approvazione e revisione tabelle millesimali

Approvazione e revisione tabelle millesimali: serve la forma scritta Necessità della forma scritta per l’approvazione e la revisione delle tabelle millesimali

Tabelle millesimali e forma scritta

L’aspetto che suscita maggiore interesse relativamente alla redazione ed applicazione delle tabelle millesimali in sede di riparto di una o più spese in ambito condominiale, attiene alla necessità di forma scritta per ciò che concerne l’approvazione e/o le modifiche.

Tale assunto è di fondamentale importanza anche nell’ottica delle conseguenze relative alla forma di invalidità di una delibera assembleare che disponga diversamente.

Così ha stabilito con sentenza n. 26042/2019, la Suprema Corte in data 15 ottobre 2019. Con tale sentenza si è affermato, che non è sufficiente – per derogare a criteri tabellari previsti dalla legge e/o dal regolamento di condominio e per la creazione di una tabella “virtuale” di riparto – il pagamento dei contributi per molti anni da parte dei condomini sulla base di tabelle applicate “de facto” né la reiterata approvazione di rendiconti e di delibere di ripartizione delle spese secondo criteri diversi da quelli di cui alle tabelle esistenti. Una o più deliberazioni adottate in tal senso dall’assemblea sarebbero sicuramente invalide (conforme Cass. n. 4259/2018).

Il riparto per quote uguali non esiste

Si ricade in detta fattispecie nel caso, purtroppo frequente, in cui si vanno a ripartire spese ordinarie o, soprattutto straordinarie, con il criterio della suddivisione in parti uguali, sulla scorta di prassi seguite nel tempo dai condòmini.

Quel che è certo è che osta a tale illegittimo contegno, la mancanza di una approvazione per iscritto della tabella che si pretende di applicare ovvero della modifica della stessa rispettivamente, in forza del sistema vigente, a maggioranza o all’unanimità.

Invero, sul punto già si erano espresse le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 943/1999 argomentando sull’analogia di forma (scritta ad substantiam) che deve caratterizzare il regolamento di condominio e le tabelle millesimali. E ciò non solo in caso di regolamento contrattuale (in quanto nello stesso ben possono essere contenute clausole che incidono sui diritti dei singoli condomini o sulle loro proprietà esclusive o, ancora, possono prevedersi limitazioni per i singoli sulle parti comuni) ma anche in caso di regolamento di condominio cd. assembleare, con tabelle allegate, posto che vi è l’obbligo per l’amministratore di conservare il relativo registro dei verbali (art. 1130 n.7 c.c.). Tale ultimo assunto trova conferma nella disposizione di cui all’art. 68 disp. att c.c. alla stregua del quale, ove non precisato dal titolo, il valore proporzionale di ciascuna unità immobiliare è espresso in millesimi in apposita tabella allegata (in forma scritta) al regolamento di condominio.

Irrilevanza del consenso o dell’acquiescenza dei condomini

Deve, quindi, affermarsi l’irrilevanza del ripetersi del consenso o dell’acquiescenza tacita dei condomini verso ripartizioni effettuate alla stregua di tabelle millesimali diverse da quelle risultanti dai sopra menzionati atti scritti, sino a quando queste non vengano modificate da una valida delibera assembleare.

 

teste de relato

Teste de relato: analisi dell’art. 195 c.p.p. La figura del teste de relato è prevista dall’art. 195 c.p.p. che disciplina l’utilizzo delle dichiarazioni rese dal testimone indiretto nel processo penale

Chi è il teste de relato?

Il teste de relato è il testimone che racconta un fatto, non per averlo appreso direttamente, ma per averne acquisito conoscenza da un altro soggetto.

Vediamo in che modo il codice di procedura penale disciplina questa figura, ma soprattutto quale valore riconosce alle dichiarazioni di questo soggetto.  

Teste de relato nel processo penale: l’art. 195 c.p.p.

Il codice di procedura penale definisce la testimonianza de relato come testimonianza indiretta nell’art. 195 c.p.p.

  • Il primo comma di questa norma dispone che quando il testimone si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, il giudice, a richiesta di parte, dispone che queste siano chiamate a deporre.”
  • Il secondo comma, a integrazione del primo, dispone che l’esame delle persone che hanno conoscenza diretta dei fatti, possa essere richiesto non solo su istanza di parte, ma anche d’ufficio direttamente dal giudice.
  • Il terzo comma precisa poi che, se non si osserva la regola contenuta nel primo comma, le dichiarazioni sui fatti di cui il testimone abbia avuto conoscenza da terze persone non siano utilizzabili a meno che sia impossibile procedere all’esame del testimone diretto perché defunto, irreperibile o infermo.
  • Le regole contenute nell’art. 195 c.p.p si applicano anche quando il testimone indiretto abbia avuto la comunicazione del fatto in una forma diversa da quella orale.

Limiti per agenti e ufficiali di polizia giudiziaria

Il comma 4 della norma pone poi un limite alla testimonianza indiretta, che si rivolge nello specifico agli ufficiali e agli agenti di polizia giudiziaria. Questi soggetti non possono infatti deporre su quanto appreso dai testimoni in sede di acquisizione di sommarie informazioni o nel momento in cui raccolgono denunce, querele, istanze orali, sommarie informazioni e dichiarazioni spontanee della persona indagata.

Testimonianza de relato e segreto professionale e d’ufficio

Il comma 6 dell’art. 195 c.p.p. pone un limite ulteriore all’utilizzo della testimonianza indiretta. Questa disposizione vieta infatti l’esame del testimone del relato se i fatti da loro appresi provengono da soggetti che sono tenuti al segreto professionale ai sensi dell’art. 200 c.p.p. o al segreto d’ufficio di cui all’art. 201 c.p.p. in relazione alle circostanze previste da questi due articoli, a condizione che i soggetti tenuti al segreto non abbiano deposto sugli stessi fatti o li abbiano divulgati in un altro modo.

Inutilizzabilità per rifiuto o ignoranza

L’ultimo comma dell’art. 195 c.p.p. prevede infine che le dichiarazioni del testimone de relato non siano utilizzabili se il soggetto si rifiuti o non sia comunque in grado di indicare la persona o la fonte da cui ha appreso la notizia che riguarda i fatti oggetto d’esame.

Questa disposizione, come l’intero articolo 195 c.p.p., hanno la finalità primaria di vietare le testimonianze anonime.

La Cassazione sulla testimonianza de relato

Vediamo ora, alcune recenti sentenze della Cassazione sulla testimonianza de relato:

Cassazione n. 3488/2024

La disciplina prevista in tema di testimonianza indiretta dall’art. 195 cod. proc. pen. non trova applicazione quando la fonte di riferimento sia costituita da un soggetto che rivesta la qualità di imputato nel medesimo procedimento o in procedimento connesso.

Cassazione n. 34818 /2023

Gli unici casi testualmente previsti di inutilizzabilità della testimonianza de relato trovano il loro fondamento nel fatto che il teste si rifiuti o non sia in grado di indicare la propria fonte di conoscenza (comma 7 dell’art. 195 c.p.p.) o nel fatto che, pur richiestone, il giudice non chiami a deporre le persone alle quali il teste abbia fatto riferimento per la conoscenza dei fatti (comma 3, in relazione al comma 1 dell’art. 195 cod. proc. pen.).

Cassazione n. 47531/2023

In tema di testimonianza indiretta, possono formare oggetto della testimonianza de relato del personale di polizia giudiziaria i risultati dell’individuazione fotografica poiché essa consiste in una dichiarazione ricognitiva resa da un teste della propria percezione visiva ove la difesa non abbia richiesto l’esame della fonte diretta (Sez. 5, n. 5701 del 05/11/2021, dep. 2022, Rv. 282779 – 01), così implicitamente rinunciando ad avvalersi del diritto a procedere al suo esame (ex 7 Corte di Cassazione – copia non ufficiale multis, Sez. 6, n. 12982 del 20/02/2020, Rv. 279259 – 01; Sez. 5, n. 50346 del 22/10/2014, Rv. 261316 – 01).

compensi gratuito patrocinio

Gratuito patrocinio: all’avvocato spettano i compensi per la fase istruttoria La Cassazione chiarisce che nel patrocinio a spese dello Stato all’avvocato va liquidato il compenso per la fase istruttoria anche in caso di prescrizione del procedimento

Gratuito patrocinio e compensi avvocato

Nel gratuito patrocinio, all’avvocato spettano i compensi per la fase istruttoria anche in caso di prescrizione del procedimento, se è stata depositata la lista testimoniale e sono stati citati i testi. Così la seconda sezione civile della Cassazione, nell’ordinanza n. 2502-2024, accogliendo il ricorso di un avvocato.

La vicenda

Nella vicenda, il presidente del tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto rigettava l’opposizione, proposta ex art.170 del DPR 115/2002, dall’avvocato avverso il decreto di liquidazione del compenso per l’attività svolta in un processo penale, quale difensore di soggetto ammesso al gratuito patrocinio a spese dello Stato. Il Tribunale, in particolare, non aveva liquidato li compenso per la fase istruttoria, ritenendo che detta fase non si fosse mai svolta in quanto il processo, che aveva tratto origine dall’opposizione a decreto penale di condanna, dopo una serie di rinvii, era stato definito con la dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione.

Il ricorso

L’avvocato adiva quindi il Palazzaccio lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 12 del D.M. 10.3.2014, n.55, in relazione all’art.360, comma 1, n.3 c.p.c., per avere li Tribunale omesso di liquidare la fase istruttoria sull’erroneo presupposto che essa non si fosse svolta, sebbene lo stesso avesse depositato una lista testimoniale ed avesse citato i testi, attività, questa, espressamente prevista dall’art.12, comma 3 del D.M. 55/2014.

La decisione

Per gli Ermellini, l’avvocato ha ragione. “Il Tribunale ha escluso il compenso per la fase istruttoria perché il processo penale era stato definito con la dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione, senza considerare – osservano infatti – che l’art.12, comma 3 del D.M. 55/2014 prevede che la fase istruttoria non consiste solo nell’escussione dei testi, acquisizione di documentazione etc., ma comprende anche l’attività preparatoria all’istruttoria, vale a dire ‘le richieste, gli scritti, le partecipazioni o assistenze relative ad atti ed attività istruttorie procedimentali o processuali anche preliminari, rese anche in udienze pubbliche o in camera di consiglio, che sono funzionali alla ricerca di mezzi di prova, alla formazione della prova, comprese liste, citazioni e le relative notificazioni, l’esame dei consulenti, testimoni, indagati o imputati di reato connesso o collegato’”. ;

Nel caso di specie, dunque il giudice ha omesso di liquidare la fase istruttoria, benché il ricorrente avesse depositato la lista testimoniale e citato due testi, “attività inequivocabilmente compresa nella fase istruttoria”.

Da qui l’accoglimento del ricorso. Parola al giudice del rinvio.

Allegati

riforma Cartabia processo penale

Riforma Cartabia processo penale Il processo penale è stato profondamente modificato dalla Riforma Cartabia per accelerare la durata della procedura e rispettare così gli impegni del PNRR

Riforma Cartabia per ridurre la durata dei processi penali

La riforma Cartabia del processo penale è avvenuta con il decreto legislativo n. 150/2022, in vigore dal 30.12.2022. Il testo ha apportato le modifiche di maggiore rilevo al codice penale e al codice di procedura penale, al fine di rispettare gli impegni assunti dall’Italia con il PRNN, ossia ridurre prima di tutto la durata media dei processi penali nei tre diversi gradi di giudizio di almeno 1/4. Vediamo in breve le novità di maggiore rilievo.

Le modifiche al codice penale

La riforma ha inserito nel codice penale il nuovo art. 20 bis, che contempla le pene sostitutive della reclusione e dell’arresto, ossia la semilibertà sostitutiva, la detenzione domiciliare sostitutiva, il lavoro di pubblica utilità sostitutivo e la pena pecuniaria sostitutiva.

Tra le circostanze attenuanti del reato previste dall’art. 62 c.p. è stato inserita anche la partecipazione del responsabile a programmi di giustizia riparativa con la vittima del reato, concluso con un esito riparativo. Qualora l’esito riparativo preveda l’assunzione, da parte del soggetto imputato, di impegni di natura comportamentale, la circostanza attenuante viene valutata solo se detti impegni sono stati rispettati.

All’interno dell’art. 131 bis c.p, che disciplina i casi di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, la riforma ha ampliato e inserito specificamente i riferimenti normativi ai casi in cui l’offesa non può essere considerata di particolare tenuità.

Nel determinare la multa o la ammenda il giudice ora deve valutare le condizioni patrimoniali del reo, anche nel disporre il pagamento rateale. Lo prevedono gli articoli 133 bis e 133 ter c.p. come riformulati dalla Riforma.

Cambiano le regole sulla conversione delle pene attraverso la modifica dell’art. 136 del codice penale.

Sono diventati procedibili a querela altri reati, fatte salve le eccezioni previste in presenza di determinate circostanze: lesioni personali art. 582 c.p, lesioni stradali, art. 590 c.p, sequestro di persona art. 605 c.p, violenza privata art. 610 c.p, violazione di domicilio art. 614 c.p, furto art. 624 c.p, turbativa violenta del possesso di cose immobili art. 626 c.p, danneggiamento art. 635 c.p, disturbo del riposo e delle occupazioni delle persone art. 659 c.p; molestia o disturbo alle persone art. 660 c.p, truffa art. 640 c.p, frode informatica art. 640 c.p e appropriazione indebita art. 646 c.p.

Le modifiche della riforma al codice di procedura penale

La prima novità di rilievo apportata dalla riforma Cartabia consiste nella digitalizzazione del processo penale. Gli articoli 110 e 111 c.p.p per la prima volta prevedono la forma del documenti informatico degli atti del procedimento penale e il rispetto delle conseguenti regole per la redazione, la sottoscrizione, la conservazione, l’accesso, la trasmissione e la ricezione in formato elettronico di detti atti e documenti. Completano il set di norme dedicate alla digitalizzazione  sopratutto i seguenti articoli:

  • 111 bis c.p.p dedicato al deposito informatico;
  • 111 ter c.p.p sul fascicolo informatico e l’accesso agli atti;
  • 148 c.p.p sulle notifiche telematiche.

Cambiata la durata massima delle indagini preliminari:  sei mesi per le contravvenzioni, un anno  per i delitti, un anno e sei mesi per i delitti art. 407 comma 2. Ammessa la proroga di questi termini per una sola volta e per non più di sei mesi se le indagini sono complesse.

L’archiviazione della notizia di reato art. 408 c.p.p è consentita quando dagli elementi acquisiti nel corso delle indagini non si può formulare una ragionevole previsione di condanna o applicare una misura di sicurezza diversa dalla confisca.

Ampliate le fattispecie di reato per le quali è prevista la citazione diretta a giudizio art. 552 c.p.p , con particolare riferimento a quei reati che non richiedono investigazioni complesse.

Nuova udienza “filtro” di comparizione prebattimentale dopo la citazione diretta art. 554 bis e 554 ter c.p.c, che funge da snodo tra le indagini preliminari e il dibattimento.

Il rito del patteggiamento prevede ora la possibilità per l’imputato e il P.M di chiedere al giudice di non applicare le pene accessorie o di applicarle per una durata determinata e di non disporre la confisca per determinati beni e determinati importi.

Per quanto riguarda le impugnazione in base alle modifiche della Cartabia, l’art. 593 c.p.p prevede l’inappellabilità delle sentenze che applicano la pena dell’ammenda o la pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità e le sentenze di proscioglimento per reati che vengono puniti con la sola pena pecuniaria o con una pena alternativa.

incentivo all'esodo

Incentivo all’esodo: non va nell’assegno di divorzio La Cassazione spiega che l'indennità di incentivo all'esodo, con cui è regolata la risoluzione anticipata del rapporto di lavoro, non è assimilata all'indennità di fine rapporto e non è computata nella determinazione dell'assegno divorzile

Spettanze di fine rapporto e assegno divorzile

Nel caso in esame il titolare di assegno divorzile aveva domandato al Giudice di merito la corresponsione di quanto percepito dall’ex coniuge in ragione della cessazione del suo rapporto di lavoro.

All’ex moglie veniva riconosciuta in primo grado una quota del trattamento di fine rapporto percepito dall’ex coniuge. Il Giudice di secondo grado aveva confermato la spettanza di fine rapporto in favore dell’ex moglie ed aveva altresì escluso la richiesta formulata dalla stessa in ordine alla percezione dell’incentivo all’esodo.

A tal ultimo proposito, la Corte di appello di Milano aveva ritenuto doversi escludere che l’incentivo all’esodo rientrasse nell’indennità di fine rapporto di cui all’art. 12-bis legge n. 898 del 1970, in quanto altrimenti si sarebbe finito con l'”attribuire all’ex coniuge una quota di retribuzioni future, non accumulate durante il matrimonio, non collegate quindi alla durata del matrimonio secondo la previsione letterale della norma”.

Avverso tale decisione veniva proposto ricorso per cassazione da parte dell’ex moglie.

Contrasto interpretativo sull’incentivo all’esodo nell’assegno divorzile

Con sentenza n. 6229-2024, le Sezioni Unite della Cassazione hanno rigettato il ricorso principale proposto e compensato le spese di lite.

La Cassazione, chiamata a pronunciarsi, per quanto qui rileva, in ordine alla spettanza o meno dell’incentivo all’esodo all’ex coniuge titolare di assegno divorzile, ha anzitutto dato conto del contrasto interpretativo insorto in ordine alla spettanza dell’ex coniuge all’incentivo all’esodo e delineato nell’ordinanza interlocutoria. A tal riguardo, un primo orientamento sostiene che “le somme corrisposte a (..) titolo (d’incentivo all’esodo) non avrebbero natura liberale né eccezionale, costituendo, piuttosto, reddito di lavoro dipendente (..)”, mentre un contrapposto orientamento ritiene che “l’indennità di cui è menzione nell’art. 12-bis riguarda unicamente quell’indennità, comunque denominata, che, maturando alla cessazione del rapporto di lavoro, è determinata in proporzione della durata del rapporto medesimo e dell’entità della retribuzione corrisposta al lavoratore: connotazione ― questa ― non presente nell’incentivo all’anticipato collocamento in quiescenza”.

Posto il suddetto contrasto interpretativo, in relazione al quale è stato ritenuto necessario l’intervento delle Sezioni Unite, la Corte ha poi ripercorso la natura e la funzione assistenziale e perequativo-compensativa dell’assegno divorzile, così come delineata dalla giurisprudenza di legittimità a partire dalla nota sentenza della Cassazione a Sezioni Unite 11 luglio 2018, n. 18287.

Spettanza dell’incentivo all’esodo all’ex coniuge

In ragione della natura e della funzione dell’assegno divorzile, la Cassazione ha evidenziato come la “ratio dell’art. 12-bis della l. n. 898 del 1970 debba individuarsi nel «fine di attuare una partecipazione, seppure posticipata, alle fortune economiche costruite insieme dai coniugi finché il matrimonio è durato, ovvero di realizzare la ripartizione tra i coniugi di un’entità economica maturata nel corso del rapporto di lavoro e del matrimonio, così soddisfacendo esigenze (non solo di natura assistenziale, evidenziate dal richiamo alla spettanza dell’assegno di divorzio, ma) anche di natura compensativa, rapportate cioè al contributo personale ed economico dato dall’ex coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune»”.

In relazione all’incentivo all’esodo, la Corte ha rilevato come esso sia estraneo al concetto d’indennità di fine rapporto, invero, ha osservato la Corte, tale indennità “non opera quale retribuzione differita, sicché è da escludere la conseguente necessità di farne partecipe il coniuge che di tale retribuzione ha già fruito sotto forma di assegno divorzile. In effetti, tale indennità non si raccorda ad entità economiche maturate nel corso del rapporto di lavoro, onde non trova fondamento giustificativo l’apprensione di una quota di essa da parte del coniuge che di tale retribuzione ha già fruito sotto forma di assegno divorzile. In effetti, tale indennità non si raccorda ad entità economiche maturate nel corso del rapporto di lavoro, onde non trova fondamento giustificativo l’apprensione di una quota di essa da parte del coniuge che ha diritto alla percezione dell’assegno di divorzio: l’esigenza di assicurare, in chiave assistenziale e perequativo-compensativa, una ripartizione dei redditi maturati nel corso del matrimonio qui non ricorre, proprio in quanto non si è in presenza di proventi accantonati nel corso della vita coniugale e divenuti esigibili al cessare del rapporto lavorativo; si è piuttosto al cospetto di un’attribuzione patrimoniale discendente da un sopravvenuto accordo con cui si remunera il coniuge lavoratore per il prestato consenso all’anticipato scioglimento del rapporto di lavoro (…). In definitiva, la spettanza, al coniuge divorziato, della quota del 40% dell’indennità in questione non ha mai modo di configurarsi”.

Sulla scorta delle suddette ragioni, la Corte di Cassazione ha dunque respinto il ricorso principale.

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targa contraffatta

Targa contraffatta: niente multa per chi circola con quella polacca Per la Cassazione non è integrata la violazione dell’art. 100, comma 12, Cds, che sanziona la circolazione del veicolo munito di targa non propria o contraffatta

Targa straniera e violazione Codice della Strada

Niente multa per chi circola con veicolo con targa polacca e non italiana. Non si verte infatti nell’ipotesi della violazione di cui all’art. 100, comma 2, Codice della Strada, il quale sanziona la circolazione di un veicolo “munito di targa non propria o contraffatta”. Così la seconda sezione civile della Cassazione, la quale, con sentenza n. 4811-2024 ha accolto il ricorso di una società di trasporti avverso il verbale di accertamento elevato a suo carico dalla Polstrada.

Per approfondimenti vai alla nostra guida Targa contraffatta o falsa

La vicenda

Nella vicenda, la società impugnava innanzi al Gdp di Pordenone il verbale di accertamento e violazione dell’art.100, comma 12, Cds, elevato a suo carico dalla Polizia stradale per avere messo in circolazione un complesso veicolare formato da motrice e rimorchio risultante iscritto al P.R.A. con targa e documenti intestati alla società ricorrente, ma munito, al momento dell’accertamento, di targa polacca facente capo ad altra società.

A fondamento della contestazione l’autorità ritenne che il fatto integrasse l’ipotesi di circolazione di autoveicolo con targa non propria, in quanto diversa da quella che, ai sensi delle risultanze del P.R.A. nazionale, identificava il veicolo.

A sostegno dell’opposizione la società dedusse che il fatto accertato non integrava la violazione contestata, atteso che le targhe erano state regolarmente rilasciate dalla motorizzazione civile polacca, a seguito di contratto di noleggio temporaneo, con la conseguenza che il solo rimprovero che le poteva essere mosso era di non avere provveduto a comunicare al PRA la definitiva esportazione all’estero dei mezzi, al fine della radiazione delle targhe originarie.

Il Giudice di Pace rigettò l’opposizione e la pronuncia venne confermata dal Tribunale di Pordenone.

Il ricorso in Cassazione

Da qui il ricorso in Cassazione, innanzi alla quale la società denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 100, comma 12, codice della strada, censurando la decisione impugnata per avere ritenuto applicabile la disposizione menzionata in assenza dei suoi presupposti fattuali.

Le targhe rinvenute, sosteneva la società, erano infatti state rilasciate dalle competenti autorità polacche, previa consegna delle relative carte di circolazione e delle targhe originarie, proprio per i veicoli oggetto di accertamento. Per cui, trattandosi di targhe appartenenti ai suddetti veicoli, la violazione contestata, a dire della ricorrente, non era nella specie configurabile, risultando essa applicabile, oltre che al caso di targhe contraffatte, solo all’ipotesi in cui il mezzo usi targhe altrui, cioè corrispondenti ad altro veicolo. Al massimo la fattispecie poteva rientrare nella diversa ipotesi sanzionatoria dell’art. 103 codice della strada, che sanziona l’omessa comunicazione al PRA dell’esportazione del veicolo, trovando il fatto contestato la sua causa proprio in tale omissione.

La decisione della Cassazione

Per la S.C., il ricorso è fondato.

L’art. 100, comma 12, codice della strada, ricordano innanzitutto i giudici, sanziona la circolazione di un veicolo “munito di targa non propria o contraffatta”.

La formula normativa, quindi, “va intesa nel senso che la violazione sussiste quando la targa di cui il veicolo è provvisto appartiene ad un altro mezzo o risulta comunque oggetto di contraffazione”.

Nel caso di specie, invece, si trattava di targhe regolarmente rilasciate dalla motorizzazione polacca. Pertanto, spiegano gli Ermellini, è evidente “che si è al di fuori dell’ipotesi in cui il veicolo circoli non targa non propria, coincidendo le targhe presenti al momento dell’accertamento con quelle assegnate”.

Né la sussistenza della condotta sanzionata, concludono accogliendo il ricorso e cassando la sentenza impugnata, “può affermarsi per il solo fatto che nel P.R.A. risultassero ancora registrate le targhe originarie, precedenti alla nuova immatricolazione, atteso che tale circostanza è addebitabile alla mancata attivazione, da parte del proprietario, del procedimento di radiazione delle targhe precedenti, previsto dall’art. 103 codice della strada e la cui omissione ha una sanzione autonoma, ma non trasforma di per sé l’uso delle targhe nuove nella violazione contestata, non porta cioè a ritenere che quelle presenti non fossero quelle ‘proprie’ dell’automezzo”.

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targa falsa

Targa contraffatta o falsa Il codice della strada punisce la circolazione con targa contraffatta con una sanzione pecuniaria e, nel caso di volontarietà dell’uso, con l’applicazione di sanzioni penali

Le sanzioni per chi circola con targa falsa

La targa automobilistica, giuridicamente, è una certificazione amministrativa che attesta l’avvenuta immatricolazione del veicolo, identificandolo in modo univoco e inequivocabile.

Non di rado, i tribunali si occupano di casi in cui un veicolo abbia circolato con targa contraffatta, nel tentativo di evitare multe e sanzioni stradali, come per esempio quelle relative al superamento dei limiti di velocità rilevato con l’autovelox.

Circolare con targa falsa o contraffatta è ovviamente vietato e severamente punito dal codice della strada e dal codice penale. Vediamo le varie ipotesi che possono in concreto verificarsi e quali sono le sanzioni previste dalla legge.

Targa contraffatta, la sanzione pecuniaria prevista dal codice della strada

Innanzitutto, in tema di targhe contraffatte, occorre fare riferimento all’art. 100 del codice della strada, che al comma 12 prevede una pesante sanzione amministrativa pecuniaria, da € 2.046 a € 8.186, a carico di chiunque circoli con un veicolo munito di targa non propria o contraffatta.

Va notato che tale norma è stata oggetto di depenalizzazione e dunque rappresenta una sanzione di mero carattere amministrativo. La ragione di ciò risiede nel fatto che la norma in esame punisce chi circola con una targa contraffatta, senza però aver materialmente messo in atto la contraffazione della stessa e soprattutto circolando in maniera inconsapevole con una targa falsa (diversamente si ricade nell’ambito del penale, come vedremo tra breve).

Ad ogni modo, alla sanzione pecuniaria consegue anche la sanzione accessoria del fermo amministrativo del veicolo e, in caso di reiterazione della violazione, la sanzione accessoria della confisca amministrativa del veicolo (art. 100 C.d.S., comma 15).

Uso volontario della targa alterata: il rinvio al codice penale

Ben più serie le conseguenze per chi, materialmente, mette in atto la contraffazione della targa o usa volontariamente la targa falsa, perché in tal caso si ricade in ambito penale.

La norma di riferimento, in tal caso, è innanzitutto il comma 14 dello stesso art. 100 C.d.S., che dispone quanto segue: “chiunque falsifica, manomette o altera targhe automobilistiche ovvero usa targhe manomesse, falsificate o alterate è punito ai sensi del codice penale”.

Il richiamo al codice penale è da riferirsi agli artt. 477 e 482 c.p. Il combinato disposto di questi due articoli individua il reato di falsità materiale commessa dal privato in certificati o autorizzazioni amministrative (come detto, la targa è tecnicamente da considerarsi un certificato amministrativo).

In base a tale normativa, chi commette la contraffazione di una targa o fa uso consapevole di una targa falsa (circolando con il veicolo), è punibile con la reclusione da quattro mesi a due anni (cioè, la pena prevista dall’art. 477 c.p., ridotta di un terzo, in base a quanto disposto dall’art. 482).

Targa contraffatta, le sentenze della Cassazione

In definitiva, come evidenziato anche dalla Corte di Cassazione, “le due ipotesi, quella di cui al comma 12 e al comma 14 dell’art. 100 C.d.S. concorrono nel senso che, ove emerga la volontarietà dell’utilizzo della targa contraffatta (…) è integrata la fattispecie dell’uso della targa, penalmente rilevante” (Cass. Pen., sez. V, sent. n. 7614/2017).

Pertanto, se l’uso della targa alterata (e quindi la circolazione con il veicolo) è volontario, si applicano le norme penali cui fa riferimento il comma 14, oltre alla sanzione amministrativa di cui al comma 12. Se, invece, l’utilizzo della targa falsa è inconsapevole, la sanzione sarà solo quella amministrativa prevista dal comma 12 dell’art. 100 del Codice della Strada.

In merito, si veda anche Cassazione Penale, sez. V, sentenza n. 1386/2018, che ribadisce il principio “secondo cui integra il reato di falsità materiale commessa dal privato in certificati o autorizzazioni amministrative (artt. 477 e 482 cod. pen.), la condotta di colui che modifica la targa della propria autovettura, atteso che – come sopra già accennato – le ipotesi previste dall’art. 100 del C.d.S. ai commi 12 e 14 si distinguono tra loro in quanto la prima disposizione sanziona in via amministrativa l’atto di circolazione con veicolo munito di targa non propria o contraffatta, laddove non sia contestata all’agente la contraffazione, mentre la seconda sanziona la contraffazione da parte dell’agente della targa quale certificazione amministrativa dei dati di immatricolazione del veicolo”.

contributi silenti

Contributi silenti pensione: cosa sono e come recuperarli I contributi silenti possono essere recuperati per conseguire la pensione con la ricongiunzione onerosa, la totalizzazione gratuita e il cumulo dei contributi versati

Contributi silenti: cosa sono

I contributi silenti sono rappresentati dai versamenti dei contributi previdenziali che non sono sufficienti per la maturazione della pensione presso un’unica gestione previdenziale.

Come fare per non perdere quanto versato e riuscire a costruire la propria pensione se nel corso della vita un soggetto è stato iscritto a più gestioni e casse previdenziali, ma in nessuna di queste ha raggiunto i requisiti per avere poi diritto a un trattamento pensionistico?

Come si recuperano i contributi silenti?

Alcuni enti o casse previdenziali dei professionisti riconoscono ai loro iscritti il diritto di ottenere la restituzione dei contributi versati, ma insufficienti a garantire loro una pensione. Non tutti però adottano queste politiche. In questo caso il lavoratore cosa può fare per non perdere i contributi versati?

I metodi per non perdere i contributi versati e garantirsi una pensione futura sono principalmente tre:

  • la ricongiunzione onerosa;
  • la totalizzazione gratuita;
  • il cumulo dei contributi versati.

Analizziamoli singolarmente per capire come funzionano a grandi linee.

La ricongiunzione onerosa

Il primo metodo che consente di recuperare i contributi è la ricongiunzione onerosa, disciplinata dalla legge n. 29/1979.

Questo metodo è oneroso perchè richiede al lavoratore il pagamento di una somma, ossia l’onere di riscatto, a cui può provvedere ratealmente.

Si tratta di un sistema che permette al lavoratore dipendente, sia esso pubblico o privato, che nella vita è stato iscritto a forme obbligatorie di previdenza sostitutive dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti gestita dall’INPS, di chiedere che tutti i periodi di contribuzione obbligatoria, anche volontaria e figurativa, vengano ricongiunti nell’assicurazione generale obbligatoria o in quella a cui è iscritto al momento della domanda.

Questa facoltà è concessa anche ai lavoratori autonomi in presenza di determinati requisiti contributivi. Le regole per il calcolo e la misura della pensione sono quelle previste e adottate dalla Cassa presso la quale si accentra la posizione assicurativa del lavoratore.

La totalizzazione gratuita

Il secondo sistema che permette di non perdere i contributi versati, questa volta in modo gratuito, è la totalizzazione gratuita dei contributi.

Possono avvalersi di questo sistema tutti i lavoratori dipendenti, così come gli autonomi e i professionisti iscritti all’AGO, al FPLD, a forme sostitutive dell’AGO, a enti previdenziali per gli iscritti ad albi o elenchi professionali, alla gestione separata dei parasubordinati, al Fondo di previdenza per il clero e i ministri di culto non cattolici.

Ai fini della totalizzazione valgono anche i contributi versati in paese comunitari o in paesi con i quali l’Italia ha stretto convenzioni bilaterali, purché rispettino il minimale contributivo richiesto.

La domanda deve essere presentata all’ente presso il quale risulta accreditata l’ultima contribuzione, ma se il lavoratore è iscritto a più gestioni può scegliere a chi presentarla.

Il calcolo della pensione avviene pro quota, per cui ogni gestione lo determina in base ai periodi di iscrizione maturati dal lavoratore, di norma in base al sistema di calcolo contributivo o contributivo misto. 

Cumulo dei contributi versati

Il terzo metodo, anche questo gratuito, prevede il cumulo dei contributi versati delle varie gestioni, al fine di ottenere una pensione unica che viene liquidata con il sistema contributivo.

Questo sistema vale per i lavoratori iscritti da almeno due anni all’AGO, al FLPD, alle gestioni dei lavoratori autonomi, alle forme sostitutive AGO e alla gestione separata.

Il cumulo gratuito può essere utilizzato per la pensione di vecchiaia, per la pensione anticipata, per l’inabilità e per la pensione indiretta ai superstiti, ognuna delle quali è soggetta a regole particolari.

Il lavoratore deve fare domanda per il cumulo all’ente a cui è iscritto al momento della presentazione, se però il lavoratore è iscritto a una Cassa professionale, la domanda va presentata alla gestione INPS a cui è stato iscritto in precedenza.

proprietà fiduciaria

Proprietà fiduciaria Nella proprietà fiduciaria un soggetto trasferisce la titolarità di un bene ad un altro soggetto, con il vincolo di usarlo per soddisfare l’interesse di un beneficiario

La proprietà fiduciaria nel nostro ordinamento

Con la locuzione “proprietà fiduciaria” si suole indicare una particolare configurazione del diritto di proprietà, che postula l’intestazione di un bene in capo a una persona con il vincolo di utilizzarlo per la soddisfazione di un particolare interesse a favore di un altro soggetto, detto beneficiario.

Solitamente, l’istituto che meglio rappresenta lo schema della proprietà fiduciaria è il trust, figura di origine anglosassone, che si sostanzia in un negozio giuridico unilaterale con cui il disponente trasferisce un bene a una persona di fiducia, il trustee, che ha l’obbligo di amministrarlo con lo scopo di favorire in un determinato modo il beneficiario.

Solo negli ultimi decenni la figura del trust, e più in generale il concetto di proprietà fiduciaria, si è fatto largo nell’ordinamento italiano, vincendo soprattutto le riserve di chi vi scorge – con fondati timori – soprattutto un modo per eludere i diritti dei creditori.

Uno dei principali tratti distintivi della proprietà fiduciaria è infatti quello di costituire un patrimonio separato da quello del suo intestatario, quindi non aggredibile dai creditori.

Il trust e l’art. 2645-ter del codice civile

L’art. 2645-ter del codice civile, introdotto nel 2005, disciplina nel nostro ordinamento i c.d. patrimoni di destinazione, caratterizzati dall’amministrazione di fiducia di un bene operata dal soggetto a cui tale bene viene intestato.

In particolare, tale articolo, rubricato “Trascrizione di atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela (…)”, riguarda gli atti pubblici con cui beni immobili o mobili registrati vengono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela.

Con riferimento a tali beni, è possibile operare una trascrizione nei pubblici registri al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione.

È inoltre previsto che, per la realizzazione di tali interessi può agire in giudizio, oltre al disponente, qualsiasi interessato, anche durante la vita del disponente stesso.

Proprietà fiduciaria e contratto fiduciario: differenze

Le caratteristiche appena descritte, proprie dei patrimoni di destinazione, valgono a distinguere la proprietà fiduciaria dal contratto fiduciario.

Quest’ultimo, infatti, non integra una particolare configurazione di un diritto reale, ma individua un normale negozio giuridico; ed infatti, in tal caso, legittimato ad agire per la soddisfazione dell’interesse del beneficiario è solo il disponente/contraente, e non qualsiasi interessato.

Inoltre, la trascrizione del vincolo di destinazione prevista nelle ipotesi di proprietà fiduciaria fa sì che il vincolo di destinazione “segua” il bene in ogni caso di trasferimento della proprietà di quest’ultimo e sia, pertanto, opponibile agli aventi causa del fiduciario.

Nel caso di negozio fiduciario, invece, agli aventi causa del fiduciante che abbia venduto contravvenendo al contratto, quest’ultimo non può essere opposto, ferma restando la possibilità per il disponente di ottenere il risarcimento del danno dal fiduciario.

Trascrizione del vincolo e tutela dei creditori

Infine, rileva la norma posta dall’ultimo periodo dell’articolo 2645-ter c.c., in base alla quale i beni conferiti dal disponente e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione solo per debiti contratti per tale scopo.

Ciò, comunque, a condizione che, se si tratta di beni immobili o mobili registrati, la trascrizione dell’atto che comporta il vincolo di indisponibilità sia stata trascritta prima del pignoramento, come stabilito dall’art. 2915 c.c., primo comma. È evidente la finalità che ha tale norma di evitare che il patrimonio destinato sia istituito con lo scopo di sottrarre dei beni del disponente all’aggredibilità da parte dei creditori (v. art. 2740 c.c.: “il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri”).

lottizzazione abusiva

Lottizzazione abusiva sanatoria Per la lottizzazione abusiva la sanatoria non è prevista, come ha chiarito il Consiglio di Stato, anche quando venga richiesta per le singole opere edilizie

Cos’è la lottizzazione abusiva

La lottizzazione abusiva è il reato che compie chi, a scopo edificatorio, inizia opere che comportino trasformazione urbanistica o edilizia di terreni, in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti o senza la prescritta autorizzazione (v. art. 30 del T.U. Edilizia, D.P.R. 380/2001).

Parimenti, si ha lottizzazione abusiva quando tale trasformazione urbanistica o edilizia viene predisposta attraverso il frazionamento e la vendita del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio.

Come vedremo, a differenza di quanto può accadere per le singole opere edilizie, la lottizzazione abusiva non è suscettibile di sanatoria.

Il reato di lottizzazione abusiva e le sanzioni

Il reato di lottizzazione abusiva è punito dall’art. 44 dello stesso Testo Unico, che prevede come pena l’arresto fino a due anni e l’ammenda da 15.493 a 51.645 euro.

Inoltre, con la sentenza definitiva del giudice penale che accerta il reato, viene disposta anche la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite.

La principale ragione per cui la lottizzazione abusiva è considerata un illecito penale è stata individuata dalla giurisprudenza amministrativa nel fatto che tale attività “sottrae all’amministrazione il proprio potere di pianificazione attuativa e la mette di fronte al fatto compiuto di insediamenti in potenza privi dei servizi e delle infrastrutture necessarie al vivere civile, causa di degrado urbano e dei gravi problemi sociali che ne derivano” (cfr. Consiglio di Stato, sent. n. 5403/2021).

Lottizzazione abusiva e sanatoria, la giurisprudenza

Come abbiamo anticipato, diversamente da quanto può accadere per singoli interventi realizzati in assenza di costruire, suscettibili di sanatoria, “la lottizzazione abusiva rappresenta un illecito urbanistico che non è suscettibile della sanatoria prevista per gli abusi edilizi, anche qualora sia stata rilasciata una concessione edilizia in sanatoria per le singole opere facenti parte della lottizzazione” (Consiglio di Stato, sez. II, n. 1271/2021, pronuncia richiamata anche da Cons. St., sez. VI, sent. n. 2567/2023).

Per inciso, la sanatoria per i singoli interventi (opere) realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, si può richiedere se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda, pagando una somma pari al contributo di costruzione in misura doppia, sempre che la richiesta venga accolta (cfr. l’art. 36 del citato T.U. Edilizia, che disciplina il c.d. “Accertamento di conformità”).

Ipotesi ancora diversa è il condono delle singole opere abusive, che avviene solo in occasione di apposito provvedimento legislativo (adottato in passato in Italia negli anni ’80, ’90 e all’inizio degli anni Duemila).

Consiglio di Stato, le sentenze sulla sanatoria edilizia

Proprio perché si tratta di due ipotesi ben distinte, la giurisprudenza ha anche chiarito che non è possibile sanare la lottizzazione abusiva tramite la sanatoria delle singole unità immobiliari, terreni o costruzioni che siano, i quali non possono essere considerati in modo isolato (cfr. Cons. St., sent. n. 883/2022).

Inoltre, il Consiglio di Stato, sez. VI, con la recente sentenza n. 2567/2023, ha anche chiarito che nell’ambito della lottizzazione abusiva la sanatoria richiesta per una singola opera ha solo un effetto sospensivo dell’efficacia dei provvedimenti adottati in precedenza.

Infatti, la richiesta di un accertamento di conformità ex art. 36 T.U. Edilizia, in relazione ad un’opera realizzata in un terreno per cui è stata già accertata la lottizzazione abusiva, non toglie efficacia alla precedente ordinanza di demolizione, ma ne comporta la mera sospensione dell’efficacia fino alla definizione del procedimento conseguente alla richiesta stessa (sul punto, viene richiamata anche la precedente sentenza Cons. St., sez. II, n.3545/2021).