casa familiare

La casa familiare Casa familiare: cos’è, cosa accade in caso di separazione e come funziona l’assegnazione

Cosa si intende per casa familiare

La casa familiare, spesso detta anche casa coniugale, è l’immobile in cui si è svolta la vita quotidiana della famiglia e dove sono stati costruiti gli affetti, le abitudini e la routine domestica. Quando una coppia si separa, la sorte di questo bene diventa spesso oggetto di conflitto, poiché incide direttamente sulla tutela dei figli minori o economicamente non autosufficienti.

L’ordinamento italiano, in un’ottica di protezione della prole, prevede regole specifiche in merito all’assegnazione della casa familiare, disciplinata dall’art. 337-sexies del codice civile.

Occorre inoltre precisare che la casa familiare non è semplicemente un bene immobile: giuridicamente, è l’abitazione destinata alla vita della famiglia, indipendentemente dal regime patrimoniale scelto dai coniugi (comunione o separazione dei beni) o dall’intestazione del bene. L’assegnazione, quindi, non riguarda il diritto di proprietà, ma la destinazione d’uso dell’immobile in funzione dell’interesse superiore dei figli.

Normativa di riferimento: art. 337-sexies c.c.

L’art. 337-sexies c.c. stabilisce che:

“Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli.”

Questo principio si applica nei procedimenti di:

  • separazione personale dei coniugi;
  • divorzio;
  • cessazione della convivenza more uxorio (anche per coppie non sposate con figli).

Il giudice può assegnare la casa familiare al genitore collocatario dei figli, anche se non è proprietario o intestatario dell’immobile, purché ciò sia ritenuto nell’interesse prevalente della prole.

Chi ha diritto alla casa familiare dopo la separazione

In caso di separazione o divorzio:

  • se ci sono figli minorenni o maggiorenni non autosufficienti, la casa viene assegnata al genitore con cui i figli convivono stabilmente. Se la casa, ad esempio, è di proprietà esclusiva del padre, ma i figli vivono con la madre, la casa viene in genere assegnata alla madre per garantire la stabilità abitativa dei minori;
  • se non ci sono figli, l’assegnazione della casa segue i principi della proprietà, dell’uso o del possesso, salvo diversi accordi tra le parti.

Effetti dell’assegnazione della casa coniugale

L’assegnazione della casa non trasferisce la proprietà, ma comporta:

  • il diritto di abitazione gratuito per l’assegnatario;
  • la possibilità di registrare l’assegnazione nei pubblici registri immobiliari (art. 2643 c.c.);
  • il divieto per il proprietario di vendere o locare l’immobile in modo da pregiudicare il diritto dell’assegnatario.

Quando l’assegnazione può essere revocata

Il diritto all’uso della casa familiare non è eterno: può cessare quando:

  • I figli diventano economicamente autosufficienti o lasciano la casa;
  • cambiano le condizioni di affidamento (es. affidamento esclusivo all’altro genitore);
  • il genitore assegnatario convive con un nuovo partner in modo stabile, come riconosciuto dalla giurisprudenza di Cassazione.

La casa familiare nei rapporti patrimoniali

Per quanto riguarda il regime di ripartizione delle spese:

  • le spese di manutenzione ordinaria spettano al genitore assegnatario;
  • le spese straordinarie e le imposte gravano invece sul proprietario;
  • se la casa è in comproprietà, il coniuge non assegnatario può chiedere lo scioglimento della comunione, dopo la cessazione del diritto di abitazione.

Giurisprudenza di legittimità

La Cassazione è intervenuta più volte a sciogliere le questioni più controverse relative alla casa familiare.

Cassazione n. 308/2008: la casa familiare non è solo un luogo fisico, ma un vero e proprio centro di vita dove si coltivano affetti, interessi e abitudini quotidiane. Questo ambiente è fondamentale per la crescita e lo sviluppo della personalità dei figli. Di conseguenza, l’abitazione serve a proteggere i minori e a garantire il loro diritto di continuare a vivere nel proprio ambiente domestico, come stabilito dagli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione.

Cassazione n. 18603 del 2021: l’assegnazione della casa familiare si discosta dalle logiche patrimoniali o di mantenimento del coniuge in caso di separazione o divorzio. Il suo scopo principale è esclusivamente la tutela degli interessi dei figli.

Cassazione n. 8764/2023: per decide se un ex coniuge ha diritto all’assegno di divorzio, occorre considerare il termine “patrimonio” in un senso molto ampio. Questo significa che è necessario valutare ogni fattore che possa aumentare le risorse economiche della famiglia o anche solo dell’ex coniuge. Tra questi fattori rientra anche l’assegnazione della casa familiare.

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moglie tradita

Risarcimento di 10.000 euro per la moglie tradita Moglie tradita: spetta il risarcimento del danno non patrimoniale di 10.000 euro per le umiliazioni e le mortificazioni

Risarcimento del danno per la moglie tradita

Alla moglie tradita, umiliata e mortificata a causa del tradimento del marito con una allieva della scuola di danza, che gestivano insieme, spetta un risarcimento del danno di 10.000 euro, quantificato in via equitativa. Lo ha deciso il Tribunale di Treviso nella sentenza n. 201/2025.

Moglie tradita: domanda di separazione con addebito

Una donna agisce in giudizio, vantando una richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale nei confronti del suo ex marito. La coppia, sposatasi il 25 agosto 2007, dopo anni di frequentazione, condivideva una passione comune per la danza che li ha portati a fondare insieme una società sportiva di successo. Nel periodo tra settembre e novembre 2011 però, la donna scopre, visionando il cellulare del marito, che questi intratteneva una relazione extraconiugale con un’allieva della loro scuola di ballo. Circostanza ammessa dal marito nel momento in cui la moglie rinviene un biglietto inequivocabile scritto dall’amante. Nonostante le rassicurazioni del marito e il tentativo di salvare il matrimonio, la relazione extraconiugale prosegue anche nei primi mesi del 2012. A questo punto la moglie decide di abbandonare la casa coniugale nell’ottobre 2012 e avviare un giudizio di separazione con addebito.

Richiesta risarcitoria della moglie tradita

La sentenza di separazione, pubblicata il 19 febbraio 2019, riconosce la colpa in capo al marito, ma dichiara inammissibile la domanda risarcitoria in quella sede. La donna si rivolge quindi al Tribunale per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale subito, proponendo una liquidazione basata sulle tabelle milanesi in tema di danno da perdita del vincolo parentale o di diffamazione, da applicare per analogia.

Nessun risarcimento in assenza di danno

Il marito, costituitosi in causa, contesta la domanda risarcitoria. Per l’uomo la violazione del dovere di fedeltà non è sufficiente a giustificare un risarcimento del danno aquiliano. Occorre piuttosto che la lesione riguardi un diritto costituzionalmente garantito e che l’afflizione superi la soglia della normale tollerabilità. Tali presupposti però non sono ravvisabili nel caso di specie. Le parti hanno infatti alternato periodi di separazione di fatto. La moglie inoltre, già nel 2013, ha instaurato una relazione e una convivenza con un socio finanziatore della sua nuova attività imprenditoriale nel settore della danza. Circostanza questa che escluderebbe la violazione di un diritto alla salute. La moglie ha infatti dimostrato di saper riorganizzare sia la propria vita sentimentale che lavorativa. L’uomo nega inoltre che la sua condotta possa aver violato i diritti soggettivi della moglie come l’onore e la dignità personale, perché la relazione non è stata condotta in modo pubblico o ostentato. Per quanto riguarda il quantum del risarcimento infine, l’uomo ritiene del tutto sproporzionati i parametri scelti dall’attrice e non applicabili per analogia al loro caso.

Risarcimento danni non patrimoniali

Il Tribunale, istruita la causa, si pronuncia in favore della moglie sul diritto al risarcimento.

Il Giudice richiama a tale fine l’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità per la quale la violazione del dovere di fedeltà coniugale può dar luogo a risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’articolo 2059 c.c. Occorre però che l’afflizione superi la soglia della tollerabilità e si traduca nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto (salute, onore, dignità personale).

Nel caso specifico, il Tribunale ritiene integrati tali presupposti. Il tradimento, peraltro reiterato anche dopo le rassicurazioni dell’uomo di voler interrompere la relazione, si è verificato in un momento in cui la coppia aveva consolidato una solida progettualità, non solo attraverso la società di danza, ma anche con il comune desiderio di avere un figlio, come emerso dalla sentenza separativa.

Moglie tradita, umiliata e mortificata

Il Tribunale evidenzia come le modalità del tradimento abbiano provocato umiliazione e mortificazione alla donna. La relazione extraconiugale è infatti maturata nell’ambiente lavorativo della scuola di danza, con un’allieva verso cui l’uomo mostrava attenzioni particolari, notate dagli altri allievi e che hanno favorito il “vociferare nel corridoio” e il “malevolo pettegolezzo”. Le voci sulla relazione hanno circolato inoltre, non solo tra gli allievi, ma anche tra insegnanti di altre scuole. Un episodio significativo si è poi verificato durante una competizione all’estero. In questa occasione l’uomo è stato sorpreso in atteggiamenti intimi con l’allieva in presenza di altri allievi. Fatto questo che ha alimentato ulteriormente il chiacchiericcio.

Queste condotte, ritenute dal Tribunale superiori alla normale tollerabilità, hanno generato “strepitus”, curiosità e maldicenza di terzi. Questi fatti hanno ferito indubbiamente l’onore, il decoro, la stima professionale, la riservatezza e la privacy della donna, che ha vissuto momenti di depressione, tristezza e umiliazione, con innegabile pregiudizio morale.

Risarcimento del danno di 10.000 euro

Il Tribunale respinge però i parametri risarcitori proposti dall’attrice. Va infatti esclusa l’equiparazione del tradimento alla lesione del vincolo parentale o alla diffamazione a mezzo stampa, data la diversità dei presupposti costitutivi.

Il criterio risarcitorio da adottare è quello equitativo, ai sensi dell’articolo 1226 c.c, tenuto conto che:

  • il discredito subito dalla donna va circoscritto all’ambito lavorativo;
  • la lesione dei diritti soggettivi non le ha impedito di instaurare una nuova relazione sentimentale e di fondare una nuova scuola di danza con il compagno finanziatore;
  • il patimento e la tristezza sono durati circa due mesi.

Alla luce di tutti questi aspetti il Tribunale quantifica in € 10.000,00 il risarcimento dovuto alla moglie tradita.

 

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addebito della separazione

Addebito della separazione al marito che disprezza  la moglie Addebito della separazione al marito che quotidianamente e in presenza di terze persone dimostra disprezzo nei confronti della moglie

Marito sprezzante: addebito della separazione

Sull’addebito della separazione al marito della coppia separata la Corte di Cassazione nella sentenza n. 12799/2025 dichiara di condividere le conclusioni dei giudici di merito. Dalle prove emerse nel giudizio di primo e di secondo grado è emerso infatti che la fine del matrimonio è attribuibile solo al marito. Costui, anche in presenza di terzi, ha infatti sempre palesato il proprio disprezzo nei confronti della moglie.

Addebito della separazione: marito autoritario

Il Tribunale di Milano  pronuncia la separazione personale di due coniugi, addebitandola al marito. Il marito appella la decisione, contestando l’addebito a suo carico.

Marito responsabile della fine del matrimonio

La Corte d’Appello di Milano però conferma la decisione di primo grado su questo punto. Per l’autorità giudiziaria la condotta dell’uomo verso la moglie è stata sempre autoritaria e quotidianamente sprezzante. È proprio questo comportamento ad aver compromesso irrimediabilmente l’unione matrimoniale. La testimonianza della cognata ha confermato questa tesi, confermando il continuo disprezzo del marito nei confronti della coniuge. La Corte ha anche evidenziato che il marito ha costretto la figlia e il suo compagno a lasciare un appartamento di sua proprietà dopo un litigio con la moglie. Ragione per la quale la donna ha abbandonato la casa coniugale per trasferirsi altrove. Per la Corte è quindi indubbio che la responsabilità della fine del matrimonio sia da attribuire interamente all’uomo. Il marito però non accetta queste conclusioni e per questo ricorre in Cassazione.

Contestazioni all’addebito della separazione

Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 151 c.c., la nullità della sentenza per mancata pronuncia su una specifica domanda, l’assenza dei presupposti per l’addebito a suo carico, l’errata lettura e valutazione delle dichiarazioni testimoniali e dei documenti e la mancata pronuncia sulla domanda di addebito formulata nei confronti della moglie.

Omessa pronuncia su addebito separazione alla moglie

Il ricorrente lamenta in particolare che la sentenza avrebbe omesso di pronunciarsi sulla sua domanda di addebito contro la moglie. Detta richiesta tra l’altro, ampiamente argomentata e supportata da documentazione (anche medica), avrebbe offerto una valutazione delle dichiarazioni testimoniali non coerente, ritenendo attendibile, nonostante le contraddizioni, la testimonianza della figlia, rancorosa nei confronti del padre per la questione dell’appartamento. Sottolinea anche l’omessa valutazione di altre testimonianze. Si duole infine della mancata risposta alla sua domanda di addebito, fondata sul rifiuto della moglie di accompagnarlo a un intervento chirurgico, sugli insulti e le invettive a lui rivolte, e sulla violenza fisica perpetrata dalla moglie dopo il suo intervento al cuore.

Abbandono del tetto coniugale della moglie

L’uomo evidenzia inoltre che la moglie aveva appoggiato la figlia nella disputa sull’appartamento, assumendo un contegno offensivo, allontanandolo dal letto coniugale e abbandonandolo a sé stesso. Afferma infine di essere stato vittima di aggressione fisica e verbale da parte della moglie nonostante fosse convalescente da un intervento di bypass coronarico, circostanza che lo aveva costretto a recarsi al Pronto Soccorso.

Provate le continue condotte sprezzanti

La Corte di Cassazione nel pronunciarsi sul motivo incentrato sulla contestazione dell’addebito della separazione, lo dichiara inammissibile. Per gli Ermellini, in relazione all’addebito della separazione a carico della moglie, il ricorrente si è limitato a fornire una diversa valutazione degli esiti istruttori, il che non è sindacabile in sede di legittimità, essendo il giudizio sui fatti riservato al giudice di merito. La denuncia dell’omessa pronuncia sulla domanda di addebito da parte della Corte d’Appello non supera la soglia di ammissibilità. Il ricorrente non ha precisato il contenuto esatto della domanda formulata in primo grado e in appello.

Addebito della separazione: marito unico responsabile

In ogni caso, la Corte d’Appello ha ritenuto la responsabilità esclusiva del marito per la fine dell’unione, rigettando implicitamente la domanda di addebito formulata dal marito. Per questo non si configura vizio di omessa pronuncia. Per il resto, il motivo si risolve in censure di merito, inammissibili in sede di legittimità. Del resto, la valutazione delle prove e l’esame dei documenti sono attività riservate al giudice di merito, le cui conclusioni non sono sindacabili in Cassazione se adeguatamente motivate. La Corte ha ritenuto provate le condotte quotidianamente disprezzanti del marito nei confronti della moglie, sufficienti ad addebitare la separazione, il ricorrente invece ha semplicemente contrapposto una sua diversa valutazione.

 

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pma e madre intenzionale

PMA e madre intenzionale: ok della Consulta La Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale il divieto per la madre intenzionale di riconoscere il figlio nato in Italia da PMA effettuata all’estero, tutelando l’identità e i diritti del minore

PMA e madre intenzionale

PMA e madre intenzionale: con la sentenza n. 68 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8 della legge n. 40/2004, nella parte in cui non consente alla madre intenzionale – ossia alla donna che ha prestato preventivo consenso alla procreazione medicalmente assistita (PMA) effettuata all’estero insieme alla madre biologica – di essere riconosciuta come genitore del minore nato in Italia.

Tutela interesse del minore e responsabilità genitoriale

Secondo la Corte, il mancato riconoscimento legale della genitorialità della madre intenzionale, nel caso di PMA praticata all’estero nel rispetto delle normative locali, viola diversi principi costituzionali, in particolare:

  • Art. 2 Cost., per la lesione del diritto all’identità personale del minore e alla certezza del proprio stato giuridico sin dalla nascita;

  • Art. 3 Cost., per l’irragionevolezza della discriminazione rispetto ad altri nati da PMA e l’assenza di un controinteresse costituzionalmente rilevante;

  • Art. 30 Cost., per la lesione dei diritti del figlio ad essere riconosciuto e tutelato nei confronti di entrambi i genitori che hanno condiviso il progetto genitoriale.

La Consulta ha chiarito che la questione non attiene alle condizioni di accesso alla PMA in Italia, ma alla conseguenza giuridica derivante dal consenso consapevole prestato dalla coppia al ricorso a tecniche riproduttive fuori dal territorio nazionale.

L’interesse del minore come criterio guida

La Corte ha fondato la propria pronuncia su due capisaldi:

  1. L’impegno genitoriale condiviso che deriva dalla scelta comune di ricorrere alla PMA;

  2. La centralità dell’interesse del minore a veder riconosciuti i propri diritti nei confronti di entrambi i genitori, inclusa la madre intenzionale, a partire dalla nascita.

La negazione di tale riconoscimento, ha aggiunto la Corte, compromette il pieno esercizio del diritto del minore a essere educato, istruito e assistito moralmente da entrambi i genitori e a mantenere rapporti significativi anche con gli altri componenti delle rispettive famiglie d’origine.

PMA

PMA vietata alle donne single PMA e donne single: la Corte costituzionale conferma la legittimità della limitazione prevista dalla legge 40/2004

PMA e donne single

Con la sentenza n. 69 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in merito all’art. 5 della legge n. 40/2004, nella parte in cui esclude l’accesso alla procreazione medicalmente assistita (PMA) da parte della donna singola. Secondo la Consulta, tale previsione legislativa, pur comportando una restrizione al principio di autodeterminazione procreativa, non è manifestamente irragionevole né sproporzionata.

Bilanciamento tra autodeterminazione e tutela

La Corte ha osservato che la disciplina dell’accesso alla PMA implica delicate valutazioni etiche e rilevanti conseguenze sociali, che rientrano nella sfera della discrezionalità legislativa. Tale discrezionalità incontra come unico limite costituzionale il principio di non manifesta irragionevolezza, valutato in rapporto al bilanciamento degli interessi in gioco.

Nel caso specifico, il divieto di accesso alla PMA per le donne non coniugate o non conviventi con un partner maschile si fonda, secondo la Corte, su un principio di precauzione volto a tutelare i diritti e gli interessi del nascituro. Il legislatore ha ritenuto di non legittimare un progetto genitoriale che escluda, sin dall’origine, la presenza paterna, configurando questa scelta come una forma di protezione dell’equilibrio psicofisico del futuro minore.

Apertura a un possibile intervento normativo

Pur ritenendo non fondate le censure di incostituzionalità, la Consulta ha sottolineato che non sussistono preclusioni costituzionali a un’eventuale riforma legislativa che estenda l’accesso alla PMA anche alla famiglia monoparentale. Un’eventuale revisione in tal senso spetterebbe però esclusivamente al Parlamento, nell’esercizio delle proprie prerogative e responsabilità.

le unioni civili

Le unioni civili: caratteristiche e giurisprudenza Le unioni civili: cosa sono, la legge Cirinnà, requisiti soggettivi per la loro costituzione, differenze con il matrimonio e giurisprudenza

Cosa sono le unioni civili

Le unioni civili, introdotte con la Legge n. 76/2016, nota come Legge Cirinnà, hanno colmato un vuoto normativo che per decenni ha escluso le coppie omosessuali da qualsiasi forma ufficiale di tutela e riconoscimento.

L’unione civile è un infatti un istituto giuridico riservato alle coppie formate da persone dello stesso sesso, che consente loro di costituire un legame con effetti giuridici simili a quelli del matrimonio.

A differenza delle convivenze di fatto, che possono coinvolgere anche coppie eterosessuali e hanno una regolamentazione più flessibile, l’unione civile è una formazione giuridica specifica, formalizzata davanti all’ufficiale di stato civile.

La Legge Cirinnà

La Legge 20 maggio 2016, n. 76, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 21 maggio 2016 e in vigore dal 5 giugno 2016 si articola in due parti:

  • la prima parte riguarda le unioni civili tra persone dello stesso sesso;
  • la seconda parte disciplina le convivenze di fatto, sia omosessuali che eterosessuali.

L’obiettivo della legge è quello di garantire uguaglianza e tutela giuridica, evitando discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale, in linea con i principi costituzionali e gli orientamenti della giurisprudenza europea.

Le unioni civili: requisiti soggettivi

I soggetti che vogliono costituire un’unione civile devono essere in possesso dei seguenti requisiti:

  • entrambi devono essere maggiorenni;
  • entrambi devono essere dello stesso sesso;
  • non devono essere legati da altri vincoli matrimoniali o unioni civili;
  • non devono essere parenti stretti o affini entro determinati gradi.

Una volta costituita, l’unione civile attribuisce alla coppia una serie di effetti giuridici immediati.

Differenze tra unione civile e matrimonio

Sebbene molto simili, unioni civili e matrimonio non sono perfettamente equiparati. Le principali differenze riguardano:

  • adozione: le coppie unite civilmente non possono adottare congiuntamente un minore (resta possibile solo la stepchild adoption in casi particolari, riconosciuta dalla giurisprudenza);
  • linguaggio giuridico: si parla di “costituzione dell’unione” e non di “matrimonio”, e non si fa riferimento a “coniugi” ma a “parti”;
  • diritto canonico: l’unione civile non ha rilevanza religiosa o confessionale.

Le unioni civili: giuriprudenza

Corte Costituzionale n. 66/2024: costituzionalmente illegittimo l’art. 1 comma 26 della Legge 20 maggio 2016, n. 76 perché lo stesso prevede lo scioglimento automatico dell’unione civile a seguito di una sentenza di rettificazione anagrafica di attribuzione del sesso, senza offrire la possibilità di sospendere tale effetto.

Cassazione n. 24930/2024: In caso di scioglimento di un’unione civile, per la determinazione dell’assegno in favore della parte economicamente più debole, si applicano i criteri previsti per l’assegno divorzile dall’articolo 5, comma 6, della legge sul divorzio, richiamato dall’articolo 1, comma 25, della legge sulle unioni civili. Questo significa che l’assegno avrà una natura assistenziale, compensativa e perequativa. Per riconoscerlo, è necessario valutare se il richiedente non disponga di mezzi adeguati e non sia in grado di procurarseli per ragioni oggettive. Il giudice dovrà quindi comparare le condizioni economiche e patrimoniali delle parti, tenendo conto del contributo di ciascuno alla vita familiare, alla formazione del patrimonio comune, della durata dell’unione e dell’età del richiedente.

Cassazione n. 35969/2023: in caso di scioglimento di un’unione civile, per determinare l’assegno di mantenimento a favore della parte economicamente più debole, la durata del rapporto rilevante non si limita al solo periodo dell’unione civile formalizzata. Richiamando i principi già stabiliti per il divorzio (ex art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970), La Cassazione stabilisce che si deve considerare anche l’eventuale periodo di convivenza di fatto che ha preceduto la formalizzazione dell’unione civile. Questo vale anche se la convivenza è iniziata prima dell’entrata in vigore della Legge n. 76 del 2016 (quella che ha istituito le unioni civili).

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unioni civili

Le unioni civili Unioni civili: cosa sono, disciplina di riferimento, come si costituiscono, diritti e doveri, regime patrimoniale, scioglimento e adozione

Cosa sono le unioni civili

Le unioni civili rappresentano una forma giuridica di convivenza riconosciuta dallo Stato italiano, destinata alle coppie dello stesso sesso. Istituite con la legge 20 maggio 2016, n. 76, conosciuta come Legge Cirinnà, costituiscono un importante traguardo nella tutela dei diritti delle persone LGBTQ+, offrendo una disciplina specifica in materia di diritti e doveri reciproci, regime patrimoniale e scioglimento del vincolo.

L’istituto giuridico è stato introdotto per riconoscere e tutelare le relazioni affettive e patrimoniali tra due persone dello stesso sesso, distinguendole sia dal matrimonio (riservato in Italia alle coppie eterosessuali), sia dalla convivenza di fatto, disciplinata nella stessa legge ma con caratteristiche differenti.

L’unione civile, quindi, non è un matrimonio, ma un istituto autonomo che comporta diritti e doveri simili, pur non identici, a quelli del matrimonio.

Normativa di riferimento: la legge Cirinnà

La disciplina delle unioni civili è contenuta nella legge n. 76/2016, nota come Legge Cirinnà, dal nome della senatrice relatrice del provvedimento. La normativa è entrata in vigore il 5 giugno 2016 e ha introdotto due principali novità:

  • il riconoscimento giuridico delle unioni civili tra persone dello stesso sesso;
  • la regolamentazione delle convivenze di fatto (sia etero che omosessuali), in un capo distinto.

La legge è stata attuata con il D.P.C.M. 23 luglio 2016, n. 144, che disciplina nel dettaglio le modalità di registrazione e trascrizione delle unioni civili.

Come si costituisce un’unione civile

Per costituire un’unione civile occorre seguire una procedura amministrativa davanti all’Ufficiale di Stato Civile del Comune:

  1. manifestazione congiunta della volontà di unirsi civilmente da parte dei due partner (entrambi maggiorenni e dello stesso sesso);
  2. assenza di cause impeditive analoghe a quelli previsti per il matrimonio (ad es. interdizione, parentela, vincoli matrimoniali preesistenti).
  3. redazione dell’atto da parte dell’Ufficiale di Stato Civile e iscrizione nel registro dello stato civile.
  4. possibilità di scegliere un cognome comune, aggiungendolo o anteponendolo al proprio.

Non è prevista, per le unioni civili, la pubblicazione matrimoniale, ma solo la manifestazione della volontà di costituire l’unione.

Diritti e doveri dei partner

La legge prevede per le persone unite civilmente una serie di diritti e doveri reciproci, che ricalcano in buona parte quelli coniugali, con alcune eccezioni:

  • Obbligo di assistenza morale e materiale;
  • Obbligo alla coabitazione;
  • Concorde indirizzo della vita familiare;
  • Obbligo reciproco alla contribuzione secondo le proprie capacità.

A differenza del matrimonio, non esiste il dovere di fedeltà, espressamente escluso dal legislatore.

Inoltre, l’unione civile comporta:

  • Successione legittima tra partner, secondo quanto previsto dal codice civile;
  • Pensione di reversibilità, se uno dei due partner decede;
  • Facoltà di adozione del cognome comune;
  • Equiparazione ai coniugi in ambito sanitario e penitenziario, anche in materia di decisioni mediche e accesso alle informazioni.

Regime patrimoniale delle unioni civili

Il regime patrimoniale legale previsto dalla legge per le unioni civili è quello della comunione dei beni, salvo diversa scelta dei partner al momento della costituzione dell’unione o successivamente.

La comunione dei beni comporta la titolarità congiunta dei beni acquistati dopo la costituzione dell’unione, con eccezioni simili a quelle previste per il matrimonio (beni personali, donazioni, ecc.).

È possibile optare per la separazione dei beni, mediante apposita dichiarazione all’Ufficiale di Stato Civile.

Scioglimento dell’unione civile

Lo scioglimento dell’unione civile può avvenire:

  • su volontà di uno o di entrambi i partner;
  • per decesso;
  • per sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso di uno dei due partner.

Diversamente dal matrimonio, non è previsto il procedimento di separazione, ma si procede direttamente allo scioglimento, mediante una dichiarazione resa all’Ufficiale di Stato Civile o mediante ricorso congiunto in Tribunale.

Unioni civili e adozione

La legge Cirinnà non estende automaticamente alle unioni civili il diritto all’adozione del figlio del partner (stepchild adoption). Tuttavia, la giurisprudenza ha ammesso in alcuni casi questa possibilità, secondo il principio del superiore interesse del minore, valutato caso per caso dal tribunale.

 

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addebito separazione

Addebito separazione anche per un solo episodio di violenza Violenza fisica e addebito della separazione: la Cassazione conferma che basta anche un solo episodio

Violenza e addebito separazione

Addebito separazione: con l’ordinanza n. 10021/2025, la prima sezione civile della Corte di Cassazione ha confermato un principio fondamentale in materia di addebito della separazione coniugale, chiarendo che anche un unico episodio di violenza fisica può fondare la pronuncia di separazione e l’addebito, a prescindere dalla gravità delle lesioni provocate.

La decisione si colloca in un filone giurisprudenziale che tutela in modo sempre più marcato la dignità personale e l’integrità fisica e morale del coniuge vittima di comportamenti lesivi, valorizzando il principio del rispetto reciproco come fondamento del vincolo matrimoniale.

Il caso

La vicenda riguarda una coppia legalmente sposata, nella quale la moglie aveva chiesto la separazione giudiziale con addebito al marito, allegando un episodio di violenza fisica avvenuto nel corso di una lite domestica, culminato in percosse. L’uomo aveva ammesso l’alterco, ma negava l’intento violento e sosteneva che l’episodio fosse isolato e privo di conseguenze gravi.

La Corte d’appello aveva escluso l’addebito, ritenendo che un singolo episodio, non seguito da ulteriori comportamenti aggressivi, non potesse configurare una violazione così grave da determinare l’addebito della separazione.

Cassazione: anche una sola violenza è sufficiente

La Cassazione ha accolto il ricorso della donna e ha affermato il seguente principio di diritto:

“In tema di separazione personale dei coniugi, anche un solo episodio di violenza fisica, posto in essere da uno dei coniugi nei confronti dell’altro, è idoneo a giustificare l’addebito della separazione, a prescindere dalla gravità delle lesioni causate, in quanto integra una violazione grave e intollerabile dei doveri coniugali di cui all’art. 143 c.c.”

Il Collegio sottolinea che l’aggressione fisica costituisce di per sé un fatto oggettivamente idoneo a compromettere irreversibilmente la convivenza coniugale, violando il dovere di reciproco rispetto e assistenza morale.

Centralità della dignità coniugale

La Corte richiama i doveri coniugali sanciti dall’art. 143 del codice civile, evidenziando come la violenza fisica rappresenti una lesione insanabile della fiducia reciproca, anche in assenza di effetti clinicamente gravi.

Nel testo dell’ordinanza si legge: “Il dovere di fedeltà, di assistenza morale e materiale, e di reciproco rispetto tra coniugi è incompatibile con qualsiasi forma di aggressione fisica. L’episodio, anche isolato, esprime una rottura radicale del vincolo coniugale, tale da giustificare non solo la separazione, ma anche l’addebito”. 

Il carattere episodico non attenua, secondo la Corte, la gravità oggettiva del gesto, che può aver minato irreparabilmente il legame matrimoniale, determinando la responsabilità esclusiva del coniuge autore dell’aggressione nella crisi coniugale.

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spese straordinarie figli

Spese straordinarie figli: rimborso possibile anche senza accordo Il genitore può ottenere il rimborso delle spese straordinarie per i figli anche senza accordo, se utili e compatibili con il tenore di vita familiare

Spese straordinarie figli

Anche in assenza di un’intesa preventiva, il genitore che anticipa integralmente le spese straordinarie sostenute per i figli ha diritto al rimborso da parte dell’altro, purché l’esborso risponda concretamente alle esigenze della prole e risulti proporzionato al tenore di vita familiare. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 9392 del 10 aprile 2025, intervenendo nuovamente sulla questione della ripetizione delle spese straordinarie nel contesto dei rapporti familiari post-separazione.

Rimborso spese straordinarie: quando è dovuto

Il principio affermato dalla Cassazione è chiaro: non è sempre necessario l’accordo preventivo tra i genitori affinché uno di essi possa agire per ottenere il rimborso delle spese straordinarie sostenute. In particolare, quando le uscite economiche sono:

  • necessarie per l’interesse del minore,

  • coerenti con le condizioni economiche dei genitori e il tenore di vita mantenuto in famiglia, e

  • riferite a bisogni ricorrenti e prevedibili, come le spese mediche ordinarie o quelle scolastiche,

non è richiesta una preventiva concertazione.

Al contrario, il consenso preventivo è generalmente necessario per spese eccezionali, imprevedibili o economicamente gravose, cioè quelle che eccedono la normalità del regime di vita del figlio. Tuttavia, anche in tali casi, la mancanza di comunicazione anticipata non comporta automaticamente la perdita del diritto al rimborso. Spetta infatti al giudice valutare la congruità della spesa rispetto:

  • all’interesse superiore del minore,

  • alla sua utilità concreta, e

  • alla sostenibilità economica in relazione alle disponibilità dei genitori.

Il caso dell’equitazione e dell’acquisto del cavallo

Nel caso esaminato dalla Suprema Corte, il padre contestava il proprio obbligo di contribuire alle spese per il mantenimento di un cavallo utilizzato dai figli per l’attività sportiva dell’equitazione. I giudici, tuttavia, hanno rigettato la sua opposizione, osservando che tale pratica sportiva era stata intrapresa dai minori già in costanza di convivenza tra i genitori, e che l’acquisto dell’animale e l’iscrizione a un centro sportivo erano stati frutto di decisioni condivise dalla coppia. Tali elementi confermano la sussistenza di un accordo implicito e continuato nel tempo, idoneo a legittimare la ripartizione della spesa.

Tenore di vita accertabile con elementi presuntivi Il tenore di vita può essere accertato anche con elementi presuntivi per quantificare l'assegno di mantenimento

Tenore di vita assegno di mantenimento

Per stabilire l’assegno di separazione, la valutazione del tenore di vita durante il matrimonio e delle condizioni economiche dei coniugi dopo la separazione può basarsi su indizi e deduzioni. È fondamentale però che tale valutazione sia fondata su un’analisi specifica e dettagliata delle circostanze reali. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 11611/2025.

Nessun mantenimento per la moglie

Una donna ricorre in appello contro due sentenze che, in virtù della separazione dal marito le assegnavano la casa familiare, le addebitavano la separazione e obbligavano l’ex marito a versare 1.000 euro mensili per il mantenimento del figlio, oltre all’80% delle spese straordinarie. La donna contestava l’addebito della separazione a suo carico e chiedeva il mantenimento in suo favore.

Tenore di vita: moglie impossibilitata a conservarlo

La Corte d’Appello riforma la decisione di primo grado. Essa respinge la richiesta di addebito della separazione alla moglie e riconosce alla donna un assegno di mantenimento di 800 euro mensili (oltre rivalutazione Istat). Il resto della decisione viene confermato. Per la Corte il tenore di vita matrimoniale era sostenuto principalmente dal reddito dell’uomo. Lo stesso aveva infatti revocato i mandati professionali alla moglie (avvocato) e si era appropriato dei risparmi comuni. Nonostante la capacità professionale della donna e la futura divisione dei beni, la Corte riconosce una riduzione delle sue disponibilità economiche e la sua incapacità di mantenere le precedenti condizioni di vita. L’assegno di 800 euro appare pertanto equo. L’uomo a questo punto ricorre in Cassazione.

Assegno mantenimento: rileva il tenore di vita

La Cassazione accoglie il primo motivo del ricorso e dichiara assorbiti tutti gli altri. Nella motivazione ricorda che l’articolo 156, comma 1, del codice civile stabilisce che il coniuge a cui non sia addebitabile la separazione ha diritto a ricevere dall’altro quanto necessario per mantenere il tenore di vita goduto durante il matrimonio, qualora non abbia redditi adeguati.

In sede di separazione (a differenza del divorzio), il parametro per valutare l’adeguatezza dei redditi è il mantenimento del tenore di vita matrimoniale. Questo perché il vincolo coniugale permane e sussiste ancora il dovere di assistenza materiale.

Tenore di vita accertabile con elementi presuntivi

Per quantificare l’assegno, il giudice di merito deve quindi necessariamente accertare il tenore di vita della coppia durante la convivenza. Nel compiere questa valutazione deve considerare i redditi dichiarati fiscalmente, altri elementi economici come il patrimonio (anche mobiliare), uno stile di vita agiato, o redditi non dichiarati. Tale accertamento può basarsi anche su elementi presuntivi, ma deve essere concreto.

Nel caso specifico, la Cassazione critica la Corte d’Appello per aver stabilito la prevalenza del contributo economico dell’uomo nel determinare il tenore di vita coniugale senza descrivere in alcun modo quale fosse tale tenore di vita.

Peggioramento delle condizioni di vita della moglie da specificare

Allo stesso modo, la Corte territoriale ha ritenuto peggiorate le condizioni economiche della donna dopo la separazione senza specificare quali fossero prima e dopo. La Corte di Cassazione contesta quindi alla Corte d’Appello di aver espresso un’opinione sulla maggiore incidenza del reddito dell’uomo nel sostenere il tenore di vita familiare e sul peggioramento della situazione economica della donna senza aver prima chiaramente definito e valutato le reali circostanze economiche in cui versava la famiglia e ciascun coniuge. La mancanza di una precisa determinazione delle effettive condizioni di vita dei coniugi ha portato la Corte d’Appello a decidere sull’obbligo e sull’entità dell’assegno di mantenimento senza avere una comprensione concreta del loro pregresso tenore di vita familiare e delle loro attuali risorse individuali. Alla Corte d’Appello in diversa composizione il compito di decidere su questi punti nel rispetto di quanto affermato in sentenza.

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