Responsabilità professionale dell'avvocato

La responsabilità professionale dell’avvocato Responsabilità professionale dell’avvocato: cos'è, quando si configura, doveri dell'avvocato e Cassazione

Cos’è la responsabilità dell’avvocato

La responsabilità professionale dell’avvocato rappresenta un ambito fondamentale nel diritto civile e deontologico, essendo strettamente legata alla corretta esecuzione del mandato professionale conferito dal cliente. Il rapporto tra avvocato e assistito è regolato da regole codificate e principi giurisprudenziali, che delineano con precisione i limiti dell’obbligazione e i presupposti dell’eventuale responsabilità civile, disciplinare e penale.

La responsabilità professionale dell’avvocato si configura quando, nell’esercizio della sua attività, l’avvocato viola i doveri di diligenza, perizia o correttezza, arrecando un danno ingiusto al proprio cliente. Tale responsabilità può dar luogo a:

  • responsabilità civile, con obbligo risarcitorio;
  • responsabilità disciplinare, per violazione delle norme deontologiche;
  • responsabilità penale, in caso di comportamenti integranti fattispecie di reato (es. patrocinio infedele, truffa, falso ideologico).

Quando scatta la responsabilità dell’avvocato

La responsabilità dell’avvocato sorge quando la condotta professionale si discosta in modo significativo dallo standard richiesto a un professionista medio.

L’articolo 2236 c.c chiarisce però che “Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave.”

I casi tipici di responsabilità si configurano in presenza delle seguenti condotte:

  • mancata proposizione di un’impugnazione nei termini;
  • errata redazione di atti processuali;
  • omessa informazione al cliente sugli sviluppi della causa;
  • violazione dei doveri di lealtà e correttezza verso la controparte o il giudice;
  • inadempimento dell’obbligo di aggiornamento professionale.

L’onere della prova grava sul cliente che, per ottenere il risarcimento, dovrà dimostrare:

  1. l’inadempimento dell’avvocato;
  2. il danno subito;
  3. il nesso causale tra l’inadempimento e il pregiudizio subito.

I doveri dell’avvocato

L’avvocato, nell’esercizio della sua professione, è tenuto al rispetto di precisi doveri professionali, codificati sia dalla legge ordinaria sia dal Codice Deontologico Forense (approvato dal Consiglio Nazionale Forense).

Tra i principali doveri ricordiamo:

  • dovere di diligenza: curare con attenzione e precisione ogni aspetto del mandato;
  • dovere di competenza: possedere adeguate conoscenze tecniche e aggiornarsi costantemente;
  • dovere di lealtà e probità: comportarsi con correttezza verso il cliente, la controparte e l’autorità giudiziaria;
  • dovere di informazione: comunicare tempestivamente al cliente gli sviluppi della causa e le possibili conseguenze delle sue scelte;
  • dovere di riservatezza: mantenere il segreto professionale su fatti e informazioni appresi nell’esercizio del mandato.

L’inosservanza di tali doveri può dar luogo a responsabilità disciplinare, oltre che civile, e comportare sanzioni da parte del Consiglio dell’Ordine.

Obbligazione di mezzi e non di risultato

Un principio cardine in tema di responsabilità dell’avvocato è quello secondo cui la sua prestazione è un’obbligazione di mezzi e non di risultato. Ciò significa che l’avvocato non è tenuto a garantire l’esito favorevole della causa, ma ha l’obbligo di impiegare tutti i mezzi giuridici e tecnici adeguati, conformemente alla diligenza richiesta al professionista medio della categoria.

Limiti e condizioni della responsabilità

Non ogni errore comporta responsabilità. Per configurare la colpa professionale è necessario che l’errore:

  • sia rilevante e determinante ai fini della decisione giudiziaria;
  • non sia imputabile a cause esterne (es. comportamento scorretto del cliente, evento imprevedibile, errore del giudice non impugnabile).

Inoltre, l’azione risarcitoria nei confronti dell’avvocato è soggetta al termine di prescrizione di 10 anni, decorrente, secondo l’orientamento prevalente, dal momento in cui il cliente ha consapevolezza del danno e della sua riferibilità alla condotta del legale.

Responsabilità professionale dell’avvocato: Cassazione

Cassazione n. 475/2025: la responsabilità professionale degli avvocati esige una valutazione scrupolosa delle specifiche circostanze, escludendo meccanismi di risarcimento automatici. L’affermazione di responsabilità in capo al legale presuppone la dimostrazione inequivocabile che la sua condotta abbia generato un pregiudizio effettivo e suscettibile di quantificazione economica; in assenza di tale prova di un danno concreto e quantificabile, non si può configurare alcuna responsabilità risarcitoria.

Cassazione n. 469/2025: quando un cliente viene pienamente informato, comprende le diverse opzioni difensive disponibili e sceglie consapevolmente una strategia, tale decisione condivisa non può successivamente costituire motivo di responsabilità professionale per l’avvocato. In altre parole, se la linea difensiva è frutto di una decisione ponderata e accettata dal cliente dopo aver ricevuto adeguate spiegazioni, quest’ultimo non potrà in seguito contestare l’operato del legale basandosi su quella specifica scelta strategica.

Cassazione n. 28903/2024: Nel giudizio di responsabilità dell’avvocato per negligenza professionale, la valutazione prognostica sull’esito probabile di un’azione giudiziale (che avrebbe dovuto essere intrapresa o diligentemente seguita) e l’accertamento del nesso di causalità tra l’omissione dell’avvocato e il potenziale risultato favorevole per il cliente, rientrano nella valutazione di merito del giudice di merito.  Di conseguenza, tale valutazione prognostica non è sindacabile in sede di legittimità.

 

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bonus animali

Bonus animali 2025 Bonus animali 2025: agevolazione fiscale per aiutare le famiglie a basso reddito a curare gli animali e scoraggiare l'abbandono

Bonus animali 2025: cos’è

Il Bonus Animali 2025 aiuta a coprire le spese veterinarie e a combattere il fenomeno del randagio. La misura consente una detrazione del 19% per un importo massimo di 550,00 euro l’anno, con una franchigia di Euro 129,11. Non rileva il numero di animali posseduti. La misura è stata prevista dalla legge di bilancio 2024, che ha istituito un fondo destinato a sostenere i proprietari di animali di affezione.

Per l’anno 2024 i fondi su cui si potrà fare affidamento sono di 250.00 euro, mentre per il 2026 e il 2027 sono pario a 237.500.

Proprio in questi giorni la misura ha ricevuto l’approvazione della Conferenza Stato Regioni, che ha stabilito anche il riparto delle risorse tra le regioni.

Quali animali e requisiti

Il bonus è valido solo per gli animali registrati all’Anagrafe degli animali d’affezione, come cani, gatti, ma anche furetti e piccoli roditori e criceti.

Nel provvedimento sono inclusi anche gli animali che svolgono funzioni di supporto come i cani guida per i disabili, gli animali che vengono utilizzati nel percorsi di pet-therapy o di riabilitazione e quelli impiegati per finalità pubblicitarie.

Sono esclusi dalla misura gli animali destinati all’allevamento, alla riproduzione o al consumo alimentare. Le spese, ai fini della detrazione, devono essere tracciabili. Occorre cioè provvedere al pagamento delle stesse con carta di credito o debito o bonifico bancario, ad esempio.

Spese ammesse

La detrazione riguarda visite veterinarie specialistiche, interventi chirurgici, esami di laboratorio e farmaci. Il bonus non copre le spese per l’alimentazione e le cure per gli animali da allevamento.

Procedura per la richiesta

Per ottenere il bonus occorre fare istanza alla Regione di residenza. Per dimostrare le spese è necessario conservare le ricevute dei pagamenti effettuati con mezzi tracciabili.

Saranno poi le Regioni a pubblicare bandi e avvisi contenenti le istruzioni necessarie sui tempi, sui documenti da allegare e sulle modalità da rispettare per inviare la domanda.

Le domande varranno accolte in base all’ordine di invio e anche in base alle risorse disponibili.

Destinatari del bonus animali 2025

Il bonus è destinato ai proprietari di animali over 65, con ISEE inferiore a 16.215 euro e residenti in Italia.

Vantaggi del bonus animali 2025

Il bonus animali produce indubbi vantaggi:

  • incentiva le cure veterinarie e migliora la salute degli animali domestici, riducendo quelle malattie, spesso trascurate;
  • scoraggia l’abbandono degli animali, specialmente in famiglie con risorse limitate;
  • promuove una maggiore consapevolezza sull’importanza della salute degli animali e del loro ruolo sociale;
  • nelle famiglie a basso reddito riduce le difficoltà economiche legate alla cura degli animali.

 

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abuso d'ufficio

Abuso d’ufficio: l’abrogazione non è incostituzionale La Consulta all'esito dell'udienza pubblica ha ritenuto che l'abrogazione del reato di abuso d'ufficio non è incostituzionale

Abrogazione reato di abuso d’ufficio

Non è incostituzionale l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio. All’esito dell’udienza pubblica svoltasi il 7 maggio 2025, la Consulta ha esaminato in camera di consiglio le questioni di legittimità costituzionale sollevate da quattordici autorità giurisdizionali, tra cui la Corte di cassazione, sull’abrogazione del reato di cui all’art. 323 del codice penale ad opera della legge numero 114 del 2024.

Convenzione di Merida

La Corte, si legge nel comunicato stampa ufficiale, ha ritenuto ammissibili le sole questioni sollevate in riferimento agli obblighi derivanti dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (la cosiddetta Convenzione di Merida).

Nel merito, la Corte ha dichiarato infondate tali questioni, ritenendo che dalla Convenzione non sia ricavabile né l’obbligo di prevedere il reato di abuso di ufficio, né il divieto di abrogarlo ove già presente nell’ordinamento nazionale.

La motivazione della sentenza sarà pubblicata nelle prossime settimane.

 

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pagamento pensioni

Pagamento pensioni all’estero: attestazioni entro il 18 luglio L'INPS comunica che ai fini del pagamento delle pensioni all'estero l'invio delle attestazioni di esistenza in vita va effettuato entro il 18 luglio 2025

Pagamento pensioni INPS all’estero

Pagamento pensioni: l’INPS ha comunicato, con il messaggio n. 1419 del 5 maggio 2025, che i pensionati italiani residenti all’estero coinvolti nella campagna di accertamento dell’esistenza in vita per il biennio 2025-2026 dovranno far pervenire la relativa attestazione entro e non oltre il 18 luglio 2025, al fine di garantire la continuità dei pagamenti pensionistici.

Più tempo dunque per la prima fase di verifica che interessa i pensionati residenti in America, Asia, Estremo Oriente, Paesi scandinavi, Stati dell’Europa dell’Est e aree limitrofe. Le attestazioni dovranno essere inviate a Citibank N.A., secondo le modalità indicate nel modulo trasmesso ai destinatari da parte dell’Istituto previdenziale.

L’obiettivo della procedura è duplice: da un lato evitare l’erogazione indebita a soggetti deceduti, dall’altro assicurare la regolarità amministrativa dei flussi pensionistici. Il mancato invio dell’attestazione nei termini previsti può comportare la sospensione dell’erogazione della pensione.

Seconda fase accertamento esistenza in vita

La successiva fase di verifica sarà avviata a partire dal 17 settembre 2025 e proseguirà fino al 15 gennaio 2026, coinvolgendo i pensionati residenti in Europa (esclusi i Paesi della prima fase), Africa e Oceania. Anche in questo caso, gli interessati riceveranno apposita comunicazione e saranno tenuti a trasmettere l’attestazione di esistenza in vita entro la data indicata.

divieto di nova

Divieto di nova Divieto di nova nel giudizio di appello: definizione, normativa, giurisprudenza ed eccezioni al principio

Cos’è il divieto di nova

Il divieto di nova rappresenta uno dei principi fondamentali del processo civile in sede di appello. Esso vieta alle parti di introdurre nuove domande, eccezioni o prove rispetto a quelle formulate nel primo grado di giudizio. L’obiettivo principale di tale limite è quello di preservare la natura revisoria dell’appello, evitando che si trasformi in un nuovo giudizio di merito.

Il divieto di nova in appello costituisce un presidio di legalità processuale, volto a evitare che il giudizio di secondo grado si trasformi in un processo ex novo. L’art. 345 c.p.c., così come interpretato dalla giurisprudenza, ammette modificazioni compatibili con il principio del contraddittorio e impone un uso responsabile del diritto di difesa.

Normativa divieto di nova: l’art. 345 c.p.c.

Il divieto di nova trova la sua base normativa nell’art. 345 del codice di procedura civile, che così dispone: “1. Nel giudizio d’appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili d’ufficio. Possono tuttavia domandarsi gli interessi, i frutti  e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa. 2. Non possono proporsi nuove eccezioni, che non siano rilevabili anche d’ufficio. 3. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Può sempre deferirsi il giuramento decisorio. “

La norma, pertanto, opera una chiara distinzione tra il divieto assoluto di nova (domande ed eccezioni) e un divieto relativo per quanto concerne le prove.

Giurisprudenza della Cassazione

La giurisprudenza di legittimità è intervenuta ripetutamente a chiarire l’ambito di applicazione del divieto di nova.

Cassazione n. 34/2025: nel procedimento d’appello, la preclusione all’introduzione di nuove prove documentali non si applica quando si tratta di fatti sopravvenuti, ovvero eventi accaduti successivamente alla scadenza del termine utile per presentarli nel giudizio di primo grado. Questa eccezione si giustifica perché l’impossibilità di sollevare una specifica eccezione nel primo grado a causa della sua inesistenza temporale non pregiudica il principio del doppio grado di giudizio nel merito. In particolare, la nuova formulazione dell’articolo 345, comma 3, del codice di procedura civile consente, in deroga al generale divieto di nuove prove in appello, la produzione di documenti qualora la parte dimostri di non aver avuto la possibilità di proporli o produrli nel corso del primo giudizio.

Cassazione n. 6614/2023: la richiesta di restituzione delle somme versate in ottemperanza alla sentenza di primo grado o al decreto ingiuntivo può essere legittimamente avanzata nel giudizio d’appello, senza che ciò configuri una violazione del divieto di nuove domande stabilito dall’articolo 345 del codice di procedura civile. Questa ammissibilità si fonda sull’applicazione analogica del principio generale che, in un’ottica di economia processuale, consente di proporre in appello domande accessorie e consequenziali. La domanda di restituzione rappresenta un corollario diretto della riforma o dell’annullamento della decisione di primo grado, mirando a ripristinare la situazione patrimoniale antecedente all’esecuzione.

Cassazione n. 1244/2019: non si configura una violazione del divieto di introdurre nuove questioni in appello, sancito dall’articolo 345 del codice di procedura civile, qualora il giudice di secondo grado, pur mantenendosi entro i limiti della controversia definiti nel giudizio di primo grado, accolga la domanda applicando una diversa interpretazione giuridica dei fatti, che siano già stati acquisiti al processo, sia in modo implicito che esplicito. In sostanza, la riqualificazione giuridica dei fatti da parte del giudice d’appello non costituisce una novità vietata, purché non alteri i termini sostanziali della disputa originaria.

Eccezioni al divieto

Fanno eccezione al divieto:

  • le eccezioni rilevabili d’ufficio (es. nullità, decadenze legali);
  • I mezzi di prova nuovi, purché la parte dimostri la non imputabilità della loro mancata produzione in primo grado o la loro indispensabilità.

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Il Ministero risarcisce gli alunni abusati dal prof Gli alunni abusati dagli insegnanti devono essere risarciti dal Ministero, gli abusi non sono sono imprevedibili nei rapporti di cura

Alunni abusati: il Ministero deve risarcire

La Cassazione torna a occuparsi di alunni abusati, precisando che quando un insegnante commette abusi sessuali sui suoi allievi a scuola, il Ministero deve risarcire il danno. Questo perché, secondo la legge, la condotta criminosa dell’insegnante, pur essendo contraria agli scopi educativi della scuola, non è considerata un evento così inatteso o impossibile da escludere la responsabilità dell’amministrazione pubblica. Il rischio che un abuso possa avvenire in un contesto scolastico non è così remoto da sollevare il Ministero dal suo dovere di risarcire le vittime. Lo ha chiarito la Cassazione nella sentenza n. 11614/2025.

Il Ministero risarcisca i danni agli alunni

I famigliari di alcuni alunni abusati da un loro insegnante citano in giudizio il MIUR (ora MIM), affermando la responsabilità civile del Ministero per abusi di un docente sui loro figli minori. Il docente infatti è stato condannato definitivamente per abusi su minori (anni 2003-2006) e gli attori si erano già costituiti parte civile nel processo penale contro il docente. Il Ministero però non aveva partecipato al processo penale come responsabile civile. Nell’incardinato giudizio civile però lo stesso si costituisce, eccependo la prescrizione dell’azione, deducendo l’inopponibilità del giudicato penale, rilevando l’erroneo richiamo all’art. 2049 c.c ed evidenziando la carenza delle allegazioni avversarie.

Ministero condannato in primo e secondo grado

Il Tribunale di Genova però condanna il Ministero e con la sentenza n. 2122/2021 riconosce il risarcimento per danno biologico e morale agli attori. La Corte d’appello di Genova riforma parzialmente la decisione di primo grado, ricalcola il danno e detrae le provvisionali già liquidate agli attori, confermando nella parte restante la decisione di primo grado. Gli attori ricorrono in Cassazione e il MIM resiste con controricorso.

Responsabilità ministero: nesso di causalità

La Cassazione nel rigettare il ricorso incidentale e accogliere quello degli attore fornisce importanti indicazioni interpretative. La stessa ricorda che la pronuncia a Sezioni Unite n. 13246/2019 ha chiarito che l’art. 2049 c.c.configura una responsabilità oggettiva per fatto altrui, un’applicazione moderna del principio cuius commoda eius et incommoda, in base al quale chi si avvale dell’attività di un altro ne subisce anche i danni. L’ordinamento in questo modo rialloca i costi delle condotte dannose, ponendoli a carico di chi si avvale dell’operato altrui.

A fondare la responsabilità del preponente è il nesso di occasionalità necessaria e lo stesso sussiste se le funzioni esercitate agevolano l’illecito. È irrilevante il superamento dei limiti o il dolo del dipendente, occorre che la condotta non costituisca uno sviluppo anomalo della funzione. Il contesto scolastico richiede accorgimenti preventivi, la dirigenza e tutto il personale devono adottarli e gli stessi vanno attuati in base all’età degli allievi e alle circostanze.

Alunni abusati: anomalia prevedibile

Le situazioni di affidamento di minori sono sicuramente insidiose. La normativa penale infatti distingue le condotte verso minori e aggrava le pene per chi ha compiti di cura, educazione o custodia. L’art. 609-quater c.p, che punisce gli atti sessuali con minori, prevede un trattamento specifico quando tra reo e vittima esiste un rapporto di fiducia o di autorità.

La Convenzione di Lanzarote all’art. 18 prevede sanzioni per chi commette abusi quando riveste posizioni di fiducia. L’abuso che viene attuato all’interno delle relazioni con figure professionali come insegnanti e medici merita un’attenzione particolare.

I minori in queste relazioni vanno protetti, anche se hanno raggiunto l’età per i rapporti sessuali e anche se non vi è coercizione. Le relazioni di cura o istruzione possono evolvere in abuso e questo non costituisce un’anomalia imprevedibile.  Statisticamente, chi abusa di minori spesso è proprio chi se ne occupa. L’assunzione di compiti di cura favorisce quindi i predatori sessuali.

Le condotte delittuose commesse ai danni dei ricorrenti quindi, nel caso di specie, non possono essere considerati “improbabili”. Esse non costituiscono un’anomalia imprevedibile e la Pubblica Amministrazione ha il dovere di prevenire i reati, adottando le misure opportune durante le prestazioni scolastiche.  La reiterazione degli abusi nell’ambiente scolastico evidenzia carenze nel controllo.

 

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Allegati

insidie stradali

Le insidie stradali Insidie stradali: definizione, normativa di riferimento, risarcimento danni, onere della prova e responsabilità della PA

Insidie stradali

Le insidie stradali rappresentano una delle principali cause di responsabilità civile della Pubblica Amministrazione, con importanti conseguenze risarcitorie per i danni causati agli utenti della strada. Buche, sconnessioni, caditoie aperte, segnaletica mancante o non visibile: tutte queste situazioni possono integrare la fattispecie dell’insidia o trabocchetto.

Definizione

Il concetto di insidia stradale si riferisce a una situazione di pericolo occulto presente sulla strada, non prevedibile e non evitabile dall’utente medio con l’ordinaria diligenza. Il danno che ne deriva è riconducibile alla responsabilità del custode della strada, ossia, nella maggior parte dei casi, l’ente pubblico proprietario o gestore della stessa.

Normativa di riferimento: l’art. 2051 c.c.

La responsabilità per danni da insidia stradale è inquadrata nell’ambito della responsabilità oggettiva del custode, ai sensi dell’art. 2051 del codice civile, secondo cui: “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito.”

In questo caso, la Pubblica Amministrazione (es. Comune, Provincia, ANAS) è considerata custode della rete stradale, e pertanto tenuta al risarcimento dei danni causati da difetti della stessa, salvo che dimostri che l’evento è avvenuto per caso fortuito.

Insidia stradale e trabocchetto

In ambito giurisprudenziale, l’insidia è una situazione pericolosa che non è percepibile con la normale attenzione. Il trabocchetto, analogamente, è un pericolo improvviso e imprevedibile, che sfugge alla comune diligenza dell’utente medio.

Perché si configuri un’insidia stradale è necessario che sussistano due requisiti fondamentali:

  •  il pericolo non deve essere visibile o facilmente evitabile;
  •  il danno non deve essere prevedibile con l’uso della normale prudenza.

Esempi tipici di insidie sono:

  • buche non segnalate;
  • dissesti dell’asfalto;
  • tombini rotti o aperti;
  • caditoie sporgenti o affossate;
  • ghiaccio non rimosso o segnalato in tempo utile.

Risarcimento danni insidie stradali

Chi subisce un danno a causa di un’insidia stradale (es. una caduta, un incidente con l’auto o la moto) può richiedere il risarcimento dei danni materiali e/o fisici al soggetto responsabile, in genere l’ente proprietario o gestore della strada.

Il risarcimento può comprendere:

  • danni patrimoniali (spese mediche, danni al veicolo, perdita di reddito);
  • danni non patrimoniali (biologici, morali, da perdita di qualità della vita).

Il termine per proporre l’azione risarcitoria è, di norma, 5 anni dalla data del sinistro (art. 2947 c.c., prescrizione per fatto illecito).

Distribuzione dell’onere della prova 

Nel giudizio civile per danno da insidia stradale, l’onere della prova è ripartito tra le parti in questo modo:

A carico del danneggiato

  • provare l’esistenza del danno (con referti medici, foto, verbali, testimoni);
  • dimostrare il nesso causale tra la condotta della PA e il danno subito;
  • provare la non visibilità e imprevedibilità dell’insidia.

A carico della Pubblica Amministrazione

  • Provare il caso fortuito, ovvero che l’evento si è verificato per un fatto esterno, imprevedibile e inevitabile, idoneo a interrompere il nesso causale (es. manomissione improvvisa da parte di terzi, evento atmosferico eccezionale).

La Corte di Cassazione nella sentenza n. 270/2017 ha chiarito che per andare esente da ogni responsabilità, è compito della pubblica amministrazione dimostrare che l’evento sia stato determinato da cause estrinseche ed esterne create da terzi, non conoscibili né eliminabili con immediatezza, neppure con la più diligente attività di manutenzione, o da una situazione qualificabile come caso fortuito; deve trattarsi, in definitiva, di un antecedente causale idoneo a recidere il nesso di causalità tra condotta, attiva o omissiva, della P.A ed evento dannoso pregiudizievole della sfera giuridica del terzo.

Responsabilità PA insidie stradali: giurisprudenza

La giurisprudenza ha progressivamente ampliato l’applicazione dell’art. 2051 c.c anche alla Pubblica Amministrazione, superando l’orientamento tradizionale che richiedeva la prova della colpa ex art. 2043 c.c.

Oggi, grazie anche a sentenze come Cassazione n. 39965/2021 è pacifico che l’ente pubblico risponda dei danni da insidia a titolo oggettivo, quale custode della strada, salvo prova contraria.  La responsabilità stabilita dall’articolo 2051 del Codice Civile infatti è oggettiva, il che significa che deriva direttamente dalla dimostrazione del legame causale tra la cosa in custodia e il danno subito. Il custode può liberarsi da tale responsabilità solo provando l’esistenza di un caso fortuito, ovvero un elemento esterno che interrompe tale legame causale. Questo elemento può essere un evento naturale, l’azione di un terzo o il comportamento della vittima stessa.

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convenzione di istanbul

La Convenzione di Istanbul Convenzione di Istanbul: uno strumento fondamentale per combattere la violenza di genere

Cos’è la Convenzione di Istanbul

La Convenzione di Istanbul è un trattato internazionale promosso dal Consiglio d’Europa, firmato nel 2011 a Istanbul e ratificato dall’Italia con la Legge n. 77 del 27 giugno 2013. Rappresenta il primo strumento giuridicamente vincolante a livello europeo per la prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne e della violenza domestica.

Cosa prevede  

La Convenzione definisce la violenza contro le donne come una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione, includendo tutte le forme di violenza basate sul genere che colpiscono in modo sproporzionato le donne. Tra i punti chiave della Convenzione, troviamo:

  • definizione ampia di violenza: che include la violenza fisica, psicologica, sessuale, economica e la violenza domestica.
  • obblighi per gli Stati firmatari: di adottare misure legislative e politiche per prevenire la violenza, proteggere le vittime e perseguire i responsabili.
  • approccio integrato: che richiede la collaborazione tra diverse istituzioni e settori, come la polizia, la magistratura, i servizi sociali e sanitari.
  • protezione delle vittime: con l’istituzione di centri antiviolenza, case rifugio e servizi di assistenza.
  • perseguimento dei reati: con l’introduzione di norme penali specifiche per punire i responsabili di violenza.

Le 4 P della Convenzione di Istanbul

La Convenzione di Istanbul si basa su quattro pilastri fondamentali, noti come le “4 P”:

  • prevenzione (Prevention): prevenire la violenza attraverso l’educazione, la sensibilizzazione e la promozione dell’uguaglianza di genere.
  • protezione (Protection): proteggere le vittime fornendo loro assistenza, supporto e alloggio sicuro.
  • punizione (Prosecution): perseguire i responsabili dei reati di violenza e garantire che siano puniti.
  • politiche integrate (Integrated Policies): adottare politiche e misure coordinate a livello nazionale e internazionale per affrontare la violenza di genere.

Ratifica della Convenzione in Italia

L’Italia ha ratificato la Convenzione di Istanbul con la Legge n. 77 del 27 giugno 2013, impegnandosi così ad attuare le disposizioni del trattato. La ratifica ha comportato l’introduzione di nuove norme e misure per contrastare la violenza di genere, come il “Codice Rosso” (Legge n. 69/2019), che ha accelerato i tempi di intervento nei casi di violenza domestica.

L’importanza del documento

La Convenzione di Istanbul rappresenta uno strumento fondamentale per combattere la violenza di genere e proteggere le vittime. La sua attuazione richiede un impegno costante da parte delle istituzioni e della società civile, al fine di creare una cultura del rispetto e dell’uguaglianza.

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condominio parziale

Il condominio parziale Condominio parziale: che cos'è, normativa di riferimento, caratteristiche e differenze rispetto al super condominio, giurisprudenza

Cos’è il condominio parziale?

Il condominio parziale è una particolare configurazione condominiale che si verifica quando solo alcuni condomini di un edificio beneficiano di un determinato bene o servizio comune. Questo istituto, disciplinato indirettamente dall’art. 1123, comma 3, c.c., incide sulla ripartizione delle spese e sulla gestione delle parti comuni, evitando che tutti i condomini debbano contribuire a spese di beni che non utilizzano.

Il condominio parziale si verifica quando un bene o un servizio condominiale è destinato all’uso esclusivo di una parte dei condomini. In questi casi, il principio generale di ripartizione delle spese in base ai millesimi subisce una deroga: pagano solo coloro che traggono utilità diretta dal bene o servizio.

Esempi:

  • Un ascensore presente solo in una scala del condominio: pagano le spese solo i proprietari degli appartamenti serviti dall’ascensore.
  • Un tetto a falde che copre solo una parte dell’edificio: le spese di manutenzione gravano solo sui condomini che ne beneficiano.
  • Un cortile interno accessibile solo ad alcuni condomini: le spese di gestione saranno a loro carico.
  • Un impianto di riscaldamento autonomo presente solo in una parte del condominio: le spese spettano ai soli condomini serviti.

Ripartizione spese nel condominio parziale

L’art. 1123, comma 3, c.c., prevede che quando un bene o un servizio è destinato a servire solo una parte dell’edificio, le relative spese devono essere sostenute esclusivamente dai condomini che ne traggono vantaggio, ossia utilità

Le spese  in questo tipo di condomonio si suddividono in:
Spese ordinarie: manutenzione, riparazioni minori e gestione quotidiana del bene comune (es. pulizia dell’ascensore, bollette dell’illuminazione delle scale servite).
Spese straordinarie: ristrutturazioni, sostituzione di impianti o interventi strutturali rilevanti (es. rifacimento del tetto di una sola porzione dell’edificio).
Spese di amministrazione: compenso dell’amministratore, spese per delibere assembleari e costi gestionali, suddivisi in base all’utilizzo del bene.

Se non esiste un’espressa disposizione nel regolamento condominiale, l’assemblea può stabilire la suddivisione delle spese con delibera.

Differenze rispetto al supercondominio

Sebbene entrambi i concetti riguardino la suddivisione delle spese e la gestione di beni comuni, il condominio parziale e il supercondominio hanno caratteristiche diverse.

Aspetto

Condominio Parziale

Supercondominio

Definizione

Si verifica quando un bene comune è utilizzato solo da alcuni condomini.

Si verifica quando più condomini condividono strutture comuni.

Normativa

Art. 1123, comma 3, c.c.

Art. 1117-bis c.c.

Ripartizione spese

Solo chi utilizza il bene contribuisce ai costi.

Le spese si suddividono tra tutti i condomini del complesso.

Esempi pratici

Ascensore, tetto, scale servite solo da alcuni condomini.

Parcheggi, vialetti, impianti di illuminazione condivisi tra più edifici.

Un esempio di supercondominio è un complesso residenziale formato da più palazzine che condividono un parcheggio comune, mentre un condominio parziale si verifica quando solo alcuni condomini utilizzano un determinato impianto o struttura.

Giurisprudenza rilevante

La giurisprudenza ha chiarito numerosi aspetti del condominio parziale, confermando il principio che le spese devono essere ripartite solo tra i condomini che beneficiano del bene o servizio comune.

Tribunale di Potenza n. 372/2023: Il condominio, inclusa la sua forma parziale, trae origine non solo dalla divisione di un’unica proprietà, ma anche dalla specifica condizione materiale e funzionale dei beni che lo costituiscono, in relazione al loro servizio esclusivo alle singole proprietà individuali.

Cassazione n. 791/2020: La figura del condominio parziale, basata sull’articolo 1123, terzo comma, del Codice Civile, si configura automaticamente per legge quando un bene, per le sue peculiarità strutturali e di utilizzo, è oggettivamente destinato al servizio o al godimento esclusivo di una porzione limitata dell’edificio condominiale. Questo comporta che tale bene costituisce oggetto di proprietà autonoma, escludendo una necessaria comproprietà di tutti i condomini. Di conseguenza, i condomini esclusi dalla titolarità del bene non hanno il diritto di partecipare alle decisioni assembleari riguardanti tale bene, e la composizione dell’assemblea e le maggioranze richieste variano in base alla titolarità delle specifiche parti oggetto della deliberazione.

Cassazione n. 13229/2019: Nel contesto del condominio parziale, le spese per la ricostruzione di un singolo corpo di fabbrica e l’obbligo di risarcire eventuali danni gravano esclusivamente sui condomini proprietari delle unità immobiliari a cui il bene comune danneggiato o da ricostruire è funzionale, anche qualora la sentenza di condanna sia formalmente indirizzata all’intero condominio.

Conclusioni

Il condominio parziale garantisce la corretta ripartizione delle spese nei condomini, evitando che alcuni proprietari debbano pagare per beni o servizi che non utilizzano. La giurisprudenza ha confermato più volte l’applicabilità dell’art. 1123, comma 3, c.c., sottolineando che il condominio parziale nasce automaticamente in presenza di beni destinati a un uso limitato. Per evitare controversie, è consigliabile definire chiaramente nel regolamento condominiale quali beni rientrano nel condominio parziale e come devono essere ripartite le spese. In caso di dubbi o contestazioni, è possibile ricorrere all’assemblea condominiale o, nei casi più complessi, all’autorità giudiziaria.

Leggi anche: Condominio parziale e lesioni: chi paga?

esportazione contanti in Russia

Esportazione contanti in Russia: divieto anche per cure mediche La Corte UE ribadisce che il divieto europeo di esportazione di contanti in Russia vale anche per le cure mediche

Divieto UE di esportazione contanti in Russia

La Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza resa nella causa C-246/24, ha stabilito che il divieto di esportazione di banconote in euro o in valuta ufficiale di uno Stato membro verso la Russia si applica anche quando il denaro è destinato al pagamento di trattamenti sanitari. La deroga al divieto è limitata esclusivamente alle spese strettamente necessarie per il viaggio e il soggiorno personale.

Il caso: passeggera diretta in Russia con 15.000 euro

Durante un controllo doganale all’aeroporto di Francoforte sul Meno, una passeggera in partenza per la Russia è stata trovata in possesso di circa 15.000 euro in contanti. L’interessata ha dichiarato che il denaro serviva sia a coprire le spese del viaggio, sia a finanziare cure mediche in Russia, tra cui:

  • trattamenti odontoiatrici,

  • terapia ormonale presso una clinica per la procreazione assistita,

  • follow-up chirurgico a seguito di un’operazione estetica.

I funzionari doganali hanno proceduto al sequestro dell’importo, trattenendo solo una somma minima (circa 1.000 euro) per garantire le esigenze basilari del viaggio.

Misure restrittive dell’UE contro la Russia

Esportazione contanti in Russia: a seguito dell’aggressione militare della Federazione Russa ai danni dell’Ucraina, l’Unione europea ha adottato misure restrittive volte a limitare il supporto economico al regime russo. Tra queste, figura il divieto di esportazione verso la Russia di banconote denominate in euro o in valute ufficiali degli Stati membri.

Questa misura intende ostacolare l’accesso della Russia al denaro contante in valuta forte, con l’obiettivo di incrementare il costo economico delle sue azioni militari.

Tuttavia, la normativa prevede un’eccezione: è consentito esportare denaro limitatamente alle somme necessarie per l’uso personale del viaggiatore o dei familiari stretti che lo accompagnano.

Il chiarimento della Corte UE

Il tribunale tedesco investito del caso ha sollevato una questione pregiudiziale chiedendo se le spese mediche potessero rientrare nell’ambito delle deroghe previste dal regolamento europeo.

La Corte di giustizia UE ha escluso questa possibilità, precisando che:

  • i trattamenti medici programmati in Russia non costituiscono una spesa necessaria per l’uso personale del viaggiatore, ai sensi delle deroghe previste;

  • l’eccezione riguarda unicamente le somme utili a garantire il viaggio e la permanenza, non altre finalità, pur se personali.

La Corte ha inoltre ricordato che l’UE non vieta il diritto di recarsi in Russia, ma mira a evitare che risorse finanziarie in valuta europea sostengano direttamente o indirettamente l’economia russa.