avvocati oltraggio corte

Avvocati: oltraggio alla corte e libertà di espressione La Corte di Strasburgo ha precisato che, in tema di oltraggio alla corte, i giudici nazionali devono decidere garantendo un equilibrio tra la tutela dell’autorità giudiziaria e quella della libertà di espressione

Oltraggio alla corte e libertà di espressione

Il caso sottoposto all’esame della Corte europea dei diritti dell’uomo riguardava una vicenda avvenuta in Croazia, nell’ambito della quale il ricorrente era stato multato per oltraggio alla corte. Rispetto a tale circostanza il destinatario della sanzione aveva adito la Cote di Strasburgo rilevando che tale multa “equivaleva a un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione”.

La decisione della Corte: bilanciamento tra ingerenza legittima e libertà di espressione

La Corte di Strasburgo ha deciso sul ricorso Pisanski c. Croazia n. 28794/2018, dichiarando il ricorso del cittadino croato ricevibile e ritenendo che vi era stata, da parte dello Stato, violazione dell’articolo 10 della Convenzione, a causa di un’ingerenza nella sua libertà di espressione.

In particolare, e per quanto qui rileva, la Corte ha anzitutto premesso che l’ingerenza contestata dal ricorrente era prescritta dalla legge e perseguisse lo scopo legittimo di preservare l’autorità della magistratura.

Ciò posto, la Corte è dunque passata a valutare se l’ingerenza in questione fosse necessaria e legittima in un sistema democratico, tenendo conto di quanto previsto dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Ruolo degli avvocati

A tale scopo, la Corte si è rifatta ai principi e ai criteri generali elaborati dalla medesima in precedenti casi analoghi, quali, nella specie:

  • il ruolo degli avvocati, considerato cruciale per il funzionamento di una corretta amministrazione della giustizia e tale per cui gli stessi devono avere una certa libertà riguardo alle argomentazioni utilizzate in Tribunale, considerato il loro dovere di difendere i clienti con diligenza;
  • i Tribunali non sono immuni dalle critiche e anzi sono assoggettati a margini di tolleranza in questo senso più ampi rispetto ai comuni cittadini;
  • occorre fare una chiara distinzione tra critica e ‘insulto’ avendo in questo senso riguardo al caso concreto nel suo complesso, fermo restando che, se l’unico intento di qualsiasi forma di espressione è insultare un Tribunale o i suoi membri, una sanzione adeguata non costituirebbe, in linea di principio, una violazione dell’articolo 10 della Convenzione.

Difesa del cliente

Ciò posto, la Corte ha esaminato il caso di specie, così come storicamente si era svolto. A tal riguardo, è stato evidenziato che occorreva avere riguardo al luogo, ovvero l’aula d’udienza, ove i fatti contestati si erano svolti, luogo pertanto naturalmente deputato alla difesa dei diritti del cliente. Con l’ulteriore implicazione che, contrariamente alle critiche espresse dai media, le osservazioni del ricorrente erano state fatte nell’ambito di una comunicazione interna tra lui, in qualità di avvocato, e la corte d’appello.

Inoltre, la Corte ha posto dei dubbi circa il fatto che le osservazioni del ricorrente, riguardando l’interpretazione del diritto interno, avessero quale unico intento quello d’insultare il Giudice.

Infine, sempre avuto riguardo al caso di specie, la Corte ha rilevato che il ricorso dell’avvocato, contenente le osservazioni controverse, era stato condiviso dal Tribunale distrettuale croato che aveva confermato l’opinione del legale secondo cui l’interpretazione dallo stesso criticata era effettivamente errata. Inoltre, non può, a giudizio della Corte, parimenti essere ignorato il fatto che, nell’ambito del procedimento disciplinare posto a carico del legale dinanzi all’Ordine degli avvocati croato in relazione a tali osservazioni, il ricorrente era stato dichiarato non colpevole.

La decisione

La Corte ha concluso il proprio esame rilevando che, sulla base di quanto sopra riferito, le ragioni addotte dai Tribunali nazionali per giustificare l’ingerenza nella libertà di espressione del ricorrente non erano “pertinenti e sufficienti”. Tali giudici non avevano basato la loro decisione sui criteri stabiliti dalla giurisprudenza della Corte, così come sopra sintetizzati, senza individuare pertanto il giusto equilibrio tra la necessità di tutelare l’autorità giudiziaria e la necessità di tutelare la libertà di espressione del ricorrente. Con la conseguenza che, poiché il ricorrente non era andato oltre i limiti della critica accettabile, l’ingerenza nel caso di specie, rispetto alla libertà di espressione, non era stata considerata dalla Corte “necessaria in una società democratica”.

atto di precetto art. 480 c.p.c.

Atto di precetto L’atto di precetto contiene un’intimazione al debitore di pagare spontaneamente quanto dovuto per evitare che venga avviata l’esecuzione forzata

Cos’è l’atto di precetto

Il precetto è l’atto con cui il creditore intima al debitore di pagare quanto dovuto, avvertendolo che in mancanza di adempimento spontaneo procederà con il pignoramento dei beni e quindi con l’esecuzione forzata.

In sostanza, il precetto ha la funzione di ultimo avvertimento, per consentire al debitore di pagare senza incorrere nell’esecuzione a danno dei beni rientranti nel suo patrimonio.

Come vedremo, l’atto di precetto, pur essendo teoricamente un atto stragiudiziale, perché precede il procedimento di esecuzione forzata, è sostanzialmente considerato dall’ordinamento il primo atto dell’esecuzione stessa, tanto da poter essere oggetto di opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c. da parte del debitore.

La notifica del precetto

L’obbligo di cui il creditore chiede l’adempimento con l’atto di precetto è quello individuato dal titolo esecutivo cui il precetto stesso fa riferimento.

Tale obbligo può corrispondere a quanto indicato in una cambiale, un assegno o in un altro titolo esecutivo, come una sentenza o un decreto ingiuntivo. Questi ultimi provvedimenti, però, prima di essere notificati al debitore, devono essere muniti di formula esecutiva.

Il precetto può essere notificato unitamente al titolo esecutivo o successivamente alla notifica del titolo.

A questo proposito, giova ricordare cosa succede se non si ritira un precetto esecutivo: in tal caso, la notifica si considera comunque perfezionata, una volta decorsi dieci giorni dall’avviso con cui il servizio postale informa il destinatario della giacenza del precetto a causa della precedente mancata consegna.

Quanto tempo passa tra atto di precetto e pignoramento?

Come abbiamo detto, per espressa previsione di legge (art. 480 c.p.c.), il precetto deve contenere l’avvertimento al debitore che, in mancanza di adempimento, si procederà ad esecuzione forzata. Quest’ultima non può, però, essere avviata dal creditore (con l’atto di pignoramento) prima di 10 giorni dalla notifica del precetto, proprio per consentire al debitore l’eventuale adempimento spontaneo.

Non solo: l’art. 491 c.p.c. impone al creditore di iniziare l’esecuzione entro novanta giorni dalla ricezione della notifica da parte del debitore. Ciò è previsto proprio per sottolineare il valore di avvertimento dell’atto di precetto a beneficio del debitore ed evitare, quindi, che il pignoramento ai danni del patrimonio di quest’ultimo possa avvenire in un tempo lontano da quello in cui egli è stato avvisato dell’intenzione del creditore di procedere ad esecuzione forzata.

Sebbene, quindi, non sia tecnicamente corretto chiedersi quando va in prescrizione un atto di precetto (poiché non si tratta di prescrizione ma di perdita di efficacia), è pacifico che una volta trascorsi 90 giorni dalla sua notifica senza che sia avviata l’esecuzione, il precetto perde la sua efficacia.

Il contenuto del precetto ex art. 480 c.p.c.

Quanto al contenuto dell’atto di precetto, in esso devono essere indicate le parti e trascritto il contenuto del titolo esecutivo. Inoltre, deve esservi l’avvertimento che il debitore può rivolgersi ad un organismo di composizione della crisi per concludere con il creditore un accordo di composizione della crisi o per predisporre un piano del consumatore (si tratta dei rimedi previsti dalla l. 3 del 2012 per risolvere le situazioni di sovraindebitamento).

Il precetto deve, inoltre, essere sottoscritto dal debitore o dal suo difensore.

Come difendersi da un atto di precetto?

Il debitore che intenda contestare l’atto di precetto notificatogli, può proporre opposizione in giudizio.

A tal fine, egli seguirà la procedura dell’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., qualora ritenga di contestare il diritto del creditore di procedere ad esecuzione forzata; oppure avanzare opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c. (come accennato all’inizio di questa breve guida), se solleva eccezioni sulla regolarità formale del titolo esecutivo e del precetto.

Apprendista si dimette: deve restituire le spese per la formazione Il Tribunale di Roma ha ritenuto meritevole di tutela la clausola contrattuale secondo cui, nel caso di dimissioni prive di giusta causa o giustificato motivo, l’apprendista è tenuto a restituire le spese sostenute per l’erogazione della formazione

Dimissioni dell’apprendista

Nel caso in esame l’apprendista, dopo aver sottoscritto un contratto di apprendistato professionalizzante e, mentre era ancora in corso il suo periodo di formazione, aveva rassegnato le proprie dimissioni volontarie.

Rispetto a tali fatti, il datore di lavoro aveva adito il Tribunale di Roma domandando la restituzione delle spese dallo stesso sostenute per l’erogazione delle giornate di formazione professionale nei confronti dell’apprendista.

La richiesta di parte datoriale era fondata sulla previsione contrattuale secondo cui “durante il periodo formativo le parti potranno recedere dal contratto solo per giusta causa o giustificato motivo” e che “nel caso di dimissioni prive di giusta causa o giustificato motivo, fermo restando, in quest’ultimo caso, il rispetto dei termini di preavviso, Le sarà trattenuta una somma pari alla retribuzione corrisposta per ogni giornata (…) di formazione erogata fino al momento del recesso”.

L’obbligo di rimborso spese dell’apprendista

Il Tribunale capitolino, con sentenza n. 1646-2024, ha condannato l’apprendista alla restituzione delle somme sostenute dal datore di lavoro in suo favore a titolo di rimborso delle spese di formazione.

In particolare, il Tribunale, dopo aver accertato che, da quanto contrattualmente pattuito, in caso di dimissioni prive di giusta causa, il lavoratore era tenuto al rimborso in favore del datore di lavoro di una somma pari alle spese da quest’ultimo sostenute per l’erogazione della formazione, ha anzitutto escluso la vessatorietà della clausola in questione.

Sul punto, il Tribunale ha affermato che “La meritevolezza dell’interesse del datore di lavoro rispetto a siffatta clausola è rinvenibile nel dispendio economico sopportato dalla azienda per la formazione di un proprio dipendente al fine di destinarlo allo svolgimento delle mansioni e fruendo di una formazione dedicata”.

Inoltre, siffatta previsione contrattuale, secondo il Tribunale, “nella valutazione della complessiva economia del rapporto non risulta affatto eccessivamente onerosa, dal momento che, trattandosi della formazione relativa all’acquisizione della posizione lavorativa di operatore specializzato (…), nella fattispecie il datore di lavoro non si è sostanzialmente mai potuto avvalere del contributo lavorativo effettivo del dipendente, che è stato impegnato interamente nella formazione. Pertanto, gli importi pattuiti non possono ritenersi eccessivamente gravosi per il lavoratore, che, conformemente agli obblighi assunti, è tenuto al pagamento delle giornate di formazione secondo le previsioni del contratto individuale di lavoro”.

La decisione

Sulla scorta di quanto sopra riferito, il Tribunale ha pertanto concluso il proprio esame condannando il lavoratore alla restituzione delle somme sostenute dal datore di lavoro per la sua formazione professionale.

 

Allegati

pensione estero domanda inps

Pensione: come fare domanda se si risiede all’estero Chi risiede all’estero può fare la domanda online per la pensione INPS, l’erogazione è soggetta però all’accertamento dell’esistenza in vita

Come fare domanda per la pensione se si risiede all’estero

Quando mancano tre mesi alla maturazione del requisito anagrafico, ossia il compimento di 67 anni e di quello contributivo ossia 20 anni di contributi versati è possibile presentare all’INPS la domanda per la  pensione di vecchiaia.

La residenza all’estero del soggetto richiedente non prevede il rispetto di procedure particolari. La domanda di pensione di vecchiaia può essere presentata in modalità telematica anche da chi risiede all’estero, utilizzando le opzioni di credenziali digitali come la CIE o lo SPID. Seguire attentamente le istruzioni fornite e preparare i documenti necessari snellirà l’iter di richiesta.

Calcolo dell’importo e decorrenza pensione online

Per la richiesta della pensione di vecchiaia ordinaria, è disponibile una procedura web semplificata sul sito dell’INPS. Il richiedente che vuol fare domanda deve cliccare, in ordine, sulle voci seguenti per completare la procedura:

  1. Pensione e Previdenza
  2. Domanda di pensione
  3. Domanda Pensione, Ricostituzione, Ratei, Certificazioni, APE Sociale e Beneficio precoci
  4. Nuova prestazione pensionistica
  5. Pensione di vecchiaia

Pensione di vecchiaia: le credenziali per fare domanda

Anche se si è residenti all’estero, è possibile ottenere le credenziali per inoltrare la richiesta online. Per farlo, si possono seguire queste opzioni:

  1. CIE (Carta d’identità elettronica): da richiedere presso il consolato;
  2. SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale): per ottenerla è necessario seguire la procedura specifica prevista per i residenti all’estero. Le indicazioni e le informazioni complete si trovano sul portale gov.it.

SPID: quali documenti servono

Per ottenere lo SPID è necessario essere muniti dei seguenti documenti:

  • documento di identità in corso di validità;
  • codice fiscale;
  • numero di cellulare (anche estero);
  • indirizzo di posta elettronica.

Per ulteriori informazioni sul rilascio delle credenziali digitali, è possibile contattare anche il Contact center integrato dell’INPS.  Con le credenziali ottenute, si potrà procedere alla domanda per la pensione.

Pensioni all’estero: pagamento

L’INPS gestisce il pagamento delle pensioni ai beneficiari residenti all’estero affidando il servizio a un istituto di credito selezionato tramite una gara d’appalto, che viene rinnovata ogni tre anni. La banca incaricata collabora con istituti di credito locali per effettuare i pagamenti mensili delle pensioni.

Solitamente, i pagamenti sono accreditati direttamente sul conto corrente del pensionato. La banca incaricata, che a diversi anni è Citibank, deve anche verificare annualmente l’esistenza in vita, l’indirizzo e la residenza dei pensionati.

Accertamento esistenza in vita 2024-2025

Con il messaggio n. 4071 del 16.11.2023 l’INPS ha reso noti i tempi della verifica dell’esistenza in vita dei soggetti che percepiscono la pensione all’estero. La finalità principale della campagna di accertamento è finalizzata alla prevenzione e al contrasto dell’eventuale percezione indebita delle prestazioni previdenziali.

Detta procedura di accertamento si svolgerà in due fasi distinte:

  • nella prima, iniziata a marzo 2024 con termine a luglio 2024 verranno effettuati gli accertamenti relativi ai pensionati residenti in America, Asia, Estremo Oriente, Paesi Scandinavi, Stati dell’est Europa e paesi limitrofi;
  • la seconda fase della verifica avrà inizio a settembre 2024 e terminerà nel gennaio 2025 e riguarderà i pensionati residenti in Europa, Africa e Oceania.

Ai fini della verifica dell’esistenza in vita Citybank invierà una lettera esplicativa e un modulo standard di attestazione. Le lettere esplicative conterranno:

  • le istruzioni per procedere alla compilazione del modulo di esistenza in vita;
  • la richiesta della documentazione di supporto, come una copia di un documento d’identità del pensionato in corso di validità e con fotografia;
  • le indicazioni necessarie per contattare il servizio di assistenza dedicato ai pensionati di Citybank.

I pensionati dovranno inviare il modulo di attestazione dell’esistenza in vita debitamente compilato datato e sottoscritto, nonché munito della documentazione di supporto richiesta nel termine indicato nella lettera esplicativa al seguente indirizzo PO Box 4873, Whorthing BN99 3BG, United Kingdom.

Il modulo sarà quindi restituito a Citybank, controfirmato da un “testimone accettabile“ ossia un rappresentante di un’ambasciata, di un consolato italiano o di un’autorità locale autorizzata ad avallare la firma dell’attestazione dell’esistenza in vita.

comportamento corretto udienza

Avvocati: nessuna “smorfia” in udienza Il Tribunale di Milano ha adottato il nuovo Regolamento d’udienza per la Sezione IX civile, prescrivendo, tra l’altro, ai partecipanti: puntualità, cellulari spenti, abbigliamento adeguato

Fair play in udienza

Niente smorfie, vietato interrompere e anche tenere i cellulari accesi con la suoneria. Prescritti, invece, abbigliamento consono e rigorosa puntualità. Sono queste le linee guida adottate dalla nona sezione civile del tribunale di Milano, che si occupa di famiglia e minori, per indicare ai partecipanti all’udienza, dagli avvocati alle parti, il comportamento da corretto da tenere durante lo svolgimento della stessa.

Il regolamento, senz’altro mutuabile in tutte le controversie e nei vari tribunali, è stato adottato in considerazione del potere attribuito dalla legge al giudice di disporre quanto occorre affinché la trattazione della causa avvenga in modo ordinato e proficuo.

Infatti, nel testo si fa espressa menzione dell’art. 129 c.p.c. ove è contenuto il divieto, a coloro che intervengano nell’udienza, di fare segni di approvazione o di disapprovazione o cagionare in qualsiasi modo disturbo durante l’udienza; viene altresì fatto riferimento all’art. 89 c.p.c. il quale stabilisce che le parti e i loro difensori non possono usare espressioni sconvenienti o offensive.

Cosa prevede il Regolamento

Con le linee guida sottoscritte dalla presidente della sezione Anna Cattaneo e dalla consigliera dell’Ordine di Milano Giulia Sapi, che coordina la Commissione Persona, Famiglia e Minori, il tribunale ha adottato un vero e proprio decalogo, prescrivendo a coloro che partecipano all’udienza di adeguare il proprio comportamento a determinate regole, quali:

  • presentarsi con puntualità;
  • vestirsi in modo appropriato e decoroso;
  • tenere il cellulare spento o senza suoneria.

Vengono anche date indicazioni ai difensori e ai magistrati di arrivare all’udienza “preparati ed a conoscenza dei fatti di causa (…), avendo contezza delle posizioni delle rispettive parti, della documentazione già in atti e degli adempimenti che saranno svolti nella specifica udienza”.

Un’udienza “ordinata”

Il Regolamento dedica anche alcune prescrizioni alle modalità con cui deve essere gestita l’udienza.

In particolare, è precisato che spetta al giudice concedere la parola alle parti e ai difensori, che si impegnano ad utilizzare il tempo loro concesso, seguendo l’ordine processuale prescritto.

Sempre nel rispetto dei ‘tempi’ del processo, il regolamento prescrive altresì che “nessuno potrà interrompere o sovrapporsi ai difensori e alle parti durante la loro esposizione”.

Nella medesima direzione, è posto il divieto, durante l’esposizione dei difensori o delle parti, di “fare segni di approvazione o di disapprovazione e cagionare in qualsiasi modo disturbo né usare espressioni sconvenienti od offensive”.

Linguaggio chiaro e niente offese

In merito al linguaggio da adoperare durante l’udienza, le linee guida prescrivono, infine, che le argomentazioni rilevanti ai fini della decisione dovranno essere esposte “in modo chiaro, conciso e comprensibile”.  A tal riguardo, il giudice potrà intervenire ogni qualvolta “i toni” (offensivi, svalutativi, provocatori, e così via) contribuiscano ad alimentare il conflitto.

licenziamento collettivo tipologia procedure

Licenziamento collettivo: tipologia e procedure Il licenziamento collettivo disciplinato dalla legge n. 223/1991 è previsto in casi specifici e richiede il rispetto di una determinata procedura

Licenziamento collettivo: quadro normativo di riferimento

Il legislatore italiano, spinto anche dalle direttive comunitarie, ha disciplinato il licenziamento collettivo nel corso degli anni. Il punto di arrivo è rappresentato dalla Legge n. 223/1991, che ha introdotto un sistema più organico, distinguendo tra licenziamento collettivo per messa in mobilità e per riduzione del personale.

Gli articoli 4 e 24 della legge regolano rispettivamente queste due fattispecie, imponendo procedure specifiche che devono essere seguite per garantire la legittimità dei licenziamenti.

Negli anni successivi, vari interventi normativi hanno ampliato e modificato la portata della disciplina. Tra questi, la Riforma Fornero (L. 92/2012), che ha eliminato la tutela reintegratoria per le violazioni procedurali, mantenendola solo per i licenziamenti senza forma scritta effettuati in violazione dei criteri di scelta. Il Jobs Act (D.lgs. n. 23/2015) ha ulteriormente cambiato il panorama, eliminando la tutela reintegratoria per i licenziamenti economici illegittimi e sostituendola con una tutela indennitaria, successivamente modificata dal Decreto Dignità (D.L. n. 87/2018) e da una pronuncia della Corte Costituzionale.

La normativa italiana sui licenziamenti collettivi comunque continua ad evolversi, con interventi che cercano di bilanciare le esigenze delle imprese con la protezione dei diritti dei lavoratori, in un contesto sempre più influenzato dalle direttive europee.

Tipologie di licenziamento collettivo

Dalla breve analisi normativa sul licenziamento collettivo emergono due tipologie di licenziamento collettivo, che meritano un’analisi distinta e dettagliata.

Licenziamento collettivo per messa in mobilità

Il licenziamento collettivo per messa in mobilità, disciplinato dall’art. 4 della L. 223/1991, si applica alle imprese con più di 15 dipendenti, che hanno usufruito del trattamento straordinario di integrazione salariale (CIGS). Questo tipo di licenziamento si verifica quando l’impresa non è in grado di rioccupare tutti i dipendenti coinvolti nella riorganizzazione aziendale e non può ricorrere a misure alternative come contratti di solidarietà o altre forme flessibili di gestione del lavoro. La procedura di mobilità prevede fasi conciliative finalizzate a trovare soluzioni che possano evitare i licenziamenti.

Dal punto di vista soggettivo, la norma non si applica agli esuberi di personale derivanti dalla fine di attività stagionali, contratti a termine, lavori edili e contratti di solidarietà difensivi. La disciplina della messa in mobilità non dipende dai requisiti spaziali, numerici e temporali richiesti per i licenziamenti per riduzione del personale.

Licenziamento collettivo per riduzione del personale

Questa procedura consente alle aziende con più di 15 dipendenti di licenziare almeno 5 lavoratori nell’arco di 120 giorni, in una o più unità produttive nella stessa provincia, per motivi legati alla riduzione o alla trasformazione di attività o di lavoro (motivi economici o di riorganizzazione).

La disciplina del licenziamento collettivo per riduzione del personale non si applica nei seguenti casi:

  • licenziamenti per motivi disciplinari o di incapacità lavorativa;
  • cessazioni del rapporto di lavoro diverse dai licenziamenti (dimissioni, risoluzioni consensuali, prepensionamenti volontari);
  • lavoratori delle agenzie di somministrazione.

A differenza del  licenziamento collettivo per mobilità il licenziamento collettivo per riduzione del personale non richiede la previa fruizione della cassa integrazione straordinaria; i requisiti numerico-spaziali e temporali sono meno restrittivi; l’azienda deve fornire una informativa più dettagliata sui motivi dei licenziamenti.

La procedura di mobilità

La procedura di mobilità prevista sia per la messa in mobilità che per il licenziamento collettivo per riduzione del personale è un complesso iter che viene attivato quando un’azienda si trova in una situazione di eccedenza di personale e non può adottare misure alternative ai licenziamenti.

Trattasi si una procedura complessa e delicata che mira a minimizzare l’impatto sociale dei licenziamenti collettivi. Per questo è importante che tutte le parti coinvolte collaborino per trovare la soluzione migliore per i lavoratori e per l’azienda.

Essa si snoda attraverso le seguenti fasi:

  • comunicazione di avvio: il datore di lavoro invia una comunicazione scritta alle organizzazioni sindacali e all’Ispettorato del lavoro, specificando i motivi dell’esubero, il numero dei lavoratori coinvolti e i tempi di attuazione del programma di mobilità;
  • confronto sindacale: le organizzazioni sindacali hanno 10 giorni per presentare osservazioni e proposte alternative al licenziamento collettivo;
  • accordo sindacale: se le parti raggiungono un accordo, questo definisce i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare e le misure di assistenza per i lavoratori in esubero;
  • mancato accordo: in assenza di accordo, il datore di lavoro redige un piano di licenziamenti che definisce i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare. I lavoratori licenziati hanno diritto a una serie di tutele, tra cui l’indennità di preavviso, la NASPI e la mobilità.

L’esame congiunto

Il momento cruciale dei licenziamenti collettivi è rappresentato dall’incontro tra il datore di lavoro e le organizzazioni sindacali per discutere i motivi del licenziamento collettivo e trovare soluzioni alternative ai licenziamenti. L’esame congiunto è un importante strumento per favorire il dialogo tra le parti e trovare soluzioni che tutelino i posti di lavoro. È importante che tutte le parti coinvolte partecipino al confronto con spirito costruttivo e collaborativo.

Anche questa fase della procedura deve seguire un iter ben preciso:

  • le organizzazioni sindacali possono richiedere l’esame congiunto entro 7 giorni dalla comunicazione di avvio della procedura di licenziamento collettivo;
  • il datore di lavoro e le organizzazioni sindacali discutono le cause del licenziamento collettivo e cercano soluzioni alternative, come contratti di solidarietà, lavoro flessibile o riqualificazione professionale;
  • l’esame congiunto deve concludersi entro 45 giorni dalla richiesta, con possibilità di proroga in casi complessi;
  • l’esame congiunto può concludersi con un accordo tra le parti o con un mancato accordo;
  • in caso di mancato accordo, l’Ispettorato del lavoro può tentare di conciliare le parti entro 30 giorni;
  • se non si raggiunge un accordo entro 30 giorni dal tentativo di conciliazione, il datore di lavoro può procedere ai licenziamenti.

Criteri di scelta dei lavoratori da licenziare

I criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, in presenza di un contratto collettivo, possono essere stabiliti dallo stesso. In mancanza, la legge fissa i seguenti criteri, in ordine di importanza:

  • carico di famiglia;
  • anzianità di servizio;
  • esigenze tecnico-produttive ed organizzative.

La scelta dei lavoratori da licenziare è un processo complesso che deve essere condotto nel rispetto di criteri oggettivi e ragionevoli. Il datore di lavoro deve comunicare chiaramente i criteri utilizzati e rispettare i termini di preavviso per i licenziamenti.

Chiusura della procedura

Il datore di lavoro comunica per iscritto a ciascun lavoratore il licenziamento, con il rispetto dei termini di preavviso, provvede poi a comunicare all’Ispettorato del lavoro, alla Commissione regionale per l’impiego e alle associazioni di categoria l’elenco dei lavoratori licenziati, specificando le modalità di applicazione dei criteri di scelta. L’Ispettorato del lavoro può verificare la correttezza dell’operato del datore di lavoro poiché ha il compito di vigilare sulla regolarità della procedura.

Impugnazione licenziamento collettivo

Gli ex dipendenti hanno il diritto di contestare una decisione di licenziamento collettivo entro 60 giorni dalla ricezione della comunicazione scritta. Le motivazioni per impugnare il licenziamento possono essere tre:

  1. mancanza della forma scritta: il datore di lavoro deve informare i lavoratori e le parti coinvolte per iscritto. Se non lo fa, il dipendente ha diritto al reintegro e a un’indennità pari a tutte le mensilità dal momento del licenziamento fino alla reintegrazione. In alternativa, può richiedere un’indennità di 15 mensilità senza tornare al lavoro;
  2. mancato rispetto delle procedure: se il datore di lavoro non segue le procedure legali durante la procedura di licenziamento collettivo, il lavoratore ha diritto a ricevere un’indennità che varia dalle 12 alle 24 mensilità;
  3. mancato rispetto dei criteri di scelta: se il datore di lavoro non rispetta i criteri di scelta stabiliti per legge o pattuiti, il lavoratore ha diritto alla reintegrazione del posto (o a un’indennità sostitutiva) e a un’indennità non superiore alle 12 mensilità.
bandi assistenza cassa forense

Avvocati: i nuovi bandi di assistenza 2024 Cassa Forense ha pubblicato tre nuovi bandi di assistenza 2024 destinati agli iscritti e le graduatorie di due bandi del 2023

Bandi assistenza 2024 Cassa Forense

Cassa Forense ha pubblicato tre nuovi bandi di assistenza 2024 destinati ai propri iscritti, oltre alle graduatorie del premio “Marco Ubertini” 2023 e del bando n. 12/2023 per l’assegnazione di contributi per famiglie numerose.

I nuovi bandi 2024

In particolare, i tre bandi rientranti tra le prestazioni a sostegno della famiglia e della salute sono i seguenti:

  • Bando n. 2/2024 per l’assegnazione di borse di studio per orfani, titolari di pensione di reversibilità o indiretta, con termine di scadenza per l’invio della domanda, esclusivamente tramite l’apposita procedura online, al 2/12/2024;
  • Bando n. 3/2024 per l’assegnazione di borse di studio in favore di studenti universitari, figli di iscritti alla Cassa, con termine di scadenza per l’invio della domanda, esclusivamente tramite l’apposita procedura online, al 2/12/2024;
  • Bando n. 4/2024 per l’assegnazione di contributi per spese di ospitalità in case di riposo o istituti per anziani, malati cronici o lungodegenti, con termine di scadenza per l’invio della domanda, tramite raccomandata A/R o PEC, al 20/1/2025.

Graduatorie bandi 2023

Infine, nella stessa data sul sito internet della Cassa sono state pubblicate, nell’apposita area dedicata, le graduatorie del Premio “Marco Ubertini” n. 10/2023 e del bando n. 12/2023 per l’assegnazione di contributi per famiglie numerose, approvate dalla Giunta Esecutiva nella riunione del 5 giugno.

 

Per approfondimenti vai a tutti i bandi 2024 di Cassa Forense

reato adescamento minorenni

Adescamento di minorenni L'adescamento di minorenni è un reato previsto e punito dall'art. 609undecies del codice penale con la reclusione da uno a tre anni

Reato di adescamento di minorenni: definizione e natura

Ai sensi dell’art. 609undecies c.p., introdotto dalla L. 172/2012, risponde penalmente chiunque, allo scopo di commettere i reati di cui agli artt. 600, 600bis, 600ter e 600quater, anche se relativi al materiale pornografico di cui all’art. 600quater.1, 600quinquies, 609bis, 609quater, 609quinquies e 609octies, adesca un minore di anni sedici.

La norma ha, dunque, lo scopo di attuare i precetti della Convenzione di Lanzarote del 25-10-2007, per la tutela dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale. Nello specifico, si attua il disposto dell’art. 23 della suddetta convenzione, rubricato «Adescamento di bambini a scopi sessuali».

La fattispecie ha carattere sussidiario, essendo configurabile solo ove il fatto non costituisca più grave reato.

Tentativo o consumazione

Il reato è, dunque, configurabile solo se non siano ancora realizzati gli estremi del tentativo o della consumazione del reato-fine, in quanto, nell’ipotesi che quest’ultimo resti allo stadio della fattispecie tentata, la contestazione anche del delitto di cui all’art. 609undecies c.p. significherebbe di fatto perseguire la stessa condotta due volte, mentre, qualora il reato fine sia consumato, la condotta di adescamento precedentemente tenuta dall’agente si risolverebbe in un antefatto non punibile.

Nozione rilevante di «adescamento»

La norma tipizza la nozione di adescamento, per tale dovendosi intendere qualsiasi atto volto a carpire la fiducia del minore attraverso artifici, lusinghe o minacce posti in essere anche mediante l’utilizzo della rete internet o di altre reti o mezzi di comunicazione.

Nel concetto di adescamento rientra quel complesso di condotte (identificate all’estero con il termine «grooming», da «to groom», «curare») impiegate per indebolire la volontà di un minore in modo da ottenerne il massimo controllo, inducendolo gradualmente a superare le resistenze attraverso tecniche di manipolazione psicologica, al fine di convincere la potenziale vittima della normalità dei rapporti sessuali tra adulti e minori. In giurisprudenza si afferma che costituisce «lusinga» idonea a «carpire la fiducia del minore» qualsiasi allettamento — fatto di frasi adulatorie, parole amiche, promesse o finte attenzioni – con cui l’agente cerchi di attrarre la persona offesa al proprio volere, onde indurla a commettere uno dei reati indicati dall’art. 609undecies c.p. (ad esempio, anche attraverso messaggistica telefonica) (Cass. 9-9-2022, n. 33257).

Circostanze aggravanti

Per effetto della cd. «Legge europea 2019-2020» (L. 238/2021), sono state introdotte talune ipotesi circostanziali aggravanti ad efficacia comune configurabili:

1) se il reato è commesso da più persone riunite;

2) se il reato è commesso da persona che fa parte di un’associazione per delinquere e al fine di agevolarne l’attività;

3) se dal fatto, a causa della reiterazione delle condotte, deriva al minore un pregiudizio grave;

4) se dal fatto deriva pericolo di vita per il minore.

Trattasi, dunque, di previsione che mira ad introdurre, anche in relazione a tale fattispecie, talune ipotesi aggravanti già esistenti o, a loro volta, neointrodotte in altri reati sessuali su minori, come gli atti sessuali con minorenne o la corruzione di minorenne.

Elemento soggettivo e consumazione

Quanto all’elemento soggettivo, il delitto è punibile a titolo di dolo specifico, richiedendosi la cosciente e volontaria realizzazione della condotta adescatrice, finalizzata alla commissione di uno o più dei reati indicati dalla norma. In giurisprudenza si afferma che la sussistenza del dolo specifico, ove consistente nello scopo di commettere il reato di detenzione di materiale pornografico di cui all’art. 600quater c.p., deve essere necessariamente desunta facendo ricorso a parametri oggettivi, dai quali possa inferirsi il movente sessuale della condotta (Cass. 8-7-2022, n. 26266). Più in generale si afferma che il dolo specifico, consistente nell’intenzione di commettere i reati anzidetti, non deve necessariamente risultare manifesto da quanto esplicitato nella condotta direttamente posta in essere nei confronti del minore, ben potendo la relativa prova essere ricavata anche aliunde (Cass. 9-7-2020, n. 20427).

Quanto, invece, alla consumazione, avviene nel tempo e nel luogo in cui l’agente realizza le condotte descritte nella fattispecie incriminatrice; tuttavia, qualora l’illecito sia posto in essere tramite internet o con mezzi di comunicazione a distanza, la sua consumazione si verifica nel luogo in cui si trova il minore adescato, perché il delitto presuppone una comunicazione tra due soggetti e in tale luogo si perfeziona la dimensione offensiva del fatto (Cass. 28-8-2019, n. 36492).

Pena e procedibilità

La pena è la reclusione da uno a tre anni (aumentata fino ad un terzo nelle ipotesi aggravate). L’arresto in flagranza ed il fermo non sono consentiti.

Si procede d’ufficio e la competenza spetta al Tribunale monocratico.

affitti brevi decreto turismo

Affitti brevi: cosa cambia con il nuovo decreto Emanato il decreto del ministero del Turismo sulla interoperabilità tra banche dati turistiche e strutture ricettive

Decreto del ministero del turismo

Il 6 giugno 2024, il Ministero del Turismo ha emanato il decreto ministeriale che mette in pratica le disposizioni dell’articolo 13-ter, comma 13, del Decreto legge del 18 ottobre 2023, n. 145, trasformato in Legge con modifiche il 15 dicembre 2023, n. 191. Questo provvedimento definisce le modalità di coordinamento tra le banche dati nazionali delle strutture turistico-ricettive e delle unità immobiliari affittate per brevi periodi o scopi turistici con quelle delle regioni e delle Province autonome.

Il Decreto ministeriale del 6 giugno 2024 segna un passo significativo verso una maggiore trasparenza e coordinamento nel settore turistico italiano. La BDSR e il CIN rappresentano strumenti cruciali per garantire la correttezza e la legalità delle attività ricettive, tutelando al contempo consumatori e operatori del settore.

Dettagli del decreto: Allegati A e B

Le specifiche tecniche per l’interoperabilità tra queste banche dati sono descritte negli allegati A e B del decreto, che ne costituiscono parte integrante.

BDSR e CIN: novità 2024

La Banca Dati nazionale delle Strutture Ricettive e degli immobili per locazioni brevi o scopi turistici (BDSR), istituita dall’articolo 13-quater, comma 4, del Decreto-legge del 30 aprile 2019, n. 34, convertito con modifiche nella legge del 28 giugno 2019, n. 58, è un elemento chiave per garantire la protezione dei consumatori, la concorrenza leale e la trasparenza nel mercato turistico.

Funzionalità della BDSR

La BDSR facilita il coordinamento delle informazioni tra amministrazioni statali e locali, offrendo una mappatura dettagliata delle strutture ricettive a livello nazionale e contribuendo a combattere l’ospitalità irregolare. I dati raccolti includono:

  • la tipologia tipo di alloggio;
  • l’ubicazione;
  • la capacità di accoglienza;
  • il gestore dell’alloggio;
  • il codice identificativo regionale, se presente, o codice alfanumerico unico.

La BDSR permette anche l’emissione del Codice Identificativo Nazionale (CIN), come previsto dalla normativa sulle locazioni turistiche e brevi.

Interoperabilità banche dati nazionali, regionali e province

Il Decreto del 6 giugno 2024 definisce due fasi principali per l’attivazione e il funzionamento della BDSR.

Fase 1: Pilota

Durante la fase “Pilota”, il Ministero del Turismo, in collaborazione con le Regioni e le Province autonome, prepara la BDSR per il funzionamento completo. I dati essenziali sono trasmessi entro 15 giorni dalla pubblicazione del decreto tramite un file CSV standardizzato e il Ministero fornisce supporto tecnico per risolvere eventuali criticità. In questa fase viene assegnato un Codice Identificativo Nazionale provvisorio (CIN 1).

Fase 2: Messa in esercizio

La Fase 2 prevede la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, entro il 1° settembre 2024, di un avviso che conferma l’attivazione della BDSR e del portale telematico del Ministero del Turismo per l’assegnazione del CIN.

Procedura di integrazione dati obbligatori

Una volta attivata la BDSR, i titolari e i gestori delle strutture ricettive, nonché i locatori, devono completare e aggiornare le informazioni relative alle loro proprietà per avere il CIN. L’accesso alla piattaforma avviene tramite SPID, e il sistema riconosce automaticamente le strutture associate all’utente, permettendo l’inserimento o la correzione dei dati mancanti.

Gestione delle anomalie

Se una struttura non è presente nella BDSR o se non si riesce ad accedere al database, è necessario segnalare il problema alle Regioni e Province autonome competenti tramite una procedura telematica. Le autorità hanno 30 giorni per verificare la conformità della struttura alle normative. Se la verifica è positiva, il dato viene aggiornato e il CIN verificato rilasciato. In caso contrario, il CIN non sarà rilasciato o sarà revocato se successivamente risulta non conforme.

Leggi anche: 

Affitti brevi: legittimo il limite di 6 mesi per le prime case

assegno inclusione indicazioni inps

Assegno di inclusione: le indicazioni INPS L'istituto fornisce le indicazioni per i nuclei familiari beneficiari: l'obbligo di presentazione deve avvenire entro 120 giorni dalla sottoscrizione del PAD

Assegno inclusione: presentazione nuclei familiari