assegno di mantenimento figli

Assegno di mantenimento figli: l’impossibilità non è indigenza totale Assegno di mantenimento figli: l’impossibilità di adempiere gli obblighi di assistenza esclude il dolo, ma non equivale all’indigenza totale 

Assegno mantenimento figli e indigenza totale

Il padre che non versa l’assegno di mantenimento per la figlia, violando gli obblighi di assistenza familiare commette reato se non dimostra che la dichiarata impossibilità è esente da colpa. L’impossibilità assoluta di adempiere gli obblighi di assistenza familiare (art. 570 bis c.p) e che esclude il dolo “non può essere assimilata allindigenza totale.” Lo ha specificato la Corte di Cassazione nella sentenza n. 34032-2024.

Assegno di mantenimento: reato non versarlo per la figlia

Il giudice di primo grado condanna un padre per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare di cui all’’art. 570 bis c.p. La Corte d’appello riduce la pena, ma conferma il reato. Per i giudici l’uomo è responsabile del mancato versamento del mantenimento mensile di 900,00 euro per la figlia. La Corte rileva che lo stesso ha versato somme inferiori rispetto a quelle fissate dal giudice, ma non ha dimostrato condizioni tali da non poter disporre di somme superiori.

Manca il dolo del reato contestato

L’imputato nel ricorrere in Cassazione contesta l’elemento soggettivo del reato di cui è stato ritenuto responsabile. Lo stesso dichiara di essersi trovato in una condizione di ristrettezze economiche. Questo non gli ha impedito di  versare quanto poteva per la figlia. Lo stesso inoltre si è riconciliato con la ex moglie e La ripresa della convivenza gli ha consentito di ripianare la propria posizione debitoria.

L’impossibilità di versare il mantenimento non è indigenza totale

La Cassazione, esaminati i motivi di doglianza, dichiara il ricorso manifestamente infondato. L’imputato si limita infatti a reiterare la tesi in base alla quale il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare non può essere attribuito a chi si trova in una condizione di impossibilità ad adempiere ai propri obblighi.

La sentenza pronunciata nei confronti dell’imputato però è perfettamente in linea con la tesi affermata da giurisprudenza oramai consolidata, per la quale “in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, l’impossibilità assoluta dell’obbligato di far fronte agli adempimenti sanzionate dall’articolo 570 bis CP, che esclude il dolo, non può essere assimilata all’indigenza totale, dovendosi valutare se, in una prospettiva di bilanciamento dei beni in conflitto, ferma restando la prevalenza dell’interesse dei minori e degli eventi di diritto alle prestazioni, il soggetto avesse  effettivamente la possibilità di assolvere i propri obblighi senza rinunciare a condizioni di dignitosa sopravvivenza.”

Impossibilità totale e priva di colpa non dimostrata

L’imputato non è totalmente incolpevole e quindi non è esonerato dall’obbligo di contribuzione. La difesa ha dichiarato che l’uomo si è trovato in condizioni di difficoltà economica e quindi impossibilitato ad adempiere le obbligazioni a suo carico, ma tale assunto difensivo è generico e non è idoneo a dimostrare l’incapacità contributiva assoluta ed esente da colpa. L’imputato ha omesso di versare l’assegno di mantenimento, ma non ha dimostrato che l’inadempimento era dovuto a una condizione di impossibilità assoluta e priva di colpa.

 

Leggi anche: Mantenimento figli: nessun reato per il padre in difficoltà

Allegati

PMA donne single: parola alla Consulta PMA donne single: il Tribunale di Firenze chiede alla Corte Costituzionale di pronunciarsi sull’art. 5 della legge n. 40/2004

Procreazione medicalmente assistita donne single

Si torna a parlare di PMA in relazione alle donne single. Il Tribunale di Firenze accoglie i rilievi di incostituzionalità sollevati da una donna nei confronti della legge n. 40/2004. L’articolo 5 riserva il diritto di ricorrere alle tecniche  di PMA solo alle coppie maggiorenni spostate o conviventi, negandolo alle donne single. Questo limite viola in effetti alcuni diritti fondamentali della persona sanciti dalla Costituzione e da norme europee. La questione ora dovrà essere affrontata e risolta dalla Corte Costituzionale.

PMA: negato l’accesso a una donna single

Una donna agisce nei confronti di un Centro di procreazione assistita. Nell’ambito di un procedimento cautelare chiede di disapplicare l’articolo 5 della norm  per contrasto con gli articoli 8 e 14 della CEDU.

La donna, alla luce delle ultime pronunce in materia della Corte Costituzionale, chiede il riconoscimento dei seguenti diritti:

  • di poter ricorrere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita anche con l’eterologa maschile;
  • di potersi sottoporre a un protocollo PMA adeguato per assicurare più elevate probabilità di risultato;
  • di potersi sottoporre a un trattamento medico che tuteli la salute della donna.

Qualora il Tribunale dovesse riconoscerle questi diritti la donna chiede che venga ordinato al Centro di Procreazione assistita di accogliere la sua richiesta di sottoporsi alla tecnica di fecondazione assistita di tipo eterologo con donatore anonimo, avviando la relativa procedura a carico del Servizio Sanitario Nazionale.

Art. 5 legge n. 40/2004: discriminatorio per le donne single

Qualora il Tribunale dovesse invece rigettare le richieste avanzate la donna chiede in via subordinata di sollevare questione di illegittimità costituzionale. L’articolo 5 della legge n. 40/2004 limita infatti il diritto di accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie di sesso diverso, coniugate o convivente, negandolo alle donne single. La ricorrente contesta che il Centro di procreazione a cui si è rivolta le neghi il diritto di ricorrere alla PMA. Questo diniego è infatti del tutto irragionevole. Esso contrasta con quanto sancito dalla Costituzione e con le legislazioni dei paesi europei. Molti Stati UE infatti, ad oggi, consentono anche alle donne single di poter accedere alla fecondazione eterologa.

A sostegno delle ragioni della ricorrente sono intervenute nel giudizio con interventi adesivi dipendenti una donna e un’Associazione, che promuove il superamento dei limiti previsti dalla legislazione italiana in materia di procreazione medicalmente assistita.

Art. 5  contrario a Costituzione e fonti europee

Il Tribunale accoglie la richiesta della rincorrente in relazione alla questione di illegittimità costituzionale delle norme che limitano a PMA solo alle coppie maggiorenni di sesso diverso spostate e conviventi.

Il Tribunale giunge a questa conclusione dopo avere analizzato il contenuto dell’articolo 5, norma che presenta evidenti profili di incostituzionalità.

Essa nega infatti alla donna di accedere alle tecniche di fecondazione assistita eterologa in pieno contrasto con il principio di uguaglianza sancito dall’art.  3 della Costituzione. La norma realizza una discriminazione irragionevole tra singole coppie, in contrasto con la i diritti delle famiglie mono-genitoriale che invece il nostro ordinamento tutela.

La norma discrimina anche per ragioni economiche, perchè di fatto se la donna si reca all’estero per accedere alla PMA il relativo rapporto di filiazione è poi riconosciuto nel nostro ordinamento.

Il dato normativo contrasta anche con una decisione della Corte Costituzione che ha consentito a una donna solo di procedere con l’impianto in utero dell’embrione e con un decreto del Ministero della Salute che consente le donne separate o vedove di procedere alla fecondazione in presenza del consenso espresso in precedenza dalla coppia.

L’art. 5 viola il diritto della persona di scegliere una famiglia non figli non genetici, in violazione del principio di autodeterminazione.

La norma viola anche il diritto alla salute della donna perché le impedisce di diventare madre, anche alla luce L fattore temporale della fertilità.

La norma contrasta infine anche con l’art. 117 Cost comma 1 in relazione ad. Alcun articoli della CEDU e della Carta di Nizza perché non rispetta la vita privata della famiglia e il diritto all’integrità fisica e psichica perché viola Il diritto all’autodeterminazione in relazione al modello familiare che ciascuno vuole realizzare.

 

Leggi anche: Procreazione medicalmente assistita (PMA): le linee guida

Allegati

mediazione familiare

Mediazione familiare: cos’è e chi la conduce La mediazione familiare è un percorso finalizzato al raggiungimento di un accordo in presenza di una crisi familiare

Mediazione familiare: definizione e finalità

La mediazione familiare consiste in una procedura rivolta alle coppie in crisi al fine di risolvere situazioni conflittuali che vengono manifestate con la volontà di procedere a una separazione o un divorzio.

La mediazione familiare prevede la collaborazione delle parti coinvolte per la risoluzione del conflitto. In questo percorso la coppia è assistita da un soggetto terzo e imparziale, che prende il nome di mediatore familiare. Il suo ruolo è quello di comunicare con le parti per aiutarle a trovare una soluzione positiva per entrambe.

Uno degli obiettivi principali nel processo di mediazione è la realizzazione della cogenitorialità per tutelare la responsabilità genitoriale di ciascun genitore nei confronti dei figli, soprattutto se minori di età.

Mediazione familiare e mediazione civile

Le differenze con la mediazione civile sono evidenti. La mediazione familiare è finalizzata a favorire gli accordi tra coniugi per risolvere problematiche soprattutto di carattere “emotivo” che possono riguardare anche il rapporto con i figli. La mediazione civile invece è finalizzata al raggiungimento di un accordo tra parti in conflitto in relazione a una controversia insorta in materia di diritti disponibili.

Mediazione familiare: l’art. 473 bis 10 c.c.

La Riforma Cartabia ha valorizzato la mediazione familiare, dedicandole un articolo specifico del codice di procedura civile nella parte dedicata ai procedimenti per le persone, i minorenni e le famiglie.

L’articolo 473 bis 10 prevede che il giudice, durante il procedimento, possa informare le parti, della possibilità di avvalersi della mediazione familiare e invitarle a rivolgersi a un mediatore familiare. Questo soggetto, che le parti possono scegliere liberamente, deve spiegare alle parti finalità, contenuto e modalità di svolgimento del percorso per consentire loro di decidere se intraprenderlo o meno.

Il giudice può decidere anche di rinviare l’adozione dei provvedimenti temporanei e urgenti se, ottenuto il consenso dei coniugi, ritiene che la mediazione familiare possa essere utile alle parti per trovare un accordo, soprattutto nell’interesse materiale e morale dei figli.

Il mediatore familiare: disciplina

La Riforma Cartabia ha anche regolato la disciplina professionale del mediatore familiare. Il DM n. 151/2023 contenente il regolamento sulla disciplina professionale del mediatore familiare compie l’attuazione del decreto legislativo n. 149/2022, che a sua volta ha attuato la legge delega n. 206/2021.

Alla luce di questa regolamentazione il soggetto che vuole esercitare la professione di mediatore familiare deve richiedere l’iscrizione in un elenco apposito. All’elenco si possono iscrive i mediatori familiari che sono iscritti da almeno 5 anni a una delle associazioni professionali, che a loro volta, devono essere inserite nell’elenco del Ministero dello sviluppo economico.

Mediatore familiare: definizione normativa

L’articolo 2 del DM n. 151/2023 definisce il mediatore familiare come: la figura  professionale  terza  e imparziale, con una formazione specifica, che interviene nei casi  di cessazione o di oggettive difficoltà relazionali di un rapporto di coppia, prima, durante o dopo l’evento separativo. Il mediatore opera al fine di facilitare i soggetti coinvolti nell’elaborazione di un percorso di riorganizzazione di  una  relazione, anche mediante il raggiungimento di un accordo   direttamente e responsabilmente negoziato e con riferimento alla salvaguardia dei rapporti familiari e della relazione genitoriale, ove presente.”

Competenze

Il mediatore familiare deve essere in possesso di conoscenze specifiche in materia di diritto di famiglia, tutela dei minori, violenza domestica e violenza di genere.

Il mediatore acquisisce queste competenze attraverso la frequentazione di un percorso di formazione iniziale a cui ne segue uno continuo nel tempo con acquisizione dei relativi crediti formativi periodici.

Requisiti morali

Il mediatore familiare per esercitare la professione deve possedere anche precisi requisiti di onorabilità. Non deve aver subito condanne penali e non deve essere stato sottoposto a specifiche misure di prevenzione e di sicurezza personali.

Deontologia

Il mediatore familiare è tenuto al rispetto anche di precise regole deontologiche, la cui violazione comporta   relative sanzioni.

Ai sensi dell’art. 6 del DM n 151/2023 il mediatore familiare deve esercitare la professione con libertà, autonomia, indipendenza di giudizio intellettuale e tecnico, buona fede,  affidamento della clientela, correttezza, responsabilità e riservatezza.

Il mediatore familiare esercita l’attività di  mediazione  con imparzialità, neutralità e assenza di giudizio  nei  confronti  dei mediandi, promuovendo fra loro un processo equilibrato e incoraggiandoli a confrontarsi in modo costruttivo.”

validi gli accordi via mail

Validi gli accordi via mail tra genitori separati Per la Cassazione sono validi gli accordi sulla ripartizione delle spese familiari raggiunti via mail tra genitori separati

Sono validi gli accordi via mail raggiunti tra i coniugi sulla ripartizione delle spese familiari. Questo quanto si ricava dall’ordinanza n. 13366/2024 della prima sezione civile della Cassazione.

I fatti

Il giudice di pace di Roma rigettava la domanda proposta dall’ex marito nei confronti della moglie per il pagamento di oltre 2.500 euro a titolo di rimborso della quota delle spese sostenute nell’interesse della famiglia, sul presupposto che dovesse essere riconosciuta piena validità giuridica all’accordo di ripartizione di esse concluso tra i coniugi, anche anteriormente alla separazione.
Al riguardo, il giudice riteneva che le spese di cui ciascun coniuge si era fatto carico nel periodo di convivenza coniugale rientrassero tra quelle effettuate per i bisogni della famiglia.

Anche il tribunale rigettava l’appello osservando che le spese in questione – relative alla gestione della casa familiare di sua esclusiva proprietà, nella quale aveva abitato fino alla separazione – erano state sostenute prima della separazione tra i coniugi, nell’ambito della convivenza coniugale per i bisogni della famiglia, ex art. 143 c.c., per cui esse non erano ripartibili pro-quota, anche considerando che si trattava di obbligazione assimilabile a quella naturale; a tal fine erano irrilevanti gli accordi tra coniugi in sede di separazione.

Il ricorso

L’uomo adiva quindi il Palazzaccio, denunciando violazione degli artt. 143, 1218, 1322, 1372, 1375, 2034 c.c., per aver il Tribunale ritenuto che lo scambio di e-mail tra le parti fosse funzionale a realizzare l’accordo diretto all’organizzazione delle spese quotidiane, non qualificandolo invece quale accordo vincolante sulla suddivisione delle spese, come sarebbe stato desumibile dal tenore delle dichiarazioni adottate dalle parti (la moglie era gravata dal 40% di tali spese, ma aveva ricevuto la disponibilità della casa coniugale e dell’automobile di famiglia, entrambe di proprietà del marito).
Il ricorrente assume che tale accordo tra coniugi era del tutto legittimo e vincolante, in conformità della giurisprudenza di legittimità.

Vincolante l’accordo raggiunto dai coniugi via mail

La Cassazione gli dà ragione. “In caso di separazione consensuale o divorzio congiunto (o su conclusioni conformi) – affermano preliminarmente i giudici – la sentenza incide sul vincolo matrimoniale ma, sull’accordo tra i coniugi, realizza – in funzione di tutela dei diritti indisponibili del soggetto più debole e dei figli – un controllo solo esterno attesa la natura negoziale dello stesso, da affermarsi in ragione dell’ormai avvenuto superamento della concezione che ritiene la preminenza di un interesse, superiore e trascendente, della famiglia rispetto alla somma di quelli, coordinati e collegati, dei singoli componenti. Ne consegue che i coniugi possono concordare, con il limite del rispetto dei diritti indisponibili, non solo gli aspetti patrimoniali, ma anche quelli personali della vita familiare, quali, in particolare, l’affidamento dei figli e le modalità di visita dei genitori (Cass., n. 18066/14)”.
Nella specie, dunque, ritengono da piazza Cavour, “il Tribunale ha errato nel ritenere che l’accordo raggiunto tra i coniugi, finalizzato alla suddivisione delle spese familiari, non fosse vincolante, e che il pagamento integrale, da parte del marito, delle stesse, in quanto effettuate per i bisogni della famiglia ed espressione della solidarietà familiare, in adempimento dell’obbligo di contribuzione di cui all’art. 143 c.p.c., non fosse ripetibile”.
Al riguardo, il Tribunale ha escluso che lo scambio di e-mail tra i coniugi potesse configurare un valido accordo negoziale relativo alla separazione, poiché mera organizzazione delle spese quotidiane familiari.
Tale interpretazione, per la S.C., tuttavia, contrasta con le risultanze documentali che evidenziano l’esistenza dell’accordo tra i coniugi, raggiunto con le e-mail esaminate dai giudici di merito, e riguardante inequivocabilmente la ripartizione delle spese tra i detti coniugi. Al riguardo, infatti, è vero che “durante il matrimonio ciascun coniuge è tenuto a contribuire alle esigenze della famiglia in misura proporzionale alle proprie sostanze, secondo quanto previsto dagli artt. 143 e 316-bis, primo comma, c.c., e che a seguito della separazione non sussiste li diritto al rimborso di un coniuge nei
confronti dell’altro per le spese sostenute in modo indifferenziato per i bisogni della famiglia durante il matrimonio (v., in tal senso, Cass., n. 10927/18). Ciò costituisce senza dubbio un principio generale in tema di doveri patrimoniali dei coniugi nella conduzione della vita familiare. Tuttavia, il menzionato principio è suscettibile di deroga tramite un
accordo negoziale tra le stesse parti (che può meglio rispecchiare le singole capacità economiche di ciascun coniuge o modulare forme di generosità spontanea tra i coniugi) che è comunque finalizzato al soddisfacimento delle primarie esigenze familiari e dei figli, nel rispetto dei doveri solidaristici che trovano la loro fonte nel rapporto matrimoniale”.

La decisione

Da qui l’accoglimento del ricorso e la cassazione della sentenza impugnata.

Parola al giudice del rinvio.

 

Vai alla sezione diritto di famiglia

assegnazione casa familiare

Assegnazione casa familiare: comprende anche i mobili Per la Cassazione, l'assegnazione della casa familiare si estende anche agli arredi e ai mobili essendo legata alla collocazione dei figli

Assegnazione della casa familiare

L’assegnazione della casa familiare si estende anche agli arredi essendo legata alla collocazione dei figli. E’ quanto stabilito dalla prima sezione civile della Cassazione nell’ordinanza n. 16691/2024.

La vicenda

Nella vicenda, con sentenza il tribunale di Trieste riconosceva il diritto all’assegno divorzile all’ex moglie e le assegnava la casa coniugale. Il marito impugnava il provvedimento innanzi la Corte d’appello lamentando, tra l’altro, che la casa coniugale di sua proprietà comprendeva anche gli arredi, per cui l’assegnazione degli stessi era giuridicamente insostenibile, in quanto “legislativamente non prevista” e ne chiedeva, pertanto, la restituzione. La corte territoriale gli dava ragione. E la questione approdava in Cassazione dove l’ex moglie, tra le varie doglianze sosteneva che “gli arredi devono essere considerati parte integrante dell’habitat domestico tutelato dall’art. 337 sexies c.c.”.

Assegnazione casa familiare comprende gli arredi

Per gli Ermellini, il motivo è fondato. “L’assegnazione della casa familiare – affermano infatti – si estende anche a mobili ed arredi, essendo indissolubilmente legata alla collocazione dei figli minori o maggiorenni non autosufficienti, i quali hanno diritto di conservare l’habitat domestico nel quale sono nati o cresciuti, composto delle mura e degli arredi. L’assegnazione della casa coniugale ad uno dei coniugi, ai sensi dell’art. 155, comma 4, c.c., ricomprende, per la finalità sopraindicate, non il solo immobile, ma anche i mobili, gli arredi, gli elettrodomestici ed i servizi, con l’eccezione dei beni strettamente personali che soddisfano esigenze peculiari dell’altro ex coniuge (Cass., n. 5189/1998; Cass, n. 878/1986; Cass., n. 7303/1983)”.

Il logico collegamento, proseguono dal Palazzaccio, “tra immobile e mobili ai fini di tutelare l’interesse del minore alla conservazione dell’ambiente familiare va ribadito anche se la proprietà dell’immobile è di proprietà esclusiva del coniuge non proprietario dei beni mobili al fine di garantire al minore quel complesso di comfort e di servizi che durante la convivenza ha caratterizzato lo standard di vita familiare. In tale direzione è principio costantemente ribadito da questa Corte che il collegamento stabile con l’abitazione del genitore, caratterizzato da coabitazione anche non quotidiana ma compatibile con assenze giustificate da motivi riconducibili al percorso formativo, purché vi faccia ritorno periodicamente e sia accertato che la casa familiare sia luogo nel quale è conservato il proprio habitat domestico. Uno degli indici probatori può essere la circostanza che l’effettiva presenza sia temporalmente prevalente in relazione ad una determinata unità di tempo (Cass., n. 29977/2020; Cass., n. 16134/2019, Cass., n. 21749/2022)”.

La decisione

Nella specie, la Corte territoriale ha del tutto omesso di esaminare e porre in relazione con il diritto all’assegnazione della casa familiare nella sua completezza, la non autosufficienza economica della figlia maggiorenne delle parti, non oggetto di contestazione e la sua collocazione presso la predetta casa familiare. Per cui il ricorso principale è accolto e la sentenza cassata con rinvio.

Allegati

affidamento condiviso

Affidamento condiviso L’affido condiviso e il principio di bigenitorialità: la centralità degli interessi del minore nei provvedimenti del giudice sulla separazione dei coniugi

L’affidamento condiviso nella separazione

L’affidamento condiviso è la condizione in cui, di regola, si trovano i figli in conseguenza della separazione dei genitori.

L’affido congiunto si contrappone ad altre possibili soluzioni che il giudice può adottare in sede di separazione dei coniugi con prole, come ad esempio l’affido esclusivo ad uno solo dei genitori in considerazione di particolari circostanze (in particolare, quando l’affidamento all’altro genitore, anche in via condivisa, sia contrario all’interesse del minore).

Affido condiviso come funziona

Fino all’emanazione della legge 54/2006, la regola, in tema di affidamento dei figli in sede di separazione, era rappresentata dall’affido esclusivo. Con tale provvedimento legislativo, invece, si è scelto di rendere centrale il ruolo dell’affido condiviso paritario per garantire, da un lato il diritto di ciascun coniuge all’esercizio della responsabilità genitoriale e alla partecipazione alle decisioni più importanti nell’interesse dei figli, e dall’altro, il diritto di questi ultimi alla c.d. bigenitorialità.

Il principio della bigenitorialità

Il principio della bigenitorialità è riassunto nella formula dell’art. 337-ter del codice civile, in base al quale “il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”.

Più in generale, il secondo comma della norma citata evidenzia come oggi l’affidamento condiviso rappresenti la regola, in quanto impone al giudice, in caso di separazione dei coniugi, di valutare prioritariamente “la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori”. Solo quando tale strada non sia percorribile egli è chiamato a stabilire a quale dei genitori i figli debbano essere affidati, fermi restando il diritto e il dovere di ciascuno dei genitori di contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli.

Quali sono le regole per l’affidamento condiviso

Il regime di affido paritario non esclude, peraltro, che tra i due genitori ne sia individuato uno presso la cui abitazione i figli continueranno a dimorare.

Il collocamento dei figli

Al genitore collocatario, di norma, è concessa la possibilità di continuare ad abitare nella casa familiare. In tal caso, all’altro genitore viene garantita la presenza dei figli presso il proprio domicilio (evidentemente, una casa diversa presso cui il coniuge non collocatario è andato a vivere dopo la separazione). Sta al giudice, in assenza di accordo tra le parti, individuare i giorni o i periodi in cui i figli si trasferiscono presso l’abitazione del genitore non collocatario (frequente è, ad esempio, l’adozione di provvedimenti giudiziali che prevedano i c.d. fine settimana alternati presso ciascun genitore).

Una particolare tendenza emersa nelle decisioni della più recente giurisprudenza è quella di prevedere, nell’interesse dei figli, che questi abitino permanentemente nella casa familiare e che ad alternarsi nella presenza all’interno di essa siano gli ex coniugi.

In altre parole, tali provvedimenti mirano a garantire una stabilità emotiva, nei rapporti e nella vita quotidiana, in favore dei figli ed evitare che questi ultimi siano trattati, come si usa dire, come “pacchi postali”, in continua peregrinazione tra le attuali abitazioni dei due genitori. I giudici che seguono tale orientamento impongono, dunque, a ciascun genitore di abbandonare, in determinati giorni, la casa familiare per far posto all’altro coniuge.

Tale filone giurisprudenziale, che annovera anche autorevoli pronunce di legittimità (v. Cass., ord. n. 6810/2023), incontra, per avverso, le critiche di chi vi scorge un’eccessiva gravosità per i coniugi nella gestione della propria vita e dei propri rapporti quotidiani.

Quando decade l’affidamento condiviso

In ultima analisi, con l’affido condiviso viene garantita la partecipazione di entrambi i genitori alle più importanti decisioni relative alla cura e all’educazione dei figli, si pensi ad esempio al percorso scolastico da seguire, alle attività extrascolastiche da praticare o alle scelte in ambito sanitario, come la decisione di sottoporsi o meno ad un vaccino.

In ogni caso, ai figli minori è garantito l’ascolto da parte del giudice, ai sensi dell’473 bis 4 c.p.c. che prevede in capo al minore che abbia compiuto gli anni dodici (o meno, se capace di discernimento) un generale diritto di essere ascoltato in relazione ai provvedimenti giudiziali che lo riguardano.

Infine, va ricordato che ogni provvedimento giudiziale in tema di affidamento dei figli – ivi compreso quello che dispone sull’assegno di mantenimento  – può essere sottoposto a revisione su richiesta di uno dei genitori, ai sensi dell’art. 337-quinquies c.c.

incontri padre figlia

Incontri padre-figlia sospesi se pesano alla minore Incontri padre-figlia: vanno sospesi se si rivelano contrari all’interesse del minore a causa dell’immaturità del padre

Incontri padre-figlia: sospesi se la minore li patisce

Gli incontri padre – figlia devono essere sospesi se creano sofferenza alla minore adolescente. I giudici di merito hanno accertato che il padre è immaturo, autocentrato, ossessivo e persecutore. La minore invece, grazie all’affido agli zii materni, al supporto dei servizi sociali e di quelli psicologici, è risultata matura ed equilibrata. Lo ha sancito la Cassazione nell’ordinanza n. 21969-2024.

Minore affidata agli zii paterni

Nell’ambito di un procedimento di separazione coniugale con problematiche legate all’affidamento della minore, la Corte d’Appello dispone l’interruzione degli incontri della minore con entrambi i genitori. La minore deve essere seguita dai servizi sociali e dal servizio di psicologia dell’età evolutiva e deve essere lasciata libera di riprendere gli incontri, previa valutazione degli operatori dei servizi.

Incontri padre-figlia: per il padre sono un diritto del minore

Il padre impugna la decisione di fronte alla Corte di Cassazione. L’uomo afferma che il suo rapporto con la figlia è stato compromesso a causa della malattia della madre e delle denunce che questa ha sporto nei suoi confronti. Questo situazione ha sicuramente impedito la creazione di un rapporto con la figlia.

Il ricorrente ritiene inoltre che la decisione sia del tutto nulla perché l’art. 8 della Cedu ha sancito il principio di non ingerenza dello Stato nella vita familiare. L’articolo 24 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE riconosce al minore il diritto di aver rapporti diretti e regolari con i genitori. L’uomo denuncia inoltre il mancato ascolto dei nonni paterni e l’affido della minore agli zii paterni.

Padre inidoneo ad avere rapporti sereni con la figlia

La Cassazione dichiara inammissibili i motivi sollevati dal padre. Gli Ermellini rilevano come la Corte d’appello sia giunta alla decisione oggetto di impugnazione per diverse ragioni. La stessa ha rilevato la non idoneità del padre ad avere rapporti sereni con la figlia minore. L’uomo risulta immaturo e affetto da ossessioni patologiche.

Da sospendere gli incontri padre-figlia se la minore mostra avversione

La Corte ricorda inoltre che in base ai principi sanciti dalla Convenzione di New York sui diritti del Fanciullo il giudice possa sospendere gli incontri padre-figlio se il minoredivenuto ormai adolescente e perfettamente consapevole dei propri sentimenti e delle loro motivazioni, provi nei confronti del genitore non affidatario sentimenti di avversione o, addirittura, di ripulsa – a tal punto radicati da doversi escludere che possano essere rapidamente e facilmente rimossi, nonostante li supporto di strutture sociali e psicopedagogiche”. 

Non rilevano ai fini della sospensione degli incontri le responsabilità dei genitori o la fondatezza delle ragioni che il minore adduce per dare una giustificazione ai suoi sentimenti. Il Giudice deve solo valutare la profondità e l’intensità del sentire del minore per decidere se gli incontri possono portare al superamento della animosità o una sua dannosa radicalizzazione.

Sospensione degli incontri nell’interesse primario del minore

La Corte di Appello ha rispettato i principi indicati dalla Cassazione e ha attuato l’interesse primario della minore. La ragazzina è dotata intellettivamente ed è più matura della sua età. Ella è autonoma nel giudizio ed è risultata lucida nel fornire la lettura degli eventi e delle condotte dei genitori e degli altri adulti. Durante il giudizio si è dimostrata calma ed equilibrata.

Il padre, all’opposto, è immaturo, autocentrante, presenta dei disturbi ossessivi e persecutori, non ha un ruolo tutelante e negli anni non ha compiuto alcun progresso. La figlia soffre per questa situazione, ma ha anche mostrato sollievo per la sospensione degli incontri con il padre.

Da quando gli zii paterni l’hanno presa in affidamento la ragazzina ha compiuto miglioramenti progressivi. La Cassazione ritiene quindi di non poter accogliere le doglianze del padre perché finalizzate a contestare il riesame delle prove e del merito dei fatti.

Allegati

assegno divorzile

Assegno divorzile: 25 mesi di matrimonio non bastano Assegno divorzile: la breve durata del matrimonio non esclude l’assegno a meno che manchi la comunione morale e materiale

Assegno divorzile: l’assenza di comunione di vita può escluderlo

Sull’assegno divorzile torna a pronunciarsi la Cassazione nella sentenza n. 21955-2024. Gli Ermellini precisano che la breve durata del matrimonio influisce sulla determinazione della misura dell’assegno divorzile, ma non sulla sussistenza del diritto allo stesso. Questa regola vale a meno che tra i coniugi non si sia realizzata una comunione di vita materiale e spirituale.

Assegno divorzile per l’ex moglie malata

Due coniugi restano uniti in matrimonio per pochi mesi. La moglie chiede la separazione, ma poco dopo la coppia si riconcilia. A distanza di poco più di due anni i due si separano per una seconda volta. La coppia non ha figli. Nel giudizio di divorzio il Tribunale riconosce alla moglie un assegno divorzio di Euro 450,00 con funzione assistenziale. Il Tribunale precisa però che la malattia da cui è  affetta la donna non è invalidante e non rappresenta un ostacolo allo svolgimento di un’attività lavorativa.

Ridotto l’assegno divorzile: comunione spirituale e materiale quasi assente

Il marito impugna la decisione per contestare il riconoscimento dell’assegno di divorzio. La Corte d’Appello accoglie il ricorso del marito e riduce l’importo dell’assegno a 350 euro mensili. Per la il giudice dell’impugnazione non sussistono i presupposti necessari per riconoscere un assegno divorzile con funzione perequativa e compensativa.

Matrimonio breve e convivenza assente

Tra i coniugi non si è mai instaurata una comunione di vita affettiva a causa della brevissima durata del matrimonio. La coppia non ha mai convissuto stabilmente insieme, perché la donna ha conservato una sua abitazione. Da questi fatti si può anche desumere che la donna non abbia mai partecipato e contribuito alla formazione di un patrimonio comune, in effetti del tutto inesistente, o del patrimonio personale del marito. Il coniuge infatti al momento del matrimonio ha ereditato i beni di famiglia e risulta nudo proprietario dell’abitazione gravata dall’usufrutto in favore della madre. Il marito inoltre, di professione avvocato da vari decenni, ha un suo patrimonio. La moglie  in tutto questo non ha dato alcun contributo, neppure morale, al marito.

Assegno divorzile con funzione assistenziale

L’assegno di 350,00 euro è riconosciuto solo in funzione assistenziale, dopo aver valutato le condizioni di salute della donna. La certificazione medica prodotta attesta infatti la presenza di sclerosi multipla nella forma relapsing remittente, caratterizzata dall’alternanza di periodi acuti con periodi di rimessione. Per la Corte però la donna potrebbe lavorare, anche grazie a una laurea in lingue e a pregresse esperienze lavorative. La donna potrebbe conseguire un reddito discreto, ma non risulta che si sia attivata nella ricerca di un lavoro o di prestazioni assistenziali dopo la fine del matrimonio. L’assegno non può essere eliminato, ma sicuramene va ridotto considerata la ridotta capacità lavorativa della moglie nei periodi di recidiva della malattia.

Assenza di comunione di vita e matrimonio breve: niente assegno

Il marito impugna la sentenza davanti alla Cassazione per contestare il riconoscimento dell’assegno divorzile.

La Cassazione accoglie i primi due motivi del ricorso perché fondati. Corretta la deduzione della non spettanza dell’assegno divorzile alla luce della mancata instaurazione di una comunione di vita conseguente alla scarsissima durata del matrimonio e all’assenza di una convivenza effettiva. La Corte di Appello ha infatti rilevato la breve durata del matrimonio, l’assenza di una costante convivenza e la conseguente assenza di una comunione di vita, che è l’essenza del matrimonio. Il giudice dell’impugnazione tuttavia ha riconosciuto l’assegno, seppur in misura ridotta rispetto al giudice di primo grado.

Sulla questione però la Cassazione afferma da tempo che “in tema di divorzio, la durata del matrimonio influisce sulla determinazione della misura dell’assegno … ma non anchesalvo nei casi eccezionali in cui non si sia realizzata alcuna comunione materiale spirituale tra i coniugi – sul riconoscimento dellassegno divorzile”.

Allegati

assegno di maternità

Assegno di maternità Assegno di maternità dei Comuni 2024: importo, requisiti soggettivi e reddituali e indicazioni per fare domanda

Assegno di maternità: che cos’è

L’assegno di maternità è un contributo economico previsto per ogni figlio nato a partire dal 1° gennaio 2001 o per ogni minore in affidamento preadottivo o in adozione che alla data indicata non sia stato dato in affidamento.

A chi spetta l’assegno di maternità

Le donne residenti in Italia, con cittadinanza italiana o comunitaria o straniere in possesso di determinati requisiti hanno diritto all’assegno di maternità.

L’assegno spetta alle madri disoccupate o che, pur lavorando, non godono di altre indennità di maternità erogate dall’INPS o dal datore di lavoro. La misura spetta anche alle madri che beneficiano di indennità  di maternità in misura inferiore all’assegno di maternità. In quest’ultimo caso l’assegno è erogato per la differenza.

Importo dell’assegno di maternità nel 2024

La circolare INPS n. 40 del 29 febbraio 2024 ha reso noto che, la variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati da applicare nel 2024 all’assegno di maternità è del 5,4%.

L’importo mensile dell’assegno di maternità per nascite, affidamenti e adozioni verificatesi dal 1° gennaio al 31 dicembre del 2024 è quindi di Euro 404,17, per 5 mesi. L’importo complessivo per i 5 mesi di durata dell’assegno invece è di Euro 2.020,85.

Requisito economico ISEE per l’assegno di maternità

La stessa circolare INPS n. 40/2024 ha reso noto altresì il requisito economico richiesto nel 2024 per accedere all’assegno di maternità. Per le nascite, gli affidamenti preadottivi e le adozioni senza affidamenti verificatisi dal 1 gennaio fino al 31 dicembre 2024 l’ISEE non deve superare  Euro 20.221,13.

Domanda: come e quando farla

La domanda per richiedere l’assegno di maternità deve essere presentata al Comune di residenza entro 6 mesi. Il termine decorre dalla nascita o dalla data di ingresso effettivo in famiglia del minore adottato o in affidamento.

Quando la domanda può essere presentata da soggetti diversi dalla madre

  • Se la madre del bambino è minorenne, il padre, se maggiorenne, può presentare domanda. Se anche il padre del bambino è minorenne il genitore della madre, che ne ha la responsabilità genitoriale o un legale rappresentante, può fare domanda.
  • Se la madre del minore o colei che lo avuto in adozione o in affido è deceduta, la domanda può essere inoltrata dal padre che lo abbia riconosciuto (o dal coniuge della donna adottiva o affidataria). Il minore però deve collocato presso la famiglia anagrafica del soggetto che fa la domanda e deve essere sottoposto alla sua responsabilità genitoriale.
  • Se la madre ha abbandonato il bambino o il minore è stato dato in affidamento esclusivo al padre, la domanda può essere presentata da quest’ Il minore in questo caso deve trovarsi presso la famiglia anagrafica del padre e deve essere sottoposto alla sua responsabilità genitoriale. La madre deve risultare residente o soggiornante in Italia al momento del parto, in questo caso l’assegno spetta al padre.
  • Se i coniugi si sono separati la domanda può essere presentata dall’adottante o dall’affidatario preadottivo. Il minore tuttavia deve far parte della famiglia anagrafica del soggetto che presenta la domanda e l’assegno non deve essere già stato riconosciuto alla madre adottiva o affidataria.
  • In caso di adozione speciale (art. 44 comma 3 legge n. 184/1983) la domanda può essere presentata dall’adottante non sposato. Il minore però deve essere collocato presso la famiglia anagrafica del richiedente e deve essere sottoposto alla sua responsabilità genitoriale.
  • Se il minore non è riconosciuto o non è riconoscibile dai genitori la domanda può essere presentata dal soggetto a cui il minore è stato affidato dal giudice. In questo caso il bambino deve rientrare nella famiglia anagrafica del soggetto a cui è stato affidato.

Documenti da produrre per la domanda

Chi presenta la domanda per l’assegno di maternità deve anche produrre alcuni documenti.

  • Una DSU valida che indichi i redditi percepiti dal nucleo famigliare nell’anno precedente.
  • Un’autocertificazione che dichiari il possesso dei requisiti richiesti dalla legge per fare domanda, l’assenza di altri trattamenti economici e di non aver fatto domanda per l’assegno di cui all’ 75 dlgs n. 151/2001 per lavori atipici e discontinui. Qualora il soggetto dichiari di beneficiare di qualche indennità legata alla maternità deve indicarne l’importo.

 

Leggi anche questo interessante articolo sul Bonus asilo nido 

spese per i figli

Spese per i figli: quali vanno concordate La Cassazione chiarisce che le spese per i figli da concordare preventivamente con l'ex coniuge sono quelle che non rientrano nel regime di spesa ordinario

Spese per i figli: vanno concordate solo quelle eccezionali

I genitori non devono concordare tutte le spese per i figli. Il genitore collocatario non deve chiedere il consenso dell’ex prima di sostenerle, se hanno natura ordinaria. L’accordo preventivo è richiesto solo per quelle spese che “per rilevanza, imprevedibilità e imponderabilità” non rientrano nel regime di spesa ordinario per i figli. In ogni caso, se il genitore collocatario non informa sempre e preventivamente l’ex, anche in relazione a queste spese, non significa che non possa richiedere il rimborso della quota a carico dell’altra parte, dopo averle sostenute. Questa la decisione della Cassazione nella sentenza n. 21785-2024.

Non dovute le spese per i figli straordinarie se non concordate

Un padre si oppone a un decreto ingiuntivo con cui l’ex coniuge gli ingiunge di pagare la somma di 1687,25 euro, oltre accessori. La donna chiede la somma a titolo di rimborso, nella misura del 50%, delle spese straordinarie sostenute per figlie minori.

Le spese si riferiscono alle rette della scuola privata, alla quota della palestra, ai corsi in un centro sportivo e alle gite scolastiche. Il Giudice di pace revoca il decreto e condanna l’opponente a pagare la minore somma di Euro 1.626,25.

Il padre appella la decisione e in questa sede l’autorità giudiziaria precisa che le rette per la scuola sono spese straordinarie da concordare. Le spese relative all’attività sportiva invece hanno natura di spese straordinarie routinarie, che il padre non ha mai contestato. Per quanto riguarda infine le spese per le gite scolastiche il tribunale rileva come il giudice di Pace abbia già decurtato dall’importo del decreto ingiuntivo modificato il 50% delle stesse.

Solo alcune spese straordinarie vanno concordate

Il padre però, ancora insoddisfatto dell’esito del giudizio, impugna la decisione in Cassazione.

Con il secondo motivo contesta al Tribunale di aver inserito nel protocollo delle spese straordinarie assunto in sede di divorzio anche le rette per la scuola privata e le spese sportive.

Con il terzo invece critica la decisione del Tribunale relativa alle spese sportive che hanno comportato l’acquisto della necessaria attrezzatura e di averle fatte rientrare tra quelle che non richiedono un accordo preventivo tra i coniugi.

La Cassazione rigetta il ricorso e si esprime poi sulla natura straordinaria delle spese e sulla necessità del preventivo accordo tra genitori.

Gli Ermellini rilevano come il tribunale abbia ritenuto che l’utilizzo del termine “tasse” per la scuola privata, come indicato nel protocollo, fosse improprio. Tale termine non può non comprendere le rette, da intendersi come spese straordinarie. Per quanto riguarda invece le spese per l’attività sportiva il tribunale ha ritenuto che il mancato riferimento nel protocollo di queste voci di spesa non attribuiva alle stesse la natura di spese ordinarie. Era necessaria una valutazione più in linea con gli orientamenti della giurisprudenza.

Spese da concordare: giurisprudenza recente

La Cassazione ricorda comunque che la decisione del tribunale sul preventivo accordo sulle spese straordinarie è conforme alla recente giurisprudenza.

Quest’ultima afferma infatti che: riguardando il preventivo accordo solo quelle spese straordinarie che per rilevanza, imprevedibilità ed imponderabilità esulano dall’ordinario regime di vita della prole, fermo restando che, anche per queste ultime, la mancanza della preventiva informazione ed assenso non determina automaticamente il venir meno del diritto del genitore che le ha sostenute, alla ripetizione della quota di spettanza dell’altro, dovendo il giudice valutarne la rispondenza all’interesse preminente del minore e al tenore di vita familiare.”

Leggi le altre notizie sul mantenimento figli

Allegati