Anonimizzazione delle sentenze

Anonimizzazione delle sentenze: il Tar dice no Il Tar Lazio dice no all’anonimizzazione delle sentenze automatica nella banca dati del Ministero

Anonimizzazione delle sentenze

Anonimizzazione delle sentenze: con la sentenza n. 7625/2025, il Tar del Lazio ha annullato la decisione del Ministero della Giustizia di oscurare in modo generalizzato i dati personali contenuti nelle sentenze civili pubblicate sul portale dei servizi telematici. Secondo il giudice amministrativo, tale prassi viola il Codice Privacy e compromette la funzione pubblica della giurisprudenza, che deve essere accessibile in forma integrale per garantire la trasparenza e la comprensione delle decisioni.

Il contenzioso

La controversia nasce dal reclamo di alcuni ricercatori e operatori giuridici che, dopo l’attivazione della nuova banca dati giurisprudenziale, si sono trovati nell’impossibilità di consultare le sentenze in forma completa, a causa della rimozione sistematica di nomi, date e riferimenti essenziali. Tale oscuramento, giustificato dall’amministrazione come misura a tutela della privacy, rendeva però impraticabile l’analisi e lo studio dei precedenti giudiziari.

Il principio espresso dal Tar

Il Tar ha chiarito che non è l’amministrazione, bensì l’autorità giudiziaria, a poter decidere caso per caso sull’anonimizzazione delle sentenze, bilanciando il diritto alla riservatezza con il principio di pubblicità della giurisdizione. L’oscuramento totale, infatti, pregiudica l’effettiva intelligibilità della sentenza, impedendo di comprendere a fondo la vicenda fattuale da cui deriva il ragionamento giuridico. Inoltre, la pubblicazione integrale delle decisioni, salvo eccezioni (come nel caso di minori o procedimenti di famiglia), è prevista dal sistema normativo vigente.

giurista risponde

Silenzio assenso in materia edilizia e fiscalizzazione dell’abuso edilizio Il contrasto tra la destinazione dell’immobile e la disciplina urbanistica a esso applicabile esclude la fiscalizzazione?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, il contrasto tra la destinazione dell’immobile e la disciplina urbanistica a esso applicabile esclude di per sé la fiscalizzazione. Di conseguenza non può assumere rilevanza sanante una disciplina urbanistica o edilizia sopravvenuta, non potendo il privato confidare in una modifica del quadro normativo che renda legittimo ciò che non lo era. – Cons. Stato, sez. II, 13 dicembre 2024, n. 10076 (Silenzio assenso in materia edilizia e cosiddetta fiscalizzazione dell’abuso edilizio).

I Giudici di Palazzo Spada, richiamando la costante giurisprudenza, ribadiscono che in materia edilizia l’istituto del silenzio assenso è assoggettato a una disciplina speciale e non direttamente all’art. 20 della L. 241/1990 che non è istituto di carattere generale destinato ad applicarsi in via residuale in mancanza di una diversa disciplina, in quanto la regola è quella secondo la quale le pubbliche Amministrazioni hanno il dovere di concludere il procedimento con un provvedimento espresso e nel rispetto dei principi di legalità e trasparenza, così come nell’istanza ex art. 38 del D.P.R. 380/2001, che non disciplina le conseguenze della mancata risposta dell’amministrazione sull’eventuale istanza del privato, per cui non può formarsi il silenzio assenso su di essa.

Sulla base di tali premesse, la Sezione ha rilevato che, l’art. 20, comma 8, D.P.R. 380/2001, da un lato, prevede che il diniego, per impedire la formazione dell’assenso tacito, deve essere motivato; dall’altro, esclude che l’istituto si applichi qualora l’immobile o l’area in cui si trova siano sottoposti a vincoli, o vi siano state richieste di integrazione documentale o istruttorie inevase. Inoltre, ciò lo si desume anche dalla disciplina in materia di silenzio assenso sull’istanza di condono che si forma solo se ricorrono tutti i requisiti soggettivi e oggettivi per l’accoglimento della stessa; e dal fatto che sull’istanza di accertamento di conformità, l’art. 36, comma 3 del D.P.R. 380/2001 prevede il meccanismo del silenzio diniego. Pertanto, laddove in materia edilizia, il legislatore, non abbia espressamente qualificato la mancata tempestiva risposta dell’amministrazione come silenzio assenso, ovvero come silenzio diniego, essa configura un’ipotesi di silenzio inadempimento, avverso la quale il privato, attraverso l’azione di cui agli artt. 31 e 117 c.p.a., può ottenere l’accertamento dell’obbligo di provvedere e, qualora ne ricorrano i presupposti, anche una pronuncia sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio.

Con riferimento all’art. 38 del D.P.R. 380/2001 si enucleano tre diverse fattispecie: i) una riferibile a un titolo edilizio annullato per un vizio di procedura emendabile e che pertanto è soggetto a convalida ordinaria; ii) la seconda, nella quale il vizio di procedura è insanabile, ma l’opera realizzata abusivamente è conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia, che può essere mantenuta previa applicazione di una sanzione pecuniaria, il cui integrale versamento produce gli stessi effetti del permesso di costruire in sanatoria; iii) la terza, nella quale il vizio che ha annullato il titolo edilizio è di natura sostanziale, quindi l’intervento è contrastante con la disciplina applicabile, ciò precludendo sia la convalida sia la fiscalizzazione e imponendo il ripristino dello stato dei luoghi. Pertanto, l’art. 38 D.P.R. 380/2001 va a disciplinare la convalida introducendo degli elementi di specialità rispetto all’art. 21nonies, comma 2, L. 241/1990 consentendo, da un lato, la convalida del provvedimento annullato (mentre la convalida è preclusa alla formazione del giudicato), e dall’altro, limita la convalida ai vizi di procedura (escludendo i vizi sostanziali).

Nel caso in esame è stato rilevato il contrasto tra la destinazione dell’immobile e la disciplina urbanistica a esso applicabile, che di per sé esclude la fiscalizzazione. Le società ricorrenti contestavano il diniego di fiscalizzazione e l’ordinanza di demolizione emessi rispetto a un capannone utilizzato come autofficina e realizzato in base a un permesso di costruire annullato per contrasto con la normativa urbanistica applicabile all’area. Successivamente, era stata approvata una variante urbanistica, che modificava le destinazioni ammissibili nella zona, includendo quelle utili all’attività dell’autofficina.

Ad ogni modo, non si può giungere ad esiti diversi qualora nel tempo intercorso tra il rilascio del permesso di costruire poi annullato e la presentazione dell’istanza di applicazione di una sanzione pecuniaria in luogo della demolizione, la disciplina urbanistica sia stata modificata.

I Giudici rilevano che l’art. 38 D.P.R. 380/2001 consente che si producano, in conseguenza del pagamento di una sanzione pecuniaria, i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria, ex art. 36 D.P.R. 380/2001, pur in presenza di un bene formalmente abusivo, in quanto il titolo avrebbe dovuto essere rilasciato, stante la sostanziale legittimità dell’opera alla disciplina urbanistica all’epoca vigente e a cui si correla l’affidamento del privato, con la conseguenza che non può assumere rilevanza sanante una disciplina urbanistica o edilizia sopravvenuta, non potendo il privato confidare in una modifica del quadro normativo che renda legittimo ciò che prima non lo era. Ciò al fine di scongiurare la sanabilità dell’immobile per conformità sopravvenuta, che è stata disattesa in mancanza di una base legale. Sul punto, i Giudici precisano, che non conduce a diversa soluzione il D.L. 69/2024, convertito con modificazioni in L. 105/2024, da un lato, perché non ancora vigente al momento dell’adozione del provvedimento impugnato, dall’altro, perché esso non ha inteso superare il requisito della c.d. doppia conformità, ma ha circoscritto l’ambito di applicazione agli abusi edilizi di maggiore gravità.

In conclusione, la modifica al piano regolatore generale del Comune, a prescindere dall’effettiva conformità del capannone alla nuova disciplina, non aveva rilevanza ai fini della concessione della fiscalizzazione, il cui diniego è stato ritenuto immune dai vizi dedotti dalle società ricorrenti.

 

(*Contributo in tema di “Silenzio assenso in materia edilizia e cosiddetta fiscalizzazione dell’abuso edilizio”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

convivenza more uxorio

Convivenza more uxorio: nessun rimborso per il mutuo dopo la separazione Convivenza more uxorio: i pagamenti per il mutuo sono un'obbligazione naturale, rimborso impossibile dopo la fine della relazione

Convivenza more uxorio e restituzione mutuo

L’ordinanza n. 11337/2025 della Cassazione ribadisce un principio chiave sui mutui per l’acquisto della casa quando finisce la convivenza more uxorio. I pagamenti effettuati da un partner all’altro durante la convivenza stabile sono adempimento di un’obbligazione naturale. Di conseguenza, una volta terminata la relazione, non è possibile chiedere la restituzione di queste somme. La Cassazione equipara infatti questi trasferimenti di denaro a un dovere morale e sociale insito nel rapporto di convivenza. La possibilità di un’azione di rimborso basata sull’ingiustificato arricchimento o su altre pretese restitutorie è quindi impossibile.

Obbligazione naturale nella convivenza more uxorio

Il Tribunale di Brescia condanna una donna a pagare 12.000 euro al suo ex convivente per lo “squilibrio economico” creatosi durante la loro convivenza more uxorio (dal 2012 al febbraio 2015). L’uomo sosteneva infatti di aver pagato le spese, le bollette e il mutuo della casa di proprietà della donna per tre anni (circa 28.800 euro), oltre ad aver comprato mobili e versato 10.000 euro per un’auto usata dalla compagna, la quale all’epoca era studentessa e non percepiva stipendio. L’uomo, rimasto senza abitazione dopo la fine della relazione, chiedeva la restituzione di 20.000 euro, invocando i principi di proporzionalità e adeguatezza e l’ingiustificato arricchimento.

Obbligazioni naturali? Nessun rimborso

La Corte d’appello di Brescia però riforma la sentenza, rigettando la domanda dell’uomo e condannandolo alle spese. I versamenti di denaro effettuati dall’uomo durante la convivenza costituiscono adempimento di un’obbligazione naturale e come tale non ripetibile.

Esborsi sproporzionati e indebito arricchimento

L’uomo ricorre quindi in Cassazione, sollevando due motivi di doglianza.

Obbligazioni naturali solo per le spese ordinarie

Con il primo lamenta la nullità della sentenza e la violazione di varie norme civilistiche (artt. 2 Cost., 2034, 2041, 2043 c.c. e artt. 116, 232 c.p.c.). La Corte d’appello ha dato per provate le sue elargizioni, ma non ha considerato la sproporzione tra i suoi esborsi (25.400 euro), le sue condizioni economiche di operaio e l’indebito arricchimento della compagna. La Corte erra quando afferma che i suoi versamenti rientravano nell’assistenza morale e materiale dovuta in un rapporto affettivo consolidato. Questa ricostruzione è valida solo per le spese ordinarie, ma non per i bonifici periodici destinati al pagamento del mutuo e per l’acquisto di beni che hanno arricchito la donna. E’ necessaria una disamina sulla proporzionalità delle attribuzioni patrimoniali tra conviventi.

Omesso esame della consistenza patrimoniale

Con il secondo motivo l’uomo denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo, ossia la sua consistenza patrimoniale. Afferma infatti di aver provato, tramite estratti conto, di percepire uno stipendio di circa 1.700 euro mensili, unica sua entrata, e che i bonifici non erano mensili, ma periodici, indicando una natura straordinaria e non di canone o spese di vita. Sottolinea inoltre che al termine della convivenza era rimasto senza risorse, mentre la compagna si era arricchita grazie al pagamento del mutuo e dei beni acquistati da lui.

Nessun rimborso per le obbligazioni naturali

La Corte di Cassazione però rigetta il ricorso. Quanto al primo motivo, ribadisce che l’azione di arricchimento senza causa non è invocabile quando l’arricchimento deriva dall’adempimento di un’obbligazione naturale. Dalla convivenza nascon0 infatti  doveri morali e sociali. I versamenti di denaro tra conviventi sono generalmente considerati adempimenti doverosi nell’ambito di un rapporto affettivo consolidato. Esso infatti implica collaborazione e assistenza materiale e morale. L’ingiustizia dell’arricchimento può configurarsi quando le prestazioni di un convivente a favore dell’altro esulano dal mero adempimento di tali obbligazioni, superando i limiti di proporzionalità e adeguatezza rispetto alle condizioni sociali e patrimoniali dei conviventi.

Nel caso di specie la Corte d’appello ha ritenuto che l’importo versato dall’uomo per il mutuo (circa 666 euro al mese) fosse proporzionato, equiparabile a un canone di locazione e quindi rientrante nella collaborazione e assistenza dovuta in un rapporto affettivo. La valutazione della Corte d’Appello è plausibile in relazione alla proporzionalità e all’adeguatezza del contributo, rimessa al suo esclusivo apprezzamento. Gli Ermellini confermano quindi il principio secondo cui l’attribuzione patrimoniale al convivente configura adempimento di obbligazione naturale se il giudice di merito, con un giudizio di fatto insindacabile in Cassazione, la ritiene adeguata e proporzionata alle circostanze e alle condizioni del solvens.

Estratti conto insufficienti come prova

Quanto al secondo motivo, la Cassazione lo dichiara inammissibile. Il ricorrente lamenta la mancata considerazione degli estratti conto attestanti il suo stipendio. La Cassazione però ha evidenziato che la Corte d’appello ha basato il suo giudizio di proporzionalità sull’ammontare non contestato dei versamenti per il mutuo. Nel caso di specie mancano “più compiute allegazioni” sulla situazione reddituale complessiva dell’uomo. La mera produzione di estratti conto, da cui si potrebbero desumere alcune entrate, non è sufficiente a provare l’esclusività di tali entrate ai fini della composizione del reddito. Pertanto, la doglianza sulla mancata considerazione dei soli estratti conto non superava la ratio decidendi della sentenza impugnata.

 

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tributi locali

Tributi locali e federalismo fiscale: cosa prevede il decreto Tributi locali: il CdM ha approvato in via preliminare un decreto legislativo dedicato a imposte, tributi locali e federalismo fiscale

Tributi locali: maggiore autonomia fiscale

Il Consiglio dei Ministri ha approvato, al momento in via preliminare, un decreto legislativo che contempla una maggiore autonomia fiscale di regioni e comuni e semplifica gli adempimenti per cittadini e imprese. Lo Schema del decreto, composto al momento da 33 articoli, mira a potenziare le forme di collaborazione con il contribuente, incentivando anche l’adempimento spontaneo degli obblighi tributari e introducendo forme di definizione agevolata in materia di tributi regionale e locali.

Accertamento e riscossione tributi locali

Per quanto riguarda l’accertamento e la riscossione dei tributi il provvedimento prevede l’istituzione di un albo di soggetti privati abilitati a svolgere dette attività. Previste novità anche in materia di  accertamento esecutivo per i tributi regionali.

Tassa automobilistica e Irap

Anche l’apparato sanzionatorio amministrativo subisce profonde modifiche, così come le disposizioni sulla tassa automobilistica regionale, di cui viene semplificato il pagamento.

Le modifiche vanno a toccare anche la disciplina dell’imposta regionale sulle attività produttive e della addizionale regionale all’imposta sul reddito delle persone fisiche.

Tributi locali: imposte provinciali e comunali

Non mancano elementi di novità anche in materia di imposte provinciali (come quella di trascrizione) o in materia di imposte comunali (come l’Imposta municipale propria). I comuni avranno inoltre sanzioni più proporzionali su IMU, TARI, imposta di soggiorno e contributo di sbarco, e un modello telematico unico per l’IMU. Per il triennio 2025-2027, si raddoppia inoltre la quota comunale per il recupero dell’evasione.

Attuazione del federalismo fiscale

La terza parte del provvedimento, dedicata all’attuazione del federalismo fiscale, si occupa della compartecipazione al gettito dell’imposta sul reddito delle persone fisiche da parte delle regioni e consolo. Dal 2026 il decreto prevede inoltre un’importante novità: l’istituzione  della compartecipazione al gettito dell’imposta sul reddito delle persone fisiche anche per le province e per le città metropolitane.

 

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linee guida

Linee guida nella responsabilità medica Linee guida nella responsabilità medica: cosa sono, come incidono e applicazione nella legge Gelli-Bianco

Cosa sono le linee guida in ambito sanitario

Le linee guida nella responsabilità medica costituiscono un pilastro fondamentale nel moderno sistema di valutazione della condotta sanitaria. La loro funzione è quella di orientare l’operato dei professionisti della salute, delineando criteri scientificamente validati che possano fungere da parametro per la verifica della diligenza, perizia e prudenza del sanitario.

Tuttavia, il loro ruolo nella valutazione della responsabilità, civile e penale, del medico è stato oggetto di un’evoluzione normativa e giurisprudenziale complessa, culminata con l’emanazione della legge 8 marzo 2017, n. 24, nota come legge Gelli-Bianco.

Esso consistono in raccomandazioni redatte da enti scientifici accreditati, che individuano percorsi diagnostico-terapeutici basati sulle migliori evidenze disponibili. Esse servono a:

  • uniformare le pratiche cliniche;
  • migliorare la qualità dell’assistenza;
  • ridurre gli errori sanitari;
  • offrire uno standard oggettivo per la valutazione dell’attività sanitaria.

Sono pubblicate e aggiornate dall’Istituto Superiore di Sanità attraverso il Sistema Nazionale Linee Guida (SNLG), istituito con decreto ministeriale 27 febbraio 2018.

L’incidenza sulla responsabilità medica

L’introduzione delle linee guida nel contesto giuridico ha comportato un mutamento nell’accertamento della colpa medica. In precedenza, la responsabilità del sanitario veniva valutata caso per caso, secondo criteri soggettivi. Con il riferimento a queste invece, il giudizio tende a fondarsi su un parametro oggettivo e scientificamente accreditato.

Secondo l’impostazione attuale, il sanitario:

  • è tenuto a rispettare le linee guida accreditate, salvo casi specifici che giustifichino il discostamento;
  • non è punibile qualora l’evento si sia verificato per imperizia, se ha agito conformemente alle stesse (art. 590-sexies c.p.).

La legge Gelli-Bianco (l. 24/2017)

La legge n. 24/2017 ha sistematizzato la materia attraverso l’introduzione di queste due norme:

  • art. 5: stabilisce che i professionisti sanitari devono attenersi, nell’esercizio della propria attività, alle linee guida pubblicate nel SNLG. In assenza, si applicano le buone pratiche clinico-assistenziali;
  • art. 6 (nuovo art. 590-sexies c.p.): esclude la punibilità per imperizia in caso di rispetto delle linee guida o delle buone pratiche.

Quando non bastano

La giurisprudenza ha chiarito che le stesse:

  • non sostituiscono il giudizio clinico individuale del medico;
  • possono essere derogate in presenza di situazioni specifiche, clinicamente giustificate e documentate;
  • la responsabilità può sussistere anche in caso di rispetto formale delle linee guida, se la condotta è priva di personalizzazione sul paziente.

Secondo la Cassazione n. 10175/2020: il rispetto delle linee guida mediche non esclude automaticamente la colpa del medico, è sempre necessario valutare se le specifiche condizioni cliniche del paziente avrebbero richiesto un percorso terapeutico differente rispetto a quello standard indicato dalle linee guida. Il medico ha quindi il dovere di considerare la particolarità di ogni singolo caso e, se necessario, discostarsi dalle linee guida per adottare la soluzione più appropriata per quel determinato paziente. Il rispetto delle stesse è un elemento importante da considerare, ma non è l’unico e non esonera il medico dalla responsabilità se, nel caso concreto, un approccio diverso si sarebbe rivelato necessario e avrebbe potuto evitare l’evento lesivo.

Linee guida e responsabilità della struttura

La legge Gelli-Bianco ha differenziato anche la responsabilità tra sanitario e struttura:

  • il medico risponde ai sensi dell’art. 2043 c.c., quindi in base alla prova del dolo o della colpa  e comunque “salvo che abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente”;
  • la struttura sanitaria pubblica o privata “che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa” risponde contrattualmente, ex art. 1218 c.c., con conseguente onere della prova a suo carico e prescrizione decennale.

Le linee guida assumono rilevanza anche per la struttura, sia come parametro di organizzazione, sia come strumento difensivo nella valutazione dell’adeguatezza delle cure erogate.

 

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indennizzo commercianti

Indennizzo commercianti Indennizzo commercianti 2025: cos’è, natura e importo, a chi spetta, requisiti, come funziona, importo e casi di esclusione

Indennizzo cessazione dell’attività commerciale

L’indennizzo per la cessazione dell’attività commerciale, definito sinteticamente indennizzo commercianti, è una prestazione economica erogata dall’INPS a favore di determinati lavoratori autonomi del commercio, che decidono di chiudere definitivamente la propria attività prima di raggiungere i requisiti pensionistici ordinari. Si tratta di una misura pensata per tutelare i commercianti in età avanzata, che cessano anticipatamente il proprio lavoro. Vediamo nel dettaglio che cos’è l’indennizzo commercianti, chi può richiederlo, come funziona e cosa cambia nel 2025.

Natura e importo dell’indennizzo commercianti

L’indennizzo è una prestazione mensile di natura assistenziale, introdotta inizialmente in via sperimentale con il D.lgs. n. 207/1996 e poi resa strutturale dalla Legge n. 145/2018 (Legge di Bilancio 2019). La misura è gestita dall’INPS e destinata agli iscritti al fondo commercianti che cessano definitivamente l’attività. L’importo dell’indennizzo corrisponde al trattamento minimo di pensione previsto per ciascun anno.

Normativa di riferimento

Le principali fonti normative sono:

  • D.lgs. 28 marzo 1996, n. 207 (istituzione dell’indennizzo).
  • Legge 30 dicembre 2018, n. 145, art. 1, comma 283 (stabilizzazione della misura);
  • Circolare INPS n. 77/2019.

Chi ha diritto all’indennizzo commercianti

L’indennizzo INPS spetta ai:

  • titolari  o coadiutori/coadiutrici di attività commerciale al minuto, anche in forma di  somministrazione di alimenti e bevande e quali che esercitano du aree pubbliche;
  • gli esercenti di attività di somministrazione al pubblico di alimenti e di bevande;
  • gli agenti e i rappresentanti di commercio iscritti alla gestione commercianti INPS.

Requisiti principali:

  • Compimento
    • di 62 anni di età per gli uomini;
    • di 57 anni per le donne.
  • Contributi:
    • almeno 5 anni di iscrizione alla gestione commercianti INPS (anche non continuativi).
  • Cessazione definitiva dell’attività:
    • con chiusura della partita IVA e con cancellazione dal registro delle imprese e dal REA;
    • il richiedente infine non deve svolgere alcuna attività lavorativa successiva, nemmeno in forma occasionale o parasubordinata. Se si riprende l’attività occorre comunicarlo all’INPS entro 30 giorni.

Come funziona l’indennizzo

L’indennizzo è richiedibile tramite portale INPS, utilizzando le credenziali SPID, CIE o CNS. La procedura online prevede:

  1. Verifica dei requisiti anagrafici e contributivi;
  2. Presentazione telematica della domanda;
  3. Controllo da parte dell’INPS sull’effettiva cessazione dell’attività.

L’indennizzo decorre dal primo giorno del mese successivo alla cessazione dell’attività ed è erogato mensilmente fino al compimento dell’età prevista per la pensione di vecchiaia (attualmente 67 anni sia per gli uomini che per le donne).

Importo dell’indennizzo commercianti

L’importo mensile è pari al trattamento minimo INPS, aggiornato annualmente. Nel 2025, l’importo è di 603,40 euro

L’indennizzo non è cumulabile con altri redditi da lavoro, ma non è incompatibile con trattamenti pensionistici diretti e indiretti come la pensione anticipata, la pensione di inabilitò e l’assegno di invalidità.

Casi di esclusione

L’indennizzo non spetta se:

  • il richiedente continua a lavorare in qualsiasi forma;
  • non vi è cessazione definitiva dell’attività;
  • mancano i 5 anni di iscrizione alla gestione commercianti;
  • l’età è inferiore alla soglia minima.

 

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accesso al bagno

Negare l’accesso al bagno lede la dignità del lavoratore La Cassazione ha confermato il diritto al risarcimento per un lavoratore costretto a urinarsi addosso per il diniego di accesso al bagno

Negato l’accesso al bagno, danno alla dignità

Negare l’accesso al bagno è una lesione della dignità del lavoratore. Con l’ordinanza n. 12504/2025, depositata l’11 maggio 2025, la Corte di Cassazione ha confermato la responsabilità della società datrice per non aver consentito a un dipendente di recarsi ai servizi igienici durante il turno di lavoro, riconoscendo un risarcimento di 5.000 euro per la lesione della dignità personale, ai sensi dell’articolo 2087 del codice civile.

I fatti

Durante il turno lavorativo, il dipendente ha avvertito un impellente bisogno fisiologico. Tuttavia, le disposizioni aziendali prevedevano che l’allontanamento dalla postazione fosse possibile solo previa autorizzazione e sostituzione da parte di un team leader. Nonostante ripetute richieste tramite il dispositivo di emergenza, il lavoratore non ha ottenuto l’autorizzazione necessaria. Giunto al limite della resistenza, si è recato autonomamente ai servizi igienici, ma non è riuscito a evitare di urinarsi addosso. Successivamente, ha chiesto di potersi cambiare in infermeria, ma anche questa richiesta è stata negata, costringendolo a proseguire il lavoro fino alla pausa, momento in cui ha potuto cambiarsi in un’area comune, alla presenza di altri colleghi. 

La decisione della Corte

La Corte di Cassazione ha ritenuto inammissibili i motivi di ricorso presentati dall’azienda, confermando le decisioni dei giudici di merito. È stato sottolineato che l’azienda non ha adottato misure idonee a prevenire situazioni lesive della dignità del lavoratore, come previsto dall’articolo 2087 c.c.

In particolare, la Corte ha evidenziato che l’organizzazione del lavoro non ha garantito un sistema efficace per gestire le necessità fisiologiche dei dipendenti, configurando una violazione degli obblighi di tutela dell’integrità fisica e morale del lavoratore. 

Allegati

bonus donne 2025

Bonus donne 2025: come ottenere l’esonero Bonus donne 2025: esonero contributivo del 100% per l’assunzione a tempo indeterminato di lavoratrici svantaggiate. Domanda INPS online dal 16 maggio

Bonus donne 2025 per lavoratrici svantaggiate

Con l’obiettivo di favorire l’occupazione femminile stabile, il Bonus donne 2025 introduce un esonero contributivo del 100% per le assunzioni a tempo indeterminato di lavoratrici svantaggiate, da effettuarsi entro il 31 dicembre 2025. L’incentivo è stato introdotto dal decreto-legge n. 60/2024 (decreto Coesione) e regolamentato dalla circolare INPS n. 91 del 12 maggio 2025, pubblicata in accordo con il Ministero del Lavoro.

Chi può beneficiare del bonus assunzioni donne?

L’esonero si applica a tutte le imprese private, incluse quelle del settore agricolo, che assumono a tempo indeterminato donne rientranti in una delle seguenti categorie:

  • donne disoccupate da almeno 24 mesi, indipendentemente dalla residenza;

  • donne senza impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi, se residenti in una delle regioni della Zona Economica Speciale (ZES) Unica per il Mezzogiorno (Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Puglia, Calabria, Sicilia, Sardegna);

  • donne che lavorano in settori con forte disparità occupazionale di genere.

Quali sono i vantaggi per i datori di lavoro?

Il bonus contributivo per l’assunzione di donne svantaggiate prevede:

  • esonero del 100% dei contributi previdenziali INPS a carico del datore di lavoro;

  • esclusione dei contributi INAIL dall’agevolazione;

  • durata massima dell’incentivo: 24 mesi;

  • limite massimo dell’esonero: 650 euro al mese per ogni lavoratrice assunta.

Come richiedere l’incentivo INPS

A partire dal 16 maggio 2025, i datori di lavoro potranno presentare domanda attraverso il Portale delle Agevolazioni INPS (ex DiResCo), seguendo le modalità operative illustrate nella circolare INPS n. 91/2025.

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cellulari a scuola

Cellulari a scuola: la proposta dell’Italia Divieto di cellulari a scuola: la proposta di Valditara all’Unione Europea per tutelare benessere e apprendimento

Cellulari a scuola

Divieto di cellulari a scuola: il Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, ha presentato al Consiglio dell’Unione europea per l’Istruzione una proposta ufficiale per una raccomandazione europea sul divieto degli smartphone in classe. L’iniziativa, riportata sul sito del ministero, riguarda tutte le scuole primarie e secondarie di primo grado nei Paesi membri dell’UE.

Valditara ha sottolineato come numerosi studi scientifici abbiano dimostrato gli effetti negativi dell’abuso di dispositivi mobili in età scolare, tra cui perdita di concentrazione, riduzione della memoria, peggioramento delle competenze linguistiche e indebolimento del pensiero critico. Secondo il Ministro, l’uso eccessivo degli smartphone tra bambini e preadolescenti contribuisce anche all’isolamento sociale e al calo delle performance scolastiche.

“È giunto il momento di intervenire con decisione per proteggere il benessere e la qualità dell’apprendimento dei nostri giovani”, ha dichiarato Valditara, aprendo alla possibilità di estendere il divieto anche alle scuole superiori.

Smartphone vietati in classe: la normativa italiana

In Italia, il Ministero dell’Istruzione ha già disposto a partire da settembre 2024 il divieto di utilizzo degli smartphone in classe per gli alunni della scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado. Resta permesso l’uso dei dispositivi elettronici solo se previsto nei piani didattici personalizzati per studenti con disabilità o DSA.

L’Europa si muove sul divieto dei cellulari

La proposta italiana si inserisce in un contesto europeo in cui vari Stati membri stanno già adottando misure restrittive sull’uso dei cellulari nelle scuole primarie e medie. Secondo Valditara, è necessario ora un coordinamento a livello europeo, anche per regolamentare l’accesso ai social network in età scolare, contrastando fenomeni come:

  • Cyberbullismo

  • Pedopornografia online

  • Atti di autolesionismo

  • Violenza di genere digitale

La proposta italiana ha ricevuto ampio consenso da parte degli altri Paesi membri, senza registrare interventi contrari.

consigliere forense

Il Consigliere forense deve essere diligente e imparziale Il CNF chiarisce i doveri di imparzialità e indipendenza del Consigliere forense, ribadendo le responsabilità disciplinari

Adempimento incarico di Consigliere forense

Consigliere Forense: la sentenza n. 390/2024 del CNF, pubblicata il 4 maggio 2025 sul sito del Codice deontologico, affronta il tema dell’adempimento degli incarichi istituzionali da parte degli avvocati membri delle istituzioni forensi, sottolineando l’importanza dei principi di diligenza, indipendenza e imparzialità.

Il caso esaminato

Il procedimento disciplinare ha riguardato un avvocato che, in qualità di Consigliere dell’Ordine degli Avvocati (COA) di [OMISSIS], ha compiuto una serie di azioni ritenute in contrasto con i doveri deontologici. Tra le condotte contestate:

  1. Aver indotto il COA a deliberare l’iscrizione di oltre duecento avvocati rumeni con titoli rilasciati dalla cosiddetta “struttura Bota”, nonostante la consapevolezza dell’illegittimità della procedura, derivante da precedenti sentenze e circolari del CNF.

  2. Aver promosso, pur rivestendo la carica di Consigliere del COA, una causa risarcitoria contro lo stesso Consiglio, in nome e per conto di terzi.

  3. Aver assunto il patrocinio, davanti al CNF, di numerosi iscritti alla Sezione Speciale per l’impugnazione delle delibere di cancellazione dall’Albo, nonostante il conflitto di interessi derivante dalla sua posizione istituzionale. 

  4. Aver consentito che presso il proprio studio avesse sede un’associazione costituita per difendere gli interessi degli avvocati abilitati presso la “struttura Bota”, in contrapposizione ai deliberati del COA.

La decisione del CNF

Il CNF ha confermato la responsabilità disciplinare dell’avvocato per le condotte sopra descritte, ritenendo che esse violino l’art. 69, comma 1, del Codice Deontologico Forense (CDF), il quale impone agli avvocati chiamati a far parte delle istituzioni forensi di adempiere l’incarico con diligenza, indipendenza e imparzialità.

Inoltre, il CNF ha evidenziato che la violazione dell’art. 69 CDF non esclude la concorrente responsabilità disciplinare per la violazione di principi generali contenuti nel Titolo I del CDF, ai sensi dell’art. 20 CDF. Nel caso di specie, è stata riscontrata anche la violazione dell’art. 9 CDF, relativo ai doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza.