violenza sessuale

La violenza sessuale (art. 609-bis c.p.) Le forme di violenza sessuale previste dal legislatore traggono origine dalla riforma epocale avvenuta con la legge n. 66/1996

Il reato di violenza sessuale

L’art. 609bis, sotto la generica rubrica «violenza sessuale», prevede e punisce come reato:

  • il fatto di chi, con violenza o minaccia, o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o a subire atti sessuali; il fatto di chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;
  • il fatto di chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali, traendo in inganno la persona offesa, per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.

In forza di tale previsione è possibile distinguere due tipi di violenza sessuale: una violenza sessuale posta in essere mediante azione diretta (violenza, minaccia, abuso di autorità) sulla persona offesa; e una violenza sessuale posta in essere mediante induzione (comma 2).

Il problema della responsabilità per omissione

Occorre ricordare, quanto alla possibilità di rispondere di violenza sessuale per omissione, che la giurisprudenza ha giustamente affermato che il genitore esercente la potestà sui figli minori, come tale investito, a norma dell’art. 147 c.c., di una posizione di garanzia in ordine alla tutela dell’integrità psico-fisica dei medesimi, risponde, a titolo di causalità omissiva di cui all’art. 40 cpv. c.p., degli atti di violenza sessuale compiuti dal coniuge sui figli allorquando sussistano le condizioni rappresentate:

a) dalla conoscenza o conoscibilità dell’evento;

b) dalla conoscenza o riconoscibilità dell’azione doverosa incombente sul «garante»;

c) dalla possibilità oggettiva di impedire l’evento (in tal senso, Cass. 30-1-2008, n. 4730). Si è, per converso, escluso che sussista tale obbligo di garanzia a carico dei nonni (Cass. 27-9-2011, n. 34900).

Violenza sessuale mediante azione diretta: soggetto attivo e passivo

Il comma 1 dell’art. 609bis prevede il fatto di chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali.

Soggetto attivo del reato può essere «chiunque»: si tratta, pertanto, di un reato comune, ed in particolare, di un reato ad esecuzione personale, in quanto l’autore principale è sempre il soggetto che compie l’atto sessuale con la vittima; nel caso in cui la violenza, minaccia od abuso di autorità siano opera di un terzo sarà configurabile un concorso di persona nel reato (artt. 110 e ss. c.p.).

In ordine al soggetto passivo, il legislatore non opera alcuna restrizione, né di sesso, né di altra natura: può trattarsi di qualunque essere umano, uomo o donna.

Nell’ambito dei soggetti tutelati, rientrano anche:

  • il coniuge: il concetto di violenza sessuale, come già quello di violenza carnale, non è, infatti, suscettibile di connotazioni diverse tra estranei o nei rapporti tra coniugi, godendo, senza alcun dubbio, anche il coniuge del diritto (insopprimibile ed inviolabile) di disporre liberamente del proprio corpo a fini sessuali. Ed in tal senso si è espressa, in modo constante la giurisprudenza della Cassazione, sostenendo, fra l’altro che, in tema di violenza sessuale, l’esistenza di un rapporto di «coniugio» non esclude, di per sé, la configurabilità del reato, dovendo ritenersi, alla luce di quanto stabilito dall’art. 143 c.c. in materia di diritti e doveri dei coniugi, che non sussista un diritto assoluto del coniuge al compimento di atti sessuali come mero sfogo dell’istinto sessuale anche contro la volontà dell’altro coniuge, tanto più in un contesto di sopraffazioni, infedeltà e violenze, ponendosi queste in contrapposizione rispetto ai sentimenti di rispetto, affiatamento e vicendevole aiuto e solidarietà fra le cui espressioni deve ricomprendersi anche il rapporto sessuale (Cass. 8-10-2007, n. 36962). E ciò anche quando è provato che l’autore, per le violenze e minacce precedenti poste ripetutamente in essere nei confronti della vittima, aveva la consapevolezza del rifiuto implicito della stessa agli atti sessuali;
  • il soggetto dedito alla prostituzione: le condizioni e le qualità personali della persona offesa non legittimano la riconduzione del fatto all’ipotesi di minore gravità, in quanto il diritto al rispetto della libertà sessuale trova eguale riconoscimento nei confronti di chiunque, a prescindere dal motivo e dal numero dei rapporti usualmente intrattenuti (Cass. 18-1-2017, n. 2469).

Soggetto passivo può essere unicamente un essere umano vivente: ne consegue che:

  • la cd. necrofilia (sfogo di libidine commesso con cadaveri) esula dall’ambito dell’art. 609bis, e può assumere rilievo penale unicamente nell’ambito della fattispecie prevista dall’art. 410 c.p. (vilipendio di cadavere);
  • i rapporti sessuali con animali esulano, a loro volta, dall’ambito dell’art. 609bis e possono assumere rilievo penale unicamente nell’ambito delle fattispecie previste dagli artt. 638 (uccisione o danneggiamento di animali altrui) e 544ter c.p. (maltrattamento di animali).

L’elemento oggettivo: violenza, minaccia od abuso

Sotto il profilo oggettivo assumono rilievo la violenza, minaccia od abuso di autorità poste in essere per costringere la vittima al compimento di un atto sessuale non voluto.

La violenza consiste nell’esercizio di una qualsiasi forza fisica, anche se non spinta al massimo della brutalità ed irresistibilità, diretta a vincere la resistenza opposta della vittima. Ed infatti integra il requisito oggettivo della condotta violenta non solo quella che pone il soggetto passivo nell’impossibilità di opporre tutta la resistenza voluta, tanto da realizzare un vero e proprio costringimento fisico, ma anche quella che si manifesta nel compimento insidiosamente rapido dell’azione criminosa, così venendosi a superare la contraria volontà del soggetto passivo (Cass. 14-7-2010, n. 27273). In altri termini la condotta vietata consiste sia nella violenza fisica in senso stretto, sia nella intimidazione psicologica che sia in grado di provocare la coazione della vittima a subire gli atti sessuali, sia anche nel compimento di atti di libidine subdoli e repentini, compiuti senza accertarsi del consenso della persona destinataria, o comunque prevenendone la manifestazione di dissenso.

La minaccia, a sua volta, consiste nel manifestato proposito di arrecare un danno alla vittima, ad altre persone o alle cose, al fine di coartare la volontà della vittima e farle accettare l’atto voluto di mira dall’agente.

Rientra nella nozione di minaccia impiegata dall’art. 609bis c.p. anche la prospettazione, da parte del soggetto agente, di esercitare un diritto quando essa sia finalizzata al conseguimento dell’ulteriore vantaggio di tipo sessuale, non giuridicamente tutelato, ottenendosi per tale via un profitto ingiusto e contra ius.

Come visto l’abuso di autorità costituisce, unitamente alla violenza o alla minaccia, una delle modalità di consumazione del reato previsto dall’art. 609bis c.p. Ad avviso della Cassazione, esso presuppone una posizione di preminenza, anche di fatto e di natura privata, che l’agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali (Cass. Sez. Un. 1-10-2020, n. 27326). Naturalmente, perché possa parlarsi di abuso di autorità, occorre che l’atto sessuale non sia stato voluto dalla vittima ma che l’abusante abbia approfittato della propria condizione di superiorità per indurre la persona offesa a subire. In altri termini l’abuso di autorità deve determinare una vera e propria costrizione al compimento degli atti sessuali.

Si pone anche il problema di stabilire se la relazione di dipendenza tra il soggetto agente e la vittima debba essere attuale (sussistente, cioè, al momento dell’atto sessuale), o possa essere anche cessata, purché si protragga il timore riverenziale provocato dalla stessa relazione: se, tuttavia, si ha riguardo agli elementi che costituiscono la fattispecie oggetto di incriminazione, ed alla ratio della stessa che va individuata nel possibile timore riverenziale che può ingenerarsi nella vittima, risulta chiaro che la relazione di dipendenza non attuale non assumerà alcun rilievo, soltanto se essa sia venuta meno anche di fatto, se, cioè, il soggetto agente non conserva alcun potere concreto sulla vittima.

Per quanto riguarda il problema della necessità, o meno, che la relazione di dipendenza che origina l’abuso intercorra tra l’autore del fatto e la vittima, si impone il rilievo che ben potrà, in concreto, l’abuso essere posto in essere per favorire il compimento di un atto sessuale tra la vittima ed un terzo: rileva, pertanto, non soltanto la relazione diretta (quella intercorrente tra il soggetto agente e la persona offesa), ma anche quella indiretta (sussistendo, in tal caso, una ipotesi di concorso di persone nel reato, tra il soggetto che abusa della propria autorità, ed il terzo che compie l’atto sessuale non voluto dalla vittima).

È opportuno precisare che, qualora l’abuso sia rivolto in danno di persona sottoposta a limitazioni della libertà personale, si versa nell’ipotesi aggravata di cui all’art. 609ter, comma 1, n. 4).

Sia la violenza, sia la minaccia, sia l’abuso di autorità devono essere tali da poter concretamente coartare la volontà della persona offesa.

In particolare, la violenza e la minaccia devono essere poste in essere con connotati che ne esteriorizzino la gravità e la serietà. L’idoneità della violenza o della minaccia a coartare la volontà della vittima nei reati di violenza sessuale vanno esaminate non secondo criteri astratti aprioristici, ma tenendosi conto, in concreto, di ogni circostanza oggettiva (di tempo, di luogo) e soggettiva (personalità del soggetto attivo e della vittima); sicché anche una semplice minaccia o intimidazione psicologica, attuata in situazioni particolari tali da influire negativamente sul processo mentale di libera determinazione della vittima, può esser sufficiente ad integrare, senza necessità di protrazione nel corso della successiva fase della condotta tipica dei reati in esame, gli estremi della violenza.

L’atto sessuale

Il concetto di «atto sessuale» costituisce una delle più importanti innovazioni apportate dalla nuova normativa.

La precedente disciplina era incentrata sulla distinzione tra:

  • congiunzione carnale, che si ha ogni qualvolta avvenga una qualsiasi compenetrazione, anche abnorme, tra organi genitali, ovvero tra un organo genitale ed un altro organo: la nozione ricomprendeva sia il coito anale che quello orale;
  • atti di libidine violenti, che si concretizzano in ogni forma di contatto corporeo (pur non inerente agli organi genitali, o a parti nude del corpo), diversa della penetrazione, che, per le modalità con cui si svolge, costituisca inequivoca manifestazione di ebbrezza sessuale.

Proprio in virtù di tale distinzione, ai fini della qualificazione giuridica dei fatti di volta in volta oggetto di indagine, assumeva in passato decisivo rilievo l’accertamento della qualità dell’atto compiuto (e cioè il quantum di penetrazione, la completa congiunzione carnale, o l’atto idoneo a procurare una diversa soddisfazione sessuale): ciò giustificava odiose indagini (ed odiose domande, poste da taluni difensori con spregio assoluto di ogni etica professionale, e più ancora morale), che costringevano le vittime a raccontare (e ricordare) la sequenza di oltraggiose infamie subìte; il processo si risolveva, spesso, in un ulteriore supplizio per la vittima, tratta al cospetto di imputati talora arroganti e sprezzanti (le cronache processuali sono piene di simili episodi).

Avuto riguardo alla diversa oggettività giuridica del reato di violenza sessuale (che, nella nuova configurazione, offende la libertà individuale della vittima), oltre che all’esigenza di toglier rilievo a distinzioni atte ad offendere ulteriormente la dignità della vittima, il legislatore ha incentrato il disvalore della nuova fattispecie nel compimento di un atto sessuale non voluto dalla vittima.

Il concetto di atto sessuale, definibile come ogni condotta che si concretizza nella manifestazione esteriore di un istinto sessuale ricomprende, pertanto, sia la congiunzione carnale (ed, in particolare, ogni forma, anche abnorme, di coito) sia gli atti di libidine, e, quindi, oltre ad ogni forma di congiunzione carnale, qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, ancorché fugace ed estemporaneo, tra soggetto attivo e soggetto passivo, ovvero in un coinvolgimento della corporeità sessuale di quest’ultimo, sia idoneo e finalizzato a porne in pericolo la libera autodeterminazione della sfera sessuale.

La fattispecie criminosa di violenza sessuale è integrata, pur in assenza di un contatto fisico diretto con la vittima, quando gli «atti sessuali», quali definiti dall’art. 609bis c.p., coinvolgano oggettivamente la corporeità sessuale della persona offesa e siano finalizzati ed idonei a compromettere il bene primario della libertà individuale, nella prospettiva del reo di soddisfare od eccitare il proprio istinto sessuale. In giurisprudenza si è giunti ad affermare che, in tema di reati contro la libertà sessuale, gli atti sessuali «non convenzionali» possono essere ritenuti leciti nella misura in cui si svolgano in base ad un consenso dei partecipanti che deve protrarsi per tutta la durata degli stessi (Cass. 26-11-2021, n. 43611). Quanto al bacio sulla guancia, in quanto atto non direttamente indirizzato a zone chiaramente definibili come erogene, configura violenza sessuale, nella forma consumata e non tentata, allorquando, in base ad una valutazione complessiva della condotta che tenga conto del contesto ambientale e sociale in cui l’azione è stata realizzata, del rapporto intercorrente tra i soggetti coinvolti e di ogni altro dato fattuale qualificante, possa ritenersi che abbia inciso sulla libertà sessuale della vittima (Cass. 23-10-2019, n. 43423).

In conclusione, dunque, ed alla luce anche della più recente giurisprudenza, possiamo affermare che devono includersi nella nozione di atti sessuali tutti quegli atti indirizzati verso zone erogene e che siano idonei a compromettere la libera determinazione della sessualità del soggetto passivo e ad entrare nella sua sfera sessuale con modalità connotate dalla costrizione, sostituzione di persona, abuso di condizioni di inferiorità fisica o psichica; tra questi vanno ricompresi i toccamenti, palpeggiamenti e sfregamenti sulle parti intime delle vittime, suscettibili di eccitare la concupiscenza sessuale anche in modo non completo e/o di breve durata, essendo del tutto irrilevante, ai fini della consumazione, che il soggetto abbia o meno conseguito la soddisfazione erotica: la prevalenza dell’aspetto oggettivo e non di quello soggettivo, come avveniva in precedenza per gli atti di libidine, discende dalla differente collocazione e dal diverso bene giuridico protetto dai reati introdotti dalla L. 15-2-1996, n. 66 rispetto a quelli in precedenza contemplati dal codice del 1930.

Non è richiesto, per la sussistenza del reato, che gli atti sessuali siano compiuti dall’autore della violenza: come ha precisato la giurisprudenza, infatti, la condotta vietata dall’art. 609bis comprende, se connotata da costrizione, sia ogni forma di congiunzione carnale tra autore del reato e soggetto passivo, sia qualsiasi atto che offende in modo diretto ed univoco la libertà sessuale della vittima (requisito oggettivo), attraverso l’eccitazione dell’agente e l’eventuale soddisfacimento del suo istinto sessuale (requisito soggettivo); di conseguenza, il delitto di violenza sessuale è configurabile non solo nei casi in cui avvenga un contatto fisico diretto tra soggetto attivo e soggetto passivo, ma anche quando il soggetto attivo, al fine del soddisfacimento del proprio piacere sessuale, costringa due soggetti diversi, da considerare entrambi soggetti passivi, a compiere o subire atti sessuali solo tra loro.

Il dissenso della persona offesa

È opportuno ricordare che il dissenso della persona offesa al compimento dell’atto sessuale è elemento costitutivo del reato di cui all’art. 609bis (al pari di quelli dianzi indicati). Ciò significa che il consenso del partner non assume il ruolo di elemento scriminante ex art. 50 c.p. ma esclude la tipicità del fatto. In altre parole l’atto sessuale con persona consenziente fa si che il soggetto agente non compia una violenza sessuale scriminata, ma tenga una condotta diversa da quella tipica.

Al riguardo, la giurisprudenza ha ricordato che il consenso agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell’intero rapporto senza soluzione di continuità, con la conseguenza che integra il reato di cui all’art. 609bis c.p. la prosecuzione di un rapporto nel caso in cui il consenso originariamente prestato venga meno in itinere a seguito di un ripensamento o della non condivisione delle forme o modalità di consumazione dell’amplesso (in tal senso, Cass. 21-1-2008, n. 4532).

Ad avviso della Cassazione, in tema di violenza sessuale, la sussistenza del consenso all’atto, che esclude, come detto, la configurabilità del reato, deve essere verificata in relazione al momento del compimento dell’atto stesso, sicché è irrilevante l’antecedente condotta provocatoria tenuta dalla persona offesa (Cass. 4-3-2022, n. 7873). Si è, altresì, affermato che l’assunzione, da parte della persona offesa, di sostanze alcoliche o stupefacenti in quantità tali da comportare l’assoluta incapacità di esprimere il proprio consenso, rende configurabile, nei suoi confronti, il delitto di violenza sessuale per costrizione, di cui all’art. 609bis, comma 1, c.p. e non quello di violenza sessuale per induzione di cui all’art. 609bis, comma 2, c.p. (Cass. 4-3-2022, n. 7873).

L’elemento soggettivo

Sotto il profilo soggettivo è richiesto il dolo generico caratterizzato dalla volontà dell’atto sessuale, con la coscienza di tutti gli elementi essenziali del fatto.

Tra questi, come si è detto, rientra (oltre che la violenza sessuale, la minaccia, l’abuso di autorità) il dissenso della persona offesa: ne consegue che l’erroneo convincimento che il partner sia consenziente, integrando gli estremi dell’errore sul fatto che costituisce reato, ex art. 47, comma 1, esclude la punibilità dell’agente in quanto esclude il dolo necessario. Ciò vale anche nell’ipotesi in cui l’errore sul consenso della persona offesa sia determinato da colpa, in quanto il reato di cui all’art. 609bis non è previsto dalla legge come delitto colposo.

Qualora, invece, il soggetto agente ignori l’esistenza del consenso del partner e, dunque, creda per errore di compiere una violenza sessuale, trova applicazione l’art. 49, comma 1, c.p. (cd. reato putativo) in forza del quale è esclusa la punibilità per il reato erroneamente ritenuto esistente, fermo restando la punibilità per un diverso reato (ad esempio, violenza o minaccia) del quale concorrano gli elementi costitutivi (art. 49, comma 3).

In giurisprudenza si afferma che, in tema di violenza sessuale, costituendo il dissenso della persona offesa un elemento costitutivo, sia pure implicito, della fattispecie, necessario perché sussista la condotta tipica, l’errore su di esso rileva come errore di fatto, sicché incombe sull’imputato l’onere di fornire la prova del relativo assunto (Cass. 31-1-2022, n. 33326).

Consumazione e tentativo

Ai fini della consumazione del reato di cui all’art. 609bis è sufficiente il compimento dell’atto sessuale come prima inteso, risultando priva di rilievo l’eventuale concupiscenza (emissio seminis) o soddisfazione che può derivarne.

Nessun dubbio può nutrirsi sulla configurabilità del tentativo: è opportuno tener presente, però, che, a seguito dell’unificazione, nel più ampio concetto di atto sessuale, della violenza carnale e degli atti di libidine violenti, sarà configurabile il tentativo in presenza di atti che, pur diretti all’atto sessuale, non si concretizzino in alcun approccio fisico, pur se sia stata già posta in essere la violenza, la minaccia o l’abuso di autorità.

In tal senso, in giurisprudenza si afferma che è configurabile il tentativo del reato previsto dall’art. 609bis c.p. in tutte le ipotesi in cui la condotta violenta o minacciosa non abbia determinato una immediata e concreta intrusione nella sfera sessuale della vittima, poiché l’agente non ne ha raggiunto le zone genitali o erogene ovvero non ha provocato un contatto tra le proprie parti intime e la vittima (Cass. 24-3-2022, n. 10626). Si è ritenuto il tentativo, altresì, nella condotta di colui che, all’esplicito rifiuto di consumare un rapporto sessuale, reitera più volte la richiesta ponendo in essere violenze o minacce che, sebbene non comportino una immediata e concreta intrusione nella sfera sessuale della vittima, siano comunque chiaramente finalizzate a vincerne la resistenza (Cass. 14-10-2015, n. 41214). In sintesi, ai fini dell’integrazione del tentativo di reati a sfondo sessuale sono necessarie, sul piano soggettivo, l’intenzione dell’agente di raggiungere l’appagamento dei propri istinti sessuali e, sul piano oggettivo, l’idoneità della condotta a violare la libertà di autodeterminazione della vittima nella sfera sessuale, anche, eventualmente, ma non necessariamente, attraverso contatti fisici, sia pure di tipo superficiale e-o fugace, non indirizzati verso zone cd. erogene (Cass. 1-6-2011, n. 21840).

La violenza sessuale presunta

Il comma 2 dell’art. 609bis disciplina due fattispecie di violenza sessuale mediante induzione (o, come talvolta è chiamata nella prassi, violenza sessuale presunta), poste in essere (non secondo generici e non definiti comportamenti idonei a suggestionare la volontà della vittima, bensì) secondo modalità specificamente descritte e che sono:

  • l’abuso di condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;
  • l’aver tratto in inganno la persona offesa, per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.

In entrambe le figure la persona offesa consente all’atto sessuale, ma il suo consenso è viziato dall’inganno o dall’abuso che il soggetto agente compie giovandosi dello stato di inferiorità fisica o psichica della stessa persona offesa: in esse, quindi, il consenso si configura quale elemento strutturale della fattispecie criminosa, e non può essere conseguentemente valutato quale circostanza attenuante ai sensi dell’art. 62, n. 5) (concorso del fatto doloso della persona offesa).

Esaminiamo le due forme di induzione:

a) L’abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della vittima

La prima delle due forme di induzione fa riferimento, con formulazione generica, ad una strumentalizzazione di condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa, da qualunque causa siano esse state cagionate, anche se si tratta di causa indipendente dal fatto del colpevole, purché le stesse siano sussistenti al momento dell’atto sessuale: non sussisterà alcun reato nel caso di «intervalla insaniae», in cui cioè la persona offesa, pur fisicamente o psichicamente inferma, abbia riacquistato per intero il pieno possesso delle proprie capacità fisiche e psichiche, prestando validamente il proprio consenso all’atto sessuale nel corso di un «lucido intervallo».

In giurisprudenza si afferma che tra le condizioni di inferiorità psichica rilevanti a norma dell’art. 609bis, comma 2, n. 1), c.p. rientrano tutte quelle che siano tali da determinare una posizione vulnerabile della vittima, indipendentemente dall’esistenza di patologie mentali, comprese quelle determinate da credenze esoteriche in grado di suggestionare la persona offesa, delle quali l’agente approfitti spingendo o convincendo quest’ultima ad aderire ad atti sessuali che, diversamente, non avrebbe compiuto (Cass. 11-11-2020, n. 31512). Quanto all’induzione, in particolare, si è affermato che essa si realizza anche quando, con un’opera di persuasione sottile e subdola, l’agente spinge, istiga o convince la persona che si trova in stato di inferiorità ad aderire ad atti sessuali che diversamente non avrebbe compiuto (Cass. 3-6-2010, n. 20766).

Questo speciale stato non deve, tuttavia, assumere rilievo soltanto sotto un profilo astratto, ma va posto in necessario raffronto con la situazione di fatto concretamente esistente al momento dell’atto sessuale, con riferimento sia al contesto esterno nel quale i fatti sono inseriti (per accertare l’eventuale esistenza di modifiche intervenute nel tempo, che abbiano causato una positiva evoluzione della personalità della vittima, eliminando la condizione di inferiorità psichica), sia alla persona del soggetto agente (onde accertare se quest’ultimo abbia, o meno, avuto consapevolezza dell’esistenza di una condizione di menomata resistenza della vittima).

In un esaustivo pronunciamento in materia, in sintesi, la Cassazione ha avuto modo di affermare che per la sussistenza del reato di cui all’art. 609bis, comma 2, n. 1), c.p., è necessario accertare che:

1) la condizione di inferiorità sussista al momento del fatto;

2) il consenso dell’atto sia viziato da tale condizione;

3) il vizio sia riscontrato caso per caso e non presunto, né desunto esclusivamente dalla condizione patologica in cui si trovi la persona, quando non sia tale da escludere radicalmente, in base ad un accertamento, se necessario, fondato su basi scientifiche, la capacità stessa di autodeterminarsi;

4) il consenso sia frutto dell’induzione;

5) l’induzione, a sua volta, sia stata posta in essere al fine di sfruttare la (e approfittare della) condizione di inferiorità per carpire un consenso che altrimenti non sarebbe stato dato;

6) l’induzione e la sua natura abusiva non si identifichino con l’atto sessuale, ma lo precedano (Cass. 23-11-2018, n. 52835).

Tra i casi di inferiorità fisiopsichica ben possono rientrare, secondo una consolidata giurisprudenza che la dottrina recente ritiene ancor oggi valida:

  • lo stato di tossicodipendenza, in quanto il soggetto, pur di procurarsi gli stupefacenti, è disposto a qualsiasi azione, anche cedere il proprio corpo (Cass. 6173/1999);
  • l’assunzione di psicofarmaci (cosiddetti tranquillanti), quando da esso derivi una sospensione della attenzione e dei poteri di controllo che renda il soggetto medesimo incapace di normale resistenza all’azione del colpevole ed a quest’ultimo consenta di commettere violenza carnale (Cass. 624/1996);
  • l’assunzione di una quantità di bevande alcoliche tale da determinare un evidente indebolimento psichico di cui era pienamente consapevole il soggetto attivo per essere stato presente all’assunzione delle bevande stesse (Cass. 39800/2016).

b) L’inganno mediante sostituzione di persona

La fattispecie di cui al n. 2) dell’art. 609bis fa riferimento al caso, tradizionalmente discusso in dottrina, in cui il soggetto agente, attraverso l’impiego di mezzi fraudolenti, si sostituisca alla persona in relazione alla quale soltanto la vittima avrebbe prestato il consenso all’atto sessuale (si pensi al caso di chi, avvalendosi dell’oscurità, approfitti di una donna sostituendosi al di lei marito).

Si ritiene (AMBROSINI) che la «sostituzione di persona» di cui parla la norma è quella tipica prevista dall’art. 494; ne consegue che integra la fattispecie in esame l’attribuirsi falsamente la qualità di «medico» per compiere atti lascivi su una donna.

Elemento soggettivo

Vale quanto detto per il comma 1 dell’art. 609bis. Va solo precisato che per le ipotesi in esame il soggetto deve essere consapevole della particolare condizione della vittima (per il n. 1) o deve volere l’inganno (per il n. 2).

Pena ed istituti processuali per le due figure di violenza sessuale

Per effetto dei correttivi al sistema sanzionatorio, dovuti alla L. 19-7-2019, n. 69 (cd. «Codice rosso»), la pena è la reclusione da sei a dodici anni (ante riforma era la reclusione da cinque a dieci anni), pena diminuita in misura non eccedente i due terzi nei casi di minore gravità. L’arresto in flagranza è obbligatorio (facoltativo nelle ipotesi di minore gravità), ed il fermo consentito. Si procede a querela della persona offesa (d’ufficio nei casi previsti dall’art. 609septies, comma 4, nonché in presenza delle aggravanti di cui agli artt. 270bis.1, comma 1 e 416bis.1, comma 1 c.p.) e la competenza spetta al Tribunale collegiale.

L’attenuante di cui all’art. 609bis, comma 3

La circostanza attenuante prevista nel comma 3 dell’art. 609bis consente, nei casi di minore gravità, una riduzione della pena da applicare, nella misura massima di due terzi.

Si tratta di una circostanza attenuante:

  • speciale (in quanto prevista solo per i reati in oggetto);
  • oggettiva (concernendo casi di minore gravità, da individuare avendo riguardo alla natura, l’oggetto, la specie, i mezzi, il tempo, il luogo ed ogni altra modalità dell’azione, od anche la gravità del danno: essa, come tale, ai sensi dell’art. 118 c.p., in caso di concorso di persona nel reato, risulterà applicabile a tutti i concorrenti per il solo fatto di sussistere);
  • obbligatoria (sussistendo i presupposti per la sua concessione, il giudice dovrà necessariamente operare la diminuzione di pena, conservando ampia discrezionalità soltanto in ordine alla quantificazione della diminuzione, da un terzo a due terzi);
  • ad effetto speciale (ex art. 63, comma 3, c.p.), comportando una diminuzione di pena in misura superiore ad un terzo della pena base;
  • ad efficacia comune (operando la diminuzione rispetto alla pena base);
  • compatibile con il tentativo (art. 56 c.p.): in proposito, si è affermato in giurisprudenza che, ai fini della configurabilità della circostanza attenuante del fatto di minore gravità nel tentativo di violenza sessuale, non si deve tenere conto dell’azione effettivamente compiuta dall’agente, ma di quella che lo stesso aveva intenzione di porre in essere e che non è stata realizzata per cause indipendenti dalla sua volontà (Cass. 18-4-2017, n. 18793).

Il vero problema che pone l’attenuante in esame è quello di dare un contenuto concreto all’espressione «minore gravità» usata dal legislatore e, quindi, di individuare parametri oggettivi cui ancorare la maggiore o minore gravità del fatto.

In concreto, ed alla luce dell’esperienza dottrinaria e giurisprudenziale maturata con riguardo ad analoghe figure, può ritenersi che ai fini della concessione dell’attenuante per i «casi di minore gravità» dovrà considerarsi il nocumento che il reato, ove consumato, avrebbe cagionato alla persona offesa, in rapporto all’oggetto materiale del reato stesso, ed al grado di compressione dell’altrui libertà personale (sessuale) che avrebbe caratterizzato il reato consumato, senza aver riguardo all’effetto conseguente al mero fatto materiale del tentativo; ricorrono, quindi, gli estremi per l’applicazione dell’attenuante in esame in tutti quei casi in cui, avuto riguardo ai mezzi, alle modalità ed alle circostanze dell’azione, sia possibile ritenere che la libertà personale (sessuale) della vittima sia stata compressa in maniera meno grave (ad esempio, l’atto sessuale compiuto fruendo dell’iniziale consenso del partner nonostante la successiva ed immotivata revoca del consenso stesso).

Più volte chiamata ad esprimersi in merito al senso da attribuire alla locuzione «minore gravità», la Cassazione ha avuto modo di affermare quanto segue: il riconoscimento della circostanza attenuante della minore gravità del fatto non è impedito dalla commissione di una pluralità di episodi illeciti in danno di diverse persone offese, la cui libertà sessuale sia stata compressa in maniera non grave (Cass. 20-6-2016, n. 25434); la mancanza di contatto fisico tra l’autore del reato e la vittima non è determinante ai fini del riconoscimento della circostanza attenuante del fatto di minore gravità (Cass. 2-5-2013, n. 19033); non può essere concessa nell’ipotesi di reato di violenza sessuale di gruppo di cui all’art. 609octies c.p., in quanto trattasi di attenuante specifica prevista soltanto per la violenza sessuale individuale ed essendo peraltro incompatibile logicamente con la maggiore gravità di una violenza sessuale di gruppo (Cass. 15-11-2007, n. 42111); ai fini del riconoscimento della circostanza attenuante della «minore gravità» non rileva la semplice assenza di un rapporto sessuale con penetrazione, in quanto è necessario valutare il fatto nella sua complessità (Cass. 6-3-2009, n. 10085); l’attenuante di cui all’art. 609bis, ultimo comma, c.p. non può essere di per sé esclusa per la sussistenza di una o più circostanze aggravanti, occorrendo in tal caso valutare se queste ultime, in relazione al bene giuridico tutelato, incidano sui parametri che rilevano ai fini dell’accertamento della minore gravità del fatto, costituiti dal grado di compressione della libertà sessuale subito dalla vittima e dalla consistenza del danno arrecatole (Cass. 19-2-2020, n. 6502); in tema di violenza sessuale, non è di ostacolo al riconoscimento della circostanza attenuante speciale del fatto di minore gravità di cui all’art. 609bis, comma 3, c.p., il fatto che il reato sia commesso da un docente, all’interno di un istituto scolastico, in danno di allievi, posto che l’abuso di autorità è già stato considerato dal legislatore come elemento integrativo della fattispecie incriminatrice, nonché ai fini della procedibilità d’ufficio del reato (Cass. 30-5-2023, n. 35303); in tema di violenza sessuale, il riconoscimento dell’attenuante della minore gravità, nel caso di più fatti in continuazione ai danni della medesima persona offesa minorenne, richiede che ogni singolo fatto sia inquadrato in una valutazione globale, posto che anche un fatto, ritenuto di modesta gravità se valutato singolarmente, può, ove replicato, comportare un aggravamento di intensità della lesione del bene giuridico così da comportare l’esclusione dell’attenuante speciale (Cass. 24-11-2022, n. 9308); in tema di reati sessuali, non ricorre l’attenuante della minore gravità del fatto, di cui all’art. 609bis, comma 3, c.p., nel caso in cui la violenza sessuale sia perpetrata dal genitore ai danni del proprio figlio, trattandosi di condotta che, profanando gravemente la sfera sessuale della vittima, determina uno sviamento dalla funzione di accudimento e protezione propria della figura genitoriale (Cass. 17-12-2021, n. 23078); in tema di violenza sessuale, anche in caso di solo sopravvenuto dissenso della vittima al rapporto sessuale è legittimo il diniego della circostanza attenuante del fatto di minore gravità, quando, per i mezzi, le modalità esecutive della condotta, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e mentali di questa, e le caratteristiche psicologiche valutate in relazione all’età, si realizzi una significativa compromissione della libertà sessuale (Cass. 22-1-2020, n. 16440).

La violenza sessuale aggravata (artt. 609ter e duodecies)

L’art. 609ter (oggetto di numerosi correttivi succedutisi nel tempo) prevede, nei suoi due commi, una serie di circostanze aggravanti.

In particolare il comma 1, dispone che la pena stabilita dall’art. 609bis è aumentata di un terzo se i fatti ivi previsti sono commessi:

  • nei confronti di persona della quale il colpevole sia l’ascendente, il genitore, anche adottivo, o il tutore;
  • con l’uso di armi o di sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti o di altri strumenti o sostanze gravemente lesivi della salute della persona offesa.

Ai fini della configurabilità dell’aggravante dell’arma, è necessario che il reo sia palesemente armato, ma non che l’arma sia addirittura impugnata per minacciare, essendo sufficiente che essa sia portata in modo da poter intimidire (Cass. 26-2-2021, n. 7754). Quanto all’uso di sostanze narcotiche, si verifica quando lo stato di incoscienza della vittima sia stato provocato mediante la somministrazione di farmaci anestetici allo scopo di consentire all’agente di porre in essere la condotta vietata;

  • da persona travisata o che simuli la qualità di pubblico ufficiale o di incaricati di pubblico servizio;
  • su persona comunque sottoposta a limitazioni della libertà personale;

Tale circostanza include anche le ipotesi nelle quali lo stato del soggetto passivo non discenda da un potere pubblicistico ed abbia natura illecita, comprensiva del sequestro di persona.

  • nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni diciotto;
  • all’interno o nelle immediate vicinanze di istituto d’istruzione o di formazione frequentato dalla persona offesa;
  • nei confronti di donna in stato di gravidanza;
  • nei confronti di persona della quale il colpevole sia il coniuge, anche separato o divorziato, ovvero colui che alla stessa persona è o è stato legato da relazione affettiva, anche senza convivenza.

Sussiste «relazione affettiva» quando il soggetto attivo possieda o abbia posseduto determinate qualità soggettive che, indipendentemente sia dalla convivenza con la vittima, sia dalla stabilità e/o durata della «relazione», facilitino il delitto consentendo all’agente lo sfruttamento del rapporto di fiducia della vittima nei suoi confronti e l’accesso violento o abusivo nella sfera più intima di quest’ultima;

  • se il reato è commesso da persona che fa parte di un’associazione per delinquere e al fine di agevolarne l’attività.

Sia questa aggravante, che la successiva, introdotte dal D.Lgs. 4-3-2014, n. 39, costituiscono la traduzione normativa di taluni dei precetti contenuti nell’art. 9 della direttiva 2011/93/ UE, sostitutiva della decisione quadro 2004/68/ GAI, nel quale gli Stati destinatari si impegnano ad adottare le misure necessarie affinché possano essere considerate figure circostanziali dei delitti oggetto della direttiva il fatto che «[…] d) il reato è stato commesso nel contesto di un’organizzazione criminale ai sensi della decisione quadro 2008/841/GAI del Consiglio, del 24-10-2008, relativa alla lotta contro la criminalità organizzata; […] g) il reato è stato commesso ricorrendo a violenze gravi o ha causato al minore un pregiudizio grave»;

  • se il reato è commesso con violenze gravi o se dal fatto deriva al minore, a causa della reiterazione delle condotte, un pregiudizio grave.

La figura prevede due distinte ipotesi, di cui solo la seconda prende in considerazione l’età della vittima, limitandosi la prima a considerare le «violenze gravi», a prescindere dal fatto che la vittima del reato sia maggiorenne o minorenne;

  • se dal fatto deriva pericolo di vita per il minore.

Tale configurazione aggravata rientra fra le novità disciplinari dovute alla L. 23-12-2021, n. 238 (nota come Legge europea 2019-2020). Nello specifico, la modifica appare volta a recare attuazione a quanto previsto nell’art. 9, lett. f) della Direttiva 2011/93/UE, il quale dispone che gli Stati membri adottino le misure necessarie affinché sia considerata quale aggravante, con riferimento ai reati sessuali su minori (specificamente indicati negli artt. da 3 a 7 della direttiva stessa) la circostanza per la quale «l’autore del reato, deliberatamente o per negligenza, ha messo in pericolo la vita del minore».

Ai sensi del comma 2 della medesima previsione, la pena stabilita dall’art. 609bis è aumentata della metà se i fatti ivi previsti sono commessi nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni quattordici. La pena è raddoppiata se i fatti di cui all’art. 609bis sono commessi nei confronti di persona che non ha compiuto gli anni dieci.

Si evidenzia che l’aggravante in commento è stata oggetto di numerosi correttivi, il più recente dei quali operato dalla L. 19-7-2019, n. 69, cd. «Codice rosso». La prima delle modifiche effettuate si traduce in un correttivo di coordinamento rispetto all’incremento sanzionatorio della fattispecie di riferimento (la violenza sessuale, ex art. 609bis, la cui risposta sanzionatoria, come visto, è stata elevata, passando dalla reclusione da cinque a dieci anni alla reclusione da sei a dodici anni). Di qui l’esigenza di richiamare direttamente la figura-base e prevederne un aumento di pena. Inoltre, attraverso le coordinate innovazioni concernenti la prima e la quinta di tali previsioni, si è, poi, disposto che la violenza sessuale commessa dall’ascendente, dal genitore anche adottivo o dal tutore sia sempre aggravata, a prescindere dall’età della vittima (prima del correttivo era aggravata solo la violenza commessa da questi soggetti in danno di minorenne, per tal via ritenendo di apprestare una maggior tutela nell’ambito delle relazioni familiari, spesso sede di turpi episodi criminosi del genere tipizzato dalla norma). Si è, infine, provveduto ad una rimodulazione delle aggravanti quando la violenza sessuale sia commessa in danno di minore. Si prevede, infatti, un aumento di pena progressivamente maggiore, quanto meno elevata sia l’età della vittima (un terzo della pena-base della violenza sessuale per gli infradiciottenni, la metà per gli infraquattordicenni ed il doppio per coloro che non abbiano compiuto i dieci anni). Prima del correttivo, si prevedeva esclusivamente una aggravante per il fatto commesso in danno di minore di anni dieci.

Per effetto, infine, dell’art. 609duodecies (introdotto dal decreto del 2014 di cui si è appena detto) la violenza sessuale, ma anche le fattispecie di reato di cui agli artt. 609quater, quinquies, octies ed undecies, sono aggravate (con incremento di pena non eccedente la metà) se commesse con l’utilizzo di mezzi atti ad impedire l’identificazione dei dati di accesso alle reti telematiche (per tal via disincentivando l’impiego della telematica quale strumento di approccio alle vittime).

Si è affermato in giurisprudenza che, in tema di reati sessuali, è configurabile l’aggravante dell’utilizzo di mezzi atti ad impedire l’identificazione dei dati di acceso alle reti telematiche, di cui all’art. 609duodecies c.p., nel caso in cui l’agente ponga in essere una qualsiasi azione volta a rendere maggiormente difficoltosa la propria identificazione, eludendo le normali modalità di riconoscimento (Cass. 23-11-2022, n. 44453).

 

Vedi le altre guide e articoli di diritto penale

prestazioni di esodo

Prestazioni di esodo: i chiarimenti INPS L'INPS fornisce chiarimenti in merito alle ricostituzioni delle prestazioni di esodo di cui all'art. 4, commi da 1 a 7, della legge n. 92/2012

Chiarimenti in merito alle ricostituzioni delle prestazioni di esodo

Prestazioni di esodo: a seguito delle richieste di chiarimento pervenute, l’INPS con il messaggio n. 3078 del 19 settembre 2024, fornisce ulteriori indicazioni operative in merito alla possibilità di ricostituire le stesse, di rideterminare l’importo della prestazione e la sua scadenza, in presenza di contribuzione accreditata a seguito di domanda presentata successivamente all’accesso in esodo come, ad esempio, per la domanda di accredito figurativo per il servizio militare o per la domanda di riscatto/ricongiunzione, non valutata né ai fini della verifica del diritto né della quantificazione dell’importo.

La domanda

La domanda di prestazione di accompagnamento a pensione, ricorda l’istituto, è trasmessa telematicamente dal datore di lavoro tramite il “Portale prestazioni esodo”.

Nella domanda sono riportati, oltre ai dati identificativi del datore di lavoro, anche le informazioni relative all’anzianità contributiva maturata dal lavoratore alla data di risoluzione del rapporto di lavoro, nonché la data fino alla quale il datore di lavoro si impegna a versare la contribuzione correlata.

Per le prestazioni di esodo di cui all’articolo 4, commi da 1 a 7, della legge 28 giugno 2012, n. 92, e all’articolo 41, comma 5-bis, del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 148, tali informazioni sono certificate dall’Istituto prima della chiusura del relativo piano di esodo.

Poiché le prestazioni di esodo sono erogate su richiesta del datore di lavoro che ha l’onere del pagamento delle prestazioni stesse, non è possibile procedere alla loro ricostituzione né d’ufficio né su istanza del lavoratore.

La domanda di ricostituzione deve, pertanto, essere presentata esclusivamente dal datore di lavoro esodante, in accordo con il lavoratore.

Casi particolari

Si precisa, inoltre, che è consentita la ricostituzione delle prestazioni di esodo, sempre previa domanda da parte del datore di lavoro in accordo con il lavoratore, nel caso in cui:

  • dopo la cessazione del rapporto di lavoro, vengano erogate retribuzioni riferite al periodo di lavoro precedente alla cessazione e non considerate al momento della liquidazione in via definitiva della prestazione di esodo;
  • nell’estratto contributivo risulti contribuzione non presente al momento della liquidazione in via definitiva della prestazione di esodo.

Qualora, a seguito dell’accredito di tale contribuzione, possa essere anticipata la scadenza dell’assegno di esodo, la Struttura dell’INPS territorialmente competente provvede ad avvisare il datore di lavoro e il lavoratore per concordare l’anticipo della scadenza della prestazione e il relativo versamento della contribuzione correlata. Nel caso di ricostituzione, il modello “TE08” recherà la nuova scadenza della prestazione di accompagnamento a pensione per consentire al lavoratore di presentare in tempo utile la domanda di pensione.

La contribuzione accreditata viene considerata in sede di liquidazione della prestazione pensionistica.

Procedura WEBDOM

La domanda di ricostituzione deve essere caricata nella procedura “WEBDOM” in modalità manuale solo a seguito di apposita richiesta presentata dal datore di lavoro tramite posta elettronica certificata (PEC) alla Struttura dell’INPS territorialmente competente che gestisce l’assegno di esodo, allegando una dichiarazione, opportunamente timbrata e firmata dal legale rappresentante, con la quale lo stesso si fa carico dell’eventuale maggiore onere derivante dalla ricostituzione della prestazione.

Alla domanda deve essere allegato anche il consenso del lavoratore interessato, da acquisire agli atti.

 

Vedi le altre notizie su Pensioni

affitti brevi

Affitti brevi: dal 2 novembre obblighi di sicurezza per gli impianti Affitti brevi: dal 2 novembre scatta l’obbligo del Cin ma anche quello in materia di sicurezza degli impianti

Affitti brevi: CIN obbligatorio dal 2 novembre 2024

In materia di affitti brevi la recente normativa è intervenuta su più fronti, introducendo diverse novità. Dal 2 novembre ad esempio, tutti gli immobili e le strutture dovranno possedere il CIN, il codice identificativo nazionale ed esibirlo sia all’interno dell’immobile concesso in locazione che al suo esterno.  

Sicurezza degli impianti per gli affitti brevi

Chi vorrà concedere in locazione il proprio immobile con contratto di affitto di breve durata dovrà adempiere però anche a un altro importante obbligo.

L’articolo 13 ter del Decreto legge n. 145/2023 al comma 7 dispone che le unità immobiliari con destinazione ad a uso abitativo che saranno oggetto di contratti di locazione per finalità turistiche o ai sensi dell’articolo 4 del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50,  gestite con determinate forme imprenditoriali dovranno essere munite dei requisiti di sicurezza degli impianti in base alle prescrizioni stabilite dalle norme statali e regionali in vigore.

Obblighi di sicurezza: in cosa consistono

Nello specifico, le unità immobiliari dovranno essere dotate di dispositivi funzionanti per rilevare la presenza di gas combustibili e del monossido di carbonio.

I proprietari o i locatori dovranno dotare gli immobili di estintori portatili, costruiti e conservati in base alle disposizioni di legge. Questi strumenti dovranno essere posizionati in luoghi facilmente visibili e accessibili, soprattutto vicino ai punti di accesso e nei pressi delle aree di maggior pericolo. Le regole prevedono che i soggetti obbligati dovranno installare un estintore ogni 200 metri quadrati di pavimento, o frazione, con un minimo di un estintore ogni piano.

Per quanto riguarda gli estintori il decreto 145/2023 rinvia al punto 4.4 dell’allegato I  del decreto 3 settembre 2021 contenente i “Criteri generali di progettazione, realizzazione ed esercizio della sicurezza antincendio per luoghi di lavoro, ai sensi dell’articolo 46, comma 3, lettera a), punti 1 e 2, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81.”

 

 

Leggi anche: “Affitti brevi: cos’è il CIN e come ottenerlo

giurista risponde

Violazione delle distanze e limitazione al diritto di godimento del bene L’onere probatorio in caso di violazione delle distanze e limitazione al diritto di godimento del bene può essere soddisfatto mediante elementi presuntivi?

Quesito con risposta a cura di Matteo Castiglione e Nicola Pastoressa

 

In caso di violazione delle distanze, l’esistenza del danno può essere provata attraverso il ragionamento presuntivo, tenendo conto di una serie di elementi – che concorrono anche alla valutazione equitativa del danno – dai quali possa evincersi una riduzione di fruibilità della proprietà, del suo valore e di altri elementi che devono essere allegati e provati dall’attore. – Cass. 27 giugno 2024, n. 17758.

L’oggetto della materia del contendere di cui al caso in esame ha riguardato il risarcimento dei danni causati dall’installazione illegittima di una canna fumaria posta ad una distanza inferiore a quella minima rispetto al balcone del fondo limitrofo.

In sede di appello, la Corte ha rigettato la domanda risarcitoria in quanto, oltre ad aver ritenuto insussistente il danno alla salute, la parte onerata non avrebbe allegato e provato il danno derivante dalla compromissione del godimento del bene: per tali ragioni è stato infine proposto ricorso per Cassazione.

Spiegano i giudici di ultima istanza che il rispetto della distanza prevista per fabbriche e depositi nocivi ex art. 890 c.c. è collegato ad una presunzione di pericolosità assoluta se prevista da norme comunali di tipo regolamentare ovvero relativa in assenza di esse.

Nondimeno, la violazione della distanza della canna fumaria dal balcone di proprietà di parte attrice è stata accertata assieme alla sua intrinseca pericolosità attesa altresì la sua composizione in amianto e le scarse condizioni manutentive; ciò che la Corte territoriale ha omesso di valutare tuttavia, ancorché in via presuntiva, se il pericolo concreto ed attuale derivante all’esposizione a materiali nocivi abbia limitato il godimento del bene a prescindere dalle immissioni dello stesso.

È stato dato seguito al principio di diritto elaborato dalla sez. II della Corte di Cassazione (Cass., sez. II, 18 luglio 2013, n. 17635) e poi ripreso dalle Sezioni Unite del 2022 (Cass., Sez. Un., 15 luglio 2022, n. 33645) secondo cui, “in caso di violazione della normativa sulle distanze tra costruzioni, al proprietario confinante compete sia la tutela in forma specifica finalizzata al ripristino della situazione antecedente, sia la tutela in forma risarcitoria” nonché nel senso che la locuzione “danno in re ipsa” debba essere sostituita con quella di “danno presunto” o “danno normale” privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze.

Nel caso di specie, rilevano i giudici della Suprema Corte, avrebbe errato la Corte d’appello ad escludere la tutela risarcitoria per l’assenza di un danno effettivo alla salute, senza prima valutare se gli elementi presuntivi allegati fossero astrattamente idonei a compromettere il godimento del bene, dovendo accertare se, per le condizioni di tempo e di luogo, vi fosse stata una limitazione concreta nel godimento dell’immobile.

Tale provvedimento impugnato si porrebbe in contrasto con l’orientamento maggioritario (e accolto dalla sent. Cass., sez. II, 23 giugno 2023, n. 18108) secondo cui l’esistenza di un danno risarcibile ben può fondarsi su presunzioni quando vengono soppresse o limitate le facoltà di godimento e disponibilità di cui il bene ne è oggetto.

Per tali ragioni, il ricorso è stato accolto e la Corte ha disposto il rinvio ai giudici dell’appello che, in diversa composizione, dovranno conformarsi al seguente principio di diritto: “In caso di violazione delle distanze, l’esistenza del danno può essere provata attraverso il ragionamento presuntivo, tenendo conto di una serie di elementi – che concorrono anche alla valutazione equitativa del danno – dai quali possa evincersi una riduzione di fruibilità della proprietà, del suo valore e di altri elementi che devono essere allegati e provati dall’attore”.

(*Contributo in tema di “Violazione delle distanze e limitazione al diritto di godimento del bene”, a cura di Matteo Castiglione e Nicola Pastoressa, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

legittimo impedimento avvocati

Legittimo impedimento avvocati, CNF: “Passo avanti sui diritti” Il Consiglio Nazionale Forense plaude all'approvazione del ddl sul legittimo impedimento degli avvocati da parte del Senato (ora alla Camera per la seconda lettura)

Un “Passo avanti per rispetto diritti degli avvocati“. Così il Consiglio Nazionale Forense, plaudendo all’approvazione del ddl sul legittimo impedimento degli avvocati da parte del Senato. Il testo, si ricorda, è stato licenziato il 18 settembre scorso da parte di palazzo Madama, nella versione modificata dalla Commissione Giustizia, e ora è alla Camera per la seconda lettura e l’approvazione definitiva.

Il CNF, si legge nella nota ufficiale, “esprime grande soddisfazione per l’approvazione, da parte del Senato, del disegno di legge n. 729 in tema di legittimo impedimento del difensore. Questo importante provvedimento, frutto di un costante impegno del CNF, riconosce e tutela il diritto degli avvocati a svolgere il proprio ruolo senza pregiudicare il diritto alla difesa dei cittadini”.

Con il ddl, riassume il Consiglio, si estende la possibilità di ottenere il rinvio dell’udienza penale per motivi legati alla salute dei figli o dei familiari dell’avvocato, garantendo una maggiore attenzione alle esigenze personali e familiari. Inoltre, viene introdotta la remissione in termini nel processo civile e la possibilità di rinvio delle udienze per cause di forza maggiore, malattia improvvisa, infortunio, gravidanza o per la necessità di assistenza ai figli e familiari con disabilità o affetti da gravi patologie.

“Questo risultato rappresenta un riconoscimento fondamentale per gli avvocati e, soprattutto, per i diritti dei loro assistiti. La tutela delle esigenze personali e familiari dei difensori – dichiara il Presidente del Consiglio Nazionale Forense Francesco Greco – è imprescindibile per garantire un esercizio sereno della professione forense”.

 

testo unico

Testo Unico Riscossione 2024 Testo Unico in arrivo sulla riscossione dei tributi dopo l'approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del 17 settembre 2024

Riscossione dei tributi: in arrivo il Testo Unico in materia

In arrivo un Testo Unico in materia di riscossione dei tributi. Il testo approvato dal Consiglio dei Ministri del 17 settembre 2024 è frutto dell’iniziativa del Ministro Giorgetti, al fine di attuare la delega governativa per la riforma fiscale.

Questo Testo Unico, collegato al decreto riscossione n. 110/2024 insieme a quelli relativi alla giustizia tributaria, ai tributi erariali minori e alle sanzioni tributarie tende al perseguimento degli obiettivi governativi della semplificazione e razionalizzazione del sistema fiscale nel suo complesso.

Si ricorda che il termine per l’adozione di tutti i testi unici, fissato inizialmente per 29 agosto 2024, è slittato al 31 dicembre 2025, per garantire maggiore organicità e completezza.

Leggi a questo proposito l’articolo Riforma tributaria: testi unici entro il 31 dicembre 2025

Riscossione dei tributi: struttura del Testo Unico

Il Testo Unico dedicato alla fase della riscossione riunisce al suo interno le disposizioni vigenti sparse nei vari testi normativi in un unico contenitore.

La sua struttura segue un preciso iter logico, che è quello che viene seguito in via ordinaria per l’acquisizione delle entrate:

  • riscossione spontanea;
  • riscossione imposte sul reddito (ritenute e acconti);
  • rimborsi redditi e Iva;
  • riscossione tramite ruoli;
  • riscossione coattiva;
  • funzionamento del servizio nazionale di riscossione;
  • estensione della riscossione tramite ruolo ad alcune entrate, anche non tributarie;
  • recepimento della Direttiva 2010/24 UE sulla mutua assistenza tra Stati UE per la riscossione dei crediti erariali;
  • disposizioni transitorie e finali, che individuano le disposizioni abrogate e quelle di coordinamento.

Il Testo è corredato anche da tre allegati che riguardano:

  • le forme societarie e le imposte sui redditi dei Paesi UE;
  • i canoni pagati alle società non residenti o che hanno un’organizzazione stabile in un altro paese UE;
  • le disposizioni che contengono l’interpretazione autentica.

Favorita la riscossione spontanea

Il titolo I del Testo Unico rende più efficienti le procedure di riscossione spontanea e stabilisce limiti alle compensazioni distinguendo i maxi debiti superiori ai 100.000 euro dai debiti minori che superano i 1500 euro.

Non sono compensabili i debiti relativi a imposte erariali e accessori di importo superiore a 100.000 euro a meno che, in relazione a detti importi non siano stati disposti piani di rateizzazione non ancora decaduti.

Non si possono auto compensare debiti che risultano iscritti a ruoli definitivi se l’importo supera i 1500 euro e il termine di pagamento è giù scaduto, salvo eccezioni.

Queste regole puntano a rafforzare la riscossione e a evitare che i contribuenti ricorrano alla compensazione per commettere abusi.

Soglie di riscossione aggiornate

Non si procede più all’accertamento, all’iscrizione a ruolo e alla successiva riscossione se l’importo di ogni credito (comprese sanzioni e interessi) risulta inferiore a 30 euro, rispetto ai precedenti 16,53 euro.

Grazie alla riduzione del numero di iscrizioni a ruolo le operazioni amministrative subiscono così un positivo snellimento.

Riscossione dei tributi: fino a 10 anni per saldare le cartelle 

Il nuovo meccanismo di dilazione di pagamento che entrerà in vigore nel 2025 consentirà ai contribuenti di estinguere i loro debiti con più calma. I piani di pagamento potranno prevedere fino a un massimo di 120 rate a cadenza mensile, per la durata quindi di 10 anni.

Rateizzi elastici a garanzia della riscossione

Le rate però non avranno lo stesso importo, ma aumenteranno progressivamente in base all’entità del debito e alla documentata e temporanea situazione di difficoltà del debitore. In questo modo si evita di mettere il contribuente sotto pressione e grazie a termini di dilazione più lunghi, si limita il rischio del mancato rispetto del piano. Una novità che proietta il sistema fiscale italiano verso una concezione più moderna del fisco e del suo rapporto con il contribuente.

Riscossione coattiva in quella spontanea e tramite ruolo

La riscossione coattiva viene inserita nella sezione della riscossione spontanea e tramite ruolo. In questo modo la gestione delle varie modalità di riscossione risulta omogenea e unificata.

Questo tipo di approccio riduce il contenzioso, rende il sistema fiscale di riscossione più efficiente e trasparente e riesce a bilanciare la necessità di gestire le entrate con i diritti dei contribuenti.

mediazione e negoziazione

Mediazione e negoziazione: cosa prevede il correttivo approvato Mediazione e negoziazione assistita modificate dal correttivo approvato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri

 Mediazione e negoziazione: approvato il correttivo

Mediazione e negoziazione non hanno pace.  Il Consiglio dei Ministri nella giornata di mercoledì 18 settembre 2024 ha approvato in via preliminare uno schema di decreto legislativo. Il provvedimento modifica il decreto legislativo n. 149/2022 in materia di mediazione e negoziazione assistita e modifica, di conseguenza, il decreto legislativo n. 28/2010 e il decreto legge n. 132/2014.

Mediazione e negoziazione in modalità telematica

Lo schema contiene in particolare la disciplina relativa alla mediazione telematica e alla negoziazione assistita, sempre in modalità telematica. Vediamo più in dettaglio le novità dello schema, che deve ricevere il parere delle commissioni permanenti in Parlamento per essere poi approvato in via definitiva dal Consiglio dei ministri.

Mediazione: precisazioni al decreto legislativo n. 28/2010

Per prima cosa lo schema chiarisce che nelle materie elencate all’articolo 5 per le quali la mediazione è una procedura obbligatoria, essa è condizione di procedibilità della domanda introduttiva (non più giudiziale) del giudizio.

Il provvedimento precisa poi che quando il giudice dispone la mediazione lo possa fare fino alla remissione della causa in decisione (non più “fino al momento della precisazione delle conclusioni”.)

Il comma 4 dell’art. 3 attualmente prevede che “la mediazione può svolgersi secondo modalità telematiche previste dal regolamento dell’organismo, nel rispetto dell’articolo 8-bis.” La nuova formulazione aggiunge a questo comma la seguente disposizione “e gli incontri di mediazione possono svolgersi in modalità audiovisive da remoto, nel rispetto di quanto stabilito dall’art. 8 ter” ossia del nuovo articolo introdotto dallo schema.

Durata della mediazione

Lo schema sostituisce l’articolo 6 del decreto legislativo n. 28/2010, che disciplina la durata della mediazione. La nuova formula stabilisce che  la mediazione ha una durata massima di 6 mesi, prorogabile dopo la sua instaurazione e prima della sua scadenza, per periodi di volta in volta non superiori a tre mesi.

Quando il giudice rileva che la causa è improcedibile perché la mediazione rappresenta condizione di procedibilità della domanda o quando la mediazione è demandata dallo stesso, la mediazione dura 6 mesi, con possibilità di proroga per una sola volta di altri 3 mesi, dopo che è stata instaurata, ma prima della sua scadenza.

La proroga nei casi suddetti deve risultare da un accordo scritto delle parti che deve essere allegato al verbale o incluso nello stesso, da cui deve quindi risultare.

Il termine di durata della mediazione non è soggetto alla regola della sospensione feriale dei termini.

Mediazione in modalità telematica

Lo schema modifica anche l’articolo 8 bis dedicato alla mediazione telematica. Quando la mediazione si svolge telematicamente gli atti della procedura sono formati dal mediatore e sottoscritti nel rispetto delle modalità stabilite dal Codice dell’amministrazione digitale.

Conclusa la procedura il mediatore redige un documento informatico, che contiene il verbale e l’accordo eventuale per l’apposizione delle firme da parte dei soggetti.  Il mediatore verifica l’apposizione delle firme, la loro validità e integrità, firma a sua volta e poi cura il deposito del documento presso l’organismo. La segreteria di quest’ultimo lo invia alle parti e agli avvocati, se le parti li hanno nominati.

Incontri con modalità audiovisive da remoto

Il provvedimento inserisce nel decreto legislativo n. 28/2010 il nuovo art. 8 ter che al comma 1 consente sempre alle parti di chiedere al responsabile dell’organismo di poter partecipare ai vari incontri di mediazione con collegamento audiovisivo da remoto. Il sistema deve però consentire alle parti collegate la effettiva, contestuale e reciproca udibili e visibilità.

Se le parti non sono tutte assistite da avvocati l’accordo che viene allegato al verbale viene omologato, su richiesta di parte, con decreto del presidente del tribunale in cui ha sede l’organismo di mediazione nel quale le parti hanno raggiunto l’accordo.

Patrocinio gratuito avvocati nella mediazione

Un’importante precisazione dedicata agli avvocati è quella contenuta nel nuovo comma 3 bis dell’art. 15 quinques. La nuova disposizione stabilisce che quando un avvocato nominato è iscritto in un elenco di un distretto di corte d’appello diverso da quello in cui si trova l’organismo di mediazione non gli spettano le spese e le indennità di trasferta stabilite dai parametri forensi.

Negoziazione assistita: novità

La nuova regola contenuta nell’art. 2 comma 5 del dl n. 132/2014 prevede che l’accordo di negoziazione debba concludersi con l’assistenza di almeno un avvocato per parte. La negoziazione assistita che si svolge in modalità telematica con collegamento audiovisivo da remoto può essere chiesta sempre da ogni parte.

Quando la negoziazione si svolge in modalità telematica, agli atti del procedimento, incluso l’accordo devono essere formati e firmati secondo le regole del Codice dell’amministrazione digitale.

Non si possono però acquisire le dichiarazioni del terzo in modalità telematica o con collegamenti audiovisivi da remoto.

 

Leggi anche: “Mediazione civile: cos’è e come funziona

Allegati

responsabilità medica

Responsabilità medica: azione diretta anche per le vecchie polizze Azione diretta contro l’assicurazione: può essere esercitata dal danneggiato anche in relazione alle vecchie polizze 

Azione diretta contro le compagnie dal 16 marzo 2024

Responsabilità medica: l’azione diretta contro la Compagnia di assicurazione del medico o della struttura sanitaria  è possibile dal 16 marzo 2024, ossia dalla data di entrata in vigore del DM n. 232/2023, anche se la polizza assicurativa è stata stipulata in data anteriore.

Lo hanno affermato di recente due giudici di merito: il Tribunale di Cagliari nell’ordinanza n. 15464/ 2024 e il Tribunale di Milano in due ordinanze, una del 26 agosto 2024, in commento, e una del 10 settembre 2024.

Azione diretta operativa: occorre adeguare le polizze?

Nell’ordinanza del 26 agosto 2024 il Tribunale di Milano precisa che l’art. 12 della legge n. 24/2017 dedicato all’azione diretta del danneggiato al comma 6 recita che: “Le disposizioni del presente articolo si applicano a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto di cui al comma 6 dell’articolo 10 con il quale sono determinati i requisiti minimi delle polizze assicurative per le strutture sanitarie e sociosanitarie e per gli esercenti le professioni sanitarie.”

Esso prevede quindi, in sostanza, che l’azione diretta del danneggiato, in caso di responsabilità sanitaria, sia possibile a partire dalla data di entrata in vigore del decreto, senza disporre altre prescrizioni. Esso in effetti si limita a stabilire i requisiti minimi delle polizze assicurative delle strutture sanitarie, socio sanitarie e degli esercenti le professioni sanitarie, ma non richiede l’adeguamento delle condizioni contrattuali delle polizze assicurative.

Letteralmente quindi la norma nulla dispone in ordine alle eccezioni opponibili in sede di merito in relazione alle polizze sanitarie che non rispettano i requisiti minimi stabiliti dal DM n. 232/2023.

Eccezioni opponibili: vanno valutate caso per caso

Il Tribunale di Milano si occupa del tema dell’opponibilità delle eccezioni solo in via incidentale. Si tratta in effetti di una materia delicata, da valutare caso per caso nell’ambito del giudizio di merito.  Questa situazione sembra dare vita a una separazione temporale dell’azione diretta, che è applicabile sempre e immediatamente rispetto alle eccezioni opponibili, da valutare singolarmente ogni volta.

In relazione ai giudizi successivi al 16 marzo 2024, si potrebbe quindi creare una situazione particolare caratterizzata dal libero avvio dell’azione diretta nei confronti di tutte le compagnie, senza che rilevi la conformità delle polizze allo schema di legge e quindi senza limiti per i contratti stipulati prima del decreto.

 

Leggi anche: “Vittima di errore medico: può agire direttamente per il risarcimento”

concordato preventivo biennale

Concordato preventivo biennale: le istruzioni del fisco Online la circolare dell'Agenzia delle Entrate con le istruzioni sul concordato preventivo biennale. Deadline al 31 ottobre 2024

Concordato preventivo biennale per forfetari e Isa

Pronte le indicazioni sul Concordato preventivo biennale (Cpb), l’istituto introdotto dal Dlgs n. 13/2024 al fine di favorire l’adempimento spontaneo agli obblighi dichiarativi.

L’Agenzia delle Entrate, con la circolare n. 18/E, traccia le linee generali e spiega le regole specifiche per i forfetari e per i contribuenti che applicano gli Indici sintetici di affidabilità (Isa). Partendo dalla platea dei soggetti coinvolti, passando poi per benefici, condizioni, modalità e tempi per aderire, fino alle cause di cessazione e di decadenza: il documento di prassi fissa il perimetro di applicazione del nuovo istituto del Cpb. Nell’ultimo capitolo vengono infine fornite le risposte ad alcuni quesiti: viene ad esempio chiarito che il contribuente che ha già inviato la dichiarazione 2024 senza accettare la proposta di Cpb può ancora aderire, presentando una dichiarazione correttiva nei termini entro il prossimo 31 ottobre, scadenza per l’invio del modello Redditi per il periodo d’imposta 2023.

Chi può accedere al Cpb

Possono accedere al Concordato preventivo i contribuenti di minori dimensioni titolari di reddito d’impresa e di lavoro autonomo. In particolare, il nuovo istituto è dedicato a coloro che aderiscono al regime dei forfetari e ai contribuenti che sono tenuti all’applicazione degli Isa. Tra le condizioni per l’adesione, non avere debiti per tributi amministrati dall’Agenzia o debiti contributivi o aver estinto, prima della scadenza del termine per aderire al Concordato, quelli di importo pari o superiore a 5mila euro. Il Cpb è precluso inoltre a coloro che nei tre anni precedenti a quello di applicazione non hanno presentato la dichiarazione dei redditi, pur essendo tenuti a farlo. Ulteriore condizione è non essere stati condannati per determinati reati (decreto legislativo n. 74/2000, articolo 2621 del codice civile, articoli 648-bis, 648-ter e 648-ter 1 del codice penale).

I benefici fiscali

L’adesione alla proposta consente di pianificare la propria tassazione per un anno in via sperimentale (2024) per i forfetari e per due anni (2024 e 2025) per i contribuenti Isa. Inoltre, nei confronti di tutti i soggetti che aderiscono non potranno essere effettuati gli accertamenti previsti dall’articolo 39 del Dpr n. 600/73 salvo che, in esito ad attività istruttorie dell’amministrazione Finanziaria, non si verifichi una causa di decadenza dal Cpb stesso. Ulteriori benefici riguardano i contribuenti che applicano gli Isa, che avranno diritto alle premialità specifiche del regime. L’adesione, invece, non ha alcun effetto ai fini Iva.

Come aderire

I contribuenti forfetari possono compilare il quadro LM del modello direttamente tramite il servizio “RedditiOnline” oppure tramite l’applicativo della dichiarazione precompilata per definire il proprio reddito 2024 e valutare se aderire all’istituto. I contribuenti Isa, invece, hanno a disposizione sul sito dell’Agenzia il software “Il tuo ISA 2024 CPB” per calcolare il proprio indice sintetico di affidabilità (Isa) e accedere alla proposta di Concordato preventivo biennale (Cpb). In entrambi i casi, la deadline per l’adesione per questo primo anno di applicazione è fissata al 31 ottobre 2024.

Le risposte ai quesiti

Il contribuente che ha già presentato la dichiarazione per il periodo d’imposta 2023 senza accettare la proposta Cpb, è ancora in tempo per formalizzare l’adesione all’istituto, presentando una dichiarazione correttiva nei termini entro il 31 ottobre. È una delle risposte fornite dall’Agenzia nel documento di prassi. Viene inoltre specificato che nel caso in cui un contribuente esercita due attività, una di impresa e una di lavoro autonomo, entrambe soggette a Isa, l’Agenzia formulerà due distinte proposte, cui il contribuente potrà aderire sia congiuntamente sia individualmente.

Vedi gli altri articoli della categoria Fisco

ordine carcerazione

Ordine di carcerazione: cos’è e come funziona L’ordine di carcerazione è il provvedimento con cui il PM dispone la carcerazione di un soggetto condannato, ma non detenuto 

Ordine di carcerazione: definizione

L’ordine di carcerazione è un provvedimento di competenza del Pubblico Ministero. L’articolo 656 c.p.p al comma 1 dispone infatti che quando una sentenza di condanna deve essere eseguita il PM emette un ordine di esecuzione con cui dispone la carcerazione del condannato, se non ancora detenuto. Qualora il condannato si trovi già in stato di detenzione l’ordine di esecuzione viene comunicato al Ministero della Giustizia e notificato all’interessato.

Contenuto dell’ordine di carcerazione

Il comma 3 dell’articolo 656 c.p.p stabilisce il contenuto dell’ordine di carcerazione, che deve essere notificato sia al condannato che al suo difensore. Il provvedimento deve contenere in particolare i seguenti dati:

  • le generalità della persona nei cui confronti deve essere eseguito e qualsiasi altra informazione utile a identificarla;
  • l’imputazione;
  • il dispositivo del provvedimento di condanna e le disposizioni necessarie a darvi esecuzione;
  • l’avviso al condannato che ha il diritto di accedere ai programmi di giustizia riparativa;
  • l’avviso al condannato (se il processo si è svolto in sua assenza) del diritto di chiedere, entro 30 giorni dalla conoscenza della sentenza, la restituzione dei termini per poter impugnare la decisione o chiedere la rescissione del giudicato.

Ordine di carcerazione per madre di figli minori

Qualora l’ordine di esecuzione venga emanato nei confronti di una madre con figli minori il provvedimento stesso deve essere comunicato anche al Procuratore della Repubblica che opera presso il Tribunale dei Minorenni che ha la competenza nel luogo in cui deve essere eseguita la sentenza.

Modalità di esecuzione dell’ordine di carcerazione

Il comma 4 dell’articolo 656 c.p.p, per quanto riguarda  le modalità di esecuzione dell’ordine di carcerazione, rinvia all’art. 277 c.p.p. La norma, prevista per le misure cautelari, ma estensibile anche all’ordine di carcerazione, stabilisce che l’esecuzione debba avvenire nel rispetto della salvaguardia dei diritti della persona che vi è sottoposta. L’esercizio dei diritti della persona però non deve essere incompatibile con le esigenze cautelari del caso concreto.

Liberazione anticipata

Quando il PM deve emettere l’ordine di carcerazione deve prima effettuare dei controlli.

Qualora il PM rilevi che il soggetto nei cui confronti si deve eseguire l’ordine  di carcerazione, tranne che in casi particolari, computando le detrazioni di cui all’art. 54 Legge n. 354/1975 (che vengono applicate se il detenuto partecipi all’opera di rieducazione), debba ancora scontare una pena detentiva di 4, 5 e 6 anni nei casi e per i reati indicati nel comma 5 dell’art. 656 c.p.p, previa verifica dell’esistenza di periodi di custodia cautelare o di pena fungibile, trasmette gli atti al Magistrato di Sorveglianza. Quest’ultimo, in presenza di presupposti di legge, provvede con ordinanza alla liberazione anticipata del soggetto. Il PM può trasmettere gli atti al Magistrato di Sorveglianza per la decisione sulla libertà anticipata anche se il condannato si trova in stato di custodia cautelare in carcere.

Detenzione domiciliare: in quali casi?

Il PM, prima di emettere l’ordine di esecuzione può chiedere al Magistrato di Sorveglianza di disporre in via provvisoria, fino alla decisione del Tribunale di Sorveglianza, la detenzione domiciliare se:

  • il condannato ha un’età pari o superiore a 70 anni e la pena residua da espiare è compresa tra i due e i 4 anni,
  • il condannato si trova agli arresti domiciliari per gravissimi motivi di salute.

Sospensione dell’esecuzione

Il PM, tranne che in casi particolari, se rileva che la pena detentiva da applicare al condannato, anche come residuo di una pena maggiore non supera i 3, 4 e 6 anni, nei casi specificati dal comma 5 dell’art. 656 c.p.p, può sospendere l’esecuzione dell’ordine di carcerazione.  Se però il condannato si trova agli arresti domiciliari, in presenza dei presupposti specificati dal comma 10, il PM può chiedere al Tribunale di Sorveglianza di applicare una misura alternativa alla detenzione (articolo 47, 47 ter e 50 comma 1 legge n. 354/1975).

 

Leggi anche: “Decreto carceri: in vigore la legge di conversione