trattenimento migranti

Trattenimento migranti nei CPR: la Consulta richiama il legislatore La Corte costituzionale ha dichiarato inidonea la disciplina sul trattenimento dei migranti nei CPR, richiamando il legislatore a definire regole più chiare nel rispetto della libertà personale

Trattenimento migranti nei CPR: i dubbi di costituzionalità

Con la sentenza n. 96 del 2025, la Corte costituzionale ha esaminato la legittimità dell’art. 14, comma 2, del D.Lgs. n. 286 del 1998 (TU sull’immigrazione), nella parte in cui disciplina le modalità di trattenimento migranti nei centri di permanenza per i rimpatri (CPR).

Le questioni erano state sollevate dal Giudice di pace di Roma, chiamato a convalidare i provvedimenti di trattenimento di cittadini stranieri. Il giudice rimettente aveva denunciato la mancanza di una disciplina di rango primario che definisse le modalità e le garanzie di esercizio della restrizione della libertà personale, in violazione dell’articolo 13 Cost.

La libertà personale e la riserva assoluta di legge

La Corte ha ribadito che il trattenimento nei CPR costituisce un assoggettamento fisico che incide direttamente sulla libertà personale. In questo quadro, la disciplina vigente è stata ritenuta inidonea a individuare con chiarezza i “modi” della restrizione, cioè le regole che tutelano i diritti fondamentali durante il periodo di trattenimento.

Secondo la Consulta, il rinvio a norme regolamentari e a provvedimenti amministrativi discrezionali contrasta con la riserva assoluta di legge prevista dall’articolo 13, secondo comma, Cost.

Il ruolo del legislatore e l’inammissibilità delle questioni

Pur riconoscendo il vulnus costituzionale, la Consulta ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità sollevate con riferimento agli articoli 13 e 117 della Cost. Il motivo è che non spetta al giudice costituzionale colmare il vuoto normativo riscontrato: è il legislatore a dover predisporre una disciplina compiuta e conforme ai principi costituzionali e internazionali.

La Corte ha evidenziato che resta un dovere inderogabile del Parlamento intervenire per definire standard minimi di tutela e garantire i diritti e la dignità delle persone trattenute.

Le altre questioni di costituzionalità dichiarate inammissibili

Le ulteriori censure fondate sugli articoli 2, 3, 10, 24, 25, 32 e 111 della Costituzione sono state dichiarate inammissibili per incompletezza della ricostruzione del quadro normativo. La Corte ha ricordato che l’ordinamento già consente il ricorso ai rimedi civili, come l’azione risarcitoria ex art. 2043 c.c. e la tutela cautelare d’urgenza prevista dall’art. 700 c.p.c., strumenti idonei a garantire la protezione dei diritti fondamentali in caso di violazioni durante il trattenimento.

La conclusione della Corte costituzionale

In conclusione, la Corte ha chiarito che la disciplina attuale non soddisfa i requisiti costituzionali di determinatezza e legalità delle restrizioni alla libertà personale. L’onere di colmare questa carenza spetta al legislatore, cui è demandato il compito di assicurare una regolamentazione adeguata nel rispetto dei diritti fondamentali.

Iva all'importazione

IVA all’importazione non è un dazio: sanzioni da riformare La Corte costituzionale, ha chiarito che l’IVA all’importazione non è assimilabile ai dazi e che il cumulo di confisca, imposta e sanzioni pecuniarie viola il principio di proporzionalità

IVA all’importazione e dazi doganali

La Corte costituzionale, con sentenza n. 93/2025, ha precisato che, pur se il legislatore la qualifica come diritto di confine, l’IVA all’importazione non può essere assimilata ai dazi doganali. A differenza di questi ultimi, infatti, l’IVA è un’imposta neutra rispetto alle attività economiche, in quanto il soggetto passivo ha diritto alla detrazione dell’imposta dovuta o assolta sugli acquisti.

Al contrario, i dazi hanno finalità protettive e contributive per l’Unione europea e sono destinati ad aumentare il prezzo di determinate merci importate.

Cumulo sanzionatorio eccessivo e violazione principio proporzionalità

La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, che avevano messo in discussione l’articolo 70 del DPR n. 633/1972, in combinato disposto con gli articoli 282 e 301 del DPR n. 43/1973.

Tali norme prevedevano un sistema sanzionatorio caratterizzato dal cumulo tra:

  • confisca dell’oggetto importato,

  • pagamento dell’imposta evasa,

  • sanzione pecuniaria da due a dieci volte l’imposta.

Questo regime non trova eguali né per l’IVA interna né per i dazi doganali, per i quali il Codice doganale dell’Unione europea (art. 124 CDU) stabilisce l’estinzione dell’obbligazione doganale in caso di confisca.

Il principio di proporzionalità applicato alle sanzioni tributarie

La Corte costituzionale ha ribadito che il principio di proporzionalità si applica pienamente anche alle sanzioni tributarie, come già affermato nella sentenza n. 46/2023 e riconosciuto dalla Corte di giustizia dell’Unione europea in riferimento ai tributi armonizzati.

Già la legge delega n. 23/2014 aveva previsto la necessità di un sistema sanzionatorio equo e commisurato alla gravità dell’illecito, mentre il decreto legislativo n. 87/2024 ha ulteriormente ridisegnato il sistema delle sanzioni fiscali ispirandosi a criteri di proporzionalità.

La legittimità condizionata della confisca

Pur riconoscendo l’esigenza di evitare un cumulo eccessivo, la Corte ha escluso la possibilità di eliminare del tutto la confisca, evidenziando che, in caso di evasione IVA su beni non frazionabili, il sequestro conservativo non sarebbe sempre praticabile.

Per questo motivo, la pronuncia ha operato una reductio ad legitimitatem: le cose oggetto della violazione non sono confiscate se l’obbligato provvede a pagare integralmente l’IVA evasa, gli interessi e le sanzioni pecuniarie. In tal modo, si garantisce un bilanciamento tra l’effettiva tutela dell’erario e il rispetto del principio di proporzionalità delle sanzioni.

restituzione documenti

Restituzione documenti al cliente: illecito disciplinare anche senza danno Il CNF ha stabilito che la tardiva restituzione degli atti al cliente costituisce illecito disciplinare a prescindere dal danno subito, confermando l’autonomia della responsabilità deontologica

Mancata o tardiva restituzione dei documenti

Restituzione documenti al cliente: il Consiglio Nazionale Forense, con sentenza n. 451/2024 pubblicata il 26 giugno 2025 sul sito del Codice deontologico, ha ribadito un principio chiaro in tema di responsabilità disciplinare dell’avvocato: l’illecito previsto dall’art. 33 Cdf si configura anche quando la riconsegna dei documenti al cliente avviene con colpevole ritardo, indipendentemente dal fatto che ciò abbia prodotto un danno concreto.

La sentenza si inserisce nella giurisprudenza che valorizza la corretta gestione del rapporto fiduciario con l’assistito, ritenuto essenziale per garantire la dignità e il decoro della professione forense.

La norma violata: art. 33 cdf

L’art. 33 del Codice Deontologico impone all’avvocato di restituire al cliente, alla cessazione del mandato, tutta la documentazione ricevuta e quella formata nell’interesse dell’assistito. L’obbligo è di carattere immediato e non può essere subordinato ad altre pretese del professionista, come la liquidazione delle proprie competenze.

Nel caso esaminato dal CNF, l’avvocato aveva riconsegnato la documentazione solo dopo reiterati solleciti e con un ritardo significativo.

L’irrilevanza del danno subito dal cliente

Un aspetto centrale della decisione è l’affermazione che l’illecito disciplinare prescinde dall’accertamento di un pregiudizio effettivo.

Infatti, la circostanza che il cliente non abbia subito alcuna decadenza o preclusione non esclude la violazione del dovere deontologico. La Corte ha osservato che il rapporto fiduciario si fonda anche sulla disponibilità degli atti e sulla correttezza del comportamento professionale, elementi che assumono valore autonomo rispetto all’eventuale danno patrimoniale.

Il principio di diritto affermato

La sentenza ha chiarito in modo inequivoco che: “L’illecito disciplinare di cui all’art. 33 cdf sussiste anche qualora la documentazione sia stata restituita con colpevole ritardo, senza che ciò abbia determinato danni concreti al cliente.”

Questo principio ribadisce l’autonomia della responsabilità deontologica rispetto alla responsabilità civile o agli effetti sul processo.

Le conseguenze disciplinari e il dovere di correttezza

Il CNF ha sottolineato che l’adempimento tempestivo dell’obbligo di restituzione è espressione del dovere di diligenza, correttezza e lealtà, che costituiscono i pilastri dell’attività professionale.

Il mancato rispetto di questi principi è suscettibile di sanzione disciplinare anche in assenza di conseguenze dannose per il cliente, poiché incide sulla fiducia che deve caratterizzare il rapporto tra difensore e assistito.

pegno

Pegno: cos’è, come funziona e differenze con l’ipoteca Pegno: cos’è, come si costituisce, tipologie, effetti giuridici, differenze con l’ipoteca e giurisprudenza recente della Cassazione

Che cos’è il pegno

Il pegno è un diritto reale di garanzia che si costituisce su un bene mobile, su un’ universalità di beni mobili, su diritti aventi ad oggetto beni mobili e su crediti, a garanzia dell’adempimento di un’obbligazione. La funzione principale di questo diritto di garanzia è di attribuire al creditore la possibilità di soddisfarsi sul bene che ne costituisce l’oggetto in caso di inadempimento del debitore, con prelazione rispetto agli altri creditori.

Normativa di riferimento

La disciplina di questo diritto di garanzia si trova principalmente nel Codice Civile, agli articoli 2784-2807 c.c. Tali norme ne definiscono la modalità di costituzione, i diritti e gli obblighi delle parti, l’estinzione della garanzia e gli effetti nei confronti di terzi.

Come si costituisce il pegno

Il pegno si perfeziona mediante:

  • un contratto scritto, che individua il credito garantito e il bene oggetto di garanzia;
  • la consegna materiale della cosa al creditore o a un terzo designato (cosiddetto depositario), oppure notifica al debitore ceduto in caso di pegno su crediti.

La mancanza di consegna impedisce la costituzione del diritto.

Caratteristiche principali

I principali tratti distintivi di questo istituto sono:

  • è una garanzia reale, cioè grava direttamente sul bene;
  • ha carattere accessorio rispetto al credito garantito (se viene meno il credito, si estingue anche il pegno);
  • conferisce al creditore la priorità di soddisfazione sul bene in caso di esecuzione;
  • il creditore ha il diritto di ritenzione, in quanto può trattenere il bene fino al pagamento.

Tipologie di pegno

Questo diritto di garanzia può riguardare:

  • beni mobili materiali (es. gioielli, merci, titoli al portatore);
  • diritti che hanno ad oggetto beni mobili;
  • crediti (es. somme di denaro che un terzo deve al debitore);
  • universalità di mobili, come un insieme di cose determinate (ad esempio le scorte di magazzino).

Effetti del pegno

Gli effetti principali di questa garanzia per il creditore sono i seguenti:

  • ha il diritto di espropriare il bene oggetto di pegno in caso di inadempimento, seguendo le procedure di vendita previste dalla legge;
  • può percepire eventuali frutti, imputandoli in conto interessi o capitale;
  • ha diritto di essere soddisfatto prima di eventuali altri creditori.

Estinzione del pegno

Questo diritto di garanzia si estingue nei casi previsti dalla legge, tra i quali figurano i seguenti:

  • pagamento del debito garantito;
  • rinuncia del creditore;
  • restituzione volontaria del bene;
  • perimento del bene oggetto di garanzia.

In caso di estinzione, il creditore deve restituire immediatamente il bene al debitore.

Differenze con l’ipoteca

Il pegno si distingue dall’ipoteca per diversi aspetti:

Pegno Ipoteca
Grava su beni mobili o crediti Grava su beni immobili o mobili registrati
Richiede consegna del bene Non richiede consegna
Si costituisce con contratto e traditio Si costituisce con iscrizione nei registri
Immediata apprensione del bene Il bene resta nel possesso del debitore

Giurisprudenza sul pegno

Di seguito massime recenti della Cassazione sul pegno:

Cassazione n. 9811/2025

Quando il pegno è costituito su beni fungibili come il denaro, si configura come pegno irregolare solo se alla banca è stata espressamente data la facoltà di disporre della somma.Se, invece, questa facoltà non è stata conferita alla banca (come accertato dalla corte d’appello nel caso specifico), si ricade nella disciplina del pegno regolare. In questo scenario, la banca garantita non acquisisce la proprietà della somma e, di conseguenza, non ha l’obbligo di restituire al debitore la stessa quantità di denaro (il tantundem).

Cassazione n. 27501/2023

Il pegno rotativo è una forma di pegno che si sviluppa progressivamente, permettendo la sostituzione dei beni dati in garanzia. Tuttavia, questa natura “progressiva” non elimina la necessità di rispettare le formalità richieste per la sostituzione dei titoli. È fondamentale che ogni sostituzione sia accompagnata dalla specifica indicazione dei beni sostituiti e da un riferimento all’accordo originario (come richiamato dalla Cassazione n. 25796 del 2015). L’unica eccezione a questa regola si verifica quando è la stessa clausola di rotatività a predeterminare in modo esplicito le modalità con cui dovranno avvenire le sostituzioni, rendendo superflua la necessità di ulteriori specificazioni ad ogni singola operazione.

 

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fine vita

Fine vita: analisi del testo base Fine vita: redatto il testo base, che contiene le disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita

Testo base sul fine vita

Sul fine vita, al Senato, è stato redatto il testo base, che riunisce diversi disegni di legge. Il testo unificato, composto da 4 articoli, contiene le disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita. Analizziamo uno a uno gli articoli del testo, che hanno suscitato critiche e polemiche.

Diritto alla vita: inviolabile e indisponibile

Il comma 1 del primo articolo contiene una disposizione di principio che sancisce il diritto alla vita in quanto presupposto fondamentale di tutti i diritti della persona. Segue poi la disposizione che attribuisce alla Repubblica il compito di tutelare la vita di ogni individuo indiscriminatamente. Non rilevano, infatti, l’età, il sesso, la condizione di salute, personale o sociale. Il comma 2 sanziona, infine, con la nullità tutti gli atti di natura civile o amministrativa che dovessero contrastare con questi principi.

Fine vita: novità per il reato di istigazione o aiuto al suicidio

L’articolo 2 interviene sul secondo comma dell’articolo 580 c.p., che al comma 1 punisce con la reclusione fino a 12 anni la condotta di chi determina altri al suicidio, ne rafforza il proposito o ne agevola l’esecuzione in qualsiasi modo, se il suicidio avviene.

Il nuovo comma 2 della norma, in base al testo base, prevede la non punibilità del soggetto agente, in presenza di circostanze specifiche:

  • il proposito del fine vita deve essersi formato in modo libero, autonomo e consapevole;
  • il soggetto che intende porre fine alla propria vita deve essere maggiorenne e pienamente capace di intendere e di volere;
  • lo stesso deve essere stato inserito in un percorso di cure palliative e tenuto in vita da trattamenti sostitutivi di funzioni vitali;
  • il soggetto deve essere affetto da una malattia irreversibile che gli causa sofferenze fisiche e psicologiche intollerabili;
  • le sue condizioni devono essere state accertate da un apposito Comitato.

Cure palliative: piani di potenziamento

L’articolo 3 si occupa delle cure palliative, modificando il comma 4-bis dell’articolo 5 della legge n. 38/2010. Questa la formulazione potenziale della norma (modifiche in grassetto): “Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano presentano, entro il 30 gennaio di ciascun anno, un piano di potenziamento delle cure palliative al fine di raggiungere, entro l’anno 2028, il 90 per cento della popolazione interessata e di garantire l’integrale utilizzo, per le finalità di cui alla presente legge, delle somme di cui all’articolo 12, comma 2. Il monitoraggio dell’attuazione del piano è affidato all’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (AGENAS) che lo realizza a cadenza semestrale. La presentazione del piano e la relativa attuazione costituiscono adempimento regionale ai fini dell’accesso al finanziamento integrativo del Servizio sanitario nazionale a carico dello Stato. Eventuali residui delle somme di cui all’articolo 12, comma 2, non utilizzati per le finalità di cui alla presente legge, sono in ogni caso restituiti allo Stato e non possono essere utilizzati per finalità diverse da quelle previste dalla presente legge”.

AGENAS: analisi dei piani

Dopo questo comma è previsto l’inserimento di altri tre commi.

Il comma 4-ter prevede che l’AGENAS istituisca un osservatorio per analizzare i piani regionali di potenziamento delle cure palliative (domiciliari e pediatriche). Ogni anno, inoltre, l’AGENAS dovrà inviare una relazione a diverse autorità (Presidente del Consiglio, Ministro della Salute, Presidenti di Senato e Camera) indicando le regioni che non hanno presentato tali piani o non hanno raggiunto gli obiettivi prefissati l’anno precedente.

Il comma 4-quater, invece, dispone che in caso di mancata presentazione del piano da parte di una regione entro 30 giorni dalla relazione AGENAS, il Governo nomini un commissario ad acta fino al raggiungimento dello standard. Se poi la regione non dovesse raggiungere gli obiettivi di potenziamento delle cure palliative dell’anno precedente, il Ministro della Salute è tenuto a concedere un termine di massimo sei mesi; se l’inadempimento dovesse persistere, è prevista la nomina governativa di un Commissario.

Il comma 4-quinques chiarisce, infine, che alle novità contenute nei due commi precedenti si debba provvedere senza nuovi o maggiori oneri.

Comitato nazionale di valutazione fine vita

L’articolo 4 del testo base interviene sulla legge n. 833/1978, che ha istituito il Servizio sanitario nazionale, aggiungendo l’art. 9-bis, che disciplina il Comitato nazionale di valutazione, un organo cruciale che fornisce un parere obbligatorio sulla presenza dei requisiti per l’esclusione della punibilità in casi specifici (riferiti all’articolo 580, terzo comma, del codice penale).

Composizione del comitato

La composizione del Comitato prevede la presenza di sette membri esperti: un giurista, un bioeticista, un medico anestesista-rianimatore specializzato in terapia del dolore, un medico specialista in cure palliative, uno psichiatra, uno psicologo e un infermiere. Questi professionisti sono nominati con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, che designa anche presidente, vicepresidente e segretario. La durata in carica dei membri è di cinque anni, con la possibilità di due rinnovi. L’incarico è gratuito.

Fine vita: verifica requisiti di non punibilità

Qualora un cittadino maggiorenne e capace di intendere e di volere presenti una richiesta di verifica dei requisiti di non punibilità, il Comitato deve acquisire il parere non vincolante di uno specialista della patologia del richiedente. Se la richiesta include l’uso di farmaci “off label”, è necessario anche il parere non vincolante del Centro di coordinamento nazionale. Il Comitato ha sessanta giorni di tempo dalla richiesta per esprimersi, potendo disporre possibili proroghe in caso di necessità o di acquisizione dei pareri. Le norme generali sul procedimento amministrativo non si applicano in questo contesto e per svolgere le sue funzioni, il Comitato si avvale delle strutture del Ministero della Salute, senza oneri aggiuntivi. La richiesta presentata al Comitato potrà essere ritirata in qualsiasi momento dall’interessato. Se il Comitato dovesse accertare l’assenza dei requisiti, una nuova richiesta potrebbe essere presentata solo se si dimostra la successiva sussistenza degli stessi, e comunque non prima di centottanta giorni. Il parere rilasciato dal Comitato sarà valutato dall’autorità giudiziaria ai fini dell’applicazione della non punibilità.

Pur riconoscendo le competenze del Comitato, il personale, le strumentazioni e i farmaci del Servizio Sanitario Nazionale non potranno essere impiegati per facilitare l’esecuzione di quanto previsto dall’articolo 580 del codice penale.

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spaccio di lieve entità

Spaccio di lieve entità: sì alla messa alla prova La Corte costituzionale dichiara illegittima l’esclusione del reato di spaccio di lieve entità dalla sospensione con messa alla prova

Spaccio di lieve entità e messa alla prova

Spaccio di lieve entità e messa alla prova: la Corte costituzionale, con sentenza n. 90 del 2025, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 168-bis del codice penale nella parte in cui non consente la sospensione del procedimento con messa alla prova per il reato di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti di lieve entità, previsto dall’articolo 73, comma 5, del Testo unico stupefacenti (D.P.R. n. 309/1990).

Le questioni di legittimità sollevate

Le questioni di costituzionalità erano state sollevate dai Tribunali di Padova e Bolzano, i quali hanno censurato, in combinato disposto, l’articolo 168-bis, primo comma, c.p., l’articolo 550, secondo comma, c.p.p. e l’articolo 73, comma 5, del Testo unico stupefacenti, come modificato dal decreto-legge n. 123 del 2023.

Quest’ultimo intervento normativo aveva innalzato la pena detentiva massima per il piccolo spaccio, portandola da quattro a cinque anni di reclusione. Di conseguenza, il reato risultava escluso dall’ambito applicativo della messa alla prova, che prevede un limite massimo edittale inferiore.

Il confronto con l’istigazione all’uso di stupefacenti

Secondo i giudici rimettenti, tale preclusione si traduceva in una violazione del principio di ragionevolezza e del finalismo rieducativo della pena, non consentendo all’imputato di accedere a un programma personalizzato di riparazione e reinserimento sociale.

Inoltre, era evidenziata una disparità di trattamento rispetto al reato di istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti, sanzionato con pene più elevate ma comunque compatibile, in astratto, con la sospensione del procedimento e la messa alla prova.

La decisione della Corte costituzionale

La Corte costituzionale ha accolto la questione di legittimità, richiamando l’articolo 3 della Costituzione. È stato ritenuto irragionevole che il reato di lieve entità, meno grave rispetto all’istigazione, fosse escluso dall’istituto che coniuga finalità deflattive e rieducative.

Secondo la Consulta, la preclusione automatica dell’accesso alla messa alla prova determinava un’inversione della scala di gravità dei reati in materia di stupefacenti e ostacolava la possibilità per l’imputato di intraprendere percorsi risocializzanti.

giurista risponde

Turbativa ed estorsione Colui che allontani l’offerente da una gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private ricorrendo alla violenza o alla minaccia integra solo il reato di turbata libertà agli incanti ex art. 353 c.p. o una pluralità di fattispecie di reato?

Quesito con risposta a cura di Sara Frattura, Raffaella Lofrano e Maria Lavinia Violo

 

La condotta di chi, con violenza o minaccia, allontani l’offerente da una gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private, oltre ad integrare il reato di cui all’art. 353 c.p., può integrare altresì quello di cui all’art. 629 c.p. ove abbia causato un danno patrimoniale derivante dalla perdita di una seria e consistente possibilità di ottenere un risultato utile per effetto della partecipazione alla predetta gara. Nella nozione di danno patrimoniale rilevante ai fini della configurabilità del delitto di estorsione rientra anche la perdita della seria e consistente possibilità di conseguire un bene o un risultato economicamente valutabile, la cui sussistenza deve essere provata sulla base della nozione di causalità propria del diritto penale (Cass., Sez. Un., 22 luglio 2024, n. 30016 – Turbativa ed estorsione).

Il reato di turbata libertà degli incanti, previsto dall’art. 353 c.p., punisce colui che con una condotta vincolata, ovvero con violenza o minaccia, impedisce o turba la gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private oppure ne allontana gli offerenti.

La questione sottoposta all’attenzione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione riguarda la possibilità che il medesimo fatto possa configurare un concorso formale con il reato di estorsione nel caso in cui oltre all’allontanamento dalla gara, o ad altra turbativa, venga prodotto un altro evento dannoso che non è previsto dall’art. 353 c.p.: l’ingiusto profitto o l’altrui danno.

Il reato di turbata libertà degli incanti è infatti un reato comune di condotta a dolo generico poiché prescinde dal realizzarsi dell’ingiusto profitto o dall’altrui danno.

Anche il bene giuridico protetto dalla fattispecie cambia in questo caso: nel reato previsto dall’art. 353 c.p. si tutela la libertà di scelta del contraente; nel reato di estorsione il bene tutelato è il patrimonio del soggetto passivo.

Le due fattispecie di reato si pongono in rapporto di specialità reciproca perché sono caratterizzate da elementi costitutivi differenziati, ed è per questo che si è posta dinnanzi alle Sezioni Unite la questione relativa alla possibilità di riconoscere il concorso formale con il reato di estorsione quando viene anche cagionato un danno o conseguito un ingiusto profitto.

In particolare, la questione riguarda la possibilità di ravvisare il concorso formale con il reato di estorsione quando il danno corrisponda a una perdita di chance. Le Sezioni Unite risolvono positivamente la questione, affermando che rientra nella nozione di danno di cui all’art. 629 c.p. anche la perdita della seria e consistente possibilità di conseguire un risultato utile di cui sia provata la sussistenza sulla base di una nozione di causalità propria del diritto penale.

La causalità nel diritto penale è determinata sulla base del criterio di “oltre ogni ragionevole dubbio”, mentre la perdita di chance è una nozione civilistica, in cui la causalità è determinata in base alla regola del “più probabile che non”, quindi potrebbe risultare arduo applicare il criterio penalistico per accertare tale elemento costitutivo.

Un primo e più risalente orientamento riteneva sussistente solo un concorso apparente di norme tra i due reati poiché la fattispecie di turbata libertà agli incanti assorbirebbe in sé l’intero disvalore del fatto criminoso in base al presupposto per cui il danno dell’estorsione coinciderebbe con la lesione della libertà di partecipare o meno ad una gara e influenzarne l’esito, danno già punito alla luce dell’art. 353 c.p.

Un secondo orientamento riteneva invece configurabile il concorso formale tra le due fattispecie criminose evidenziando i differenti elementi costitutivi di entrambe: nell’estorsione l’elemento fondamentale è la coartazione della volontà altrui al fine specifico di conseguire un ingiusto profitto con altrui danno; il reato di turbata libertà degli incanti invece è integrato nel caso di cosciente e volontario impedimento o turbativa di una gara o dall’allontanamento degli offerenti, senza che sia necessario il verificarsi di un ulteriore danno o il conseguimento di un profitto ingiusto.

A questo secondo orientamento aderiscono le Sezioni Unite affermando che nel reato di estorsione l’elemento centrale è costituito dal danno, che deve essere verificato secondo i canoni previsti dal diritto penale, ovvero la regola che impone un accertamento “oltre ogni ragionevole dubbio”, e che il danno può essere costituito da qualsiasi parte del patrimonio della vittima, compresi i beni immobili e le aspettative di diritto perché il patrimonio non è costituito solo da beni materiali, ma da rapporti giuridici attivi e passivi aventi contenuto economico unificati dalla legge in considerazione dell’appartenenza al medesimo soggetto, così da ricomprendere nel concetto di danno di cui all’art. 629 c.p. qualunque situazione idonea ad incidere negativamente sull’assetto economico dell’individuo, compresa la delusione delle aspettative e le chance future di arricchimento o di consolidamento dei propri interessi.

Alla luce di queste premesse, le Sezioni Unite concludono affermando che la perdita dell’aspettativa di conseguire un vantaggio economico, ovvero la chance, può essere ricondotta nell’ambito di operatività del danno patrimoniale quale elemento costitutivo del reato di estorsione ex art. 629 c.p.

Infine, si precisa che il rapporto di causalità tra la condotta e l’evento dannoso corrispondente alla perdita della possibilità di conseguire il risultato favorevole deve essere provato mediante l’utilizzo degli strumenti di cui il giudice penale dispone per effettuare le valutazioni probatorie e si considera sussistente quando, considerate tutte le circostanze del caso concreto, possano escludersi processi causali alternativi e si possa affermare in termini di certezza processuale, ovvero di alta credibilità razionale o probabilità logica, che sia stata proprio quella condotta a determinare l’evento dannoso.

 

(*Contributo in tema di “Turbativa ed estorsione”, a cura di Sara Frattura, Raffaella Lofrano e Maria Lavinia Violo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

scioglimento del consiglio comunale

Scioglimento del consiglio comunale per mancato bilancio La Corte costituzionale ha confermato la legittimità dello scioglimento del consiglio comunale che non approva il bilancio in riequilibrio nei termini previsti

Bilancio in riequilibrio e scioglimento del consiglio comunale

Con la sentenza n. 91 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato infondate le questioni di legittimità sollevate dal TAR Campania in merito allo scioglimento del consiglio comunale che non approvi entro i termini di legge l’ipotesi di bilancio in riequilibrio, prevista dall’articolo 262, comma 1, del Testo unico degli enti locali (D.Lgs. n. 267/2000).

Il meccanismo previsto dal Testo unico degli enti locali

La Corte ha rilevato che l’articolo 262 del Tuel stabilisce un procedimento chiaro e oggettivo, privo di margini di discrezionalità arbitraria. La mancata approvazione del bilancio entro il termine stabilito costituisce un presupposto di fatto che comporta, in modo automatico, lo scioglimento degli organi consiliari.

Questa previsione normativa risponde all’esigenza di garantire il rispetto degli impegni finanziari assunti con il mandato elettorale.

La ratio dello scioglimento come extrema ratio

Secondo la Corte costituzionale, lo scioglimento rappresenta una misura estrema ma necessaria per tutelare l’autonomia e l’efficienza amministrativa. Il principio di buon andamento dell’amministrazione, sancito dall’articolo 97 della Costituzione, impone che gli organi elettivi siano in grado di assicurare il risanamento finanziario dell’ente locale.

L’inerzia o l’incapacità di approvare un bilancio in equilibrio interrompe il rapporto fiduciario con la comunità e compromette l’interesse collettivo alla stabilità economica dell’ente.

Il legame tra equilibrio finanziario e rappresentanza democratica

La sentenza evidenzia che la salvaguardia degli equilibri finanziari costituisce un presupposto essenziale del mandato elettivo e della stessa rappresentanza democratica. L’amministrazione che non rispetta in modo reiterato tali obblighi mina la fiducia dei cittadini e giustifica l’intervento sostitutivo dello Stato.

In questo quadro, lo scioglimento si configura come uno strumento coerente con i principi costituzionali e con la tutela dell’interesse pubblico al corretto funzionamento delle istituzioni locali.

telemarketing molesto

Telemarketing molesto: addio dal 19 agosto Telemarketing molesto: dall'Agcom una delibera prevede il blocco delle chiamate illegittime in due tappe: dal 19 agosto e dal 19 novembre 2025

Stop al telemarketing molesto dal 19 agosto 2025

Dal 19 agosto 2025 primo stop al telemarketing molesto. Lo ha stabilito l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni con la delibera n. 106/25/CONS, datata 30 aprile, ma pubblicata il 19 maggio 2025.

Con questa decisione l’Autorità ha approvato un regolamento che si pone l’obiettivo di assicurare la massima trasparenza in relazione alle offerte dei servizi di comunicazione elettronica e al numero chiamante.

Al provvedimento dell’Autorità sono allegati 5 documenti, tra i quali si segnalano i seguenti:

Lotta al Cli spoofing

La lotta al CLI spoofing arriva dopo che il Registro delle opposizioni e il Codice di Condotta per gli operatori non sono riusciti a impedire a soggetti illegittimi di ricorrere a numerazioni simulate italiane, chiamando da reti estere.

La pratica del CLI spoofing, come definito dal rapporto ECC 338 sullo Spoofing del giugno 2022 consiste infatti nella “tecnica che consente alla parte originaria e/o a qualsiasi operatore di rete che gestisce la chiamata o il messaggio di manipolare le informazioni visualizzate nel campo CLI con l’intenzione di ingannare la parte ricevente o gli operatori di rete che intervengono nella gestione della chiamata o del messaggio, facendogli credere che la chiamata o il messaggio provengano da un’altra persona, entità o posizione.”

Due tappe per il contrasto al telemarketing molesto

Per combattere la pratica del CLI spoofing l’Autorità ha deciso di intervenire per step.

  • Dal 19 agosto 2025 gli operatori devranno attivare le tecnologie necessarie per bloccare le chiamate che vengono effettuate con numeri fissi falsi.
  • Dal 19 novembre 2025 gli operatori devono invece attivarsi per disporre il blocco anche delle telefonati da numerazioni mobili simulate.

Per bloccare le chiamate si applicheranno delle tecnologie alla rete telefonica che saranno in grado di arrestare le chiamate sospette prima ancora che raggiungano il destinatario della chiamata, grazie alla capacità di questi strumenti di elaborare immediatamente i dati.

 

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abrogazione abuso d'ufficio

Abrogazione abuso d’ufficio legittima: le motivazioni della Consulta La Corte costituzionale ha depositato le motivazioni della sentenza con cui ha dichiarato legittima l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, escludendo contrasti con la Convenzione di Mérida e i principi costituzionali

Legittima l’abrogazione dell’abuso d’ufficio

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 95 del 2025 depositata il 3 luglio, già anticipata l’8 maggio scorso, ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate contro l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio prevista dalla legge n. 114 del 2024. L’iniziativa giudiziaria era stata promossa da quattordici giudici, tra cui la Corte di cassazione, che avevano censurato la scelta legislativa sotto diversi profili costituzionali e internazionali.

Nessun obbligo internazionale di mantenere il reato

La Corte ha riconosciuto l’ammissibilità delle questioni prospettate in relazione all’articolo 117, primo comma, della Costituzione, il quale impone il rispetto degli obblighi derivanti dalle convenzioni internazionali. In particolare, si è esaminato se la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, nota come Convenzione di Mérida, imponesse l’obbligo di sanzionare penalmente l’abuso d’ufficio.

Dopo un’analisi dettagliata delle disposizioni convenzionali, la Consulta ha escluso che l’Italia fosse vincolata a mantenere nel proprio ordinamento una specifica fattispecie incriminatrice corrispondente all’abuso d’ufficio, evidenziando che la tipologia di condotte considerate non è prevista in modo uniforme in tutti gli Stati firmatari.

La discrezionalità del legislatore in materia penale

La sentenza sottolinea che la Corte costituzionale non può sostituire la propria valutazione di opportunità a quella del legislatore circa l’efficacia complessiva del sistema di prevenzione e contrasto degli illeciti commessi dai pubblici funzionari. Eventuali vuoti di tutela penale conseguenti all’abrogazione costituiscono una scelta politica che ricade nella responsabilità esclusiva del Parlamento.

Le censure basate sugli articoli 3 e 97 della Costituzione

I giudici rimettenti avevano anche prospettato un contrasto con l’articolo 3 della Costituzione, per asserita disparità di trattamento tra condotte meno gravi che continuano a essere punite e comportamenti più gravi ora privi di sanzione.

Inoltre, si lamentava un vuoto di tutela rispetto ai principi di buon andamento e imparzialità amministrativa sanciti dall’articolo 97. Tuttavia, la Corte ha dichiarato queste censure inammissibili, rilevando che il loro eventuale accoglimento avrebbe comportato un effetto “in malam partem”, cioè un ampliamento della punibilità, ipotesi preclusa al giudizio di legittimità costituzionale.

La conclusione della Corte costituzionale

In definitiva, la Consulta ha affermato che la scelta di abrogare il reato di abuso d’ufficio, pur producendo indubbi effetti sul piano della tutela penale, è una decisione politica non sindacabile in sede costituzionale. L’eventuale bilanciamento tra i vuoti di tutela e i benefici che il legislatore si è prefisso di conseguire appartiene al piano della responsabilità politica e non può essere oggetto di censura alla luce dei parametri costituzionali e internazionali esaminati.