Laurea invalida: non provati gli esami sostenuti in Erasmus  Laurea invalida: il superamento degli esami sostenuti durante il percorso Erasmus mancano del riscontro e di convalida ufficiale

Laurea invalida: la laureata deve ripetere gli esami

Il Consiglio di Stato con la sentenza n. 518/2025 ha dichiarato una laurea invalida. Otto esami Erasmus, svolti in Spagna nel 2007-2009, non sono stati validamente riconosciuti. Il Consiglio ha stabilito che gli esami risultano non sostenuti o non convalidati ufficialmente. La laureata dovrà quindi ripetere gli esami per riottenere il titolo e completare la specializzazione.

Titolo di laurea nullo: non superati otto esami nel percorso Erasmus

L’Università di Bari ha dichiarato nullo il titolo di studio di una laureata in medicina. L’Ateneo ha rilevato il mancato superamento di otto esami, sostenuti nel programma Erasmus presso l’Università di Valladolid negli anni 2007-2008 e 2008-2009. Lo stesso ha quindi annullato la laurea dopo alcuni controlli amministrativi avviati  in sede di esame della domanda di trasferimento della dottoressa a una Scuola di Specializzazione. Il gestionale informatico Esse3 presentava un’anomalia, consistente nell’assenza di documentazione (statini o Transcripts of Records) comprovante il superamento degli otto esami registrati nel libretto online Esse3 come “Erasmus”. L’ Università di Valladolid non ha confermato il superamento degli esami. Sei di questi non apparivano nei Learning Agreements né nei Transcripts of Records rilasciati. I due presenti nel piano di studi spagnolo risultavano invece “no presentado” (studente assente).

Illegittimo considerare non superati gli esami Erasmus

La laureata ha impugnato il provvedimento davanti al TAR Puglia, che ha accolto il ricorso. Il Tribunale ha rilevato che l’Università aveva seguito la procedura per il riconoscimento degli esami Erasmus. L’Ateneo aveva rilasciato infatti una certificazione propedeutica all’accesso alla seduta di laurea con l’elenco di tutti gli esami superati.  Uno scrutinio eseguito anni dopo però ha smentito la certificazione.

Il TAR ha rilevato però che l’Ateneo aveva smarrito la documentazione originale e che le prove documentali iniziali certificavano lo svolgimento degli esami Erasmus. Illegittimo quindi porre a carico della ricorrente l’assenza di documentazione e farne derivare il mancato superamento degli esami. Il transcript of records dell’Ateneo spagnolo, inoltre, non è stato considerato idoneo a supportare l’annullamento della laurea. Il TAR ha ritenuto illegittimo considerare non superati gli esami non rientranti nel programma Erasmus, a fronte della “disordinata gestione dei fascicoli” da parte dell’Ateneo barese e in assenza di prova piena. Quanto all’ipotesi della verbalizzazione irregolare dei due esami il TAR ha statuito che trattasi si errore materiale.

Registrazione esami illegittima: mancato riscontro documentale

L’Università  ha appellato la sentenza, contestando l’errore del TAR nell’attribuire valore di prova fidefacente alla registrazione degli esami nel libretto informatico Esse3. Trattasi di una mera operazione informatica che richiede una previa valutazione e convalida del Consiglio di Facoltà sulla base della documentazione fornita dall’Ateneo straniero. Confrontando i learning agreements, i transcript of records e le risultanze del Consiglio di Facoltà, è emerso “con certezza” che per alcuni esami la registrazione in Esse3 era illegittima per mancanza di riscontro documentale e convalida. Errato ritenere che l’annullamento della laurea si fondi su un’ipotesi di contraffazione. La decisione si basa piuttosto sull’accertamento documentale che otto esami non erano stati sostenuti in Erasmus né convalidati dal Consiglio di Facoltà. L’Ateneo appellante ha criticato la valutazione del TAR riguardo al documento emesso dall’Università di Valladolid in risposta alla richiesta di documentazione post-smarrimento del libretto. Il nuovo transcript of records spagnolo è risultato coerente con quelli dell’epoca e con il verbale del Consiglio di Facoltà dell’8 marzo 2010. La laureata non disponeva di documenti (learning agreements, transcript of records e verbali di convalida) in grado di dimostrare il superamento degli otto esami mancanti. La nullità della laurea è quindi una conseguenza logica della mancanza di prova del completamento del corso di studi.

Laurea invalida: non provato il superamento degli esami

Il Consiglio di Stato ha accolto l’appello dell’Università e ha dichiarato la laurea invalida. La dichiarazione di nullità del diploma di laurea deve quindi ritenersi legittima. La stessa si basa sulla mancanza di documentazione comprovante il superamento degli otto esami registrati come “Erasmus”. La documentazione fornita dall’Università spagnola e dall’Ateneo di Bari non provano il superamento degli otto esami presenti nell’applicazione informatica.

Cruciale il rilievo che, ai sensi dell’art. 14 del regolamento didattico interno, il riconoscimento del Consiglio di Facoltà è imprescindibile per la validità degli esami Erasmus. Il verbale agli atti recava il riconoscimento degli esami sostenuti dalla ricorrente, ma in esso non figuravano gli otto esami contestati dall’Università di Bari. Questa circostanza, per il Consiglio di Stato, implica l’assenza dei necessari transcript of records dall’Ateneo estero. L’ipotesi di smarrimento, prospettata dalla laureata, è di “improbabile verificazione” e non supportata da elementi vincolanti.

Di conseguenza non può essere attribuito alcun valore alla mera registrazione degli esami sul libretto informatico della ricorrente. Questa presuppone infatti il previo riconoscimento da parte del Consiglio di Facoltà. Le ricerche condotte dall’Università di Valladolid, su richiesta dell’Ateneo barese, hanno confermato l’assenza degli otto esami contestati nei “copies of the original Transcripts of Records”. La dichiarazione di nullità della laurea deve pertanto ritenersi legittima. È stato provato in positivo che la laureata non aveva mai sostenuto e superato gli otto esami.

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Allegati

giurista risponde

L’adunanza plenaria torna sui casi di rimessione al primo giudice ex art. 105 cpa Ci si chiede se l’annullamento della sentenza di inammissibilità (o di improcedibilità) del ricorso, disvelando che l’omessa trattazione del merito della causa in primo grado ha determinato una ingiusta compressione e dunque una ‘lesione del diritto di difesa’ del ricorrente – lesione che verrebbe ulteriormente perpetrata, per la sottrazione alla sua disponibilità di un grado di giudizio, ove la causa fosse trattata (nel merito) direttamente dal giudice d’appello – non determini la necessità di rimettere la causa, ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.a., al giudice di primo grado: e ciò, quantomeno, allorché la declaratoria di inammissibilità (o di improcedibilità) del ricorso, nella sua interezza, sia avvenuta ex ante e a prescindere dall’esame, seppur parziale, dei motivi dedotti dalla parte

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima, Anna Libraro, Michela Pignatelli

 

L’art. 105, comma 1, c.p.a., nella parte in cui prevede che il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado se dichiara la nullità della sentenza, si applica anche quando la sentenza appellata abbia dichiarato inammissibile il ricorso di primo grado, errando palesemente nell’escludere la legittimazione o l’interesse del ricorrente (Cons. Stato, Ad. Plen., 20 novembre 2024, n. 16 (casi di rimessione al primo giudice ex art. 105 c.p.a).

Nel decidere sul quesito formulato con l’ordinanza di rimessione, l’Adunanza Plenaria ritiene di dover confermare, nella sostanza, la soluzione seguita dalla Plenaria nel 2018, sia pure sulla base di un percorso argomentativo parzialmente diverso e con una integrazione, quanto alla individuazione delle ipotesi di ‘nullità della sentenza.

Più precisamente, l’Adunanza Plenaria, ad integrazione di quanto statuito con le sentenze sopra citate del 2018, enuncia il seguente principio di diritto in ordine alle ipotesi di “nullità della sentenza”: l’art. 105, comma 1, c.p.a., nella parte in cui prevede che il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado se dichiara la nullità della sentenza, si applica anche quando la sentenza appellata abbia dichiarato inammissibile il ricorso di primo grado, errando palesemente nell’escludere la legittimazione o l’interesse del ricorrente”.

Il Collegio muove dalla conformazione costituzionale del processo amministrativo e dalla individuazione dei limiti entro cui le disposizioni del c.p.c. possono essere ad esso applicate precisando che, sotto il primo profilo, per il processo amministrativo il doppio grado di giudizio ha valore di regola costituzionale (art. 125 Cost.; Corte cost. 12 marzo 1975, n. 61, e 1° febbraio 1982, n. 8; Cass., Sez. Un., 15 dicembre 1983, n. 7409), e i casi di giurisdizione in unico grado davanti al Consiglio di Stato devono ritenersi eccezionali e basarsi su una espressa previsione normativa, anche dopo la pronuncia della Corte cost. 395/1988.

Rimarcano i Giudici che, il principio costituzionale del doppio grado del giudizio va interpretato alla luce, da un lato, dei principi del giusto processo e del diritto a un ricorso effettivo (artt. 111, comma 1, Cost.; 13 CEDU; 1 c.p.a.), e, dall’altro lato, della previsione costituzionale del limitato sindacato della Corte di Cassazione sulle decisioni del giudice amministrativo, circoscritto “ai soli motivi inerenti alla giurisdizione” (art. 111, comma 8, Cost.) e più ristretto del sindacato di legittimità che la Corte di Cassazione esercita sulle sentenze del giudice civile per “violazione di legge” (art. 111, comma 7, Cost. e art. 360 c.p.c.).

Il principio del doppio grado di giudizio non implica che la parte abbia diritto a un pieno esame della causa nel merito in due gradi (Cons. Stato, Ad. Plen., 30 giugno 1978, n. 18). Esso comporta, da un lato che, una volta che la causa sia stata decisa dal TAR, sia previsto il rimedio dell’appello, e, dall’altro lato, che la causa debba essere esaminata nel merito in primo grado, in presenza dei relativi presupposti e sulla base dei principi del giusto processo e di effettività della tutela.

Una pronuncia di merito in primo grado potrebbe dal soccombente essere ritenuta persuasiva senza necessità di appello, così evitando i costi di un secondo giudizio e contribuendo alla ragionevole durata del processo.

Le erronee sentenze di primo grado di mero rito, evidenziano i Giudici, non sono solo sentenze “ingiuste” e come tali appellabili, ma – nella misura in cui l’ordinamento non consentisse mai una regressione del giudizio recherebbero anche un vulnus al principio del giusto processo.

La decisione in unico grado di merito innanzi al Consiglio di Stato, le cui sentenze non sono impugnabili per violazione di legge, non costituisce il modello del giudizio amministrativo disciplinato dagli artt. 111 e 125 Cost. e dal c.p.a., laddove hanno previsto il giusto processo e il doppio grado per i casi in cui il giudizio sia definito dall’organo di giustizia amministrativa di primo grado.

La mediazione tra il modello del ‘doppio grado di merito pieno’ – in cui tutti i motivi e tutte le questioni sono esaminati in due gradi – e l’evenienza pratica di un primo grado di mero rito, seguito da un unico grado di merito pieno in fase di appello, è lasciata al legislatore ordinario, chiamato a operare un ragionevole bilanciamento tra le esigenze del giusto processo e della sua ragionevole durata, e ad individuare, per il caso di erronee pronunce in rito, un modello intermedio tra un appello sempre cassatorio e un appello con effetto devolutivo pieno.

A tale bilanciamento il legislatore ordinario ha provveduto in modo differenziato nei diversi processi, con diversa ampiezza dei casi di regressione del giudizio in presenza di erronee pronunce in rito. L’art. 105 c.p.a. prevede un novero di ipotesi di regressione del processo ben più ampio di quello contemplato dall’art. 354 c.p.c.

Quanto ai limiti entro cui le disposizioni del c.p.c. possono essere applicate nel processo amministrativo, l’art. 39, comma 1, c.p.a. stabilisce che: “Per quanto non disciplinato dal presente codice si applicano le disposizioni del codice di procedura civile in quanto compatibili o espressione di principi generali.

Orbene, sostiene il Collegio che la circostanza che una disposizione del processo civile sia espressione di un principio generale non giustifica di per sé sola l’estensione del principio processualcivilistico al processo amministrativo o il suo utilizzo come criterio ermeneutico.

Invero, la regolamentazione di una fattispecie concreta mediante i principi generali piuttosto che mediante disposizioni puntuali, è consentita dall’ordinamento positivo solo i) quando i principi siano gerarchicamente sovraordinati e siano pertanto prevalenti a prescindere da una lacuna dell’ordinamento (ad es. i principi eurounitari), ii) o quando vi sia una lacuna normativa da colmare (analogia iuris ex art. 12, comma 2, disp. prel. c.c.), iii) o quando una legge stabilisca espressamente che i principi da essa enunciati prevalgono sulle sue regole puntuali o ne costituiscono criterio esegetico (v. ad es. art. 1, comma 4, D.Lgs. 36/2023).

I Giudici affermano che nessuna di queste tre ipotesi è ravvisabile nel caso specifico, in quanto: i) il c.p.c. non è una fonte del diritto sovraordinata al c.p.a., ii) l’art. 105 c.p.a. non presenta alcuna lacuna, iii) nessuna disposizione del c.p.a. affida ai principi del processo civile una valenza di canone esegetico del c.p.a.

In particolare, il c.p.a. non contiene alcuna lacuna, quanto ai casi di regressione del giudizio e al c.d. effetto devolutivo, recando un’autonoma e compiuta disciplina di tali profili nel combinato disposto dell’art. 101, comma 2, e dell’art. 105 c.p.a., che non necessita di alcuna integrazione o esegesi sistematica, sicché di per sé non rileva per il processo amministrativo l’art. 354 c.p.c.

Si legge nella sentenza che è vero che l’art. 44, comma 1, L. 69/2009 individua tra le finalità del riassetto delle norme del processo amministrativo quella “di coordinarle con le norme del codice di procedura civile in quanto espressione di principi generali, ma tale criterio della legge delega ha richiesto al legislatore delegato di effettuare una ricognizione e una trasposizione dei principi generali del processo all’interno del processo amministrativo, anche alla luce della pregressa prassi giurisprudenziale utilizzata al fine di colmare lacune della legge processuale amministrativa, e quindi individuando i principi generali del processo civile già ritenuti applicabili al processo amministrativo prima dell’entrata in vigore del c.p.a.

Coordinamento” del c.p.a. con il c.p.c., si evidenzia nella decisione, non significa necessariamente pedissequa trasposizione, bensì adattamento alle peculiarità di un processo che risponde a diverse esigenze e ha una diversa struttura secondo la Costituzione.

In ogni caso, una volta esercitata la delega, i principi del processo civile possono regolare quello amministrativo solo alle condizioni stabilite dall’art. 39 c.p.a., ossia in presenza di una lacuna.

Il c.d. “effetto devolutivo” dell’appello dunque, quale lo si desume, a guisa di principio generale, dall’art. 354 c.p.c. non può essere ricostruito, per il processo amministrativo, in modo identico a come viene ricostruito in quello civile, perché differiscono sia la cornice costituzionale (‘doppio grado di merito’ costituzionalizzato nel primo e non nel secondo, caratterizzato dalla ricorribilità in Cassazione), sia le disposizioni applicabili (rispettivamente gli artt. 101 e 105 c.p.a. e l’art. 354 c.p.c.).

Ad avviso della Plenaria, ogni questione esegetica circa l’ambito applicativo dell’art. 105 c.p.a. va dunque risolta considerando il solo articolo suindicato, nella cornice del c.p.a. e dei principi costituzionali richiamati.

Sul piano dell’interpretazione letterale, logica e sistematica dell’art. 105, cit., il Collegio ritiene di dover analizzare e coordinare in modo armonico i seguenti “segmenti normativi”:

  1. a) “Il Consiglio di Stato rimette la causa al giudice di primo grado soltanto se”;
  2. b) “è mancato il contraddittorio, oppure è stato leso il diritto di difesa di una delle parti, ovvero dichiara la nullità della sentenza”;
  3. c) “o riforma la sentenza o l’ordinanza che ha declinato la giurisdizione o ha pronunciato sulla competenza o ha dichiarato l’estinzione o la perenzione del giudizio”.

Il primo segmento normativo, con l’espressione soltanto se, comporta che l’elenco dei casi di rimessione al primo giudice è tassativo e pertanto insuscettibile di interpretazione analogica. Quanto al secondo e al terzo segmento normativo, il Collegio evidenzia che i casi di rimessione al primo giudice sono individuati con una tecnica legislativa non omogenea.

Invero, il secondo segmento normativo si riferisce a tre vizi – afferenti al processo e alla decisione – individuati mediante tre ‘categorie generali’ che non corrispondono a tre “singoli vizi”, ma a tre “serie di vizi”, sicché le tre categorie vanno riempite di contenuto attraverso una ricognizione delle ipotesi normative e delle fattispecie concrete riconducibili nelle categorie generali.

Invece, il terzo segmento normativo si riferisce a quattro ipotesi puntuali di decisioni di rito erronee, univocamente corrispondenti a fattispecie previste da disposizioni processuali (erronea declinatoria della giurisdizione; erronea declinatoria della competenza; erronea estinzione del giudizio; erronea perenzione).

I Giudici ribadiscono quanto affermato dalle sentenze del 2018 dell’Adunanza Plenaria, sulla tassatività delle ipotesi previste dall’art. 105 e dunque sulla sua insuscettibilità di interpretazione analogica.

Tuttavia, ritiene l’Adunanza Plenaria, dato che la previsione contempla tre “categorie generali” di vizi del procedimento o del giudizio di primo grado, l’interprete deve riempirle di contenuto.

Si legge nella sentenza che, nell’individuazione delle fattispecie generali, occorre muovere dal rilievo che l’art. 105 non solo contempla distintamente le ipotesi in cui “è mancato il contraddittorio”, quella in cui “è stato leso il diritto di difesa di una delle parti”, e quella della “nullità della sentenza”, ma soprattutto contiene una formulazione ben più ampia di quella dell’art. 354 c.p.c., in cui la rimessione al primo giudice è prevista nei casi di mancata integrazione del contraddittorio, erronea estromissione di una parte e nullità della sentenza nel solo caso di cui all’art. 161, comma 2, c.p.c.

Più precisamente, l’art. 354 c.p.c. menziona due sole fattispecie specifiche di mancanza del contraddittorio, non fa riferimento alcuno alla lesione del diritto di difesa e individua la nullità della sentenza con rinvio all’art. 161, comma 2, c.p.c., così circoscrivendola al solo difetto di sottoscrizione.

Invece, l’art. 105 c.p.a. si riferisce alla nullità della sentenza tout court, includendovi, oltre che il vizio formale di sottoscrizione, anche errori di giudizio, come hanno già rilevato dalle sent. 10, 11 e 15/2018 dell’Adunanza Plenaria.

Del resto, sostengono i Giudici, non può ritenersi che l’art. 105 abbia inteso riprodurre solo la previgente disciplina basata sulla distinzione tra gli “errores in procedendo” e gli “errores in iudicando”.

Nelle fattispecie, sia generali che puntuali, ivi previste, molte ipotesi sono di “errores in iudicando”, così la ‘nullità della sentenza, l’erronea declinatoria della giurisdizione o della competenza, l’erronea dichiarazione di estinzione o di perenzione del giudizio.

Il Collegio ricorda che già nel 1987, l’Adunanza Plenaria rilevò che – pur se si poteva ammettere un’approssimativa coincidenza fra l’ipotesi generica (“difetto di procedura”) dell’art. 35 L. 1034/1971, e le ipotesi specifiche elencate nell’art. 354 c.p.c. – il legislatore aveva utilizzato tecniche normative diverse: nel c.p.c., quella “dell’elencazione tassativa” che non può essere che di stretta interpretazione, e, nell’art. 35 della L. 1034/1971, quella della “formula generica”, la quale, se pur sostanzialmente coincidente, lasciava all’interprete la possibilità di aggiungere ulteriori ipotesi non previste dall’art. 354 c.p.c. (Cons. Stato, Ad. Plen., 27 ottobre 1987, n. 24).

Inoltre, come già ricordato, la sentenza dell’Ad. Plen. 23/1996 ammise un’interpretazione estensiva, se non analogica, dell’art. 35 L. 1034/1971, includendo nell’erronea dichiarazione di difetto di competenza anche l’erronea dichiarazione di difetto di giurisdizione.

L’approccio seguito dall’Adunanza Plenaria nel 1987 e nel 1993 viene ribadito nella sentenza, anche alla luce di quanto sopra osservato circa l’autonoma portata normativa dell’art. 105 c.p.a. rispetto all’art. 354 c.p.c.

Così come già l’art. 35 della L. 1034/1971 aveva utilizzato la tecnica delle “categorie generali”, anche il vigente art. 105 c.p.a. ha indicato, da un lato, ipotesi specifiche di annullamento con rinvio, e, dall’altro lato, tre ‘categorie generali’.

Inoltre, mentre il medesimo art. 35 menzionava espressamente il “difetto di procedura” tra i casi di annullamento con rinvio, tale locuzione non compare nell’art. 105.

Le stesse pronunce dell’Adunanza Plenaria del 2018, rimarcano i Giudici, con riferimento alla categoria della “nullità della sentenza”, vi hanno attribuito un contenuto “misto” tale da includere sia errori procedurali, quale il difetto di sottoscrizione, sia errori di giudizio, quale quello della motivazione mancante o apparente.

Orbene, venendo al caso oggetto dell’ordinanza di rimessione, l’erronea dichiarazione di inammissibilità del ricorso per difetto di una condizione dell’azione – con il consequenziale mancato esame della totalità dei motivi di ricorso – ben può, ad avviso del Collegio, integrare la ‘nullità della sentenza, in armonia con i principi enunciati dalle sentenze dell’Ad. Plen. 10 e 11/2018, §47 e ss., e 15/2018, §7.3, sia pure con alcune precisazioni.

Per le citate sent. 10 e 11/2018, la ‘nullità della sentenza’ è ravvisabile non solo nel caso di motivazione “radicalmente assente”, ma anche nel caso di motivazione “meramente apparente”, che si ha quando essa è “palesemente non pertinente rispetto alla domanda proposta”, o “tautologica o assertiva, espressa attraverso mere formule di stile” o “richiama un generico orientamento giurisprudenziale senza illustrarne il contenuto”. “Più in generale, la motivazione è apparente quando sussistono anomalie argomentative di gravità tale da porre la motivazione al di sotto del minimo costituzionale che si ricava dall’art. 111, comma 5 Cost. […] tale anomalia si identifica, oltre che nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, nella motivazione meramente assertiva, tautologica, apodittica, oppure obiettivamente incomprensibile […]. La motivazione apparente non è sindacabile dal giudice, in quanto essa costituisce un atto d’imperio immotivato e dunque non è nemmeno integrabile, se non con il riferimento alle più varie, ipotetiche congetture, ma una sentenza “congetturale” è, per definizione, una non-decisione giurisdizionale – o, se si preferisce e all’estremo opposto, un atto di puro arbitrio – e, quindi, un atto di abdicazione alla potestas iudicandi […]. La nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione riguarda non solo le sentenze di rito (irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità), ma anche quelle che recano un dispositivo di merito […] non sorretto da una reale motivazione”. […] “Il difetto assoluto di motivazione deve essere valutato e apprezzato con riferimento alla sentenza nella sua globalità rispetto al ricorso proposto unitariamente inteso, e non in maniera parcellizzata o frammentata, facendo riferimento ai singoli motivi o alle singole domande formulate all’interno di esso.

Sostiene il Collegio che, quando l’esclusione della legittimazione o dell’interesse a ricorrere è frutto di un palese errore, per effetto del quale è mancato l’esame della totalità dei motivi di ricorso, si determina per il ricorrente una situazione più grave rispetto all’erroneo diniego di giurisdizione o di competenza o all’errore in procedendo, posto che nelle prime due ipotesi non è negata la tutela giurisdizionale della posizione giuridica soggettiva e la parte può riassumere il giudizio davanti al giudice indicato come avente giurisdizione o competenza, così conservando i due gradi di merito, e nel caso di errore in procedendo la sentenza esamina i motivi di ricorso, mentre nel caso di erronea declaratoria del difetto di legittimazione o di interesse è più radicalmente negata la sussistenza di una posizione tutelabile (e dunque non vi è alcun esame del merito, né la possibilità di ottenerlo riassumendo il giudizio davanti ad altro giudice di primo grado).

Il ricorrente, se vuole ottenere il riconoscimento della sussistenza di una posizione giuridica tutelabile in sede giurisdizionale (e dunque ottenere una pronuncia di merito), è pertanto onerato di proporre appello, con i relativi costi e tempi.

Ad avviso dell’Adunanza Plenaria, la sentenza che nega la sussistenza della legittimazione o dell’interesse al ricorso – e dunque ravvisa l’assenza di una posizione giuridica tutelabile, malgrado vi sia stata l’impugnazione di un provvedimento autoritativo incontestabilmente devoluta alla giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo – deve basarsi su una motivazione adeguata, ragionevole e coerente con i principi processuali, che tenga conto dei fatti di causa e delle censure dedotte in relazione alla lesione prospettata, e deve consentire di far comprendere in modo chiaro in fatto e in diritto l’effettiva sussistenza della ragione giuridica, posta a base della declaratoria di inammissibilità.

Per individuare il ‘chi’ possa impugnare il provvedimento autoritativo, la motivazione della sentenza deve tenere adeguatamente tenere conto della potenziale lesività dell’atto (ad esempio, sul patrimonio, sulla salute o anche sugli aspetti morali del ricorrente) e non è dunque sufficiente una riproduzione pedissequa dei fatti di causa e dei motivi di ricorso prospettati dalla parte, priva di vaglio critico da parte del giudice, né è sufficiente riportare gli orientamenti della giurisprudenza sulle condizioni dell’azione, ingiustificatamente negando la sussistenza di una posizione soggettiva tutelabile.

Occorre dunque per i Giudici una motivazione puntuale sulla specifica posizione dedotta in giudizio dalla parte ricorrente tenendo conto della situazione fattuale.

Ne consegue che, qualora la statuizione di inammissibilità si basi su una motivazione tautologica o sia frutto di un errore palese, in fatto o in diritto, che abbia per conseguenza il mancato esame della totalità dei motivi di ricorso, si concreta il vizio di ‘nullità della sentenza, che, secondo quanto statuito dalle sentenze dell’Adunanza Plenaria nel 2018, “deve essere valutato e apprezzato con riferimento alla sentenza nella sua globalità rispetto al ricorso proposto unitariamente inteso”.

È appunto il confronto tra una motivazione di puro rito frutto di un errore palese e il ricorso proposto unitariamente inteso che rende evidente il grave difetto argomentativo di una tale motivazione rispetto al ricorso.

L’Adunanza Plenaria rileva che della nozione di “merito processuale” possono darsi diverse accezioni, come “fatti processuali” o come “motivi di ricorso”, esaminati nella sostanza, in contrapposizione ad una pronuncia di “rito” che non esamina il “merito”.

Le decisioni in rito di inammissibilità di un ricorso di primo grado, possono atteggiarsi in vario modo. Viene in considerazione la seguente principale casistica:

  1. a) decisioni di inammissibilità, che hanno omesso l’esame del merito inteso come fatti di causa, ossia decisioni che non prendono in considerazione la specifica situazione fattuale (ad es., nelle controversie in materia edilizia, la concreta ubicazione del bene di proprietà del ricorrente ai fini della verifica della vicinitas, della legittimazione e dell’interesse al ricorso, le concrete caratteristiche dell’immobile costruendo);
  2. b) decisioni di inammissibilità, che non esaminano il merito inteso come motivi di ricorso;
  3. c) decisioni con doppia motivazione, in rito e in merito, che, pur dichiarando inammissibile un ricorso, esaminano “comunque” i motivi di ricorso;
  4. d) decisioni di inammissibilità in cui la declaratoria di inammissibilità è il risultato di una disamina di tutti o di alcuni motivi di ricorso.

Ad avviso dell’Adunanza Plenaria, la prima e la seconda ipotesi sopra delineate danno luogo ad una pronuncia di annullamento con rinvio, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., in ragione della nullità della sentenza per motivazione apparente, come già rilevato dalle sentenze del 2018 dell’Adunanza Plenaria, o in ragione di un errore palese di rito che ha per conseguenza il mancato esame della totalità dei motivi di ricorso.

Nella terza e quarta ipotesi sopra delineate, vi è stato comunque un esame dei motivi di ricorso, che, anche se solo parziale, non giustifica un annullamento con rinvio, in ragione dell’effetto devolutivo dell’appello, come si desume anche dall’art. 101, comma 2, c.p.a.

Ritiene il Collegio che tale ricostruzione del quadro normativo consente di rendere coerenti tra loro le fattispecie disciplinate dall’art. 105 c.p.a., in quanto sia nel caso della ‘nullità della sentenza’ (per palese errore di giudizio sulle condizioni dell’azione) che in quelli di erronea declinatoria di giurisdizione o competenza, erronea estinzione o perenzione, viene in rilievo non qualsivoglia errore di giudizio, ma quell’errore di giudizio che ha per conseguenza il mancato esame della totalità dei motivi di ricorso.

Inoltre, siffatta interpretazione consente anche di evitare disparità di trattamento tra i casi di riforma di erronee decisioni di rito dell’art. 35, comma 2, c.p.a. (che impongono l’annullamento con rinvio) e i casi di riforma di erronee decisioni di rito dell’art. 35, comma 1, c.p.a., non espressamente richiamati dall’art. 105 c.p.a., non risultando ragionevole il trattamento differenziato di chi subisce un’erronea dichiarazione di inammissibilità del ricorso e di chi subisce un’erronea dichiarazione di estinzione del giudizio.

L’Adunanza Plenaria non condivide gli argomenti addotti a sostegno dell’interpretazione che nega la regressione del giudizio quando il TAR abbia errato nell’individuare il ‘chi’ possa impugnare l’atto autoritativo ed abbia quindi errato nell’escludere una delle condizioni dell’azione.

Ad avviso del Collegio non risulta persuasivo l’argomento secondo cui il giudice di primo grado avrebbe esercitato e consumato comunque il suo potere, anche con la semplice pronunzia di rito, posto che questo si verifica anche nei casi di “nullità della sentenza” (già considerati dalle sentenze del 2018 dell’Adunanza Plenaria), di erronea declinatoria di giurisdizione o competenza, erronea dichiarazione di estinzione del processo o di perenzione: in tutti tali casi, ciò che giustifica la regressione del processo è il mancato esame di qualsivoglia motivo di ricorso.

Quanto all’obiezione che l’interessato ha comunque avuto la possibilità di esperire entrambi i gradi di giudizio, rileva quanto sopra esposto su quale sia la effettiva portata del principio del doppio grado del giudizio amministrativo.

Quanto all’obiezione che il carattere devolutivo dell’appello imporrebbe un’interpretazione restrittiva della normativa sui casi di rimessione al TAR, rileva quanto sopra esposto sulla portata dell’effetto devolutivo dell’appello amministrativo e al significato della “tassatività” delle fattispecie previste dall’art. 105.

Non risulta persuasivo ad avviso dell’Adunanza Plenaria nemmeno l’argomento secondo cui l’estensione delle ipotesi di rimessione al primo giudice pregiudicherebbe la ragionevole durata del processo,

L’art. 105, comma 2, e l’art. 85, comma 3, c.p.a. disciplinano il rito camerale, più celere di quello ordinario, per gli appelli contro le sentenze dei TAR che hanno declinato la giurisdizione o la competenza e contro le ordinanze rese sull’opposizione a decreti di estinzione o improcedibilità. Tuttavia, un appello avverso una pronuncia di inammissibilità, in cui si lamenti la ‘nullità della sentenza’ nei sensi sopra visti, si può comporre con un solo motivo (volto a far rilevare l’ammissibilità del ricorso) ed è destinato o al rigetto o all’accoglimento con annullamento con rinvio, senza esame del merito da parte del giudice di appello.

Trovano pertanto applicazione gli artt. 72 e 72bis c.p.a. sulla fissazione con priorità dell’udienza pubblica, trattandosi di un ricorso vertente su un’unica questione, e sulla trattazione in camera di consiglio con i termini propri del rito cautelare, trattandosi di un appello suscettibile di immediata definizione.

La parte appellante, evidenzia il Collegio, ha inoltre la possibilità di chiedere l’abbreviazione dei termini, sicché l’appello contro la statuizione di inammissibilità può essere definito rapidamente, senza nocumento per la ragionevole durata del processo.

 

(*Contributo in tema di “L’adunanza plenaria torna sui casi di rimessione al primo giudice ex art. 105 c.p.a”, a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima, Anna Libraro, Michela Pignatelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 85 / Maggio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

equa riparazione

Equa riparazione anche per le persone giuridiche La Cassazione conferma che anche le società hanno diritto all’indennizzo per la durata irragionevole del processo

L’equa riparazione spetta anche a società ed enti collettivi

Con l’ordinanza n. 14749/2025, la Cassazione ribadisce che il diritto all’equa riparazione per la durata eccessiva di un processo riguarda anche le persone giuridiche, come società ed enti collettivi.
La violazione del termine ragionevole di durata del giudizio, stabilito dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e recepito in Italia dalla legge Pinto (L. n. 89/2001), genera un danno non patrimoniale che si presume esistente, salvo prova contraria.

Il caso concreto

La vicenda trae origine dal fallimento di una società, durato oltre quattordici anni, a fronte di un termine di sei previsto per tali procedure. Due società creditrici, dopo aver presentato istanza di ammissione al passivo, avevano chiesto l’indennizzo per il ritardo.
La Corte d’appello aveva riconosciuto il diritto al risarcimento, ma solo per il periodo coincidente con la permanenza in carica dei legali rappresentanti, ritenendo che il danno si identificasse nel disagio psicologico degli amministratori.
Questa impostazione è stata censurata dalla Cassazione, che ha chiarito che il danno appartiene alla società in quanto soggetto titolare del diritto, non ai suoi organi.

La natura del danno non patrimoniale per le persone giuridiche

Secondo la Suprema Corte, il danno non patrimoniale derivante da un processo eccessivamente lungo ha una componente oggettiva, diversa dallo stress o dall’ansia che possono colpire le persone fisiche.
Il pregiudizio consiste nella “deminutio” dell’immagine e della sfera giuridica dell’ente, che subisce una compromissione della sua posizione a causa del protrarsi dello stato di incertezza.
Proprio per questa ragione, la Cassazione ha ribadito che la durata della carica dell’amministratore è irrilevante ai fini della quantificazione del danno, che si radica nel patrimonio e nella dimensione giuridica della persona collettiva.

La presunzione del danno e l’onere della prova contraria

La decisione ripercorre un orientamento consolidato secondo cui il danno extrapatrimoniale, pur non essendo un danno “automatico”, si presume normalmente in base all’id quod plerumque accidit, ossia all’evento che di regola si verifica.
Questa presunzione è superabile soltanto se l’amministrazione resistente dimostra circostanze particolari che escludano la sussistenza del pregiudizio (ad esempio, l’infondatezza manifesta della pretesa azionata o altri elementi che dimostrino l’assenza di danno concreto).
Tuttavia, la Cassazione precisa che il mutamento degli organi societari durante la procedura non incide sulla spettanza dell’indennizzo alla persona giuridica.

I limiti soggettivi dell’indennizzo per la durata irragionevole

L’ordinanza si sofferma anche su un altro aspetto rilevante: il diritto all’equa riparazione spetta esclusivamente al soggetto che ha partecipato al giudizio che si è protratto oltre il termine ragionevole.
Di conseguenza, gli amministratori o i soci, se non hanno assunto la veste di parte processuale, non possono richiedere in proprio l’indennizzo per la durata del procedimento.
Questo principio, già affermato in altre decisioni, garantisce una corretta delimitazione dei soggetti legittimati a pretendere il risarcimento.

cani legati

Cani legati sull’asfalto rovente: è reato anche senza lesioni Il Tribunale di Pescara riconosce la detenzione in condizioni incompatibili con la natura animale come reato, anche in assenza di ferite visibili

Maltrattamento animale: reato anche senza lesioni evidenti

Cani legati sull’asfalto rovente è reato anche senza lesioni. Con la sentenza n. 213/2025, il Tribunale di Pescara ha stabilito che lasciare animali domestici legati su asfalto rovente, sotto il sole, costituisce reato di detenzione incompatibile con la loro natura ai sensi dell’art. 727 c.p., anche in assenza di lesioni fisiche visibili.

Secondo il Giudice, la nozione di “sofferenza” comprende anche disagio psicofisico, stress, angoscia, dolore emotivo, nervosismo, agitazione e affaticamento. Non serve, quindi, che l’animale mostri ferite per configurare l’illecito.

Il caso concreto

Il procedimento è scaturito da segnalazioni di cittadini che avevano notato, nelle vie del centro di Pescara, un uomo senza fissa dimora accompagnato da un cane meticcio e da un coniglio, entrambi esposti al caldo estremo.

Il cane era legato alla bicicletta del proprietario, costretto a rimanere fermo sull’asfalto bollente, spesso con cappellini o occhiali da sole, utilizzati come attrattiva durante l’accattonaggio.
Il coniglio, legato per una zampa con un guinzaglio, mostrava una vistosa ferita per l’assenza di protezione e libertà di movimento.

Una testimone ha affermato che l’uomo, probabilmente affetto da dipendenza alcolica, non comprendeva la gravità del trattamento riservato agli animali.

Le sofferenze ambientali equivalgono a sevizie

Il Tribunale ha sottolineato che il benessere animale non si misura solo attraverso le condizioni fisiche, ma anche attraverso l’idoneità dell’ambiente in cui l’animale è detenuto.

Anche in assenza di lesioni, un contesto di immobilità forzata, esposizione a calore e mancanza d’acqua può generare gravi sofferenze, qualificabili come sevizie.
La norma di riferimento, l’art. 727 c.p., punisce proprio la detenzione in condizioni incompatibili con la natura dell’animale, senza richiedere la presenza del dolo specifico previsto invece per il reato di maltrattamenti (art. 544-ter c.p.).

L’intento non rileva: il reato è punibile anche a titolo di colpa

Secondo il Giudice, il fatto che l’imputato non avesse intenzione di maltrattare gli animali non esclude il reato, poiché l’articolo 727 c.p. prevede una responsabilità colposa, fondata sull’omissione di comportamenti dovuti.

Inoltre, lo status di persona senza fissa dimora non rappresenta una causa di esclusione della punibilità. Il soggetto, pur in difficoltà, è comunque tenuto a rispettare il benessere animale.

Tenuità del fatto: assoluzione per proporzionalità

Nonostante il riconoscimento della condotta illecita, il Tribunale ha valutato le circostanze concrete e ha ritenuto applicabile l’art. 131-bis c.p., per particolare tenuità del fatto.

Considerando la durata limitata della condotta, le condizioni personali dell’imputato e la mancanza di crudeltà intenzionale, il giudice ha concluso che una pena detentiva sarebbe stata eccessiva e controproducente, tanto sul piano retributivo quanto su quello preventivo.

L’imputato è stato quindi assolto, pur restando fermo il principio giuridico: detenere animali in condizioni disumane è reato, anche se non vi sono ferite visibili.

Il benessere animale va oltre le ferite

La sentenza del Tribunale di Pescara rappresenta un precedente rilevante nella tutela degli animali: afferma che la sofferenza può essere invisibile ma giuridicamente rilevante.
Anche in assenza di crudeltà manifesta, ambienti ostili e condizioni innaturali possono costituire maltrattamento.

È un richiamo chiaro alla responsabilità di ogni detentore di animali, chiamato a garantire benessere reale, non solo sopravvivenza.

Allegati

procedure concorsuali

Durata procedure concorsuali: legittimo il limite di sei anni La Corte costituzionale conferma la legittimità del termine di sei anni per la durata delle procedure concorsuali previsto dalla legge n. 89/2001

Durata ragionevole delle procedure concorsuali è legittima

Con la sentenza n. 102/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità sollevate dalla Corte d’appello di Venezia in merito alla previsione normativa sul termine di ragionevole durata delle procedure concorsuali.

Il limite temporale previsto dalla legge è compatibile con la CEDU

La norma oggetto di scrutinio è l’articolo 2, comma 2-bis, della legge n. 89/2001, che stabilisce un limite di sei anni, estensibile a sette nei casi di particolare complessità, per il riconoscimento dell’equa riparazione.
Secondo la Consulta, tale previsione è coerente con lo standard di ragionevolezza richiesto dall’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), come costantemente interpretato dalla Corte EDU.

Il giudice conserva il potere di valutazione concreta

La Corte ha inoltre sottolineato che la predeterminazione del termine da parte del legislatore non comporta automatismi, poiché resta in capo al giudice il potere-dovere di valutare la fattispecie concreta nel procedimento per equa riparazione.
Tale interpretazione è conforme all’impianto della stessa legge n. 89/2001, che regola la tutela del diritto alla ragionevole durata del processo anche nelle procedure concorsuali.

Nessuna violazione del giusto processo

La sentenza della Corte costituzionale ribadisce che la previsione normativa di un termine ragionevole non viola il principio del “giusto processo”, in quanto si inserisce in un sistema equilibrato che consente comunque al giudice di tenere conto della complessità del singolo caso.

In sintesi, la durata delle procedure concorsuali fino a sei anni (estensibile a sette) è costituzionalmente legittima, purché il giudice continui a esercitare una valutazione individualizzata, nel rispetto dei diritti garantiti dalla CEDU.

sanzione

Avvocati: la malattia non annulla l’illecito ma attenua la sanzione Il CNF stabilisce che le condizioni di salute dell’avvocato non escludono l’illecito deontologico, ma possono ridurre la sanzione disciplinare

Malattia avvocato e responsabilità disciplinare

Sanzione avvocato: il Consiglio Nazionale Forense, con la sentenza n. 487/2024, pubblicata l’8 luglio 2025, ha chiarito un principio fondamentale in tema disciplinare: la malattia dell’incolpato non scrimina l’illecito deontologico, ma può influenzare la misura della sanzione.

Nessuna scriminante per motivi di salute

Il CNF afferma che, anche se le condizioni psicofisiche dell’avvocato possono incidere sul suo comportamento, non escludono la responsabilità disciplinare, in quanto per commettere un illecito è sufficiente la volontarietà dell’azione. La malattia, pertanto, non è una giustificazione che invalidi la procedura disciplinare.

Mitigazione della sanzione: il margine di discrezionalità

Tuttavia, la gravità ridotta per motivi di salute può rappresentare una causa di attenuazione della sanzione. L’Autorità disciplinare, nel valutare il caso, può modulare la pena commisurandola alle condizioni dell’incolpato, riconoscendo il ruolo attenuante della malattia nella valutazione complessiva.

Leggi gli altri articoli in materia di professioni

bonus anziani

Bonus anziani 2025: a chi spetta la prestazione universale Cos'è e come funziona il Bonus anziani, la nuova prestazione universale 2025, pari a 850 euro al mese che vanno ad aggiungersi all'indennità di accompagnamento

Bonus anziani 2025 INPS

E’ partito il 2 gennaio 2025 il Bonus anziani, la nuova Prestazione Universale che l’INPS ha iniziato a erogare, in via sperimentale. Questo beneficio è destinato agli ultraottantenni non autosufficienti con un bisogno assistenziale classificato come “gravissimo”, come stabilito dall’articolo 34 del decreto legislativo 29/2024 recante “Disposizioni in materia di politiche in favore delle persone anziane, in attuazione della delega di cui agli articoli 3, 4 e 5 della legge 23 marzo 2023, n. 33”.

Periodo di sperimentazione

Il progetto pilota, ha reso noto l’INPS specificando tutti i dettagli del nuovo bonus anziani nel messaggio n. 4490 del 30 dicembre 2024, avrà durata biennale, con decorrenza dal 1° gennaio 2025 e conclusione al 31 dicembre 2026.

Bonus anziani e indennità di accompagnamento

La Prestazione Universale assorbirà l’indennità di accompagnamento (prevista dalla legge n. 18/1980) e alcune prestazioni fornite dagli ATS (Agenzie di Tutela della Salute), limitatamente agli ambiti di loro competenza, come previsto dall’articolo 1, comma 164, della legge 234/2021.

Modalità di presentazione della domanda

Dal 2 gennaio 2025, è possibile presentare la domanda online tramite la pagina dedicata sul sito INPS, intitolata “Decreto Anziani – Prestazione Universale”.

L’accesso potrà avvenire mediante:

  • Identità digitale personale (SPID, CIE o CNS);
  • Assistenza dei patronati.

Con il messaggio 8 luglio 2025, n. 2193 l’INPS ha comunicato che, all’interno del servizio di presentazione delle domande per la Prestazione Universale, sono stati effettuati i seguenti aggiornamenti:

  • una nuova versione semplificata del questionario “Bisogno assistenziale gravissimo”;
  • una nuova funzionalità per allegare la documentazione a supporto della domanda ai fini della rendicontazione della spesa.

A chi spetta il Bonus anziani 2025

Per ottenere il beneficio, è necessario soddisfare i seguenti criteri:

  1. Età: avere almeno 80 anni compiuti;
  2. Bisogno assistenziale: condizione di gravissima non autosufficienza, accertata dalla Commissione medico-legale dell’INPS sulla base delle indicazioni della Commissione tecnico-scientifica (nominata con DM n. 155/2024 e approvate con decreto ministeriale del 19 dicembre 2024);
  3. Situazione economica: ISEE per prestazioni sociosanitarie agevolate ordinario non superiore a 6.000 euro;
  4. Indennità di accompagnamento: essere titolari dell’indennità prevista dalla legge n. 18/1980 (l’eventuale sospensione di tale indennità comporta l’impossibilità di ottenere la Prestazione Universale).

Isee sociosanitario nucleo ristretto

Con il messaggio 10 giugno 2025, n. 1842, l’INPS ha chiarito che, per il riconoscimento della Prestazione Universale, è valido anche l’ISEE sociosanitario recante un nucleo ristretto e non solo quello recante un nucleo ordinario, come precedentemente dichiarato. Restano fermi il valore dell’attestazione ISEE, che non deve essere superiore a 6.000 euro, e gli ulteriori requisiti previsti per il riconoscimento della prestazione. L’Istituto procederà d’ufficio al riesame delle domande presentate.

Importo del Bonus anziani 2025

Il beneficio verrà erogato mensilmente e comprende:

  • Quota fissa monetaria: pari all’importo dell’indennità di accompagnamento di cui alla legge n. 18/1980 (attualmente fissato a 531,76 euro);
  • Quota integrativa: un assegno di assistenza di 850 euro mensili, destinato a:
    • Coprire i costi per l’assunzione regolare di lavoratori domestici con mansioni di assistenza;
    • Finanziarie servizi di assistenza erogati da imprese specializzate, in linea con la programmazione regionale e locale.

Monitoraggio e adeguamenti futuri

L’INPS si occuperà di monitorare le spese legate alla Prestazione Universale. Qualora si riscontrassero scostamenti tra il numero di richieste e le risorse finanziarie disponibili, potrebbe essere necessario rivedere l’importo mensile della quota integrativa.

 

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concessioni balneari

Concessioni balneari: incostituzionali norme che violano concorrenza La Consulta ha dichiarato incostituzionali parti della legge regionale Toscana sulle concessioni demaniali marittime per violazione della tutela della concorrenza

Concessioni demaniali marittime: l’intervento della Consulta

Concessioni balneari: con la sentenza n. 89/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni della legge della Regione Toscana n. 30 del 2024. In particolare, sono stati dichiarati incostituzionali gli articoli 1, 2 commi 3 e 4, e 3, in quanto incidono in modo diretto sull’assetto concorrenziale del mercato balneare.

Le norme contestate

Le disposizioni regionali, impugnate dal Presidente del Consiglio dei ministri, modificavano la legge regionale n. 31 del 2016, introducendo criteri per le procedure selettive di affidamento delle concessioni demaniali marittime. Tra le previsioni figuravano:

  • un criterio premiale per la valutazione dei concorrenti;

  • la determinazione di un indennizzo a favore del concessionario uscente.

Secondo l’Avvocatura dello Stato, tali regole limitavano la concorrenza e pregiudicavano il libero accesso al mercato.

La competenza legislativa esclusiva dello Stato

La Corte costituzionale ha ricordato che, pur investendo la materia delle concessioni profili di competenza regionale, quando le norme incidono sulle modalità di scelta del contraente e alterano l’assetto concorrenziale dei mercati, prevale la competenza esclusiva dello Stato prevista dall’articolo 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, in tema di tutela della concorrenza.

Nel caso esaminato, le regole regionali determinavano restrizioni alla libera iniziativa economica degli operatori balneari, non giustificate da esigenze specificamente regionali.

La motivazione della Consulta

La Regione Toscana aveva motivato l’intervento normativo con due esigenze:

  • la persistente inerzia del legislatore statale nell’adozione di una disciplina unitaria;

  • la necessità di tutelare l’affidamento maturato dagli operatori del settore.

Tuttavia, la Corte ha ritenuto che tali ragioni non potessero legittimare l’adozione di regole regionali incidenti sulla concorrenza, trattandosi di un ambito riservato alla potestà legislativa esclusiva dello Stato.

La sentenza ha inoltre sottolineato che, anche in assenza di una legge statale organica, esistono già principi e parametri di matrice europea che consentono ai Comuni di organizzare le procedure di gara nel rispetto dei principi di concorrenza e trasparenza.

carta d'imbarco

Risarcimento volo cancellato: basta la carta d’imbarco La Cassazione conferma che per ottenere il risarcimento in caso di volo cancellato è sufficiente esibire la carta d’imbarco. Non serve anche il biglietto aereo

La carta d’imbarco come prova del contratto di trasporto

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 17644/2025, ha chiarito un principio importante per i passeggeri che richiedono il risarcimento in caso di mancata partenza del volo.
Secondo i giudici, la semplice presentazione della carta d’imbarco costituisce un elemento sufficiente a dimostrare l’esistenza del contratto di trasporto aereo, non essendo necessario allegare anche il biglietto.
Questo orientamento rafforza la tutela dei consumatori, semplificando l’onere probatorio nei procedimenti di risarcimento.

Il caso concreto

La vicenda ha riguardato un passeggero che, dopo la cancellazione del proprio volo Roma-Londra, aveva prodotto le carte d’imbarco a supporto della propria richiesta risarcitoria.
La Corte d’appello, pur prendendo atto della documentazione, aveva ritenuto che essa non bastasse a dimostrare l’acquisto del biglietto, dichiarando quindi carente la prova del contratto.
La Cassazione ha censurato tale decisione, evidenziando che la carta d’imbarco è strettamente collegata al biglietto, al punto da poter essere considerata prova equipollente.

Gli obblighi probatori delle parti

Nella pronuncia, la Suprema Corte ha ricordato la corretta ripartizione degli oneri probatori in materia di trasporto aereo, in linea con la Convenzione di Montreal del 1999 e con il Regolamento CE n. 261/2004.
Il passeggero è tenuto a:

  • fornire la prova del contratto di trasporto (titolo di viaggio o documento equivalente);

  • allegare l’inadempimento del vettore (ad esempio, la cancellazione o il ritardo del volo).

Spetta invece alla compagnia aerea dimostrare l’esatto adempimento, oppure che l’inadempimento sia derivato da cause di forza maggiore o da eventi eccezionali che la esonerino da responsabilità.

Carta d’imbarco: il principio affermato dalla Cassazione

Il Supremo Collegio ha ribadito che, nell’ambito del trasporto aereo internazionale, l’esistenza del contratto può essere provata non solo attraverso il biglietto ma anche con la produzione di qualsiasi documento idoneo a dimostrare la prenotazione e l’ammissione all’imbarco.
La carta d’imbarco, in quanto documento rilasciato direttamente dal vettore, costituisce pertanto una prova sufficiente per fondare la pretesa risarcitoria.

auto abbandonata

Auto abbandonata in condominio? È rifiuto speciale da rimuovere Il Tribunale di Chieti conferma: un’auto in stato di abbandono nel parcheggio condominiale è un rifiuto speciale. Il proprietario va obbligato alla rimozione e allo smaltimento

Auto abbandonata in condominio

Con la sentenza n. 46/2025, il Tribunale di Chieti – sezione distaccata di Ortona ha stabilito che un’auto abbandonata in un’area condominiale, priva di targa e assicurazione, costituisce un rifiuto speciale ai sensi della normativa ambientale. Tale situazione configura un uso illecito del bene comune, lesivo del diritto degli altri condòmini alla pari fruizione dello spazio.

Il giudice ha quindi condannato il proprietario alla rimozione del mezzo a proprie spese, autorizzando il condominio ad agire in via sostitutiva in caso di inadempimento.

Il caso concreto

Il procedimento è stato avviato da un condominio che lamentava la presenza pluriennale di un’auto inutilizzata nel parcheggio comune, in evidente stato di degrado, senza targa né copertura assicurativa.

La vettura non era mai stata rimossa nonostante i ripetuti solleciti, privando gli altri condòmini del legittimo utilizzo dello spazio. Da qui la richiesta giudiziale di accertamento della natura di “veicolo fuori uso” e l’obbligo di rimozione.

Profili ambientali: il veicolo come rifiuto speciale

Il tribunale ha applicato la disciplina prevista dal Dlgs 209/2003 sui veicoli fuori uso e dal Dlgs 152/2006, Testo Unico Ambientale. Queste norme qualificano come rifiuto speciale un’auto che:

  • sia in stato di abbandono;

  • sia priva di elementi identificativi (come la targa);

  • non sia più utilizzabile e non presenti segni di manutenzione o utilizzo.

Secondo la giurisprudenza citata (tra cui Cass. pen. n. 11030/2015), un veicolo può essere considerato fuori uso anche in area privata, se si dimostra la volontà del proprietario di disfarsene.

Violazione del diritto d’uso comune

Il giudice ha inquadrato la condotta della proprietaria dell’auto anche dal punto di vista civilistico, richiamando l’articolo 1102 c.c., che disciplina l’uso delle parti comuni.

La sosta illimitata ed esclusiva del veicolo è stata interpretata come occupazione abusiva dello spazio comune, lesiva del principio di uso paritario tra condòmini. La sentenza ribadisce che nessun condomino può arrogarsi un diritto esclusivo su una parte comune a danno degli altri.

Le prove e la condanna

La decisione si è fondata su documentazione fotografica, visure PRA e dati assicurativi, che hanno dimostrato l’effettivo stato di abbandono del mezzo.

Il tribunale ha condannato la proprietaria:

  • a rimuovere il veicolo a proprie cure e spese;

  • a smaltirlo secondo le norme sui rifiuti speciali;

  • in caso di inerzia, ha autorizzato il condominio a procedere direttamente, con diritto di rivalsa sulle spese sostenute.

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