ricorso per ottemperanza

Ricorso per ottemperanza Il ricorso per ottemperanza consente di dare esecuzione alle sentenze emanate dai giudici  amministrativi, qualora la P.A. non adempia in modo spontaneo

Ricorso per ottemperanza: definizione

Il ricorso per ottemperanza è l’atto con cui si chiede che venga data attuazione a diversi provvedimenti del giudice amministrativo. Dal punto di vista disciplinare il giudizio di ottemperanza è regolato dagli articoli 112, 113 e 114 del decreto legislativo n. 104/2010, che ha dato attuazione all’articolo 44 della legge n. 69/2009, contenente la delega al Governo per riordinare il processo amministrativo.

Quando si deve proporre l’azione di ottemperanza

Il citato art. 112 del dlgs. n. 104/2010 contiene le disposizioni generali sul giudizio di ottemperanza. Il primo comma dispone che i provvedimenti emessi dal giudice amministrativo debbano essere poi eseguiti dalla pubblica amministrazione e dalle parti.

Per ottenere questo risultato è necessario proporre l’azione di ottemperanza. Essa consente nello specifico di conseguire l’attuazione di questi provvedimenti:

  1. le sentenze del giudice amministrativo che sono già passate in giudicato;
  2. le sentenze e i provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo;
  3. le sentenze e i provvedimenti equiparati, passati in giudicato, del giudice ordinario per fare in modo che la pubblica amministrazione si conformi al giudicato del caso specifico deciso;
  4. le sentenze passate in giudicato e i provvedimenti equiparati per le quali non è previsto il giudizio di ottemperanza, affinché la pubblica amministrazione si conformi alla decisione;
  5. i lodi arbitrali esecutivi che non sono impugnabili, per ottenere che la pubblica amministrazione si conformi al giudicato del caso specifico.

Il terzo comma dell’art. 112, modificato dal decreto legislativo n. 195/2011, prevede poi che davanti al giudice dell’ottemperanza si possa anche proporre, in un unico grado:

  • l’azione per la condanna al pagamento di somme dovute a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza;
  • l’azione per il risarcimento dei danni collegati all’impossibilità o alla mancata esecuzione in forma specifica, sia essa totale o parziale, del giudicato, alla sua elusione o alla sua violazione.

L’ultimo comma della norma stabilisce infine che il ricorso si possa proporre anche per avere chiarimenti sulle modalità dell’ottemperanza.

Competenza del giudice nel giudizio di ottemperanza

L’articolo 113 contiene le regole sulla competenza del giudizio di ottemperanza.

Il primo comma prevede infatti che il ricorso per il giudizio di ottemperanza nei casi sopra indicati dalle lettere a e b, debba essere proposto allo stesso giudice che ha emanato il provvedimento da ottemperare.

Il TAR è competente anche quando i suoi provvedimenti vengono confermati in appello nel caso in cui la motivazione abbia lo stesso contenuto conformativo e dispositivo dei provvedimenti emanati in primo grado.

Nei casi descritti dalle lettere c), d), ed e) dell’articolo 112 il ricorso per ottemperanza si deve proporre al TAR nella cui circoscrizione si trova il giudice che ha emanato la sentenza che deve essere ottemperata.

Il procedimento del giudizio di ottemperanza

L’articolo 114 della legge n. 104/2010 disciplina infine  le varie fasi del giudizio di ottemperanza.

Occorre però precisare che l’azione è soggetta al termine di prescrizione di 10 anni, che decorrono dal passaggio in giudicato della sentenza.

Ricorso: deposito e notifica

Per avviare il giudizio di ottemperanza il ricorso deve essere notificato sia alla pubblica amministrazione che a tutte le parti del giudizio che è stato definito con la sentenza o con il lodo che si vuole vengano ottemperati. Insieme al ricorso deve essere depositato, in copia autentica, il provvedimento che si desidera venga ottemperato e la prova eventuale del suo passaggio in giudicato.

Il giudice, al termine del procedimento, decide con sentenza in forma semplificata.

Accoglimento del ricorso

Qualora il ricorso venga accolto, il giudice ordina che la sentenza o il provvedimento venga ottemperato, dando le opportune indicazioni sulle modalità dell’ottemperanza. Il giudice può anche determinare il contenuto del provvedimento amministrativo che dovrebbe emanare la pubblica amministrazione o emanarlo al suo posto. Può inoltre dichiarare nulli eventuali atti che hanno violato il giudicato.

Qualora l’ottemperanza riguardi sentenze non ancora passate in giudicato o altri provvedimenti allora il giudice determina le modalità in cui devono avere esecuzione, considerando inefficaci gli atti che sono stati emessi violando o eludendo le disposizioni e provvede senza trascurare gli effetti che ne conseguono.

Il giudice, su richiesta di parte, può anche stabilire a carico del resistente una somma di denaro determinata per ogni violazione, inosservanza o ritardo nel dare esecuzione al giudicato. Questa decisione però può essere assunta dal giudice solo se non risulti manifestamente iniqua o non rilevi ostacoli.

In caso di necessità nomina poi un commissario ad acta e in questo caso il giudice conosce tutte le questioni che riguardano l’ottemperanza comprese le questioni relative agli atti del commissario.

Se poi il ricorso è stato proposto per avere chiarimenti sulle modalità dell’ottemperanza, allora il giudice fornisce questi chiarimenti, anche se richiesti dal commissario ad acta.

Le regole sul procedimento di ottemperanza si applicano anche quando i provvedimenti giuridici che vengono adottati dal giudice dell’ottemperanza vengono impugnati.

doppia conforme

Doppia conforme e limiti al ricorso in Cassazione  Si ha doppia conforme quando la sentenza di secondo grado conferma per intero quella di primo grado, comportando limiti al ricorso per Cassazione

Doppia conforme: definizione

Il termine doppia conforme descrive l’ipotesi in cui le sentenze di primo e di secondo grado contengano in sostanza le stesse valutazioni dei fatti. La doppia conforme assume un rilievo particolare quando si vuole presentare un ricorso in sede di legittimità. Vediamo di comprenderne le ragioni.

Eliminato il filtro in appello

Dal punto di vista disciplinare la riforma Cartabia, eliminato il filtro di inammissibilità in sede di appello previsto dall’abrogato art. 348 ter c.p.c, ha però conservato le disposizioni contenute negli ultimi due commi di questa norma, spostandone il contenuto all’interno dell’art. 360 c.p.c, che precisa quali sono le sentenze e i motivi per i quali le stesse sono impugnabili in Cassazione.

Post riforma la norma di riferimento che si occupa della doppia conforme è pertanto l’art. 360 c.p.c.

Doppia conforme e motivi di impugnazione

Della doppia conforme in caso di ricorso in Cassazione si occupa, nello specifico, il comma 4 del suddetto articolo 360 c.p.c.

La disposizione, nello specifico, dispone che: “Quando la pronuncia di appello conferma la decisione di primo grado per le stesse ragioni, inerenti ai medesimi fatti, poste a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui al primo comma, numeri 1), 2), 3) e 4). Tale disposizione non si applica relativamente alle cause di cui all’articolo 70, primo comma”.

Dalla lettera della norma emerge che, se la sentenza di appello che la parte decide di impugnare in sede di Cassazione conferma la sentenza di primo grado per ragioni che si riferiscono agli stessi fatti (doppia conforme), l’impugnazione di legittimità può riguardare solo i seguenti motivi (1,2,3,e 4 comma 1 art. 360 c.p.c), fatta accezione per le cause in cui è obbligatoria la presenza del Pubblico Ministero:

  1. motivi di giurisdizione;
  2. violazione di norme sulla competenza quando non è prescritto il regolamento di competenza;
  3. violazione o falsa applicazione di norme di diritto, di contratti e di accordi collettivi nazionali di lavoro;
  4. nullità della sentenza o del procedimento.

Nel comma 5 appena analizzato il legislatore della riforma ha voluto specificare il riferimento alle “medesime ragioni inerenti i medesimi fatti” per descrivere in dettaglio le caratteristiche della “doppia conforme”, limitando i casi di inammissibilità del ricorso proposto al motivo indicato al n. 5) ai soli casi in cui la sentenza di secondo grado confermi per intero la pronuncia del grado di giudizio precedente.

L’esclusione del motivo di impugnazione in Cassazione indicato al n. 5, che riguarda “l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” è evidente. In presenza di una doppia conforme, ossia di due pronunce emesse in due diversi gradi di giudizio che concordano pienamente sull’analisi e sulla valutazione degli elementi probatori” la Cassazione non può, proprio perché giudice delle leggi, invalidarne le conclusioni fornendo prospettive nuove e alternative rispetto a quelle dei giudici di merito.

appropriazione indebita leasing

Appropriazione indebita leasing L’appropriazione indebita nel contratto di leasing si realizza quando chi utilizza il bene, pur non pagando il canone, lo trattiene, anche se il concedente ne chiede la restituzione

Appropriazione indebita in relazione al contratto di leasing

Il reato di appropriazione indebita commesso in relazione al contratto di leasing è oggetto di numerose pronunce giurisprudenziali, che hanno chiarito i dettagli di questo illecito penale.

Per comprendere alcune delle più recenti e interessanti pronunce che si sono occupate di questo reato è necessario analizzare separatamente e brevemente il reato di appropriazione indebita e il contratto di leasing per individuare al meglio le caratteristiche di questo reato.

Il reato di appropriazione indebita

L’appropriazione indebita è un illecito penale punito dall’articolo 646 del codice penale.

La norma punisce nello specifico chi, per procurare a se stesso a ad altri soggetti un profitto ingiusto, si appropri di denaro o di cose mobili di altri soggetti che ne abbiano il possesso a qualsiasi titolo.

Questo illecito è punito a condizione che la persona offesa presenti querela. Le pene previste sono la reclusione da due a cinque anni e la multa da 1000 a 3000 euro.

Se il fatto viene commesso su cose che sono possedute a titolo di deposito necessario, la pena è aumentata.

Il contratto di leasing

Il contratto di leasing, noto anche come locazione finanziaria, è un accordo che coinvolge tre soggetti diversi: l’utilizzatore, il concedente e il produttore o fornitore

Il concedente è il soggetto che, su specifica indicazione dell’utilizzatore, ordina la produzione di un bene o lo acquista direttamente dal produttore, pagandone il prezzo. Il bene viene quindi viene messo a disposizione dal concedente all’utilizzatore per un periodo di tempo determinato. Per l’uso di questo bene l’utilizzatore è tenuto a pagare al concedente un canone periodico. Quando l’accordo giunge a scadenza, in base a quanto concordato tra le parti, l’utilizzatore può acquistare il bene pagando il prezzo residuo. I canoni già pagati infatti vengono scomputati dal prezzo complessivo del bene. L’utilizzatore decide invece di non acquistare il bene deve restituirlo al concedente.

Cassazione: appropriazione indebita leasing

Una prima precisazione sulla configurabilità del reato di appropriazione indebita in relazione al contratto di leasing la fornisce la Corte di Cassazione nella sentenza n. 34911/2023.

La pronuncia chiarisce che in presenza di un contratto di leasing, affinché si configuri il reato di appropriazione indebita, devono sussistere le seguenti condizioni:

  • chi utilizza il bene non paga i canoni concordati;
  • il contratto contempla la risoluzione dell’accordo;
  • il debitore deve conoscere la volontà del concedente di rientrare nel possesso del bene che a tal fine deve intimarne la restituzione;
  • l’utilizzatore deve comportarsi come uti dominus, non restituendo il bene senza giustificazione.

Per quanto riguarda il momento consumativo del reato di appropriazione indebita del bene di cui l’utilizzatore ha la materiale disponibilità in virtù del contratto di leasing, la Cassazione nella sentenza n. 3100/2023 chiarisce che: “il reato di appropriazione indebita di un bene in “leasing” è integrato dalla mera interversione del possesso, che si manifesta quando l’autore si comporta “uti dominus” non restituendolo senza giustificazione, così da evidenziare in maniera incontrovertibile anche l’elemento soggettivo del reato, e non da quando il contratto deve intendersi risolto a.causa dell’inadempimento nel pagamento dei canoni. L’applicazione del sopra esposto principio al caso in esame comporta proprio affermare la fondatezza del motivo poiché, avendo l’imputato ricevuto la risoluzione del contratto e la richiesta della restituzione del bene il 12 agosto 2005, è da tale data che deve ritenersi consumato il fatto di appropriazione indebita; con la conseguenza che il termine prorogato di anni 7 e mesi 6 decorreva il 12 febbraio 2013 e quindi antecedentemente la pronuncia di appello”. 

Dalle due pronunce analizzate emerge che, per integrare il reato di appropriazione, è necessaria l’interversione del possesso, che si realizza quando l’autore del reato del reato si comporti uti dominus, non provvedendo a restituire il bene senza giustificazione alcuna, così da concretizzare l’elemento soggettivo del reato. Nella sentenza n. 39791/2021 la Cassazione si è soffermata su quest’ultimo aspetto precisando che l’interversione del possesso “sussiste anche nel caso di una detenzione qualificata, conseguente all’esercizio di un potere di fatto sulla cosa, al di fuori della sfera di sorveglianza del titolare. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ravvisato la condotta appropriativa nella ritenzione di un autoveicolo, utilizzato “uti dominus” nonostante la risoluzione del contratto di “leasing” e la richiesta di restituzione del bene)”. 

reclamo Fornero

Reclamo Fornero: disciplina e svolgimento del giudizio d’appello Il reclamo Fornero si traduce nell’impugnazione davanti alla Corte di Appello della sentenza emessa al termine del primo grado del rito Fornero

Reclamo Fornero: riferimento normativo

Il reclamo Fornero è previsto e disciplinato dalla legge n. 92/2012, contenente le “Disposizioni in materia di riforma del mercato del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”.

La legge Fornero n. 92/2012 disciplina infatti anche un rito particolare, previsto per impugnare i licenziamenti dei lavoratori che vengono disposti nelle ipotesi regolate dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, legge n. 300 del 20 maggio 1970.

Del reclamo, che rappresenta una parte eventuale del rito Fornero, si occupano nello specifico i commi 58, 59 e 60 e 61 dell’articolo 1 della legge 92/2012.

L’analisi del reclamo Fornero si rende necessaria anche se la riforma Cartabia ha abrogato l’intero rito. La procedura infatti è rimasta vigente, in via transitoria, per tutte le cause che sono state introdotte fino al 28 febbraio 2023, purché rientranti ovviamente nella casistica di questo rito particolare, nato per rendere più rapidi i procedimenti giudiziari in materia di licenziamento.

Come si presenta il reclamo alla Corte di Appello

Inquadrato normativamente il reclamo Fornero occorre comprendere come si presenta e come si svolge l’intero giudizio di impugnazione.

Per farlo occorre partire dal comma 58 dell’art. 1 della legge n. 92/2012, il quale dispone che, contro la sentenza che ha deciso sul ricorso con cui è stato impugnato il licenziamento, è possibile proporre reclamo davanti alla Corte di Appello.

Dal punto di vista formale e procedurale il reclamo deve essere proposto con ricorso, da depositare a pena di decadenza nel termine di 30 giorni dalla comunicazione o, se anteriore, dalla notificazione del provvedimento.

In questa fase non è possibile chiedere che vengano ammessi nuovi mezzi di prova o che vengano prodotti nuovi documenti. Ci sono però due casi in cui questa regola subisce eccezioni:

  • se il collegio ritiene che le nuove prove siano indispensabili per la decisione finale;
  • se la parte che ne richiede l’ammissione dimostri di non averli prodotti per colpa a lui non imputabile.

Svolgimento del giudizio di reclamo

Depositato il ricorso, l’autorità giudiziale deve provvedere a fissare l’udienza di discussione nei 60 giorni e assegnare all’opposto il termine per costituirsi fino a 10 giorni prima dell’udienza.

Il ricorso e il decreto di fissazione dell’udienza devono essere comunicati dall’apponente all’opposto almeno 30 giorni prima del termine fissato per la sua costituzione.

L’opposto si deve costituire in cancelleria depositando una memoria difensiva e se vuole chiamare un terzo in causa lo deve dichiarare in questo atto a pena di decadenza.

Nel corso della prima udienza il giudice, in presenza di gravi motivi, può sospendere l’efficacia della sentenza impugnata. In questa sede inoltre, sentite le parti, procede all’istruzione senza formalità e decide con sentenza, con cui può accogliere o rigettare il reclamo Fornero.

La sentenza motivata viene quindi depositata in cancelleria nel termine di 10 giorni dall’udienza di discussione. Se la sentenza non viene comunicata o notificata si applica l’art. 327 c.p.c il quale sancisce che “indipendentemente dalla notificazione, l’appello, il ricorso per cassazione e la revocazione per i motivi indicati nei numeri 4 e 5 dell’art. 395 non possono proporsi decorsi sei mesi dalla pubblicazione della sentenza.”

La sentenza emessa al termine del reclamo può essere impugnata in sede di Cassazione nel termine di 60 giorni dalla comunicazione della stessa o dalla sua notificazione, se anteriore.

La Corte di Appello resta competente per la richiesta di sospensione dell’efficacia della sentenza impugnata, che vi provvede come in sede di reclamo.

omessa denuncia di armi

Omessa denuncia di armi L’omessa denuncia di armi è un reato contravvenzionale previsto dall’articolo 697 del codice penale per tutelare la sicurezza pubblica

Omessa denuncia di armi: reato art. 697 c.p.

L’omessa denuncia di armi è un reato contravvenzionale contemplato dall’articolo 697 del codice penale, intitolato “Detenzione abusiva di armi”. La norma punisce nello specifico due condotte diverse.

  1. Il primo comma punisce chiunque detenga armi o caricatori per i quali la legge richiede la denuncia ai sensi dell’articolo 38 del TU della pubblica sicurezza, oppure munizioni senza averne fatto denuncia all’Autorità, quando questa formalità è necessaria.
  2. Il comma 2 invece sanziona chi, avendo notizia che in luogo da lui abitato si trovino armi o munizioni, ometta di farne denuncia alle autorità.

Arresto e ammenda per i trasgressori

L’illecito penale previsto dal primo comma dell’art. 697 c.p è punto con l’arresto da tre a dodici mesi e con l’ammenda fino a 371 euro.

La violazione di quanto previsto dal comma 2 invece è punita con la pena dell’arresto fino a due mesi e con l’ammenda fino a 258 euro.

Denuncia art. 38 TU pubblica sicurezza

Il presupposto di questo reato, come emerge dalla norma, è l’obbligo di denunciare il possesso delle armi e di quanto occorre al loro utilizzo presso le autorità di pubblica sicurezza competenti, come previsto dall’art. 38 del Tu di pubblica sicurezza, da ultimo riformato ad opera del decreto legislativo n. 104/2018.

La versione attuale della norma dispone infatti che chi detiene armi o parti di esse (art. 1 bis comma 1 lette b) del dlgs n. 527/1992) così come munizioni finite o materie esplodenti di qualsiasi genere, deve denunciarle a mezzo pec entro 72 ore da quando ne abbia acquisito la materiale disponibilità presso l’ufficio locale di pubblica sicurezza.

In alternativa, se questo ufficio manca, è possibile fare denuncia presso il comando locale dei carabinieri o presso la questura competente.

La denuncia è necessaria anche se la detenzione riguarda caricatori in grado di contenere più di 10 colpi per le armi lunghe e più di 20 per le armi corte.

La denuncia di detenzione deve essere presentata nuovamente ogni volta che il possessore trasferisca l’arma in un luogo diverso rispetto a quello che aveva indicato nella precedente denuncia. Chi ha la sola detenzione dell’arma deve assicurare che il luogo in cui è custodita presenti adeguate garanzie di sicurezza.

Soggetti esonerati dall’obbligo di denuncia

L’omessa denuncia di armi non è reato per determinate categorie di soggetti, che sono esonerati da questo obbligo. Si tratta in particolare di quei soggetti che, per motivi di lavoro, devono detenere e usare le armi e gli accessori necessari al loro funzionamento. Si tratta in particolare dei seguenti soggetti:

  • gli appartenenti alle forze armate;
  • le società di tiro a segno;
  • le istituzioni autorizzate in relazione alla detenzione degli oggetti destinati nei luoghi deputati allo scopo;
  • i soggetti che possiedono raccolte autorizzate di armi antiche, rare e di valore artistico;
  • le persone che, per una loro qualità permanente, hanno diritto di circolare armate nei limiti di quanto loro consentito.

Obbligo della certificazione medica

La detenzione di armi da parte di soggetti che non sono esonerati dall’obbligo di denunciare le armi in loro possesso e da parte di coloro che sono autorizzati a detenerle senza licenza, richiede, oltre all’obbligo di denuncia, anche quello di presentare specifica certificazione medica ogni 5 anni. Detto temine, se il detentore ha la licenza scaduta, decorre dalla data della scadenza, a meno che non l’abbia rinnovata.

Al  soggetto obbligato alla presentazione della certificazione medica, che trasgredisce, il prefetto può vietare di detenere le armi denunciate.

vincolo archeologico

Vincolo archeologico: definizione, normativa e ratio Il vincolo archeologico, che può essere diretto o indiretto, viene apposto su beni di interesse archeologico per finalità di tutela culturale

Vincolo archeologico: definizione

La definizione di vincolo archeologico è contenuta in modo chiaro all’interno della sentenza del Consiglio di Stato n. 399 del 2016.  Essa definisce il vincolo archeologico come quello che è “finalizzato a realizzare la tutela dei beni riconosciuti di interesse archeologico”.  

Esso non deve pertanto essere confuso con il vincolo paesaggistico delle zone di interesse archeologico (art. 142 del Codice dei beni culturali e del paesaggio). Quest’ultimo infatti non mira a tutelare i beni, quanto piuttosto il territorio che li conserva. Il vincolo paesaggistico tutela quindi il paesaggio archeologico, da non confondere con il sito archeologico. Il paesaggio archeologico non si identifica pertanto con il solo sito archeologico, bensì con tutta la forma del paesaggio, ossia anche le aree circostanti al reperto e senza reperti, al cui interno è compreso il sito archeologico.

Il vincolo archeologico diretto e indiretto

Definito il vincolo archeologico in generale e compresi gli elementi distintivi rispetto al vincolo paesaggistico delle zone di interesse archeologico, occorre chiarire che lo stesso può essere diretto e indiretto. Anche in questo caso la definizione di questi due termini è contenuta in una sentenza del Consiglio di Stato e precisamente la n. 1658 del 2023.

Nello specifico, detta pronuncia definisce:

il vincolo archeologico diretto come quello che “viene imposto sui beni o sulle aree nei quali sono stati rinvenuti reperti archeologici, o in relazione ai quali vi è la certezza dell’esistenza, della localizzazione e dell’importanza del bene archeologico”;

il vincolo archeologico indiretto invece è quello che “viene imposto sui beni e sulle aree circostanti a quelli sottoposti a vincolo diretto, così da garantirne una migliore visibilità e fruizione collettiva, o migliori condizioni ambientali e di decoro”. 

Riferimenti normativi

Premessa l’esistenza di due tipologie di vincolo archeologico vediamo quali sono le norme che li contemplano.

Il vincolo archeologico diretto è previsto dagli articoli 1 e 3 della legge n. 1089/1939. L’articolo 1 dispone che sono assoggettate alle regole della legge anche le cose mobili e immobili di interesse archeologico. L’articolo 3 invece dispone che il Ministero notifichi in forma amministrativa ai possessori, proprietari o detentori dei beni di interesse archeologico indicati nell’articolo 1, che gli stessi presentano un interesse particolarmente importante. L’elenco delle cose mobili è conservato presso il Ministero.

Il vincolo archeologico indiretto è invece contenuto nell’articolo 21 della legge n. 1089/1939 e consiste nella prescrizione, da parte del Ministero competente, di misure, distanze e altre norme per evitare che venga messa in pericolo l’integrità delle cose immobili, che ne vanga danneggiata la prospettiva, la luce o che ne vengano alterate le condizioni ambientali e di decoro.

Le ragioni del vincolo archeologico

La ragione primaria dell’imposizione del vincolo archeologico è pertanto la tutela dei beni che presentano un evidente interesse culturale.

Ad affermarlo è anche l’articolo 2 del decreto legislativo n. 42/2004, che contiene il codice dei beni e del paesaggio culturale (ai sensi dell’articolo 10 della legge n. 137 del 6 luglio 2002).

Fanno parte infatti del patrimonio culturale le cose mobili e immobili che presentano un interesse archeologico ai sensi degli articoli 10 e 11.

Nello specifico l’articolo 10 definisce i beni culturali anche le cose mobili e immobili che appartengono allo Stato e altri enti pubblici territoriali o agli enti e istituti, persone giuridiche pubbliche o private senza fini di lucro, compresi gli enti ecclesiastici riconosciuti che presentano un interesse archeologico. Sono beni culturali inoltre, sempre in base a questa norma, anche quelle cose mobili e immobili di interesse archeologico che appartengono a soggetti diversi da quelli appena elencati e a chiunque appartenenti, ma che rivestono un particolare interesse archeologico per la completezza del patrimonio culturale della nazione.

Vincolo archeologico ed edificabilità

Dal punto di vista pratico il vincolo archeologico pone problemi soprattutto quando nell’area su cui lo stesso grava si deve realizzare un’opera.

Giurisprudenza oramai consolidata afferma che il vincolo apposto su un’area di interesse archeologico non esclude in assoluto l’attività di edificazione. La stessa può essere consentita infatti qualora non comprometta la conservazione dei beni e non alteri l’integrità dei reperti.

L’unico modo per scongiurare la violazione della legge in materia è tuttavia quello di chiedere informazioni presso gli uffici competenti della Soprintendenza distribuiti sul territorio nazionale per verificare la presenza di vincoli e tutele che possano impedire i lavori programmati.

 

Prostituzione minorile: reato art. 600 bis c.p. Il reato di prostituzione minorile è contemplato dall’art. 600-bis del codice penale a tutela della salute fisica e psichica dei minori

Il reato di prostituzione minorile

La prostituzione minorile contemplata dall’articolo 600 bis è un reato che il nostro legislatore ha inserito nel codice penale con la legge n. 269 del 3 agosto 1998 per adeguare la normativa italiana agli impegni assunti nelle sedi internazionali, finalizzati a tutelare il minore nella sua salute fisica e psichica.

L’art. 600-bis del codice penale

Passando all’analisi della norma, l’articolo 600 bis del codice penale, al primo comma, punisce chiunque recluta o induce, ossia arruola o spinge alla prostituzione una persona che non ha ancora compiuto i diciotto anni di età.

Il reato si configura però anche quando un soggetto qualsiasi favorisca, sfrutti, gestisca, organizzi o controlli la prostituzione di una persona che ancora non ha compiuto diciotto anni o ne trae profitto in altro modo.

La norma punisce pertanto sia le condotte finalizzate a convincere un minore a prostituirsi sia quelle che facilitano in qualche modo l’esercizio dell’attività di prostituzione da parte del minore.

Emerge pertanto che si tratta di un reato:

  • di pura condotta, è sufficiente infatti che il soggetto agente tenga una delle condotte previste dalla norma affinché si configuri il reato;
  • comune, ossia che chiunque può commettere.

Reclusione e pene pecuniarie

Chi tiene una delle condotte sopra elencate è punito con la pena della reclusione, che varia da un minimo di sei anni fino a una massimo di dodici anni e con una pena pecuniaria il cui importo varia da un minimo di 15.000 euro fino a un massimo di 150.000 euro. 

Atti sessuali con i minori

L’art. 600 bis del codice penale al comma 2 punisce anche chi compie atti sessuali con un minore, di età compresa tra i 14 anni e i 18 anni, offrendo o promettendo in cambio denaro o altre utilità, a meno che il suo comportamento non configuri un reato più grave.

Del resto, come ha chiarito anche la Cassazione nella SU n. 4616/2021, non c’è alcun dubbio che la volontà del minore venga fortemente condizionata dall’offerta di un corrispettivo in denaro o di qualsiasi altra utilità, anche solo promessa.

Da chiarire in ogni caso che, in questa ipotesi, affinché si configuri il reato, non è necessario che il soggetto abbia un rapporto sessuale completo con il minore. E’ sufficiente infatti un semplice contatto con la sfera sessuale del minore.

L’ignoranza dell’età della persona offesa

E’ necessario ricordare che, in relazione ai delitti contro la personalità individuale, nei quali è ricompreso la prostituzione minorile, l’articolo 602 quater del codice penale dispone che, quando gli stessi vengono commessi ai danni di un soggetto che non abbia ancora compiuto i 18 anni di età, il colpevole non può invocare a propria discolpa di non conoscere l’età della persona offesa, a meno che si tratti di ignoranza inevitabile, ossia non rimproverabile.

Su questa scusante la Cassazione nella sentenza n. 13312/2023 ha chiarito che: “il principio per cui, in tema di prostituzione minorile, il fatto tipico scusante previsto dall’art. 602-quater cod. pen. in relazione all’ignoranza inevitabile circa l’età della persona offesa è configurabile solo se l’agente, pur avendo diligentemente proceduto ai dovuti accertamenti, sia stato indotto a ritenere, sulla base di elementi univoci, che il minorenne fosse maggiorenne; ne consegue che non sono sufficienti, al fine di ritenere fondata la causa di non punibilità, elementi quali la presenza nel soggetto di tratti fisici di sviluppo tipici di maggiorenni o rassicurazioni verbali circa l’età, provenienti dal minore o da terzi, nemmeno se contemporaneamente sussistenti; così Sez. 3, n. 12475 del 18/12/2015, dep. 2016, G., Rv. 266484 – 01, che ha anche precisato che l’imputato ha l’onere di provare non solo la non conoscenza dell’età della persona offesa, ma anche di aver fatto tutto il possibile al fine di uniformarsi ai suoi doveri di attenzione, di conoscenza, di informazione e di controllo, attenendosi a uno standard di diligenza direttamente proporzionale alla rilevanza dell’interesse per il libero sviluppo psicofisico dei minori”.

regolamento condominiale

Regolamento condominiale contrattuale nullo Il regolamento condominiale può essere deliberato a maggioranza o all’unanimità. In quest’ultimo caso si parla di regolamento contrattuale: i casi di nullità

Cos’è il regolamento condominiale

Il regolamento condominiale è il complesso di norme con cui i condomini intendono disciplinare la pacifica convivenza all’interno dell’edificio.

Al suo interno possono rinvenirsi regole che riguardano i più disparati aspetti della vita in condominio, come la pulizia dei locali comuni, la gestione delle spese, l’individuazione di fasce orarie in cui evitare attività rumorose etc.

Come vedremo tra breve, vi sono alcuni limiti alla libertà dei condomini di decidere il contenuto del regolamento condominiale. Prima di esaminarli, però, è opportuno premettere che il regolamento condominiale può essere di due tipi: assembleare o contrattuale.

Regolamento assembleare e regolamento contrattuale

Un valido regolamento condominiale può essere approvato con una deliberazione assembleare adottata con il voto della maggioranza dei presenti alla riunione.

In particolare, per l’approvazione del regolamento condominiale assembleare è necessario un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio (cfr. art. 1336 secondo comma del codice civile, richiamato dall’art. 1338 c.c. terzo comma).

Quando, invece, il regolamento è approvato all’unanimità da tutti i condomini, si parla di regolamento condominiale contrattuale.

L’unanimità può essere raggiunta in due modi diversi: o con una deliberazione assembleare adottata con il voto favorevole di tutti i condomini (e con tutti i condomini presenti) oppure con l’approvazione del regolamento all’atto dell’acquisto dell’immobile dal costruttore. Quest’ultima ipotesi si verifica quando il costruttore predispone egli stesso il regolamento condominiale: l’unanimità viene raggiunta attraverso i diversi acquisti delle unità immobiliari da parte dei proprietari.

Il contenuto del regolamento approvato all’unanimità

Il regolamento condominiale contrattuale può avere un contenuto più ampio rispetto a quello assembleare. Quest’ultimo, infatti, non può in alcun modo limitare il libero godimento della proprietà esclusiva di ciascun condomino, né prevedere un criterio di riparto delle spese condominiali diverso da quello previsto dalle tabelle millesimali.

Invece, il regolamento approvato all’unanimità può prevedere limiti relativi alla proprietà esclusiva di ciascun condomino (ad esempio, vietando la possibilità di destinare le unità immobiliari all’esercizio di determinate attività professionali) o prevedere un riparto differente delle spese.

Entrambi i tipi di regolamento, però, devono rispettare il limite previsto dal quarto comma dell’art. 1338 c.c., che individua alcune norme del codice civile alle quali in nessun caso il regolamento condominiale può derogare.

Regolamento condominiale contrattuale nullo e impugnazione

In base a quanto appena esaminato, si è in presenza di regolamento condominiale nullo ogni qual volta le clausole di un regolamento approvato solo con la maggioranza di cui sopra si è detto deroghino ai criteri di ripartizione millesimale delle spese o dispongano una limitazione del libero godimento della proprietà esclusiva del singolo condomino.

Il regolamento condominiale nullo può essere impugnato davanti al tribunale per richiederne l’annullamento.

A tal riguardo, va notato che, se si tratta di regolamento approvato all’unanimità (quindi di regolamento contrattuale), la nullità di una clausola in esso contenuta va contestata in giudizio a tutti gli altri condomini (in qualità di controparti del contratto) e non invece nei confronti dell’amministratore del condominio, che resta parte terza rispetto al regolamento contrattuale.

Quanto appena detto è confermato da autorevole giurisprudenza: cfr., tra tante, Cass. Civ., VI sez., ord. n. 6656/2021, secondo cui “il regolamento di condominio cosiddetto “contrattuale”, quali ne siano il meccanismo di produzione ed il momento della sua efficacia, si configura, allora, dal punto di vista strutturale, come un contratto plurilaterale, avente cioè pluralità di parti e scopo comune; ne consegue che l’azione di nullità del regolamento medesimo è esperibile non nei confronti del condominio (e quindi dell’amministratore), il quale è carente di legittimazione in ordine ad una siffatta domanda, ma da uno o più condomini nei confronti di tutti gli altri, in situazione di litisconsorzio necessario”.

gps auto ex moglie

Marito installa gps nell’auto dell’ex: non è lesa la sua vita privata L’auto, in quanto spazio destinato al trasporto dell’uomo o di oggetti, non è luogo di privata dimora, per cui non può ritenersi configurato il reato ex art. 615- bis c.p.

Installazione di un gps nell’auto dell’ex moglie

La vicenda in esame vede protagonista un uomo che aveva installato nell’auto dell’ex moglie un gps, dotato di microfono, per procurarsi notizie attinenti alla vita privata della stessa. Tale apparecchio consentiva all’ex marito di ascoltare le conversazioni intervenute all’interno del veicolo.

Rispetto a tali eventi, il Tribunale di Taranto aveva condannato l’ex marito alla pena di sei mesi di reclusione per il reato di cui all’art. 615-bis c.p., oltre al risarcimento del danno subito dalla parte civile. Tale decisione veniva poi riformata nel secondo grado di giudizio, nell’ambito del quale la Corte distrettuale aveva assolto l’imputato perché il fatto non sussiste.

Avverso la decisione del Giudice di seconde cure, l’ex moglie aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di cassazione.

Concetto di privata dimora

La ricorrente, con un unico motivo d’impugnazione, ha dedotto il vizio di erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 615-bis c.p. Invero, la moglie ha sostenuto che “la giurisprudenza più recente avrebbe recepito una nozione più ampia del concetto di privata dimora e, con specifico riferimento al reato di cui all’art. 615-bis cod. pen., avrebbe espressamente ritenuto rilevante, al fine della configurazione del reato, l’installazione di una microspia all’interno di un’automobile. Nel caso in esame, l’autovettura della persona offesa andrebbe sicuramente ritenuta quale luogo di privata dimora, atteso che all’interno di essa la vittima intratteneva colloqui non solo personali, ma anche di carattere professionale, legati all’attività, di avvocato svolta dalla medesima”.

La Corte di cassazione, investita della suddetta questione, con sentenza n. 3446-2024, ha rigettato il ricorso, ritenendo il motivo proposto dalla ricorrente non fondato.

Sul punto, la Corte ha ritenuto che “L’abitacolo di un’autovettura, in quanto spazio destinato naturalmente al trasporto dell’uomo o al trasferimento di oggetti da un posto all’altro e non ad abitazione, non può essere considerato luogo di privata dimora, salvo che, a differenza di quanto dedotto nel caso in esame (…) esso, sin dall’origine, sia strutturato (…) come tale, o sia destinato, in difformità dalla sua naturale funzione, ad uso di privata abitazione”.

Il Giudice di legittimità ha proseguito, ricordando che, in un caso analogo a quello oggetto del ricorso in esame, la Corte stessa aveva già affermato che “non integra il reato di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis cod. pen.) la condotta di colui che installi nell’auto di un soggetto (nella specie ex fidanzata) un telefono cellulaere (…) in modo da consentire la ripresa sonora di quanto accade nella predetta auto, in quanto, oggetto della tutela di cui all’art. 615-bis cod. pen. è la riservatezza della persona in rapporto ai luoghi indicati nell’art. 614 cod. pen. (…) tra i quali non rientra l’autovettura che si trovi in pubblica via”.

Sulla scorta di quanto sopra rappresentato, la Corte ha dunque rigettato il ricorso proposto dalla moglie.

Allegati

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Nullità della notifica del decreto ingiuntivo La nullità della notifica del decreto ingiuntivo va fatta valere in sede di opposizione al decreto. Differenze tra nullità e inesistenza della notifica

Il termine per la notifica del decreto ingiuntivo

Il decreto ingiuntivo emesso dal giudice ai sensi dell’art. 641 c.p.c. dev’essere notificato unitamente al ricorso (entrambi gli atti in forma di copia autentica) al debitore entro il termine di sessanta giorni a pena di inefficacia dello stesso (art. 644 c.p.c.).

L’eventuale nullità della notifica del decreto ingiuntivo può essere fatta valere dal debitore con l’opposizione al decreto ex art. 645 c.p.c. o con l’opposizione tardiva di cui all’art. 650, fornendo la dimostrazione che non si è avuta la tempestiva conoscenza del decreto ingiuntivo in conseguenza della nullità della notifica.

Inesistenza e nullità della notifica del decreto ingiuntivo

È importante distinguere tra nullità della notifica del decreto ingiuntivo e inesistenza della stessa. Solo in quest’ultimo caso, infatti, il destinatario dell’atto può agire per far dichiarare l’inefficacia del decreto stesso.

In particolare, l’inesistenza della notifica si ha quando il vizio della notifica sia talmente grave da privarla dei suoi caratteri essenziali (ad esempio, quando sia compiuta da soggetto non legittimato, oppure in caso di mancanza totale della notifica), mentre in tutti gli altri casi (ad esempio, consegna in un luogo diverso da quelli individuati dalla legge, ma comunque ricollegabile alla persona del destinatario) si deve parlare di nullità.

Solo in caso di inesistenza della notifica il soggetto interessato può agire per far dichiarare l’inefficacia del decreto, ex art. 188 disp. att. c.p.c. In caso contrario, la nullità dev’essere fatta valere solo in sede di opposizione.

Infatti, le cause di nullità della notifica integrano ipotesi in cui l’attività posta in essere dal creditore, pur irregolare, vale come manifestazione dell’intenzione di quest’ultimo di far valere il decreto ingiuntivo precedentemente ottenuto dal giudice, a differenza di quanto succede in caso di inesistenza della notifica.

Nullità della notifica ed effetto sanante della costituzione

Altro aspetto da evidenziare è che la nullità della notifica del decreto ingiuntivo non può essere fatta valere in sede di opposizione all’esecuzione o di opposizione agli atti esecutivi (di cui agli artt. 615 e 617 c.p.c.), potendo essere rilevata solo davanti al giudice competente per l’opposizione a decreto ingiuntivo ex art. 645 o per l’opposizione tardiva ex art. 650.

In tal senso, la Corte di Cassazione ha rilevato che la nullità della notificazione del decreto ingiuntivo non determina in sé l’inesistenza del titolo esecutivo e, pertanto, non può essere dedotta mediante opposizione a precetto o all’esecuzione, “con la conseguenza che, qualora l’ingiunto, opponente tardivo, non abbia, con l’opposizione proposta ai sensi dell’art. 650 c.p.c., dedotto altre ragioni ulteriori rispetto a quelle della nullità della notificazione, quest’ultima risulta sanata per effetto dell’opposizione stessa” (v. Cass., sez. VI Civ., ord. n. 29729/19).