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Presupposti aggravante odio etnico e razziale In presenza di quali presupposti si configura la circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei, Consuelo Nicoletti e Francesca Ricci

 

La circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso (già prevista dall’art. 3, comma 1, D.L. 122/1993 e oggi dall’art. 604ter, comma 2, c.p.) è configurabile non solo quando l’azione per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulta intenzionalmente diretta a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio e comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori, ma anche quando essa si rapporti, nell’accezione corrente, ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza, non avendo rilievo la mozione soggettiva dell’agente. – Cass., sez. V, 26 gennaio 2023 n. 3417.

Con la pronuncia in commento la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la sussistenza della circostanza aggravante di aver agito per finalità di odio etnico e razziale in capo al ricorrente, condannato per il delitto aggravato di diffamazione, per avere costui affisso un manifesto contenente una frase dalla portata asseritamente diffamatoria (“Kyenge torna in Congo”).

La Corte di Appello, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, ha assolto l’imputato dall’imputazione di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa, confermando nel resto la responsabilità penale per il delitto di cui all’art. 595 c.p. Avverso la pronuncia di secondo grado è stato proposto ricorso da parte dell’imputato deducendo sei motivi di doglianza: in particolare – per quanto di interesse in questa sede – con il primo motivo è stata denunciata l’erronea applicazione dell’art. 3, commi 1 e 6, D.L. 122/1993 convertito nella L. 205/1993 (Legge Mancino) in ragione della decisione contraddittoria per cui la Corte territoriale avrebbe escluso la responsabilità dell’imputato per il delitto di propaganda di idee fondate sull’odio razziale, ritenendo tuttavia sussistente l’aggravante di aver agito per finalità di odio etnico e razziale in relazione al delitto di diffamazione; con il secondo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 595 c.p., la carenza assoluta di prova e il difetto di motivazione in relazione all’affermazione della responsabilità penale del ricorrente, posto che secondo l’argomentazione difensiva nell’espressione utilizzata non si ravviserebbero insulti, offese o altri elementi costitutivi del reato ma che si tratterebbe, invece, di un invito a tornare nel paese d’origine espresso nell’ambito di un dibattito politico contingente.

Quanto al primo motivo di censura, la Suprema Corte, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha ritenuto che la conclusione assolutoria per l’imputazione di propaganda per motivi di discriminazione razziale non esclude che la condotta ascritta al ricorrente possa rapportarsi ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza, configurandosi quindi l’aggravante contestata. Sul punto, i giudici di legittimità hanno richiamato il principio di diritto secondo cui la circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio entico, razziale o religioso (già prevista dall’art. 3, comma 1, D.L. 122/1993 e, oggi, dall’art. 604ter, comma 1, c.p. ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. i), D.Lgs. 21/2018) è configurabile non solo quando l’azione, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulta intenzionalmente diretta a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio e comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori, ma anche quando essa si rapporti, nell’accezione corrente, ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza, non avendo rilievo la mozione soggettiva dell’agente (Cass. 18 novembre 2020, n. 307).

In merito al secondo motivo di doglianza, la Suprema Corte, nel richiamare la consolidata giurisprudenza di legittimità in materia di diffamazione, ha ritenuto corretta l’argomentazione con cui la Corte distrettuale ha conferito alla frase “Kyenge torna in Congo” una concreta portata diffamatoria, in quanto ha attribuito alla persona offesa l’indegnità a fare parte del consesso dei cittadini italiani, evocandone un’asserita inferiorità alla luce delle sue origini africane e al colore della pelle; i Giudici di Piazza Cavour hanno escluso, altresì, che tale condotta possa essere scriminata in quanto l’espressione utilizzata non contiene alcuna critica alle idee della persona offesa ma si è sostanziata nella sua denigrazione e, anzi, proprio in ragione della matrice razziale dell’espressione ha ritenuto il fatto aggravato ai sensi dell’art. 3, comma 1, D.L. 122/1993.

In definitiva, la Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. V, 18 novembre 2020, n. 307; Cass., sez. V, 2 novembre 2017, n. 7859
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Rissa tra gruppi e scriminante legittima difesa La scriminante della legittima difesa può applicarsi al delitto di rissa tra due gruppi contrapposti?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei, Consuelo Nicoletti e Francesca Ricci

 

In tema di rissa, non è configurabile la legittima difesa in uno scontro tra gruppi contrapposti, essendo i corissanti originariamente animati dall’intento aggressivo. Tale principio può essere derogato solo in situazioni eccezionali, ossia solo quando si determini, nell’ambito della contesa, una reazione assolutamente imprevedibile e sproporzionata che si traduce in un’offesa diversa e più grave di quella accettata. Quest’ultima, atteggiandosi ad offesa nuova, autonoma ed ingiusta, consente il riconoscimento della scriminante in esame, laddove sia tale da porre una delle parti corissanti in posizione passiva. – Cass., sez. V, 26 gennaio 2023, n. 3462.

La causa di giustificazione della legittima difesa, prevista dall’art. 52 c.p., scrimina la condotta di chi abbia commesso un fatto di reato al fine di difendere un diritto proprio o altrui da un pericolo attuale di un’offesa ingiusta, a condizione che la difesa sia proporzionata all’offesa. Pertanto, la sua configurazione consente di rimuovere l’antigiuridicità insita nella condotta difensiva, rendendola così irrilevante sul piano penale: quel che, infatti, l’ordinamento reputa prevalente in una situazione di aggressione-reazione, è proprio l’interesse dell’aggredito a non patire un’offesa ingiusta.

Affinché la fattispecie scriminante in parola possa dirsi configurata è necessario, sul piano strutturale, il concorso di due requisiti: l’aggressione ingiusta e la reazione difensiva. La prima si traduce in un pericolo attuale di un’offesa ingiusta ad un diritto proprio o altrui derivante da una condotta umana, laddove invece la seconda deve essere intesa in termini di azione dettata dalla necessità di difendersi, in quanto il pericolo non può essere evitato se non reagendo contro l’aggressore.

Giova precisare che rientra nel fuoco della necessità non qualsiasi condotta, ma solo quella che non sia sostituibile con altra meno lesiva. In altri termini, la difesa del diritto non può risultare possibile se non tramite quella precisa reazione, non avendo l’agente alternative lecite o meno lesive.
Infine, si richiede che la difesa sia proporzionata all’offesa, nel senso che la prima non deve risultare arbitraria ed eccessiva rispetto alla seconda.

La ricostruzione generale della disciplina è necessaria per rispondere al quesito sottoposto al vaglio della Corte di Cassazione, ossia se la legittima difesa possa applicarsi al delitto di rissa tra due gruppi rivali ed eventualmente a quali condizioni.

Ad avviso del Collegio, la risposta non può che essere di carattere negativo, alla luce di quella che è la struttura stessa del reato che qui rileva.

Osserva la Corte, infatti, che il delitto di rissa è ontologicamente connotato da uno scambio vicendevole di insulti e percosse, sicché è poco compatibile con tale assunto l’idea di una posizione che sia sin dall’origine di mera passività. Del resto, ove così non fosse, non si potrebbe neppure parlare di rissa, atteso che essa implica una partecipazione attiva allo scontro, realizzata mediante atti diretti sia ad offendere che a difendersi.

Pertanto, la Corte afferma che nel delitto in esame i corissanti sono ordinariamente animati dall’intento reciproco di offendersi e dunque accettano la situazione di pericolo nella quale volontariamente si pongono, con l’ovvia conseguenza che la loro difesa non può dirsi necessitata.

Tuttavia, proseguono i Giudici di legittimità, tale principio può essere derogato solo in situazioni eccezionali, ossia solo quando si registri una reazione assolutamente imprevedibile e sproporzionata che si traduce in un’offesa diversa e più grave di quella accettata. Quest’ultima, dunque, si atteggia ad offesa nuova, autonoma ed ingiusta, tale da legittimare la configurazione della scriminante della legittima difesa.

Sottolinea la Corte, dunque, come il precedente orientamento secondo cui possa riconoscersi la legittima difesa in uno scontro tra gruppi contrapposti solo quando coloro che si difendono si pongano in una posizione passiva, limitandosi a parare i colpi o dandosi alla fuga, così da far venir meno l’intento aggressivo, debba essere letto sempre in relazione al configurarsi di una situazione imprevista sorta nell’ambito della contesa. Solo in un’ipotesi del genere, infatti, può dirsi recuperata la necessità della reazione all’interno della dinamica delittuosa, non essendo più gli agenti animati da alcun intento lesivo nei confronti degli altri corissanti.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    ex multis: Cass., sez. V, 19 febbraio 2015, n. 32381;
Cass., sez. V, 29 novembre 2019, n. 15090
Difformi:      Cass., sez. V, 8 ottobre 2020, n. 33112
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Natura pubblicistica ente Al fine di individuare la natura pubblicistica di un ente deve farsi ricorso ad una concezione formalistica o sostanzialistica?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei, Consuelo Nicoletti e Francesca Ricci

 

Ai fini della individuazione della natura pubblica di un ente, ciò che rileva è la natura pubblica delle finalità perseguite con la specifica attività, rispetto alla quale la veste giuridica dell’ente può al più costituire un indice sintomatico non esclusivo. Deve pertanto essere avallata la concezione sostanziale e non formalistica, al pari di quanto accade nell’ambito del diritto amministrativo. – Cass., sez. V, 24 gennaio 2023, n. 3078.

La questione afferente alla definizione della natura pubblicistica o meno di un ente è propedeutica alla configurazione di talune fattispecie di reato previste dall’ordinamento, quale, a titolo esemplificativo, il delitto di turbativa d’asta di cui all’art. 353 c.p. Tale rilevanza può aversi tanto con riferimento all’individuazione del soggetto attivo o passivo del reato, quanto per quel che attiene ad altri elementi costitutivi della fattispecie: si pensi in questo senso ad una normativa di settore che può trovare applicazione solo se ricorre la natura pubblicistica dell’ente. Specularmente, dalla natura pubblica può ricavarsi altresì la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio del singolo agente.

Il tema si intreccia inevitabilmente con il settore del diritto amministrativo, naturale sedes materiae, ragion per cui occorre comprendere se ed in che termini sia possibile una “contaminazione” tra istituti rilevanti per i due rami dell’ordinamento.

Interrogata sul punto, la Corte di Cassazione precisa preliminarmente che detta contaminazione è sì possibile, ma non in maniera automatica: essa infatti deve essere realizzata senza perdere di vista quella che è la finalità ultima dell’operazione ermeneutica, ossia la definizione dell’ambito applicativo della fattispecie penale. In questo senso, dunque, il ricorso alla normativa e alla giurisprudenza amministrativa non può avvenire sic et simpliciter, ma deve tener conto dell’esigenza di ricostruzione del reato.
Fatta tale premessa, alla luce di quali criteri occorre far riferimento per qualificare, sul piano penalistico, un ente come pubblico?

Per il diritto amministrativo, il carattere pubblicistico va individuato non in relazione alla qualità dei soggetti componenti l’ente, bensì alla natura degli atti posti in essere, sicché eventuali strutture adottate – associative o consortili – rilevano esclusivamente sul piano organizzativo.

Analogamente, la Corte di Cassazione, negli anni, ha affermato che ciò che rileva per dirimere il dubbio interpretativo in esame è la natura pubblica delle finalità perseguite dall’ente con la specifica attività.

In particolare, ha evidenziato come l’obbligatorietà del ricorso alla procedura ad evidenza pubblica sia indice sintomatico del carattere pubblicistico dell’attività svolta, soprattutto laddove si tratti di settori strategici e speciali, quali ad esempio quello dell’energia o dei servizi di informazione, motivo per cui i dipendenti di tali società rivestono la qualifica di incaricati di pubblico servizio.

Da ciò consegue, dunque, che ai fini dell’individuazione della natura pubblica di un ente rileva non la veste giuridica adottata – la quale, peraltro, se può costituire un indice sintomatico, certamente però non assume la stessa incidenza di altri dati, quali la disciplina applicata –, bensì la finalità perseguita tramite la propria attività.

Alla luce di tali argomentazioni, deve ritenersi quindi superato il precedente indirizzo ermeneutico che, a seguito della privatizzazione di molti enti pubblici, aveva escluso, sposando il criterio formalistico, la natura pubblica di tali società sulla base della sola veste giuridica. Ciò peraltro creava delle antinomie di non poco conto, in quanto se da un lato l’ente veniva considerato un soggetto di diritto privato, dall’altro però i suoi dipendenti ben potevano assumere la qualità di incaricati di pubblico servizio o di pubblici ufficiali.

L’evoluzione giurisprudenziale ha messo in evidenza l’inadeguatezza di tale approccio interpretativo, anche a fronte di una legislazione che non sempre consente di ricavare in maniera secca ed immediata la natura dell’ente. Per tali ragioni, si è affermato che allo scopo di individuare gli indici di riconoscimento dell’ente pubblico occorre far riferimento alla nozione di organismo pubblico, la quale avalla una lettura sostanzialistica, peraltro in piena conformità anche alle norme ed alla giurisprudenza di fonte europea.

Del resto, la concezione sostanzialistica è più coerente con la ratio delle norme penali, che è quella di evitare che attraverso l’impiego di particolari forme societarie per il perseguimento di interessi pubblici possano essere perpetrate condotte elusive dei sistemi di controllo e delle relative sanzioni, con ciò determinando un arretramento di tutela dell’interesse generale.

Posta così la questione, la Corte conclude affermando che anche un consorzio di enti pubblici locali, costituito per l’approvvigionamento di energia elettrica, sia un soggetto pubblico, come tale tenuto al rispetto della normativa in tema di gare ad evidenza pubblica.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    ex multis: Cass., sez. VI, 10 novembre 2015, n. 28299;
Cass., sez. VI, 12 novembre 2015, n. 6405;
Commissione c. Spagna; 15 maggio 2003, causa C-214/00
Difformi:      ex multis: Cass., sez. V, 5 aprile 2005, n. 38071;
Cass., sez. VI, 27 novembre 2012, n. 49759
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Furto in abitazione e presenza occasionale È escluso il reato di furto in abitazione, ex art. 624bis c.p., in caso di presenza meramente occasionale all’interno di un luogo di privata dimora o nelle sue pertinenze?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei, Consuelo Nicoletti e Francesca Ricci

 

La mera occasionalità della presenza all’interno del luogo di privata dimora o nelle sue pertinenze è insufficiente a configurare la fattispecie di furto in abitazione ex art. 624bis c.p. – Cass., sez. IV, 11 gennaio 2023, n. 3716.

Nel caso di specie il furto oggetto del ricorso aveva riguardato una caldaia a pellet posta all’interno del locale taverna sito al piano terra di una villetta sottoposta ad opera di ristrutturazione. La finalità per le quali l’agente si era introdotto nell’abitazione era quella di ristrutturare, su incarico del proprietario, l’immobile all’interno del quale si trovava il bene sottratto.

Le Sezioni Unite, già in precedenza chiamate a comporre il contrasto applicativo tra gli artt. 624 e 624bis c.p. avevano optato per una nozione molto rigorosa di privata dimora. Pertanto, ai fini della configurabilità del più grave reato previsto dall’art. 624bis c.p., rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale.

Alla stregua di tale rigorosa lettura, si è escluso che nella nozione rientrino, per esempio, i luoghi di lavoro, salvo che il fatto sia avvenuto all’interno di un’area riservata alla sfera privata della persona offesa, mentre vi rientrano quelli adibiti «in modo apprezzabile sotto il profilo cronologico allo svolgimento di atti della vita privata, non limitati questi ultimi soltanto a quelli della vita familiare e intima (propri dell’abitazione)», nonché i luoghi che, ancorché non destinati allo svolgimento della vita familiare o domestica, abbiano, comunque, le caratteristiche dell’abitazione.

Sono stati, così, evidenziati tre elementi necessari ai fini della sussistenza dell’ipotesi di reato in esame: a) l’utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività professionale e di lavoro in genere), in modo riservato ed al riparo da intrusioni esterne; b) la durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da mera occasionalità; c) la non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il consenso del titolare (così le S.U. 31345/2017).

La giurisprudenza successiva ha sottolineato l’irrilevanza che il fatto sia commesso in un’abitazione disabitata quando siano in corso dei lavori di ristrutturazione. Quello che viene in rilievo è, infatti, il rapporto di stabilità che lega il luogo fisico con la vita privata del titolare.

La dimora, quindi, deve possedere una concreta connotazione che la possa ricondurre alla vita del proprietario (Cass., sez. IV, 1782/2018).

Inoltre, ai fini della configurazione del furto in abitazione, è necessario che sussista il nesso finalistico, e non un mero collegamento occasionale, tra l’ingresso nell’abitazione e l’impossessamento della cosa mobile.

L’art. 624bis c.p. così recita: «Chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, mediante introduzione in un edificio o in un altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora o nelle pertinenze di essa».

L’espressione “mediante introduzione”, pertanto, deve essere letta nel senso che l’introduzione nell’edificio deve coincidere con il mezzo per commettere il reato. Non si tratta, infatti, della pura e semplice collocazione delle cose sottratte in determinati luoghi, uffici o stabilimenti, come diversamente avviene nelle circostanze aggravanti di cui all’art. 625, n. 6 e 7, c.p.

Deve sussistere un rapporto di strumentalità tra l’introduzione nell’edificio e l’azione predatoria posta in essere.

Viceversa, si avrà furto in abitazione quando l’introduzione nell’abitazione del soggetto passivo avvenga a seguito di consenso di quest’ultimo carpito con l’inganno (Cass., sez. V, 13582/2010), poiché la fattispecie incriminatrice dettata dall’art. 624bis richiama indubbiamente la sottostante condotta di violazione di domicilio, sanzionata dall’art. 614 c.p., norma che riguarda comportamenti di introduzione nell’altrui dimora, realizzati “con inganno” o “contro la volontà espressa o tacita di chi ha diritto di escluderlo”.

Nel caso concreto, la finalità per la quale l’agente si era introdotto nell’abitazione era quella di ristrutturare, su incarico del proprietario, l’immobile all’interno del quale si trovava il bene sottratto.

Per tali ragioni, la Suprema Corte di cassazione, con sent. 3716/2023, mancando il nesso finalistico necessario a configurare l’art. 624bis c.p., ha accolto parzialmente il ricorso proposto dal ricorrente e ha annullato la sentenza impugnata limitatamente alla qualificazione giuridica del fatto e rinviato alla Corte di appello di Perugia anche per la verifica della sussistenza della condizione di procedibilità ed eventuale rideterminazione della pena.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. S.U. 22 giugno 2017, n. 31345; Cass., sez. IV, 16 gennaio 2018, n. 1782;
Cass., sez. V, 1° aprile 2014, n. 21293
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Discarica abusiva e deposito incontrollato di rifiuti In quali casi ricorre il reato di discarica abusiva e non il differente illecito amministrativo di deposito incontrollato di rifiuti?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei, Consuelo Nicoletti e Francesca Ricci

 

In tema di deposito incontrollato di rifiuti, ove esso si realizzi con plurime condotte di accumulo, in assenza di attività di gestione, la distinzione con il reato di realizzazione di discarica non autorizzata si fonda principalmente sulle dimensioni dell’area occupata e sulla quantità di rifiuti depositati. – Cass., sez. III, 19 gennaio 2023, n. 4241.

Si può, quindi, affermare che in presenza di un’area vasta di occupazione e una ingente quantità di rifiuti eterogenei ivi depositati si configuri il reato di discarica abusiva.

Il problema che si era posto nel caso di specie riguardava se in assenza di un’attività di gestione dei rifiuti, in considerazione delle dimensioni dell’area occupata e della quantità di rifiuti depositata, la condotta potesse essere qualificata quale illecito amministrativo di deposito incontrollato di rifiuti, valutato anche che il ricorrente non era né titolare di imprese, né responsabile di enti. Considerato, inoltre, che i rifiuti erano ammassati in una sola porzione dell’area interessata.

A far presupporre che si trattasse di discarica abusiva gli elementi sintomatici del reato presi in considerazione sono stati: l’accumulo (più o meno sistematico) ma comunque non occasionale di rifiuti in un’area determinata, l’eterogeneità dei beni accantonati, la condizione di degrado dello stato dei luoghi, con evidente dismissione senza alcuna possibilità di riutilizzo.

La Terza sezione penale della Corte di cassazione, con la sent. 4214/2023, considera tutti i motivi di impugnazione manifestamente infondati. La corretta qualificazione del reato di discarica abusiva, configurata dai giudici della Corte d’Appello di Cagliari, può essere dedotta dalla trasformazione dello stato dei luoghi realizzata attraverso plurimi conferimenti di rifiuti di vario genere (lastre e frammenti di eternit, tubature in ferro, lavabi, sanitari dismessi, materiale plastico ferroso, pneumatici usati, materiale di risulta di cantieri edili e tegole ecc.) sparsi dappertutto e alla rinfusa sul fondo della proprietà per un’estensione complessiva di 500 mq.

Per la Giurisprudenza di legittimità, infatti, “ai fini della configurabilità del reato di realizzazione o gestione di discarica non autorizzata è sufficiente l’accumulo di rifiuti, per effetto di una condotta ripetuta, in una determinata area, trasformata di fatto in deposito, con tendenziale carattere di definitività, in considerazione delle quantità considerevoli e dello spazio occupato, essendo del tutto irrilevante che manchino delle attività di trasformazione, recupero o riciclo, proprie di una discarica autorizzata” (Cass., sez. III, 39027/2018; Cass., sez. III, 18399/2017; Cass., sez. III, 47501/2013; Cass., sez. III, 27296/2004).

Dunque, si può affermare che si ha discarica abusiva tutte le volte in cui, per effetto di una condotta ripetuta, i rifiuti vengono scaricati in una determinata area trasformata di fatto in deposito o ricettacolo di rifiuti con tendenziale carattere di definitività.

La realizzazione di una discarica può, quindi, effettuarsi attraverso il ripetitivo accumulo nello stesso luogo di sostanze oggettivamente destinate all’abbandono, o anche mediante un unico conferimento di ingenti quantità di rifiuti, che faccia assumere alla zona interessata l’inequivoca destinazione di ricettacolo di rifiuti. Diversamente, il deposito incontrollato di rifiuti si considera prodromico ad una successiva fase di smaltimento o di recupero del rifiuto stesso.

La gestione di una discarica si identifica, invece, in un’attività autonoma, successiva alla realizzazione della prima condotta, che può essere compiuta dallo stesso autore di quest’ultima o da altri soggetti.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. III, 10 giugno 2019, n. 25548; Cass., sez. III, 28 agosto 2018, n. 39027; Cass., sez. III, 11 aprile 2017, n. 18399
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Malpractice medica e danno da perdita capacità lavorativa Nei casi di malpractice sanitaria come agire in caso di danno da perdita di capacità lavorativa?

Quesito con risposta a cura di Enesia Ciampa, Giovanna de Feo, Giacomo Migliarini

 

Il danno alla capacità lavorativa specifica è di natura patrimoniale (lucro cessante) e riguarda una specifica attività in atto, mentre un danno alla capacità lavorativa generica non incide immediatamente sul reddito ed è una componente del danno biologico, non autonomamente liquidabile. – Cass. 20 gennaio 2023, n. 1752.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello con la quale i giudici di merito avevano condannato una struttura sanitaria al risarcimento dei danni da malpractice sanitaria nel corso di un parto, stabilendo un risarcimento per danno parentale a favore dei genitori e un risarcimento per danno patrimoniale per perdita da chance nei confronti del minore, tenendo conto della compromissione della capacità lavorativa.

Avverso la suddetta pronuncia è stato proposto ricorso per Cassazione, articolato in tre motivi di censura.

Con il primo motivo si eccepisce l’incompletezza della motivazione esposta in primo e secondo grado in merito al risarcimento del danno parentale. In particolare, la ricorrente sostiene che il danno riflesso dei parenti di una parte lesa deve essere qualificato come danno conseguenza, per cui deve essere allegato e provato. Inoltre, tale danno può essere riconosciuto soltanto nel caso in cui il congiunto danneggiato sia deceduto o abbia riportato lesioni di particolare gravità. Nel caso di specie, in base alla CTU, le lesioni riportate dal figlio minore erano di modesta entità.

Vi sarebbe stata, così, una palese violazione dell’orientamento costante nella giurisprudenza di legittimità in base al quale il risarcimento del danno da lesione del rapporto parentale richiede necessariamente la sussistenza di lesioni di particolare gravità e l’accertamento del danno provocato.

Con il secondo motivo di censura, la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1223 e 1226 c.c., essendo stato riconosciuto al minore un danno patrimoniale per lesione della capacità lavorativa specifica, qualificandolo però come danno patrimoniale da perdita di chance.

La ricorrente osserva che il danno alla capacità lavorativa specifica è di natura patrimoniale (lucro cessante) ed attiene ad una specifica attività, mentre il danno alla capacità lavorativa generica non incide immediatamente sul reddito ed è una componente del danno biologico, non liquidabile autonomamente.

Nel caso di specie il consulente tecnico d’ufficio ha riferito di alcune limitazioni di attività che sarebbero soltanto teoriche, per cui rientrerebbero nel danno non patrimoniale biologico qualificandole come limitazioni della capacità lavorativa generica. Pertanto, vi sarebbe stata una violazione di legge avendo la Corte di Appello concesso il risarcimento del danno “per una compromissione dell’attività lavorativa” non accertata però dal consulente tecnico.

Infine, con il terzo motivo di ricorso, si eccepisce nullità della sentenza per violazione degli artt. 100 e 112 c.p.c. per mancanza della domanda di risarcimento della perdita di chance, avendo i giudici di appello riqualificato il danno come perdita di chance.

Del resto, la chance è un’entità patrimoniale la cui domanda di risarcimento va espressamente proposta, non essendo sufficiente chiedere nell’atto introduttivo il risarcimento di tutti i danni.

Pertanto, alla luce di tali osservazioni, la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il primo motivo, mentre i residui due motivi vanno accolti nei limiti evidenziati con conseguente cassazione in relazione della sentenza impugnata e rinvio alla Corte di Appello in diversa composizione.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. III, 30 agosto 2022, n. 25541; Cass., sez. III, ord. 8 aprile 2020, n. 7748; Cass., sez. III, ord. 24 aprile 2019, n. 11212
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Responsabilità medica per omessa informazione terapie alternative Come accertare la responsabilità del medico a seguito di un intervento lesivo in caso di omessa informazione al paziente su tecniche terapeutiche alternative?

Quesito con risposta a cura di Enesia Ciampa, Giovanna de Feo, Giacomo Migliarini

 

In caso di omessa informazione da parte del medico al paziente sulle alternative terapeutiche, per condannare la struttura sanitaria al risarcimento del danno, è necessario accertare l’esistenza di un nesso causale intercorrente tra la suddetta condotta omissiva e il danno riportato dal paziente. In particolare, per affermare che l’omessa informazione fu causa materiale dell’evento dannoso occorre ricostruire il nesso di condizionamento fra l’omessa informazione e l’evento di danno attraverso un giudizio controfattuale. – Cass. 23 gennaio 2023, n. 1936.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sull’accertamento del nesso di causalità nell’ambito della responsabilità sanitaria, in particolare nel caso di omessa informazione da parte del medico nei confronti del paziente su delle tecniche terapeutiche alternative.

In primo e secondo grado la struttura sanitaria era stata condannata al risarcimento dei danni subiti da un paziente a seguito di un intervento chirurgico. I giudici di merito avevano ravvisato la responsabilità del medico sostenendo che, pur essendo stato l’intervento eseguito in maniera corretta e diligente, egli non aveva provveduto ad informare il paziente circa la possibilità di ricorrere ad una diversa e più moderna tecnica terapeutica, la quale avrebbe certamente evitato l’insorgere delle complicanze che si sono poi verificate.

La struttura sanitaria propone, così, ricorso per Cassazione eccependo l’erronea valutazione da parte dei giudici di merito del nesso di causalità intercorrente tra la condotta del medico e i danni subiti dal paziente.

La Suprema Corte ritiene la censura fondata, individuando nella sentenza impugnata una violazione dei principi delineati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di causalità materiale.

I giudici di merito hanno individuato quale unico profilo di colpa nella condotta del medico l’omessa informazione al paziente sull’esistenza di tecniche terapeutiche alternative. Pertanto, per pervenire ad una condanna della struttura sanitaria al risarcimento del danno, sarebbe stato necessario accertare il nesso causale tra tale omissione e la verificazione del danno patito dal paziente.

Tale giudizio non è stato effettuato dalla Corte d’Appello la quale si è limitata ad affermare che la tecnica terapeutica alternativa di cui il paziente non è stato informato avrebbe evitato l’evento, e di conseguenza, la condotta omissiva del medico è stata causa dei danni riportati dal paziente.

Bisognava, invece, accertare, attraverso un giudizio controfattuale, l’esistenza del nesso di causalità tra l’omessa informazione e l’evento di danno. Occorreva verificare, altresì, con giudizio di probabilità logica, quale scelta avrebbe fatto il paziente qualora fosse stato informato della possibilità di ricorrere ad una tecnica terapeutica alternativa rispetto a quella utilizzata.

Dunque, non avendo i giudici di merito proceduto a tale accertamento, limitandosi ad affermare che la tecnica alternativa avrebbe evitato l’evento, e che, pertanto, la condotta omissiva del medico fu causa del danno, la Corte di Cassazione ha ritenuto opportuno cassare la sentenza rinviando alla Corte d’appello per l’accertamento dell’eventuale sussistenza del nesso causale tra la violazione della regola cautelare e l’evento dannoso.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Corte cost. 23 dicembre 2008, n. 438; Cass., sez. III, 11 novembre 2019, n. 28985
giurista risponde

Migliorie del coerede e rimborso spese Il coerede che apporta delle migliorie al bene comune ha diritto al rimborso delle spese sostenute?

Quesito con risposta a cura di Enesia Ciampa, Giovanna de Feo, Giacomo Migliarini

 

Il coerede, il quale abbia apportato miglioramenti al bene ereditario da lui posseduto, non può invocare la disciplina dell’art. 1150 c.c. – la quale attribuisce al terzo possessore di buona fede una indennità pari all’aumento di valore della cosa per effetto dei miglioramenti – ma, quale mandatario o utile gestore degli altri compartecipi alla comunione ereditaria, ha unicamente il diritto di essere rimborsato delle spese fatte per la cosa comune, dal momento che lo stato di indivisione riconduce all’intera massa i miglioramenti apportati dal coerede; ne consegue che al momento dell’attribuzione delle quote l’apporto si ripartisce, insieme con le spese, tra i vari condividenti, secondo il principio nominalistico. – Cass., sez. VI, 17 gennaio 2023, n. 1207.

Il coerede, che sul bene comune da lui posseduto abbia apportato delle migliorie, può pretendere il rimborso delle spese sostenute, ex art. 1110 c.c., in sede di divisione. Non può, invece, secondo consolidato orientamento della Cassazione, chiedere un’indennità pari all’aumento del valore della cosa, in base all’art. 1150 c.c.

In applicazione di questo principio, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso proposto dal comunista che aveva apportato migliorie all’immobile in cui abitava, riconoscendogli il diritto, in sede di divisione, ad ottenere il rimborso dagli altri coeredi per le spese sostenute.

La comunione ereditaria è la situazione di contitolarità sui beni indivisi del de cuius che si perfeziona al momento dell’accettazione del patrimonio ereditario. Con la divisione, che può essere consensuale, testamentaria o giudiziale, i beni indivisi vengono ripartiti ed attribuiti a ciascun erede.

Prima di tale momento, tutti i comunisti hanno il diritto di concorrere nell’amministrazione della cosa in comune che deve essere gestita collettivamente. In ragione di ciò, se il coerede apporta dei miglioramenti al bene da lui posseduto non potrà invocare la disciplina di cui all’art. 1150 c.c. che riconosce al terzo possessore in buona fede una indennità pari all’aumento del valore della cosa per effetto del proprio intervento. Egli avrà, però, diritto, in qualità di mandatario degli altri compartecipi o utile gestore della comunione ereditaria, al rimborso delle spese sostenute (così anche Cass., sez. II, 17 luglio 2020, n. 15300).

Solo per i debiti di valore, al momento della liquidazione, viene riconosciuta la rivalutazione monetaria della somma da corrispondere al creditore. Pertanto, essendo l’obbligo di rimborso classificabile quale debito di valuta, in sede di determinazione del quantum da attribuire al comunista creditore, la somma non sarà sottoposta a maggiorazione in base alla rivalutazione del valore del bene (in tal senso anche Cass., sez. II, 21 dicembre 2019, n. 5135).

Tale diritto sorge anche nel caso di utilizzo esclusivo dell’immobile prima della divisione, dato che i miglioramenti apportati, per il principio di accessione, accrescono il valore del bene in comunione e se ne deve tenere conto ai fini della stima dello stesso, per la determinazione delle quote e la liquidazione dei conguagli. Rientrano nella nozione di “migliorie” quelle opere che abbiano accresciuto il godimento, la produttività e la redditività del bene, senza presentare una propria individualità rispetto alla “res” in cui vanno ad incorporarsi.

Quindi, il partecipante che, “in caso di trascuranza degli altri”, ex art. 1110 c.c., abbia sostenuto le spese necessarie per la conservazione della cosa comune, potrà rivolgersi a ciascuno degli altri coeredi per ottenere il rimborso in proporzione alle rispettive quote, fatta salva la quota di spesa di sua personale spettanza, che resterà a suo carico (sul punto si veda Cass., sez. II, 11 settembre 2013, n. 20841).

Concludendo, la Cassazione riconosce tale diritto al comunista, confermando il precedente indirizzo che configura come debito di valuta la somma spettante a colui che abbia apportato miglioramenti alla massa ereditaria e, cassando l’ordinanza impugnata, rinvia alla Corte di Appello, in diversa composizione, per una decisione che tenga conto del principio di diritto affermato in sede di legittimità

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. II, 17 luglio 2020, n. 15300; Cass., sez. II, 21 dicembre 2019, n. 5135; Cass., sez. II, 11 settembre 2013, n. 20841
giurista risponde

Iscrizione ipotecaria beni coniuge obbligato mantenimento Il giudice ha il potere di sindacare nel merito l’iscrizione ipotecaria sui beni immobili del coniuge obbligato al mantenimento, al fine di verificare la sussistenza del pericolo di inadempimento?

Quesito con risposta a cura di Enesia Ciampa, Giovanna de Feo, Giacomo Migliarini

 

In tema di iscrizione ipotecaria, il giudice avanti al quale è proposta una istanza di cancellazione dell’ipoteca, disposta ai sensi dell’art. 156, comma 5, c.c., è tenuto a verificare la sussistenza o meno del pericolo di inadempimento dell’obbligato e a disporre, in mancanza, l’emanazione del corrispondente ordine di cancellazione, ai sensi dell’art. 2884 c.c. – Cass., Sez. I, 16 gennaio 2023, n. 1076.

L’ipoteca è un diritto reale di garanzia che riconosce al creditore il potere di espropriazione e di soddisfazione, con preferenza, rispetto agli altri creditori (art. 2808 c.c.). Viene definita giudiziale l’ipoteca che abbia il proprio titolo in una sentenza di condanna (art. 2818 c.c.).

Con specifico riguardo ai procedimenti di separazione e divorzio, rispettivamente l’art. 156, comma 5, c.c. e l’art. 8, comma 2, della L. 898/1970 recano l’iscrizione ipotecaria giudiziale sui beni del soggetto obbligato.

La pronuncia in esame scaturisce dal contrasto, sorto in giurisprudenza, tra l’orientamento, seguito da numerose Corti di merito, che predilige un’interpretazione letterale delle norme sopra indicate e l’orientamento, prevalso in sede di legittimità, che ritiene opportuno leggere sistematicamente le disposizioni in commento.

In particolare, la Corte di Appello, nel caso di specie, aderisce all’indirizzo minoritario, sostenendo che tali norme non richiedano espressamente una valutazione preventiva circa la pericolosità attuale o potenziale dell’inadempimento. Alla stregua di tale indirizzo, l’ex coniuge creditore può iscrivere ipoteca giudiziale sui beni del soggetto obbligato al mantenimento dei figli minori, in forza, sic et sempliciter, della sentenza che ne costituisce il titolo, senza che sia necessariamente sussistente il periculum di inadempimento.

Ciò in perfetta coerenza con l’art. 2818 c.c. secondo cui ogni sentenza che porta la condanna al pagamento di una somma o all’adempimento di altra obbligazione, ovvero al risarcimento dei danni da liquidarsi successivamente, è titolo per iscrivere ipoteca.

L’unico rimedio a disposizione del debitore potrebbe essere quello di chiedere al giudice una riduzione dell’ipoteca nel caso di iscrizione per un valore eccedente rispetto all’ammontare complessivo del mantenimento da garantire.

Il secondo orientamento, cui aderisce la Corte di Cassazione, dando spazio ad un’interpretazione sistematica delle norme in commento, ritiene che il giudice, avanti al quale è stata proposta istanza di cancellazione dell’ipoteca, sia tenuto a verificare la sussistenza del pericolo di inadempimento dell’obbligato e a disporre, in mancanza, l’emanazione dell’ordine di cancellazione.

Sia l’art. 156 c.c. che l’art. 8 della legge sul divorzio, elencano, infatti, una serie di rimedi parametrati all’entità dell’inadempimento: il sequestro scaturisce dalla inadempienza effettiva, l’iscrizione ipotecaria, invece, può essere imposta dal giudice nel caso in cui esista il pericolo che il coniuge possa sottrarsi all’adempimento degli obblighi di mantenimento.

L’opposto orientamento esporrebbe il debitore ad abusi da parte del creditore che, al fine di assicurare l’adempimento al credito, potrebbe decidere di effettuare l’iscrizione ipotecaria in via preventiva sui beni dell’ex coniuge.

Lobbligazioni derivanti dai provvedimenti di famiglia sono solitamente periodiche e destinate a durare per un numero elevato di anni, per cui un’iscrizione ad ipoteca che non abbia l’effettiva funzione di garantire il credito, per mancanza del pericolo, potrebbe piuttosto diventare solo un vincolo perpetuo ed eccessivo per i beni del debitore.

Se l’intento del legislatore, nella previsione di molteplici rimedi all’inadempimento, è quello di tutelare il beneficiario dell’assegno, che ha diritto alla corresponsione delle somme determinate dalla sentenza, dall’altro non può non tutelarsi anche la posizione del debitore, il cui patrimonio potrebbe soggiacere, qualora si aderisse all’orientamento dei giudici di merito, ad un’iscrizione ipotecaria perpetua, senza alcun fondamento pratico.

Per tale motivo la valutazione del creditore circa la sussistenza di siffatto pericolo è sindacabile nel merito, onde la relativa mancanza, originaria o sopravvenuta, determina l’estinzione della garanzia e la nascita del diritto del debitore ad ottenere dal giudice l’ordine di cancellazione.

Alla luce delle considerazioni esposte, il Supremo Consesso ha accolto il ricorso e cassato la sentenza impugnata che, aderendo all’orientamento minoritario, aveva disposto l’iscrizione ipotecaria senza alcun apprezzamento circa il rischio che il ricorrente potesse sottrarsi o meno all’adempimento stesso.

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Trib. Milano 18 giugno 2009, n. 7941; Cass., sez. I, 6 luglio 2004, n. 12309
Difformi:      Corte App. Firenze, sez. II, 25 febbraio 2017; Corte App. Milano, 18 maggio 2020, n. 1154
giurista risponde

Decreto ingiuntivo supercondominio L’amministratore di un supercondominio può ottenere un decreto ingiuntivo per la riscossione degli oneri condominiali, unicamente nei confronti di ciascun partecipante, oppure può agire direttamente nei confronti dell’amministratore del singolo condominio?

Quesito con risposta a cura di Enesia Ciampa, Giovanna de Feo, Giacomo Migliarini

 

In presenza di un supercondominio ciascun condomino è obbligato a contribuire alle spese per la conservazione e per il godimento delle parti comuni e per la prestazione dei servizi comuni a più condomini di unità immobiliari o di edifici, in misura proporzionale al valore millesimale della proprietà del singolo partecipante, sicché l’amministratore del supercondominio può ottenere un decreto ingiuntivo per la riscossione degli oneri condominiali, ai sensi dell’art. 63, comma 1, disp. att. c.c., unicamente nei confronti di ciascun partecipante, mentre è esclusa un’azione diretta nei confronti dell’amministratore del singolo condominio in rappresentanza dei rispettivi condomini per il complessivo importo spettante a quest’ultimi. – Cass., sez. II, 16 gennaio 2023, n. 1141.

Nel caso di specie la Suprema Corte è chiamata a valutare se l’amministratore di un supercondominio possa ottenere il decreto ingiuntivo nei confronti dell’amministratore di un singolo condominio in rappresentanza dei rispettivi condomini e per l’importo globale delle somme oppure abbia l’obbligo di agire unicamente verso ogni singolo condomino.

Segnatamente, la vicenda processuale trae origine dall’opposizione a decreto ingiuntivo promossa dall’amministratore di un condominio – rientrante, a sua volta, in un supercondominio – il quale contestava la legittimità dell’ingiunzione di pagamento delle spese condominiali intimatagli dall’amministratore del supercondominio in virtù della mancanza, in capo a sé, della qualifica di condomino. Il Tribunale, chiamato a pronunciarsi sul caso, confermava il decreto ingiuntivo opposto, rilevando che l’opponente era effettivamente un condomino e che, in quanto tale, avrebbe dovuto far valere le proprie ragioni attraverso una tempestiva impugnazione della delibera assembleare posta alla base del decreto ingiuntivo. Sulla stessa linea, anche la Corte di Appello, pur dichiarando inammissibile il ricorso ai sensi dell’art. 348bis c.p.c., accertava la presenza del condominio nel supercondominio.

L’amministratore di condominio, dunque, interponeva ricorso per Cassazione avverso la pronuncia di primo grado, affidato a due motivi inerenti all’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e alla violazione e falsa applicazione di tredici norme di diritto, senza però, come afferma la Suprema Corte, dimostrare come le affermazioni contenute in sentenza fossero con queste contrastanti.

Nel dettaglio, con i due motivi di ricorso, analizzate le regole sul funzionamento del supercondominio, il ricorrente ribadiva che il condominio non fosse parte integrante il supercondominio: non esiste un rapporto di natura reale fra condominio e supercondominio in grado di escludere l’emissione di un decreto ingiuntivo ex art. 63 disp. att. c.c. in favore di quest’ultimo, stante la carenza della qualità di “condomino” in capo al ricorrente.

La Suprema Corte, in accoglimento del ricorso, si sofferma su alcuni interessanti profili giuridici riguardanti la soluzione della quaestio iuris e il rapporto tra condominio e supercondominio.

Anzitutto, benché il ricorrente non abbia specificamente argomentato in relazione ad alcun contrasto fra le norme richiamate e le affermazioni contenute nella sentenza gravata, la Corte ha ritenuto di dover comunque analizzare la fondatezza dei motivi di ricorso nell’esercizio del proprio potere di qualificazione in diritto della domanda definita e dei fatti già accertati nelle fasi di merito, individuando la questione giuridica nella verifica della sussistenza di una, legittimazione del supercondominio ad intimare all’amministratore di un condominio, a mezzo didecreto ingiuntivo, il versamento dei contributi non pagati dai singoli condomini.

Prima di entrare nel merito della questione giuridica, il Collegio ritiene doveroso svolgere due premesse: la prima riguardante la corretta individuazione della causa petendi in riferimento al contenuto della pronuncia impugnata; la seconda inerente all’impossibilità di estendere degli effetti del giudicato nei confronti dei singoli condomini ove non siano stati citati in giudizio.

Con riferimento alla prima considerazione, i giudici di legittimità rilevano che il Tribunale ha circoscritto l’oggetto del giudizio alla legittimazione passiva del condominio rispetto all’ingiunzione di pagamento ai sensi dell’art. 63 disp. att. c.c. richiesta dal supercondominio, sottolineando che la deliberazione assembleare alla base del decreto ingiuntivo non era stata impugnata ex art. 1137 c.c. dal ricorrente. Quanto precede produce un’inevitabile conseguenza anche in ordine alla seconda premessa: infatti, nel giudizio di opposizione volto alla riscossione dei contributi condominiali attivato unicamente contro l’amministratore, le questioni inerenti all’appartenenza o meno di una o più unità immobiliari di proprietà esclusiva ad un condominio, nonché la titolarità comune o individuale di una porzione dell’edificio costituiscono accertamenti meramente incidentali privi di efficacia di giudicato nei confronti dei diritti reali dei singoli condomini, i quali, per subirne gli effetti, dovrebbero essere legittimati passivi e litisconsorti necessari nel medesimo giudizio. Ne deriva che la statuizione del Tribunale relativa all’appartenenza di parti del condominio al supercondominio non può essere spesa in altre liti fra le stesse parti.

Compiute queste doverose premesse, la Suprema Corte richiama un proprio consolidato orientamento giurisprudenziale, formatosi per quelle fattispecie – come quella de quo – per cui non sono applicabili gli artt. 1117bis c.c. e 67 disp. att. c.c. commi 3 e 4, introdotti dalla L. 220/2012, in base al quale il c.d. supercondominio viene in essere “ipso iure et facto, ove il titolo non disponga altrimenti, in presenza di beni o servizi comuni a più condomìni autonomi, da cui rimane distinto. Da ciò deriva che il potere degli amministratori di ogni condominio di compiere gli atti indicati dagli artt. 1130 e 1131 c.c. è limitato alla facoltà di agire o resistere in giudizio con riferimento ai soli beni comuni all’edificio amministrato e non a quelli facenti parte del complesso immobiliare composto da più condomìni, che deve essere gestito unicamente attraverso le deliberazioni e gli atti assunti dai propri organi, quali l’assemblea di tutti i proprietari e l’amministratore del supercondominio, ove sia stato nominato (da ultimo Cass., sez. II, 20 dicembre 2021, n. 40857 e Cass., sez. II, 28 gennaio 2019, n. 2279).

La Corte sottolinea anche come recente giurisprudenza (Cass., sez. II, ord. 22 luglio 2022, n. 22954), si sia già pronunciata in merito ad analoga fattispecie ed abbia affermato come legittimati passivi al pagamento delle quote relative ai beni avvinti da vincolo supercondominiale siano non tanto i condomìni, quanto i singoli condòmini.

Ed è proprio sulla scorta di questa pronuncia che il Collegio si esprime.

Nello specifico, dopo aver richiamato il contenuto degli artt. 1118, 1123 c.c. e 67, comma 3 e 68 disp. att. c.c., afferma come, in presenza di un supercondominio trovano applicazione le disposizioni di cui al Libro Terzo, Titolo VII, Capo II, del codice civile, secondo le quali ciascun condomino ha l’obbligo di contribuire alle spese per la conservazione e il godimento delle parti comuni e per la prestazione dei servizi comuni a più condominii di unità immobiliari o di edifici in misura proporzionale al valore millesimale della proprietà del singolo partecipante. Nell’ipotesi in cui tale obbligo contributivo non venga adempiuto, l’amministratore del supercondominio può ottenere l’emissione di un decreto ingiuntivo volto alla riscossione dei suddetti contributi unicamente nei confronti di ciascun condomino per quanto da questo singolarmente dovuto, mentre, conclude la Corte, è esclusa ogni azione diretta verso l’amministratore del condominio in rappresentanza dei rispettivi condomini per l’importo globale delle somme da loro individualmente dovute.

Di qui l’accoglimento del ricorso e la cassazione della sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello, la quale dovrà attenersi al principio evidenziato in massima.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. II, 22 luglio 2022, n. 22954