ereditaria secondo le volontà testamentarie della madre, asseritamente viziate da nullità.

Nel merito, il Collegio territoriale aveva poi ritenuto provata la donazione indiretta della quota di immobile in favore della coerede, sulla base delle prove raccolte in giudizio, e, ai fini della collazione, aveva ricompreso nella massa ereditaria la ridetta porzione di immobile.

Entrambi le eredi ricorrevano per la cassazione della pronuncia di secondo grado.

L’istante principale censurava la sentenza nella parte in cui aveva ritenuto provata la donazione indiretta della quota dell’immobile da parte della de cuius alla figlia, contestando l’approssimazione con cui era stato determinato l’apporto della defunta nell’acquisto del bene. Per le medesime ragioni, eccepiva la violazione di legge per avere la Corte d’Appello ricompreso nella massa ereditaria la ridetta quota di un quarto dell’immobile donato.

Con ricorso incidentale, infine, l’altra coerede reclamava la nullità della gravata sentenza, poiché la Corte distrettuale si era limitata ad esaminare i motivi di impugnazione e non anche il merito della causa, omettendo di pronunciarsi sulle ulteriori domande proposte dalla ricorrente in sede di ricorso in appello.

Scrutinando il gravame principale, nella sentenza in argomento la Corte di Cassazione basa il proprio iter motivazionale su un consolidato orientamento delle Sezioni Unite, in forza del quale, in ipotesi di acquisto di immobile con denaro proprio del disponente, ed intestazione ad altro soggetto che il donante intenda, in tal modo, beneficiare, con la sua adesione, la compravendita costituisce strumento formale per il trasferimento del bene. Per l’effetto, il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario integra donazione indiretta del bene stesso, e non anche del denaro.

Da tanto discende che, in caso di collazione, il conferimento deve avere ad oggetto l’immobile, e non il denaro impiegato per il suo acquisto (così anche Cass., Sez. Un., 5 agosto 1992, n. 9282).

Ciò premesso, la Corte prosegue illustrando che, in epoca successiva all’intervento delle Sezioni Unite si sono andati formando due orientamenti contrapposti, con riguardo alla configurabilità di una donazione indiretta dell’immobile in caso di corresponsione da parte del donante di una parte del prezzo.

Secondo un primo arresto, la donazione indiretta dell’immobile non si configura quando il donante paga soltanto una parte del prezzo del bene, giacché la corresponsione del denaro costituisce una differente modalità di attuazione dell’identico risultato giuridico-economico dell’attribuzione liberale dell’immobile esclusivamente nell’ipotesi in cui ne sostenga l’intero costo (così anche Cass., sez. II, 31 gennaio 2014, n. 2149).

Un differente orientamento, invece, ha concluso che l’oggetto della donazione indiretta è caratterizzato dal meccanismo della corresponsione da parte del donante delle somme necessarie a soddisfare l’obbligo di pagamento del corrispettivo della vendita effettivamente compiuta da parte del donatario (così anche Cass., sez. II, 17 aprile 2019, n. 10759).

Condividendo la prima delle due impostazioni illustrate, nell’esaminanda pronuncia la Cassazione ripropone la distinzione, ai fini della collazione, tra erogazione dell’intero costo del bene immobile e corresponsione di una parte di esso.

Pertanto, ad avviso della Suprema Corte, è configurabile una donazione indiretta solo nel caso in cui l’intero costo del bene sia stato sostenuto dal donante, con conseguente imputazione, ai fini della collazione, della corrispondente quota del cespite.

Per tali motivazioni, il caso in contestazione non può ricondursi alla fattispecie della donazione indiretta di immobile, atteso che solo una parte del prezzo era stata corrisposta, nella vicenda di specie, dalla de cuius.

La sentenza in commento risulta altresì interessante per quanto statuito, in punto di rito, all’esito dello scrutinio del proposto gravame incidentale.

Invero, ritiene la Cassazione che la Corte distrettuale si sarebbe limitata soltanto ad esaminare i motivi d’appello, e non anche il merito della causa, posto che la dichiarazione di nullità della sentenza di primo grado non comportava la remissione della causa al primo Giudice. Nel caso in discussione, pertanto, sussiste il vizio di omessa pronuncia sulle ulteriori domande proposte dalle parti, tanto in via principale, quanto in via subordinata, con conseguente rinvio al Collegio territoriale in diversa composizione.

*Contributo in tema di “Donazione indiretta di immobile e collazione ereditaria”, a cura di Matteo Castiglione e Nicola Pastoressa, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / Settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

occupazione arbitraria di immobile

Occupazione arbitraria di immobile altrui: il nuovo reato Occupazione arbitraria di immobile destinato al domicilio altrui: punito con il carcere fino a 7 anni il nuovo reato del decreto sicurezza

Occupazione arbitraria di immobile altrui e Ddl Sicurezza

Occupazione arbitraria di immobile destinato al domicilio altrui: in arrivo un nuovo reato. La Camera il 18 settembre 2024 ha approvato con 162 voti a favore, 91 contro e 3 astenuti il DDL Sicurezza A.C. 1660-A. Il testo, ora all’esame del Senato, si compone di 38 articoli e introduce diversi nuovi reati, tra i quali quello di occupazione arbitraria di immobili (o delle relative pertinenze) destinati a domicilio altrui.

Occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui

Il reato, contemplato dal nuovo art. 634 bis c.p, è completato dal nuovo art. 321 bis c.p.p, che prevede una procedura rapida per reintegrare il titolare nel possesso dell’immobile.

Il primo comma del nuovo articolo 634 bis c.p punisce con la pena della reclusione da 2 fino a un massimo di 7 anni:

  • chi occupa l’immobile destinato al domicilio altrui con violenza o minaccia;
  • chi impedisce il rientro nell’immobile al proprietario o a chi lo detiene in modo legittimo;
  • chi si appropria di un immobile altrui con artifizi o raggiri;
  • chi cede ad altri l’immobile occupato.

Il secondo comma della norma prevede la stessa pena per chi, fuori dai casi di concorso:

  • si intromette o coopera nell’occupazione dell’immobile;
  • riceve o corrisponde del denaro o altre utilità per l’

Il comma tre dispone la non punibilità dell’occupante che collabori nell’accertare i fatti e rispetti volontariamente l’ordine di rilascio dell’immobile.

Il quarto comma invece dispone la punibilità del reato previa querela della persona offesa. Qualora il reato venga commesso ai danni di una persona incapace per età o infermità di mente, il reato è perseguibile d’ufficio.

Procedura di rilascio dell’immobile

Il legislatore introduce una procedura rapida per reintegrare il titolare nel possesso dell’immobile attraverso l’introduzione del nuovo articolo 321 bis c.p.p.

Previa richiesta del pubblico ministero, il giudice competente,  con decreto motivato, ordina il rilascio dell’immobile o delle pertinenze. Se l’immobile oggetto di occupazione abusiva è l’unica abitazione del denunciante, la procedura per il rilascio coattivo può essere eseguita dalla Polizia giudiziaria, dopo che il PM l’abbia autorizzata e il giudice convalidata.

Gli ufficiali della P.G che ricevono la denuncia di occupazione abusiva, effettuano quindi i primi accertamenti per verificare l’arbitrarietà dell’occupazione. A questo fine si recano direttamente presso l’immobile e ordinano all’occupante di rilasciarlo immediatamente, reintegrando il titolare denunciante nel possesso.

Qualora l’occupante non rilasci l’immobile spontaneamente, neghi l’accesso, faccia resistenza o si rifiuti di consentire l’accesso, la P.G procede in modo coattivo dopo essere stata autorizzata dal PM.

L’attività svolta viene infatti verbalizzata e il verbale viene trasmesso entro 48 ore al PM. Se il PM non dispone la restituzione dell’immobile chiede al giudice la convalida e l’emissione di un decreto, che disponga la reintegrazione nel possesso del titolare entro 48 ore dal ricevimento del verbale.

La reintegrazione nel possesso perde efficacia se non sono rispettati i suddetti due termini di 48 ore o se il giudice non emette l’ordinanza di convalida entro 10 giorni dalla ricezione della richiesta. Copia dell’ordinanza e del decreto vanno notificati immediatamente all’occupante.

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L’amministratore di condominio si può criticare  L’amministratore di condominio può essere criticato per il suo operato, i condomini hanno diritto di conoscere come gestisce i beni comuni

Amministratore di condominio: criticabile in assemblea

Il condomino può criticare l’amministratore di condominio in assemblea anche con espressioni forti che ne contestano l’operato. Esse non realizzano una condotta ingiuriosa o diffamatoria  se non sono finalizzate a offendere l’onore della persona e a gettare discredito sulla stessa. Lo ha previsto il Tribunale Paola nella sentenza n. 516/2024. 

Amministratore di condominio: danni per diffamazione e calunnia

Un amministratore di condominio agisce in giudizio per ottenere il risarcimento del danno causato dalla condotta diffamatoria o calunniosa posta in essere nei suoi confronti da un condomino. L’attore narra di essere stato amministratore del condomino a cui appartiene il convenuto e di esservi rimasto in carica fino al 16 agosto 2018.

Durante l’assemblea condominiale tenutasi in questa data il condomino convenuto lo avrebbe diffamato e calunniato. A causa di questo episodio l’assemblea non lo ha confermato come amministratore e da quel momento racconta di aver iniziato a soffrire di turbamenti psicologici come professionista e come uomo.

L’attore chiede quindi al giudice di riconoscergli il risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell’articolo 2043 c.c. e il risarcimento del danno patrimoniale per il mancato rinnovo dell’incarico di amministratore.

Frasi rivolte all’operato non alla persona

Il condomino convenuto contesta in giudizio le richieste attoree. Costui fa presente che nel corso di un’assemblea tenutasi nel luglio 2018 era stata deliberata la revoca del mandato di amministratore per il venir meno del vincolo fiduciario. Tale decisione però non è stata recepita.

Il convenuto precisa di aver esercitato il legittimo diritto di critica, di non aver rivolto le espressioni che gli sono state attribuite alla “persona” dell’amministratore, ma alla sua attività gestoria.

Ingiuria discriminata dal diritto di critica

Il Tribunale rigetta le richieste attoree e precisa come la tutela dell’onore di una persona si scontri con il diritto di manifestazione del pensiero, sotto il profilo del diritto di cronaca e di critica.

Nello specifico “La critica rappresenta espressione del pensiero sotto forma di giudizio e di razionalità e si concretizza nella presa di posizione motiva e argomentata su accadimenti, fatti o circostanze dei più vari settori della vita sociale. Il riconoscimento dell’esimente del diritto di critica presuppone la verità del fatto, l’interesse sociale (pertinenza) e la correttezza formale del linguaggio (continenza). Proprio perché la critica esprime una maggior valenza valutativa, si deve tollerare in tale contesto anche un uso del linguaggio vivace, ironico, polemico, aspro e pungente.”

Verità, continenza e interesse a conoscere l’operato del gestore

Nel caso di specie la condotta del convenuto è senza dubbio ingiuriosa. Le espressioni utilizzate tuttavia sono rivolte all’operato dell’amministratore per aver tenuto condotte prevaricatorie nei confronti dei condomini e di terzi. Essa risulta quindi scriminata dal diritto di critica esercitato in un contesto caratterizzato da tensione e animosità. Dalle prove è emerso inoltre che le frasi rivolte dal convenuto all’amministratore e al suo operato sono “vere” e rispettose del requisito della continenza. I condomini inoltre hanno tutto l’interesse e diritto di conoscere l’operato di chi gestisce i beni comuni.

“L’avere dunque additato la persona dell’amministratore come “sgradevole” e l’aver qualificato le sue condotte alla stregua di “minacce” o come “estorsione” rientra nel novero del diritto del diritto critica, perché costituiscono chiara espressione di una valutazione (necessariamente soggettiva) di grave disapprovazione circa i comportamenti denunciati e le modalità di gestione dell’incarico di amministratore condominiale, e non dissimulano in alcun modo un intento di gettare discredito sulla personalità morale del soggetto preso di mira.”

 

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clausola d'oro

Clausola d’oro: i chiarimenti della Cassazione La Suprema Corte fa chiarezza sulla clausola d'oro, che stabilisce la riliquidazione della pensione, operativa fino al 31 diicembre 1997

La clausola d’oro

Con l’ordinanza della sezione lavoro n.23046/2024 la Cassazione fa chiarezza sulla cosiddetta “clausola d’oro” operativa fino al 31 dicembre 1997.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte di appello di Torino, in sede di rinvio disponeva l’applicazione, sulla pensione del dante causa del controricorrente della clausola d’oro di cui all’art. 30 del regolamento ENPI e condannava l’INPS a pagare.

L’istituto ricorreva innanzi al Palazzaccio, denunciando la violazione dell’art. 59, comma 4, della legge n. 449 del 1997 che a decorrere dal 1° gennaio 1998 ha bloccato meccanismi di adeguamento diversi da quello generalizzato di cui all’art. 11 D.Lgs. nr. 503 del 1992, collegato alle variazioni del costo della vita.
Secondo l’Inps, i giudici di merito, nel rideterminare il trattamento pensionistico spettante al dante causa, avrebbero disatteso al disciplina di riferimento e i principi di diritto della Corte, applicando la cd. «clausola oro» anche per il periodo successivo al 1° gennaio 1997 ovvero fino al novembre 2010. Avrebbero dovuto, invece, limitare li meccanismo rivalutativo al 31 dicembre del 1997.

La decisione

Per la Cassazione, il ricorso è fondato.

L’applicazione della «clausola oro», affermano preliminarmente i giudici, “stabilisce la riliquidazione della pensione, in conseguenza di variazioni nelle retribuzioni pensionabili del personale) alla stregua del principio per cui essa opera anche se il nuovo inquadramento (e quindi la diversa retribuzione) è attribuito al lavoratore con provvedimento organizzativo intervenuto dopo li collocamento in quiescenza, purché il nuovo inquadramento corrisponda all’effettivo esercizio delle relative funzioni, durante il servizio”.

A tal proposito, ricorda la S.C., “la legge n. 449 del 1997, art. 59, comma 4, ha stabilito la soppressione, a decorrere dal 1° gennaio 1998, dei meccanismi di adeguamento diversi da quello previsto dal D.Lgs. nr. 503 del 1992, art. 11, anche se collegati all’evoluzione delle retribuzioni del personale in servizio. Ciò impedisce, a partire dalla suddetta data, la riliquidazione automatica, ai sensi delle disposizioni regolamentari, dei trattamenti pensionistici dei dipendenti e, dunque, l’operatività del meccanismo di cui di discute”.
La sentenza impugnata, invece, non si è occupata affatto del periodo in relazione al quale ha operato il sistema di adeguamento della «clausola d’oro», per cui, sentenziano da piazza Cavour, la statuizione che quantifica le differenze anche in relazione ad un periodo successivo al 31.12.1997, si pone in contrasto con la normativa indicata e con la regola iuris affermata dalla S.C.

Il ricorso pertanto è accolto e la sentenza cassata.

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Giovani avvocati: serve un compenso minimo La proposta dell'AIGA che sarà rilanciata dal 26 al 28 settembre a Napoli durante il Congresso nazionale dell'associazione

Aiga: “introdurre compenso minimo per giovani avvocati”

Per i giovani avvocati “introdurre il compenso minimo inderogabile è una necessità. Per permettere alle nuove generazioni di rimanere sul mercato, c’è bisogno di un segnale forte da parte delle istituzioni: non possiamo più attendere”. A dirlo è Carlo Foglieni, presidente Aiga (Associazione Italiana Giovani Avvocati), che organizza a Napoli, dal 26 al 28 settembre prossimi, il Congresso straordinario 2024.

“Sarà l’occasione per incontrarsi e porre alla politica alcune proposte per risollevare le sorti dell’avvocatura – sottolinea Foglieni -. Siamo convinti che serva un maggior welfare e più attenzione verso le donne, con il superamento del gender gap”.

Ma il focus è sempre rivolto ai giovani, “alle prese con numerose difficoltà. Oltre a un vero e giusto equo compenso, che comprenda anche una radicale accelerazione della procedura per il recupero del compenso professionale, sarebbe opportuno incentivare le Startup degli studi legali, mediante l’introduzione di un regime gestionale e fiscale agevolato (sulla falsa riga dei vecchi minimi) e incentivi economici mirati, possibilmente a fondo perduto, anche attraverso il coinvolgimento delle Regioni e della Cassa Previdenziale”.

Le barriere all’attività professionale

Restano in piedi, poi, le “barriere anagrafiche, che non agevolano lo svolgimento dell’attività professionale da parte delle nuove generazioni. Penso all’assurda regola dei due anni di anzianità per essere iscritti nell’Elenco del patrocinio a spese dello Stato, oppure al mancato rispetto del principio di rotazione nell’assegnazione degli incarichi da parte dei magistrati che, giustificandosi dietro la necessità di avere ausiliari di loro fiducia, tendono a scegliere sempre gli stessi professionisti, quasi mai giovani: prevedere un sistema automatizzato di assegnazione degli incarichi, come già avviene per le difese d’ufficio, così da garantire una volta per tutte trasparenza e pari opportunità, potrebbe essere una soluzione”.

Le proposte per i praticanti

Foglieni illustra anche le proposte di Aiga per i praticanti: “Siamo alle prese con un calo di laureati in giurisprudenza che negli ultimi anni è stato superiore al 4 per cento. La professione non è più attrattiva, anche in questo caso servono soluzioni radicali come l’introduzione di un compenso minimo sin dall’inizio del praticantato, una battaglia storica dell’Aiga, promuovendo la pubblicazione di bandi regionali per il riconoscimento di contributi per i tirocini obbligatori. Di fondamentale importanza sarà poi reintrodurre il Patrocinio abilitativo, non solo per permettere al praticante di percepire un compenso extra, ma anche per responsabilizzarlo sin da subito”. “E non dimentico – conclude Foglieni – la necessità di rivedere l’attuale sistema delle Scuole Forensi e l’Esame di Stato”.

unioni civili

Unioni civili: niente assegno alla ex se non c’è disparità economica Unioni civili: niente assegno di mantenimento per la ex se entrambe si trovano in una situazione economica precaria

Unioni civili e assegno di mantenimento

Sulle unioni civili e assegno di mantenimento torna a pronunciarsi la Cassazione. Nell’ordinanza n. 24930/2024 gli Ermellini precisano che per il riconoscimento dell’assegno di mantenimento richiesto nell’ambito di un’unione civile sono necessari gli stessi presupposti dell’assegno di divorzio. Nel caso di specie, dalle prove fornite, emerge però che tali presupposti non sussistono e che entrambe le donne si trovano in condizioni economiche precarie. Non rileva il precedente matrimonio eterosessuale della richiedente, le tre figlie e l’invalidità, visto che l’inabilità al lavoro non è stata dimostrata.

Unione civile: scioglimento

Il Tribunale competente pronuncia lo scioglimento di un’unione civile.  La sentenza pone a carico di una delle parti l’obbligo di corrispondere un contributo mensile alla ex di 100,00 euro, oltre adeguamento ISTAT.

Revocato l’assegno di mantenimento alla ex

La beneficiaria impugna la sentenza chiedendo l’incremento dell’assegno di mantenimento. La Corte d’appello però lo respinge e accoglie, al contrario, l’appello incidentale. La parte obbligata ha richiesto nello specifico la revoca del mantenimento che il Tribunale aveva riconosciuto alla ex compagna.

Per la Corte d’appello non rileva la circostanza che la richiedente prima della relazione, abbia contratto matrimonio eterosessuale da cui ha avuto tre figlie. Per il giudice dell’impugnazione non rileva neppure l’investimento affettivo dell’appellante nella nuova relazione di coppia.

La Corte d’appello rileva che il Tribunale ha tenuto conto della patologia depressiva della richiedente, perché non contestato dalla controparte, anche se non documentata. L’autorità giudiziaria tuttavia rimarca che non è stata dimostrata l’inabilità al lavoro. La richiedente durante l’unione civile ha svolto tra l’altro attività lavorativa che ha poi deciso di lasciare spontaneamente per non perdere la pensione di invalidità.

Per la Corte di merito l’appello incidentale merita quindi accoglimento perché l’obbligata è rimasta senza redditi al momento della decisione del giudice di primo grado. La stessa ha svolto in precedenza attività lavorativa, ma è risultata gravata da debiti contratti proprio durante l’unione civile. La quasi totale assenza di redditi delle due parti non consente quindi di porre a carico di una delle due l’obbligo di sostenere economicamente l’altra.

Ignorati il pregresso matrimonio eterosessuale, le tre figlie e l’invalidità

Parte soccombente ricorre in Cassazione lamentando con il primo motivo, come la Corte d’appello, ai fini del decidere, abbia ignorato il suo pregresso matrimonio, la presenza di tre figlie e la decisione di trasferirsi dall’ex compagna, regolando la relazione con l’unione civile. La ricorrente lamenta inoltre la mancata considerazione della sua condizione di invalidità civile e della conseguente inabilità al lavoro. Con il secondo motivo  contesta invece la decisione della Corte d’appello nel punto in cui ritiene che non vi sia prova che la controparte sia più forte economicamente. L’assegno di mantenimento trova la sua ratio nel dovere di assistenza che la legge pone a carico del soggetto economicamente più forte. Da valutare inoltre la durata dell’unione civile, ma anche la pregressa convivenza. La resistente ha un lavoro ed è proprietaria di un immobile mentre la ricorrente ha solo una pensione di invalidità, non ha beni immobili e neppure un’automobile.

Unioni civili: niente assegno se non c’è disparità reddituale

Per la Cassazione entrambi i motivi del ricorso sono inammissibili. Il primo motivo tende a ottenere una diversa valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito. Come noto però la revisione dell’apprezzamento di merito è inammissibile in sede di Cassazione.

Unioni civili: stessi presupposti regole dell’assegno divorzile

Il secondo motivo è parimenti inammissibile perché alle unioni civili, per quanto riguarda il riconoscimento dell’assegno di mantenimento in favore dell’ex partner, valgono gli stessi parametri e presupposti dell’assegno divorzile art. 5 comma 6 legge n. 898/1970.

La misura ha infatti funzione assistenziale, compensativa e perequativa e richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi del partner richiedente e dell’impossibilità oggettiva di procurarseli in autonomia.

La decisione relativa all’eventuale riconoscimento presuppone una valutazione delle condizioni economiche e patrimoniali di entrambe le parti, del contributo fornito dalla richiedente alla vita familiare, alla formazione del patrimonio comune, nonché del patrimonio personale di ciascuno alla luce della durata del matrimonio e dell’età dell’istante.

Dalla documentazione versata in atti emerge che i presupposti per il riconoscimento dell’assegno di mantenimento non sussistono. Entrambe le donne sono prive di redditi e parte ricorrente non ha prodotto in giudizio elementi tali da poter contrastare le conclusioni a cui è giunta la Corte di merito.

 

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