riforma disabilità

Riforma disabilità: firma facoltativa sul certificato medico Firma digitale facoltativa: un nuovo messaggio INPS sulla riforma della disabilità semplifica l’invio del certificato medico

Firma digitale facoltativa sul certificato medico

Riforma disabilità: la firma digitale sul certificato medico diventa facoltativa. Una notevole semplificazione della procedura di accertamento e valutazione della condizione del soggetto invalido.

Con il messaggio n. 662 del 21 febbraio 2025 l’INPS, dopo il precedente messaggio n. 4512 del 31 dicembre 2024, semplifica l’invio del certificato medico.

La novità prevede nello specifico la firma digitale facoltativa del medico, non obbligatoria, sul certificato che conclude l’iter di compilazione e d’invio del documento al fine di inserirlo all’interno del Fascicolo Sanitario Elettronico.

Nella schermata della procedura “Riepilogo” il medico può quindi decidere:

  • di firmare il certificato medico apponendo la firma digitale;
  • di inviarlo senza apporre la propria firma, spuntando solo la casella che viene visualizzata una volta concluso l’iter.

Presto disponibile il servizio per l’invio dei dati reddituali

L’INPS informa anche che, a breve, sarà possibile procedere all’invio dei dati reddituali e socio economici necessari a verificare il diritto dei richiedenti di ottenere le prestazioni economiche previste in caso di disabilità.

Sarà necessario essere in possesso delle credenziali SPID, CIE 3.0 CNS o eIDAS per accedere al servizio dedicato presente sul portale INPS  “dati socio-economici prestazioni di disabilità”.

Riforma Disabilità: le novità più importanti

Si ricorda infine che la riforma della disabilità, introdotta dalla legge n. 62/2024, è in fase sperimentale dal 1° gennaio 2025 in nove province.

Il decreto Milleproroghe ha esteso la sperimentazione ad altre undici province, arrivando a venti. Inoltre, ha prorogato la fase di prova da dodici a ventiquattro mesi, posticipando al 2027 l’attuazione nazionale.

L’INPS gestirà laccertamento dellinvalidità civile. Il certificato medico introduttivo sarà l’unico documento necessario e commissioni dedicate valuteranno la disabilità con criteri uniformi e forniranno informazioni sui progetti individuali di vita.

La riforma introduce poi il “Progetto di vita”, che garantisce un coordinamento tra servizi sanitari, sociali ed educativi. Una commissione multidimensionale gestirà gli interventi, superando la frammentazione attuale.

L’obiettivo è offrire un sistema più inclusivo ed efficiente, centrato sulle esigenze della persona con disabilità.

 

 

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giurista risponde

Legittimazione a impugnare e azione popolare (Art. 9 D.lgs. 267/2000) Ciascun elettore può far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al comune e alla provincia?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Sì, ciascun elettore può far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al comune e alla provincia se si presuppone l’esistenza di una situazione giuridica attiva in capo all’ente da tutelare mediante azione giudiziale e l’inerzia dello stesso ente nel far valere detta situazione giuridica in sede processuale (Cons. Stato, sez. V, 12 novembre 2024, n. 9046 – Legittimazione a impugnare, azione popolare, art. 9 d.lgs. 267/2000).

Nella fattispecie concreta il ricorrente ha agito in giudizio ai sensi dell’art. 9, comma 1, D.Lgs. 267/2000, e cioè in via sostitutiva dell’ente comunale e provinciale.

La suddetta disposizione prevede che ciascun elettore può far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al comune e alla provincia. Dunque, si tratta di un particolare meccanismo di sostituzione processuale dell’ente locale a beneficio degli elettori che presuppone l’esistenza di un’azione giudiziale di spettanza dell’ente e la sua inerzia nell’esercitarla.

La natura dello strumento non è correttiva, bensì suppletiva e il suo presupposto necessario va rinvenuto nell’omissione, da parte dell’ente, dell’esercizio delle proprie azioni e ricorsi. Infatti, l’attore non può porsi in contrasto con l’ente stesso al fine di rimuovere gli errori e le illegittimità da questo commessi.

Pertanto, occorre che l’azione e il ricorso siano volti alla tutela di posizioni giuridiche dell’ente locale cui l’elettore si sostituisce, in specie nei confronti di possibili pregiudizi derivanti da azioni od omissioni di terzi, da fatti o atti compiuti da privati o anche da altre pubbliche amministrazioni.

L’iniziativa sostitutiva postula dunque, da un lato, una situazione giuridica attiva in capo all’ente da tutelare mediante azione giudiziale, dall’altro, l’inerzia dello stesso ente nel far valere detta situazione giuridica in sede processuale.

 

(*Contributo in tema di “Legittimazione a impugnare, azione popolare, art. 9 d.lgs. 267/2000”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

l'avvocato paga il domiciliatario

L’avvocato paga il domiciliatario se non provvede il cliente L'avvocato paga il domiciliatario se la parte non lo fa: i chiarimenti della Cassazione sulla deontologia forense

Deontologia Forense: chiarimenti dalla Cassazione

L’avvocato paga il domiciliatario se non provvede il cliente. Se il dominus non rispetta questa norma deontologica, è soggetto a sanzioni. Sono le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione a chiarire alcuni aspetti del Codice deontologico forense con l’ordinanza n. 4850/2025 depositata il 25 febbraio.

Censura per l’avvocato che non paga il domiciliatario

L’ordinanza riguarda una disputa tra due avvocati che lamentavano il mancato pagamento per servizi svolti come domiciliatari per conto di un collega. Il Consiglio Distrettuale di Disciplina (CDD) ha censurato l’avvocato, che ha impugnato la decisione davanti al Consiglio Nazionale Forense (CNF), sostenendo l’estinzione del procedimento disciplinare. Tuttavia, il CNF ha respinto il ricorso e confermato la sanzione. L’avvocato ha quindi presentato ricorso alla Corte di Cassazione, ribadendo la presunta estinzione del procedimento disciplinare. La Cassazione, analizzando il ricorso relativo al mancato pagamento dei colleghi domiciliatari, ha accolto il primo motivo e respinto il secondo.

Il dominus provvede al compenso del domiciliatario

Nella motivazione, la Corte di Cassazione sottolinea che, ai sensi dell’articolo 43 del Nuovo Codice deontologico Forense, se un avvocato incarica un collega di rappresentare e assistere un proprio cliente e quest’ultimo non adempie al pagamento, è l’avvocato stesso a dover provvedere al compenso.

La mancata osservanza di questa norma disciplinare volta a tutelare i rapporti tra colleghi comporta una violazione disciplinare.

 

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assegno di inclusione

Assegno di inclusione: le novità del ministero del Lavoro Il ministero ha reso nota la disponibilità di due nuovi strumenti operativi per accompagnare i beneficiari e gli operatori dell'assegno di inclusione

Assegno di inclusione, i nuovi strumenti operativi

Sono disponibili due nuovi strumenti operativi per accompagnare i beneficiari e gli operatori dell’Assegno di inclusione (ADI), nell’applicazione del percorso dedicato ai nuclei con all’interno componenti con obbligo di attivazione lavorativa e sociale. Lo ha reso noto il ministero del Lavoro sul proprio sito.

Cos’è l’Assegno di inclusione

L’Assegno di Inclusione (ADI), si ricorda, è una misura di sostegno economico e di inclusione sociale e professionale, rivolta ai nuclei familiari in cui sono presenti componenti con disabilità, componenti minorenni o con almeno 60 anni di età. Ovvero in condizione di svantaggio e inseriti in programmi di cura e assistenza dei servizi socio-sanitari territoriali certificati dalla pubblica amministrazione.

La misura è condizionata al possesso di determinati requisiti (di residenza, cittadinanza e soggiorno, alla prova dei mezzi sulla base dell’ISEE, alla situazione reddituale e all’adesione a un percorso personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa).

L’iter di attivazione dell’ADI

Come noto, scrive il dicastero, per accedere alla misura e mantenerla, i beneficiari ADI devono seguire l’iter di attivazione e, se il percorso lo prevede, rispettare gli impegni indicati nel Patto per l’Inclusione Sociale (PaIS) e nel Patto di Servizio Personalizzato (PSP).

A definirne i contorni è l’analisi multidimensionale che individua 4 tipologie di percorsi con relativi obblighi:

  1. obbligo di attivazione lavorativa e sociale;
  2. facoltà di attivazione lavorativa e sociale;
  3. facoltà di attivazione del Supporto per la Formazione e il Lavoro (SFL);
  4. obbligo di attivazione sociale e facoltà di attivazione lavorativa.

L’obbligo di attivazione lavorativa e sociale

L’“Obbligo di attivazione lavorativa e sociale” riguarda i componenti del nucleo di età compresa tra i 18 e i 59 anni che esercitano la responsabilità genitoriale e non hanno cause di esclusione. Il ministero ha reso disponibile un pdf in cui vengono descritte passo passo le azioni da compiere per il relativo percorso. Il tutto è sintetizzato altresì in una locandina, pensata anche per essere stampata e messa a disposizione dei beneficiari.

danno tanatologico

Il danno tanatologico Cos’è il danno tanatologico, come si calcola e quando viene risarcito: la normativa e la giurisprudenza in materia

Cos’è il danno tanatologico

Il danno tanatologico rappresenta il pregiudizio subito dalla vittima di un atto illecito durante l’intervallo di tempo tra l’evento lesivo e il decesso. Questo danno, di natura non patrimoniale, è strettamente legato alla sofferenza e al patimento che l’individuo sperimenta consapevolmente nel periodo antecedente la morte.

Normativa di riferimento

Nel sistema giuridico italiano, il danno tanatologico non trova una definizione esplicita all’interno del Codice Civile. Tuttavia, la sua risarcibilità è stata oggetto di numerose pronunce giurisprudenziali che ne hanno delineato i contorni e le condizioni. In particolare, la Corte di Cassazione ha più volte affrontato la questione, stabilendo criteri e limiti per il riconoscimento di tale danno.

Calcolo e risarcimento del danno tanatologico

La quantificazione del danno tanatologico è strettamente connessa alla durata e all’intensità della sofferenza patita dalla vittima. Pertanto, maggiore è l’intervallo di tempo tra l’evento lesivo e il decesso, più elevato sarà il risarcimento riconosciuto. Inoltre, la consapevolezza della propria condizione e l’angoscia derivante dalla percezione imminente della morte rappresentano elementi fondamentali nella determinazione dell’entità del danno.

Trasmissibilità agli eredi

Un aspetto cruciale riguarda la possibilità per gli eredi di subentrare nella richiesta di risarcimento del danno tanatologico. La giurisprudenza ha chiarito che, affinché il diritto al risarcimento sia trasmissibile, è necessario che la vittima abbia acquisito tale diritto in vita, ossia che vi sia stato un apprezzabile lasso di tempo tra l’evento lesivo e la morte, durante il quale la persona offesa abbia avuto coscienza della propria sofferenza. In caso di decesso immediato o di perdita immediata della coscienza, il diritto al risarcimento non sorge e, di conseguenza, non può essere trasmesso agli eredi.

Giurisprudenza rilevante sul danno tanatologico

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1361 del 23 gennaio 2014, ha affermato che il danno tanatologico è risarcibile e trasmissibile agli eredi solo se la vittima ha conservato la coscienza per un periodo apprezzabile tra l’evento lesivo e la morte.

Inoltre, la sentenza a SU della Cassazione n. 15350 del 22 luglio 2015 ha ribadito che, in assenza di un intervallo temporale significativo e di consapevolezza da parte della vittima, non sussiste il diritto al risarcimento del danno tanatologico. Nella motivazione gli Ermellini ricordano infatti che un orientamento risalente al 1925 affermava che: “se è alla lesione che si rapportano i danni, questi entrano e possono logicamente entrare nel patrimonio del lesionato solo in quanto e fin quando il medesimo sia in vita. Questo spentosi, cessa anche la capacità di acquistare, che presuppone appunto e necessariamente l’esistenza di un subbietto di diritto.”

 

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cumulo della pensione

Cumulo della pensione Cumulo della pensione: cos'è, come funziona, requisiti, quando conviene, come fare domanda e giurisprudenza  

Cos’è il cumulo della pensione?

Il cumulo pensionistico è un meccanismo che consente ai lavoratori di sommare i contributi versati in diverse gestioni previdenziali senza dover effettuare la ricongiunzione onerosa. Questo strumento è stato introdotto dalla Legge di Stabilità 2013 (Legge n. 228/2012) e successivamente modificato dalla Legge n. 232/2016. Il decreto legislativo n. 4/2019 inoltre ha esteso il beneficio del cumulo pensionistico anche a chi desidera andare in pensione con quota 100.

Grazie al cumulo, i lavoratori che hanno contribuito a più enti previdenziali possono ottenere un’unica pensione, evitando di perdere i periodi contributivi maturati in diverse casse previdenziali.

Come funziona il cumulo della pensione?

Il cumulo dei periodi assicurativi permette di raggiungere i requisiti per la pensione considerando i contributi versati in diverse gestioni, tra cui:

  • INPS (Fondo pensione lavoratori dipendenti e gestione separata);
  • Casse previdenziali dei liberi professionisti (come INARCASSA, CNPADC, ENPAM, ENASARCO);
  • Ex-INPDAP, Ex-ENPALS.

Il calcolo della pensione avviene con il sistema pro-rata, ossia ogni ente eroga la quota di pensione relativa ai contributi versati nella propria gestione, applicando il sistema di calcolo vigente (retributivo, misto o contributivo).

Quali sono i requisiti per il cumulo?

I principali requisiti per accedere al cumulo pensionistico sono:

  • per la pensione di vecchiaia: 67 anni di età e almeno 20 anni di contributi
  • per la pensione anticipata: 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini, 41 anni e 10 mesi per le donne.
  • per la pensione dei lavoratori che hanno svolto attività usuranti: regole specifiche per alcune categorie di lavoratori con attività gravose.

Quando conviene il cumulo pensionistico?

Il cumulo pensionistico è vantaggioso quando:

  • si hanno contributi in diverse gestioni previdenziali e si vuole evitare la ricongiunzione onerosa;
  • si desidera accedere alla pensione anticipata considerando tutti i contributi accumulati;
  • si vuole ottenere un trattamento pensionistico più favorevole rispetto al calcolo con singole gestioni.

Tuttavia, potrebbe non essere conveniente se:

  • una gestione previdenziale offre condizioni migliori di calcolo rispetto ad altre;
  • l’importo finale risulta penalizzante rispetto a un’altra opzione disponibile (come il riscatto o la totalizzazione).

Come presentare domanda di cumulo pensionistico?

Per richiedere il cumulo dei periodi assicurativi, il lavoratore deve:

  1. Accedere al sito INPS con SPID, CIE o CNS e compilare la richiesta online.
  2. Rivolgersi a un patronato o CAF, che fornisce assistenza gratuita nella presentazione della domanda.
  3. Contattare direttamente la cassa previdenziale di appartenenza, nel caso di contributi versati a enti diversi dall’Inps.

Giurisprudenza rilevante sul cumulo pensionistico

Diverse sentenze hanno chiarito aspetti importanti dell’istituto del cumulo pensionistico:

Cassazione n. 15329/2024: Per la pensione di vecchiaia nella gestione separata, se l’assicurato sceglie di includere anche i contributi versati nell’assicurazione generale obbligatoria, ricorrendo all’istituto del cumulo dei contributi, il trattamento pensionistico non decorre dal primo giorno del mese successivo al raggiungimento dell’età pensionabile, ma dalla data di presentazione della domanda di opzione, come previsto dall’art. 3 del D.M. n. 282/1996 e dall’art. 6 della L. n. 155/1981, poiché solo da quel momento tali contributi possono essere considerati per il calcolo della pensione.

Cassazione n. 3635/2023:  La legge non prevede alcun divieto per un professionista iscritto a un ente di previdenza che desideri ricongiungere i contributi versati alla propria cassa con quelli accreditati nella Gestione Separata dell’INPS.

 

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violazione di domicilio

La violazione di domicilio Il reato di violazione di domicilio: definizione, elementi costitutivi, sanzioni penali e giurisprudenza della Corte di Cassazione

Cos’è la violazione di domicilio

Il reato di violazione di domicilio, disciplinato dall’art. 614 del Codice Penale, tutela il diritto inviolabile all’intimità domestica, sancito anche dall’art. 14 della Costituzione. Si configura quando un soggetto si introduce o si trattiene indebitamente nel domicilio altrui, senza il consenso del titolare o contro la sua volontà.

L’art. 614 c.p.

L’articolo 614 c.p. punisce chiunque si introduce o si trattiene nellabitazione altrui o nei luoghi privati destinati ad attività domestiche, senza autorizzazione. È considerata reato anche l’introduzione mediante inganno, minaccia o violenza.

Come è punito il reato di violazione di domicilio

Le sanzioni penali variano in base alle modalità di commissione del reato:

  • reclusione da 1 a 4 anni, se l’introduzione nell’abitazione o nel luogo di privata dimora avviene contro la volontà espressa o tacita del soggetto che ha il diritto di escluderne l’ingresso o se il soggetto agente si introduce in luoghi suddetti e poi vi si intrattiene con inganno o in clandestinamente e contro l’espressa volontà di chi ha il diritto di escluderlo;
  • Reclusione da 2 a 6 anni, se il fatto è commesso con violenza sulle cose o sulle persone, se il soggetto agente è palesemente armato.

Quando si configura il reato: elementi costitutivi

Elemento oggettivo

  • Condotta: introduzione o permanenza abusiva nel domicilio altrui;
  • Domicilio: qualsiasi luogo destinato alla vita privata, inclusi giardini, garage e uffici privati.

Elemento soggettivo

  • Dolo generico: consapevolezza e volontà di violare il diritto altrui, indipendentemente dallo scopo.

Bene giuridico tutelato

Il reato di violazione di domicilio protegge la sfera privata e il diritto alla riservatezza di chi abita o possiede un immobile.

Procedibilità e denuncia

È un reato perseguibile a querela, salvo casi aggravati (es. violenza, minaccia, o violazione commessa da un soggetto palesemente armato), in cui si procede dufficio.

Giurisprudenza sulla violazione di domicilio

La Cassazione nelle sue sentenze ha delineato diversi e importanti aspetti di questo reato:   

Cassazione, sentenza n. 31276/2020

In un domicilio condiviso, tutti i coabitanti hanno diritto all’inviolabilità dello stesso. Il dissenso, anche tacito, di un solo coabitante è sufficiente a impedire l’ingresso di terzi, configurando il reato di violazione di domicilio. Il consenso di un coabitante permette l’accesso solo agli spazi comuni e ai propri spazi esclusivi, mentre per gli spazi di esclusiva pertinenza di altri coabitanti è necessario il consenso di questi ultimi. La presunzione di consenso non si applica agli spazi individuali ed esclusivi.

Cassazione n. 33860/2021

Commette il reato di violazione di domicilio chiunque entri in un appartamento altrui, anche se usato come deposito e visitato solo occasionalmente, senza il consenso di chi ne ha il diritto. L’uso effettivo dell’appartamento non deve essere necessariamente continuo e non viene meno se il proprietario è assente. La “privata dimora” è un concetto ampio che include qualsiasi luogo utilizzato per atti di vita privata, anche temporaneamente.

Cassazione, sentenza n.  29742/2024

Chi è accolto per convivenza familiare in un’abitazione rischia il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.) se, invitato a lasciare la casa, vi rimane senza consenso. Il diritto di escludere qualcuno dall’abitazione spetta a chi ha titolo per occuparla. In caso di permanenza illegittima, può essere emesso un ordine di allontanamento, poiché l’alloggio è assimilato a casa familiare.

 

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clausole claims made

Le clausole Claims Made Clausole Claims Made: definizione, tipologie, ambito applicativo, rischi e giurisprudenza rilevante in materia

Cosa sono le clausole claims made

Le clausole claims made rappresentano una tipologia specifica di accordo all’interno delle polizze di assicurazione per la responsabilità civile. Queste clausole stabiliscono che la copertura assicurativa si attiva nel momento in cui l’assicurato riceve una richiesta di risarcimento durante il periodo di validità della polizza, indipendentemente da quando si sia verificato l’evento dannoso. Questo approccio si differenzia dal regime “loss occurrence”, in cui la copertura è legata al momento in cui si verifica il sinistro, a prescindere da quando viene avanzata la richiesta di risarcimento.

Tipologie di clausole Claims Made

Esistono principalmente due varianti di clausole “claims made”:

  1. Claims Made Pura: la copertura si attiva per tutte le richieste di risarcimento ricevute dall’assicurato durante la validità della polizza, indipendentemente da quando si sia verificato l’evento dannoso.
  2. Claims Made Mista: la copertura è limitata alle richieste di risarcimento relative a eventi accaduti entro un determinato periodo precedente o coincidente con la validità della polizza.

Rischi associati a queste clausole

L’adozione di clausole “claims made” può comportare alcuni rischi per l’assicurato, tra cui:

  • Limitazione temporale: se la richiesta di risarcimento viene presentata dopo la scadenza della polizza, l’assicurato potrebbe non essere coperto, anche se l’evento dannoso è avvenuto durante la validità della polizza.
  • Retroattività: alcune polizze potrebbero non coprire eventi accaduti prima dell’inizio della polizza, escludendo così sinistri “pregressi”.

Assicurazioni responsabilità civile in regime Claims Made

Nel contesto delle assicurazioni di responsabilità civile, le clausole “claims made” sono spesso utilizzate per coprire professionisti come medici, avvocati o ingegneri. Questo perché in tali professioni possono emergere richieste di risarcimento anche a distanza di anni dall’evento che ha causato il danno. Le polizze “claims made” offrono quindi una copertura basata sul momento della richiesta, piuttosto che sull’evento stesso.

Giurisprudenza rilevante

La validità e l’applicazione delle clausole “claims made” sono state oggetto di numerose pronunce giurisprudenziali.

La Corte di Cassazione italiana, con la sentenza a SU n. 9140 del 6 maggio 2016, ha affermato la legittimità di tali clausole, purché rispettino determinati criteri di equilibrio contrattuale e non risultino vessatorie per l’assicurato.

Successivamente, con la nuova sentenza a SU 22437 del 13 settembre 2018, la stessa Corte ha concluso nel senso che la clausola claims made, in astratto, non possa essere considerata vessatoria né immeritevole di tutela ai sensi dell’art. 1322 c.c. Tuttavia, è essenziale il ruolo dell’intermediario assicurativo nel fornire un’informazione chiara e completa all’assicurato circa gli effetti di tale clausola. In particolare, l’intermediario deve informare adeguatamente il cliente sulle implicazioni della clausola claims made, ossia sulla limitazione della copertura ai sinistri denunciati durante il periodo di validità della polizza.

Con la pronuncia n. 20873/2024 la Cassazione ha accolto la censura del ricorrente e ha stabilito che nell’ambito dell’assicurazione della responsabilità civile, la clausola claims made non configura una decadenza convenzionale nulla ai sensi dell’art. 2965 c.c., in quanto la perdita del diritto non dipende esclusivamente dalla scelta di un terzo. La richiesta del danneggiato, infatti, rappresenta un elemento determinante per la definizione del rischio assicurato. Di conseguenza, questo tipo di contratto rientra pienamente nel modello dell’assicurazione della responsabilità civile, collocandosi all’interno del più ampio genere dell’assicurazione contro i danni disciplinato dall’art. 1904 c.c., di cui la clausola claims made costituisce un’espressione coerente con la funzione indennitaria.

 

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linee guida

Avvocati: linee guida per un linguaggio rispettoso della parità di genere Tribunale di Padova: linee guida per un linguaggio rispettoso dell’identità di genere negli atti e nella comunicazione istituzionale

Linee guida per un linguaggio rispettoso della parità

Linee Guida sull’uso di un linguaggio rispettoso dell’identità di genere nella comunicazione istituzionale e nella redazione degli atti giudiziari”. Questo il titolo del progetto realizzato dal Tribunale di Padova.

L’obiettivo dell’opera è quello di contrastare le discriminazioni che ancora esistono in ambito lavorativo e che si fondano su stereotipi radicati e profondamente sbagliati.

Il linguaggio non è solo forma, è anche sostanza quando aiuta chi legge a percepire che anche le donne possono rivestire ruoli importanti e svolgere professioni di tutto rispetto.

Il documento vuole essere un esempio per avviare un cambiamento culturale, nella speranza di un’ampia condivisione di pensiero.

Linee guida: la struttura del documento

Le linee guida, dal punto di vista bibliografico, si aprono con un indice a cui segue la premessa della Presidente del Tribunale di Padova. La Dott.ssa Caterina Santinello sottolinea l’importanza delle parole perchè “quello che diciamo corrisponde a quello che pensiamo e attraverso il linguaggio comunichiamo e divulghiamo a chi ci ascolta il nostro pensiero.”

Utilità e ragioni di un linguaggio rispettoso

Il documento cerca poi di rispondere a due interrogativi fondamentali. Il primo riguarda l’utilità di un vademecum sul linguaggio, il secondo invece indaga le ragioni della necessità di un linguaggio rispettoso.

Alla prima domanda il documento risponde precisando che le giuste parole possono senza dubbio incidere positivamente sul processo evolutivo e culturale affinché si possa affermare l’immagine della donna libera. Solo le parole sono in grado di cambiare la realtà. Se è vero infatti che le donne che svolgono la professione legale sono quasi il 50% dell’intera categoria non si comprendono le ragioni della resistenza alla declinazione al femminile del termine “avvocato”, in avvocata o avvocatessa. Non è vero che alla base ci sono ragioni prevalentemente linguistiche. La ragione è soprattutto culturale. Un titolo professionale al maschile infatti è percepito come dotato di maggiore prestigio e autorevolezza. Questa la ragione per la quale anche le donne preferiscono essere chiamate con il titolo professionale al maschile.

Un linguaggio correttamente declinato al femminile invece, quando necessario, è importantissimo perché è attraverso la parole che esprimiamo il pensiero. Se il termine avvocata appare “innaturale” è perché in fondo si fa ancora fatica a pensare che una donna possa svolgere questa professione con preparazione e competenza.

Linguaggio paritario: la lingua non c’entra

Il primo paragrafo del documento riporta alcune importanti riflessioni e conclusioni a cui è giunta l’Accademia della Crusca proprio sul linguaggio rispettoso del genere femminile. La revisione del linguaggio giuridico è possibile in questo senso proprio perchè è un linguaggio tecnico, che predilige l’utilizzo di forme neutre e generiche, anche per evitare inutili allungamenti. Ed è proprio questo l’argomento, ossia le scelte linguistiche neutre, l’argomento del secondo paragrafo.

Il terzo paragrafo dedicato alla valorizzazione del femminile suggerisce di evidenziare la presenza delle donne attraverso l’uso di corrispondenze femminili di termini maschili o mediante l’uso di entrambi i termini. Effettuata in ogni caso una scelta linguistica precisa è bene mantenerla in tutto il testo.

Il quarto paragrafo contiene poi una tabella in cui appaiono le regole per declinare al femminile i termini impiegati per descrivere alcuni titoli professionali, lavorativi e politici.

Il quinto paragrafo suggerisce alcune regole grammaticali da rispettare per evitare di denigrare le donne.

L’ultimo paragrafo invece fornisce importanti spiegazioni e precisazioni sul corretto utilizzo del termine “uomo” o “uomini”,  spesso impiegato come sinonimo di “persona”.

Le conclusioni, seguite dai principali riferimenti normativi, evidenziano l’importanza del linguaggio per contribuire al difficile processo di cambiamento culturale e giuridico della società. La lingua deve rappresentare i cambiamenti sociali e, come consigliava Orwell non ci si deve arrendere “alle parole stesse”.

 

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arbitrato

Arbitrato: guida e modello Cos'è l’arbitrato, quali sono le materie arbitrabili e non arbitrabili, tipologie di arbitrato e giurisprudenza

Cos’è l’arbitrato

L’arbitrato è uno strumento di risoluzione alternativa delle controversie regolato dagli articoli 806-840 del Codice di Procedura Civile (c.p.c). Esso consente alle parti di affidare la decisione di una controversia a uno o più arbitri, evitando così il ricorso al giudice ordinario. Si tratta di un procedimento più rapido e flessibile rispetto al processo civile, ma con specifiche caratteristiche che lo rendono adatto solo a determinate situazioni.

Il procedimento arbitrale

L’arbitrato è un procedimento in cui le parti coinvolte in una controversia nominano un collegio arbitrale per dirimere la questione. Gli arbitri emettono un provvedimento, denominato lodo arbitrale, che ha efficacia vincolante per le parti. Può essere utilizzato sia per controversie nazionali sia per dispute internazionali.

Il procedimento arbitrale è caratterizzato da:

  • autonomia delle parti: le parti possono stabilire le regole procedurali applicabili, nei limiti previsti dalla legge;
  • riservatezza: le decisioni e le attività svolte nell’arbitrato sono confidenziali;
  • efficienza: rispetto al processo ordinario, l’arbitrato è generalmente più efficiente.

Materie arbitrabili

Non tutte le controversie possono essere risolte tramite questo procedimento stragiudiziale. Secondo l’articolo 806c.p.c possono essere devolute in arbitrato le controversie su diritti disponibili, ossia quei diritti che possono essere liberamente trasferiti, modificati o rinunciati dalle parti.

Materie non arbitrali

Sono escluse invece dall’arbitrato:

  • le materie che riguardano lo stato e la capacità delle persone come le procedure di separazione e divorzio o quelle finalizzate alla dichiarazione di inabilitazione o di interdizione dei soggetti parzialmente o totalmente incapaci;
  • le questioni che coinvolgono interessi pubblici, come le controversie in materia tributaria o amministrativa;
  • i diritti indisponibili, come il diritto alla salute o alla dignità personale.

Arbitrato rituale e irrituale

La normativa distingue tra arbitrato rituale e irrituale, che si differenziano per la natura e gli effetti del lodo.

Arbitrato rituale

L’arbitrato rituale è disciplinato dagli articoli 806-832 c.p.c. Il lodo emesso dagli arbitri ha la stessa efficacia di una sentenza giudiziaria e può essere eseguito tramite un provvedimento del giudice. Questa tipologia segue un procedimento formalizzato, simile a quello giudiziario.

Arbitrato irrituale

L’arbitrato irrituale, regolato dalla volontà delle parti e dalla normativa contrattuale, non prevede l’emissione di un lodo esecutivo. La decisione degli arbitri si traduce in un contratto tra le parti e, per essere eseguita, richiede l’intervento del giudice in caso di inadempimento.

Giurisprudenza rilevante

La giurisprudenza ha chiarito molti aspetti dell’arbitrato, tra cui:

Cassazione n. 39437/2021: stabilire quale sia la volontà delle parti riguardo a una clausola arbitrale è un compito che spetta esclusivamente al giudice di primo grado. La Corte di Cassazione può intervenire solo se la motivazione del giudice di primo grado è talmente carente da non permettere di capire come è arrivato alla sua conclusione, oppure se ha applicato in modo errato le regole sull’interpretazione dei contratti.

Cassazione civile n. 19993/2020: l’impugnazione per nullità del lodo arbitrale non apre un giudizio di merito, ma un giudizio d’impugnazione su un provvedimento giurisdizionale. La competenza spetta al giudice del luogo in cui opera l’arbitro che ha emesso il lodo, indipendentemente dalla materia controversa.

Cassazione civile n. 21059/2019: per capire se un arbitrato sia rituale o irrituale bisogna analizzare attentamente la clausola compromissoria, considerando le parole usate, l’intenzione delle parti e il loro comportamento complessivo. Il fatto che la clausola non menzioni le formalità dell’arbitrato rituale non significa automaticamente che si tratti di un arbitrato irrituale.

Modello di clausola arbitrale

Ecco un esempio pratico di clausola compromissoria da inserire in un contratto:

Clausola compromissoria
“Le parti convengono che ogni controversia derivante dal presente contratto o in connessione con esso sarà risolta mediante arbitrato secondo il regolamento arbitrale [specificare il regolamento, ad esempio, della Camera Arbitrale di Milano]. Gli arbitri saranno in numero di [specificare, ad esempio, uno o tre] e saranno nominati in conformità al regolamento applicabile. Il lodo arbitrale sarà vincolante per le parti e avrà efficacia esecutiva ai sensi degli articoli 806 e seguenti del Codice di Procedura Civile.”

 

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