non punibile chi copia

Non punibile chi copia senza citare la fonte Non punibile chi copia senza menzionare la fonte da cui ha attinto e chi offende  su Facebook se i fatti sono particolarmente tenui

Particolare tenuità del fatto per chi copia

Non punibile chi copia senza citare la fonte da cui ha attinto e chi rivolge frasi ingiuriose alla persona offesa su Facebook se i fatti si caratterizzano per la particolare tenuità prevista dall’art. 131 bis c.p. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 39647/2024.

Imputati assolti per particolare tenuità dei fatti commessi

La Corte d’appello riformando la sentenza di primo grado assolve uno degli imputati dal reato previsto dall’articolo 171 della legge n. 633/1941. Il soggetto agente è stato ritenuto responsabile di avere trascritto e diffuso senza autorizzazione e senza citare la fonte la parte di un libro, opera dell’ingegno tutelata dalla normativa sul diritto d’autore. L’imputata invece è stata assolta “per la particolare tenuità del fatto” dal reato di cui all’art. 595 commi 1 e 3. La stessa è stata accusata di aver offeso la persona offesa su Facebook rivolgendole frasi ingiuriose. La sentenza revoca inoltre le statuizioni civili del giudice di primo grado con cui aveva condannato le parti a risarcire la parte civile con l’importo complessivo di 5.500,00 euro.

Errato ritenere non punibile chi copia e chi offende

La parte civile ricorre la decisione in Cassazione lamentando principalmente l’applicazione della causa di non punibilità prevista dall’articolo 131 bis c.p e contestando la revoca delle statuizioni civili.

Assoluzione per particolare tenuità

La Cassazione però ritiene inammissibile l’impugnazione della parte civile relativa alla concessione agli imputati del beneficio della non punibilità per la particolare tenuità del fatto.

Per la S.C. il ricorso della parte civile è inammissibile per carenza di interesse considerato che il pubblico ministero non ha impugnato la sentenza che ha dichiarato la non punibilità per particolare tenuità del fatto. La statuizione della non punibilità non produce infatti alcun effetto pregiudizievole per il danneggiato nel giudizio civile in base a quanto sancito dall’articolo 652 bis c.p.p Il comma 1 di questa norma dispone infatti che: “La sentenza penale irrevocabile di proscioglimento pronunciata per particolare tenuità del fatto in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del prosciolto e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale.”

 

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posti auto condominio

Posti auto condominio Posti auto condominio: chi ne ha diritto, come si assegnano i parcheggi, cosa fare in caso di occupazione abusiva

Parcheggio in condominio, quali sono le regole

La disciplina dell’utilizzo dei posti auto in condominio rappresenta un tema molto dibattuto, poiché nel codice civile non si rinvengono norme che regolino esplicitamente la materia.

Per tale motivo, per comprendere la disciplina dei parcheggi in condominio è necessario riferirsi alle norme di carattere generale che regolano la gestione del condominio (e in particolare quelle che riguardano l’utilizzo dei beni comuni). E ad alcuni particolari provvedimenti legislativi che hanno individuato dei parametri tecnici a cui fare riferimento.

Chi ha diritto al parcheggio condominiale?

Per prima cosa, va evidenziato che l’art. 1117 c.c. ricomprende espressamente tra le parti comuni dell’edificio le aree destinate a parcheggio.

Pertanto, i posti auto condominio ricadono nella disciplina generale prevista dall’art. 1102 c.c. Tale norma, dettata in tema di comunione (e, quindi, applicabile anche in materia condominiale) prescrive che ogni comproprietario  ha diritto di servirsi della cosa comune, a condizione di non alterarne la destinazione e di non impedire agli altri comproprietari di farne uso a loro volta.

Ecco, pertanto, emergere il primo, importante aspetto relativo alla disciplina dei parcheggi condominiali. A prescindere dalla quantità di posti auto presenti nell’edificio (che potrebbe ben essere inferiore al numero di abitazioni), ogni condomino ha diritto di servirsene, purché rispetti la destinazione propria dell’area di sosta (e non la usi, quindi, per scopi diversi: ad esempio, come zona di deposito) e non ne ostacoli l’utilizzo da parte degli altri condomini.

È evidente che, in tutti quei casi in cui il numero di posti auto non risulti sufficiente per soddisfare le necessità di tutti i residenti, si pone il problema di regolare l’utilizzo degli stessi.

Ebbene, cominciamo col dire che il compito di individuare le modalità di utilizzo dei posti auto spetta all’amministratore, in ossequio a quanto previsto dall’art. 1130 c.c. comma primo n. 2, secondo il quale l’amministratore deve “disciplinare l’uso delle cose comuni e la fruizione dei servizi nell’interesse comune”.

Come vengono assegnati i posti auto in un condominio

Detto questo, la pratica insegna che il criterio più di frequente adottato per regolare l’utilizzo dei posti auto condominiali, quando questi siano insufficienti rispetto alle abitazioni, sia la turnazione.

Sta all’assemblea stabilire le modalità di dettaglio della turnazione, a cominciare dalla periodicità della stessa (ad es. settimanale, mensile od annuale.

A tale riguardo, è sufficiente una delibera adottata con la maggioranza prevista dall’art. 1136 comma secondo (maggioranza dei presenti che rappresenti una quota pari ad almeno metà del valore dell’edificio), dal momento che si tratta di una decisione che non viola i diritti esclusivi di alcun condomino e che non introduce alcuna innovazione, limitandosi a disciplinare l’uso di una cosa comune.

Cosa fare se un condomino parcheggia negli spazi comuni

Un breve accenno merita il caso pratico, abbastanza ricorrente nella vita quotidiana, relativo all’occupazione del posto auto condominiale da parte di chi non ne ha diritto, ad esempio da parte di un condomino che non rispetti la suddetta turnazione.

In tal caso, non è alla forza pubblica che bisogna rivolgersi, quanto all’amministratore di condominio, il quale potrà far leva non solo su eventuali sanzioni previste dal regolamento condominiale, ma anche sulla configurabilità del reato di violenza privata ex art. 610 c.p. (cfr. la recente sentenza n. 27559 del 26 giugno 2023 della Corte di Cassazione penale).

In aggiunta, il condomino può far valere le proprie ragioni chiedendo al Giudice competente il rilascio di un provvedimento di urgenza o di intervenire in via cautelare.

Posti auto condominio: legge ponte e legge Tognoli

Infine, va ricordato che la materia dei posti auto in condominio è stata oggetto anche di legislazione tecnica.

Legge ponte

A cominciare dalla c.d. “legge ponte” (legge n. legge 765 del 1967, modificativa della l. 1150/1942), in base alla quale in ogni edificio deve essere presente almeno un metro quadro di parcheggio ogni dieci metri cubi di fabbricato.

A tal riguardo, la giurisprudenza – con qualche oscillazione – ha evidenziato la natura pertinenziale di tali posti auto rispetto all’unità immobiliare, nel senso che, sebbene il proprietario possa vendere l’abitazione indipendentemente dal posto auto, all’acquirente va riconosciuto il diritto reale d’uso dell’area stessa. Rimane esclusa da questo regime, e quindi può essere venduta liberamente, l’area di parcheggio realizzata in periodo antecedente alla “legge ponte” ed ogni area realizzata in misura eccedente rispetto alla necessità dell’edificio (quindi nei fabbricati che prevedono un numero di posti auto maggiore rispetto a quello delle abitazioni).

Legge Tognoli

Un altro importante provvedimento in materia è la c.d. legge Tognoli (legge n. 122 del 1989), che incentivò la creazione di posti auto in edifici ove l’area di parcheggio non era originariamente prevista o era prevista in misura insufficiente per le necessità delle rispettive abitazioni. Anche tali aree, per orientamento prevalente della giurisprudenza, sono da considerarsi quali pertinenze delle unità immobiliari ivi esistenti.

responsabilità disciplinare avvocato

Responsabilità disciplinare avvocato per culpa in vigilando La responsabilità disciplinare dell’avvocato per culpa in vigilando si configura anche in assenza di dolo specifico o generico

Responsabilità disciplinare avvocato

Non servono il dolo specifico o generico per l’addebito della responsabilità disciplinare avvocato. A rilevare è la volontarietà dell’azione o dell’omissione, anche quando l’omissione si riferisce all’obbligo di controllare l’operato dei propri dipendenti o collaboratori. E’ quindi responsabile l’avvocato che, alla riscossione del compenso, non fa seguire la immediata o tempestiva fatturazione. Il legale pertanto, a sua discolpa, non può affermare che l’omessa fatturazione è imputabile a malintesi di segreteria. Lo ha affermato il CNF nella sentenza n. 219/2024.

Omessa fatturazione dopo la riscossione dei compensi

Due avvocati vengono sottoposti a procedimento disciplinare e tra le varie incolpazioni, vengono ritenuti responsabili di aver incassato compensi per l’importo di 68. 500,00 euro senza il rilascio delle regolari fatture. Il Consiglio distrettuale di disciplina applica a uno dei due professionisti la sanzione della censura, all’altro la sospensione dall’attività per 8 mesi.

I due legali ricorrono innanzi al CNF e si difendono dall’accusa della mancata emissione delle fatture sostenendo tra l’altro che “i documenti fiscali non sono stati emessi per “malintesi di segreteria” e che dunque difetta l’elemento soggettivo del reato in capo all’avvocato che, per ragioni contabili e fiscali, avrebbe dovuto provvedere alla contabilizzazione e alla fatturazione. Lo stesso evidenzia inoltre, come la condotta non sia a lui imputabile anche in ragione del tempo trascorso, che rende impossibile reperire tutti i documenti fiscali emessi, conservati presso il proprio commercialista.

Non serve il dolo basta la volontarietà dell’omissione

Il CNF ritiene infondati i motivi di doglianza che l’avvocato espone in ordine alla contestazione della mancata emissione delle fatture relative ai compensi incassati. Per il CNF non rileva l’eventuale attribuzione dell’illecito della omissione della fatturazione alla segreteria dello Studio legale. Per costante giurisprudenza “l’attribuzione a dimenticanza della segretaria della omessa fatturazione della somma indicata nella ricevuta rilasciata al cliente non muta la valutazione disciplinarmente rilevante del comportamento dell’avvocato come lesivo del dovere di vigilanza e di diligenza, cui è tenuto l’esercente la professione legale su collaboratori e dipendenti del proprio studio.”

Il CNF precisa che per ritenere un libero professionista responsabile della violazione, ai fini dell’addebito disciplinare non è necessario che lo stesso lo abbia commesso con dolo specifico o con dolo generico. Ciò che rileva è la volontarietà con cui l’atto è stato commesso od omesso, anche quando l’azione o l’omissione si configuri nel mancato adempimento dell’obbligo di controllare il comportamento dei dipendenti o dei collaboratori. “Il mancato controllo costituisce, infatti, piena e consapevole manifestazione della volontà di porre in essere una sequenza causale che in astratto potrebbe dar vita ad effetti diversi da quelli voluti, che però ricadono sotto forma di volontarietà sul soggetto che avrebbe dovuto vigilare e non lo ha fatto”.

Fatturazione immediata o tempestiva

Non rileva neppure l’affermato, ma non dimostrato, tentativo di adempiere a tale obbligo tardivamente o di voler rimediare all’omissione della fatturazione con il ravvedimento operoso all’Agenzia delle Entrate. Diverse norme del Codice deontologico, come l’art. 16 e 29 e l’art. 15 del cod. previdenziale prevedono che l’avvocato abbia l’obbligo di emettere la fattura tempestivamente e contestualmente alla riscossione dei compensi. L’eventuale ritardo con cui l’avvocato provvede a tale adempimento non viene preso in considerazione dal Codice deontologico. Il tutto senza dimenticare che “la violazione di tale obbligo costituisce illecito permanente, sicché la decorrenza del termine prescrizionale ha inizio dalla data della cessazione della condotta omissiva.”

 

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codice rosso

Codice Rosso: ok a braccialetto elettronico e a distanza minima La Corte Costituzionale ha legittimato le nuove disposizioni sul divieto di avvicinamento nei reati di genere, ossia l'obbligo di braccialetto elettronico e la distanza minima di 500 metri dalla persona offesa

Codice Rosso e divieto di avvicinamento

Codice Rosso: la Consulta ha dichiarato infondati i dubbi sulla distanza minima di 500 metri e sull’obbligo di braccialetto elettronico, chiarendo però che l’impossibilità tecnica del controllo remoto non può risolversi in un automatismo cautelare a sfavore dell’indagato.

Le qlc sull’art. 282-ter, commi 1 e 2, c.p.p.

Con la sentenza n. 173, depositata oggi, 4 novembre 2024, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal GIP del Tribunale di Modena, in riferimento agli artt. 3 e 13 Cost., nei riguardi dell’art. 282-ter, commi 1 e 2, cod. proc. pen., come modificato dalla legge n. 168 del 2023 (“nuovo codice rosso”).

Il rimettente ha censurato tali modifiche normative, inerenti la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, poiché esse, prescrivendo la distanza minima di 500 metri e l’applicazione obbligatoria del braccialetto elettronico, avrebbero reso la misura stessa troppo rigida, in contrasto con il principio di individualizzazione e con la riserva di giurisdizione in materia di restrizione della libertà personale, avendo inoltre la novella stabilito che, qualora l’organo di esecuzione accerti la «non fattibilità tecnica» del controllo remoto, il giudice debba imporre l’applicazione, anche congiunta, di ulteriori misure cautelari, anche più gravi.

Braccialetto elettronico e distanza minima

La Corte ha sottolineato che il braccialetto elettronico è un importante dispositivo funzionale alla tutela delle persone vulnerabili rispetto ai reati di genere, e che la distanza minima di 500 metri corrisponde alla finalità pratica del tracciamento di prossimità, quella di dare uno spazio di tempo sufficiente alla persona minacciata per trovare sicuro riparo e alle forze dell’ordine per intervenire in soccorso.

Il giudice delle leggi ha osservato altresì che, sebbene negli abitati più piccoli la distanza di 500 metri possa rivelarsi stringente, l’indagato ne riceve un aggravio sopportabile, quello di recarsi nel centro più vicino per trovare i servizi di cui necessita; mentre, ove rilevino «motivi di lavoro» o «esigenze abitative», il comma 4 dell’art. 282-ter cod. proc. pen. consente al giudice di stabilire modalità particolari di esecuzione del divieto di avvicinamento, restituendo flessibilità alla misura. «A un sacrificio relativamente sostenibile per l’indagato» – afferma dunque la Corte – «si contrappone l’impellente necessità di salvaguardare l’incolumità della persona offesa, la cui stessa vita è messa a rischio dall’imponderabile e non rara progressione dal reato-spia (tipicamente lo stalking) al delitto di sangue».

Il controllo da remoto

In riferimento poi alla riscontrata impossibilità tecnica del controllo elettronico, evenienza oggettivamente non imputabile all’indagato, la Corte evidenzia come la norma censurata possa interpretarsi in senso costituzionalmente adeguato, sicché il giudice, in tal caso, non è tenuto a imporre una misura più grave del divieto di avvicinamento, ma deve rivalutare le esigenze cautelari della fattispecie concreta, potendo, all’esito della rivalutazione, in base ai criteri ordinari di idoneità, necessità e proporzionalità, scegliere non solo una misura più grave (quale il divieto o l’obbligo di dimora), ma anche una misura più lieve (quale l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria).

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forense card

Forense Card: cos’è e quali vantaggi La Forense Card è un servizio messo a disposizione degli iscritti da Cassa Forense che permette, tra le altre cose, di pagare i contributi previdenziali anche a rate

Cos’è la Forense Card

La Forense Card è un servizio messo a disposizione dalla Cassa Forense in collaborazione con la banca popolare di Sondrio, essenzialmente per il pagamento dei contributi previdenziali ma può essere usata anche come carta di credito ordinaria e per richiedere un prestito.

E’ riservata esclusivamente agli iscritti all’ente previdenziale degli avvocati e non serve essere clienti della banca, basta essere titolari di un qualsiasi conto corrente bancario o postale.

I vantaggi della Forense Card

Tra i vantaggi della Forense Card, ricorda Cassa Forense, c’è la possibilità di effettuare pagamenti pagamenti presso gli esercizi convenzionati con Visa e Mastercard e prelievi di contanti presso tutti gli sportelli automatici ATM convenzionati con Visa e Mastercard in Italia e all’estero.

Ma in particolare, la Card consente di versare via internet, in modo sicuro e senza spese, i contributi previdenziali, con addebito sul conto corrente e con possibilità di dilazionarli.

La Forense Card consente altresì di trasformare in contanti l’importo del plafond assegnato, con accredito della somma richiesta direttamente sul proprio conto.

Come richiederla

La carta, gratuita e senza canone annuale, può essere richiesta soltanto via internet, accedendo dall’Area Riservata sul sito di Cassa Forense e compilando il modulo di richiesta direttamente online.

Previa verifica del possesso dei requisiti per il rilascio, la carta viene inviata direttamente al domicilio del richiedente.

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caparra tipologie

Caparra: tipologie e disciplina Caparra confirmatoria e caparra penitenziale: che funzione hanno e qual è la disciplina. Differenze tra la caparra ed altri istituti affini

Cos’è la caparra e a cosa serve

Caparra, tipologie e disciplina: la caparra è una somma di denaro (o di altro bene fungibile) che viene consegnata al venditore per tutelarlo dall’eventuale successivo inadempimento dell’acquirente.

Il nostro ordinamento contempla due differenti tipologie di caparra, ognuna con una sua peculiare disciplina e funzione: la caparra confirmatoria (art. 1385 codice civile) e la caparra penitenziale (art. 1386 c.c.).

In questa breve guida esamineremo le caratteristiche di tali istituti e le differenze tra la caparra ed altri istituti affini, come l’acconto e la clausola penale.

Caparra confirmatoria

La caparra confirmatoria viene consegnata dall’acquirente al momento della conclusione del contratto e, come detto, tutela il venditore in ordine alla possibilità che l’acquirente non esegua la propria prestazione.

Una volta versata la caparra, quindi, si profilano due possibilità: che l’acquirente adempia o meno al proprio obbligo contrattuale.

Adempimento

Se questi paga effettivamente il prezzo del bene o servizio acquistato, il venditore è tenuto ad imputare la somma versata a titolo di caparra alla prestazione dovuta dall’acquirente (in sostanza, la caparra diviene un mero anticipo parziale del prezzo).

Se la prestazione dell’acquirente non consiste nel versamento di una somma di denaro, all’atto dell’adempimento da parte sua, il venditore è tenuto a restituirgli la caparra precedentemente versata (art. 1385 c.c., primo comma).

Inadempimento

Diversamente, in caso di mancato adempimento da parte dell’acquirente, il venditore può scegliere se recedere dal contratto o chiedere l’esecuzione o la risoluzione del contratto.

Nel primo caso, il venditore che esercita il recesso ha diritto di trattenere la caparra, ma così facendo rinuncia all’azione per il risarcimento del danno; in questo caso, in sostanza, la somma versata a titolo di caparra rappresenta la quantificazione forfettaria del danno da inadempimento, che le parti concordano alla conclusione del contratto.

Se invece il venditore agisce per l’esecuzione o per la risoluzione del contratto, allora dovrà domandare il risarcimento del danno secondo le regole generali, dimostrando innanzitutto l’esistenza del danno e il suo nesso causale con l’inadempimento. Ovviamente, questa strada può portare a una quantificazione del danno in misura superiore a quella rappresentata dalla caparra.

Può anche verificarsi, infine, che a dimostrarsi inadempiente sia il venditore: in tal caso, l’acquirente può recedere dal contratto ed esigere una somma pari al doppio della caparra precedentemente versata (art. 1385 c.c., secondo comma).

Caparra penitenziale

La caparra penitenziale, invece, segue una disciplina che prescinde dall’eventuale inadempimento di una parte.

Infatti, essa rappresenta sostanzialmente il corrispettivo del diritto di recesso (art. 1386 c.c., primo comma), valevole per una od entrambe le parti.

Se il recesso viene esercitato da chi ha versato la caparra all’altra parte, quest’ultima ha diritto di trattenere la somma versata. Viceversa, se a recedere è la parte che ha ricevuto la somma di denaro, questa dovrà restituire il doppio di tale somma a chi aveva versato la caparra.

Differenze tra caparra e altri istituti affini

Da ultimo, è opportuno segnalare brevemente le differenze tra la caparra ed altri istituti affini.

Acconto

Ad esempio, la caparra si differenzia dall’acconto perché quest’ultimo è una mera anticipazione parziale del prezzo pattuito, mentre la caparra, come abbiamo visto, svolge una funzione legata all’eventuale inadempimento (caparra confirmatoria) o all’esercizio del diritto di recesso (caparra penitenziale).

Clausola penale

Ancora diversa è la natura della clausola penale, che ha la funzione di predeterminare l’entità del risarcimento del danno in caso di inadempimento e che trova applicazione quando si chiede comunque l’esecuzione o la risoluzione del contratto, a differenza della caparra confirmatoria, che postula il recesso della parte che intende trattenerla.

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demolizione ricostruzione

Demolizione, ricostruzione e nuova opera: il Tar fa chiarezza Demolizione, ricostruzione e nuova opera si distinguono per l’entità delle modifiche apportate rispetto all’edificio preesistente demolito

Demolizione, ricostruzione e nuova opera

La ricostruzione dopo la demolizione si distingue dalla nuova opera in ragione dell’entità delle modifiche apportate. Si ha ricostruzione quando i volumi, l’altezza e la sagoma non subiscono variazione, si ha nuova opera, assoggettabile quindi alle regole della attività corrispondente, quando gli interventi vanno a modificare la sagoma, i volumi e le superfici. Il TAR delle Marche lo chiarisce nella sentenza n. 809/2024.

Contributo di costruzione se è nuova opera

Una S.R.L agisce nei confronti di un Comune per chiedere l’annullamento di una determina. Il provvedimento le richiede il pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di “costruzione” relativo a un permesso di costruire in sanatoria per la demolizione e ricostruzione di due fabbricati con cambio di destinazione d’uso. Le opere in effetti hanno dato vita a una nuova costruzione.

Durante i lavori di ristrutturazione da parte della società gli agenti della polizia municipale accertano infatti la difformità delle opere rispetto al permesso di costruire. Essi rilevano la quasi integrale demolizione del fabbricato B, atteso che ne sono rimasti conservati tronconi di muratura in misura non significativa rispetto alla sagoma originaria dell’edificio originario e tra l’altro non incluse nella nuova struttura ricostruita, contravvenendo alla prescrizione contenuta nel titolo rilasciato che ne prevedeva la conservazione al fine di ricondurre l’intervento proposto nell’ambito della ristrutturazione edilizia”.

Il tutto si è verificato in violazione dei limiti del titolo abilitativo e previsti per salvaguardare alcune porzioni di uno dei fabbricati.

Ricostruzione e nuova opera: differenze

Ai fini del decidere il TAR distingue lintervento di demolizione con successiva ricostruzione da quello con cui si realizza una nuova costruzione. A questo proposito lo stesso chiarisce che, dopo una demolizione, la distinzione tra ricostruzione e nuova costruzione si basa in particolare sul grado di variazione rispetto all’opera precedente.

Si parla quindi di ricostruzione quando l’intervento non  modifica il volume, la sagoma e l’altezza della costruzione precedente. L’edificio conserva in sostanza le caratteristiche fondamentali dell’edificio demolito.

Si realizza al contrario una nuova opera quando l’edificio viene demolito e al suo posto viene edificato un edificio nuovo e diverso, anche se parzialmente, rispetto a quello originario.

Il TAR ricorda che: Per costante giurisprudenza, non può essere ricompresa tra gli interventi di manutenzione straordinaria assoggettati a concessione gratuita una ristrutturazione c.d. pesante, se non addirittura una nuova costruzione, realizzata con la demolizione dell’edificio preesistente e l’edificazione di un organismo edilizio nuovo e diverso, almeno in parte, da quello originario; ne consegue che in questo caso il rilascio della concessione in sanatoria è correttamente sottoposto al pagamento dell’oblazione in misura pari al doppio del contributo di costruzione.”

 

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Addio al mantenimento per la figlia adulta: ha diritto solo agli alimenti La Cassazione chiarisce che alla figlia adulta spettano solo gli alimenti, non il mantenimento dei genitori, ci sono le misure sociali di sostegno al reddito

Mantenimento figli maggiorenni

Mantenimento figli: la figlia adulta, maggiorenne da tempo, che ha concluso un suo percorso di studi,  convive e ha una bambina non può soddisfare l’esigenza di una vita dignitosa con il mantenimento dei genitori. È preferibile che la stessa faccia ricorso agli ausili sociali di sostegno al reddito. I genitori possono essere tenuti, al limite, a corrispondere gli alimenti in presenza di uno stato di bisogno. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 27818/2024.

Separazione giudiziale: 200 euro mensili per la figlia adulta

Una coppia si separa giudizialmente. Il Tribunale accoglie la domanda di addebito dell’attrice e dispone a carico del marito l’obbligo di contribuire al mantenimento della figlia, diventata nel frattempo maggiorenne, ma non economicamente autosufficiente, tramite il versamento dell’importo mensile di 200,00 euro e del 50% delle spese straordinarie.

L’uomo appella la decisione, ma la Corte respinge l’impugnazione per intero, condannando il soccombente al pagamento delle spese di giudizio.

Cessazione o riduzione del mantenimento per la figlia

Nel ricorso in Cassazione con il quarto motivo il padre contesta alla Corte d’Appello il rigetto della domanda con cui ha chiesto la cessazione o la riduzione dell’obbligo di contribuire al mantenimento della figlia. La stessa è oramai da tempo maggiorenne, ha concluso un suo percorso di studi, ma non si è mai impegnata nella ricerca di un lavoro.  Essa inoltre convive con un compagno, che lavora e da cui ha avuto una figlia.

Solo gli alimenti, basta mantenere la figlia adulta

La Cassazione accoglie il quarto motivo del ricorso del padre. Per stabilire la spettanza o meno del diritto al mantenimento del figlio maggiorenne il giudice deve valutare diversi elementi come l’età, il raggiungimento di un effettivo livello di competenza tecnica e professionale e l’impegno investito nella ricerca di un lavoro.

Nel caso di specie la figlia, superata abbondantemente la maggiore età, non ha ancora reperito un’occupazione stabile o in grado comunque di remunerarla in misura da renderla economicamente autosufficiente e adeguata alle competenze acquisite. Il mantenimento dei genitori non può soddisfare le esigenze di una vita dignitosa e a cui ogni giovane adulto deve aspirare. La giovane donna deve quindi ricorrere preferibilmente ai diversi strumenti di ausilio sociale finalizzati a sostenere il reddito, ferma restando l’obbligazione alimentare per provvedere alle esigenze di vita essenziali se si trova in uno stato di bisogno.

 

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cambio di sesso

Cambio di sesso: il matrimonio non va annullato Cambio sesso: negato l'annullamento del matrimonio per errore essenziale sull'identità del coniuge, è solo un adeguamento alla personalità

Cambio di sesso e annullamento del matrimonio

Il cambio di sesso non causa l’annullamento del matrimonio. Nel soggetto che presenta una disforia di genere questo cambiamento non muta l’identità. Esso si limita ad adeguare i caratteri esterni a quelli percepiti e sentiti come propri dalla persona. Se il marito non è a conoscenza della rettificazione di sesso da uomo a donna, questa mancata conoscenza non si può ricondurre a un errore essenziale sull’identità della persona, se l’uomo non ha mai approfondito le cause dell’incapacità a procreare della moglie. Questa la decisione del Tribunale di Livorno nella sentenza del 12 luglio scorso.

Cambio sesso da uomo a donna: marito chiede annullamento

Un uomo si rivolge al Tribunale di Livorno per chiedere l’annullamento del matrimonio. L’attore narra di aver contratto matrimonio civile con la convenuta e che da detta unione non sono nati i figli. Questo perché, in base a quanto riferito dalla moglie, la stessa avrebbe subito l’asportazione dell’utero a causa di una malattia. L’attore racconta poi che dopo la richiesta di adozione di un minore la coppia è entrata in crisi tanto che si sono separati.

Nel giugno del 2022, però, mentre il marito procedeva a un’ispezione ipotecaria e catastale degli immobili intestati alla moglie, scopriva che  la stessa in passato era un uomo. I riferiti problemi di infertilità sono quindi da ricondurre a questa circostanza.

Errore sull’identità del coniuge art. 122 c.c.

L’uomo sarebbe quindi incorso in quell’errore essenziale sull’identità della persona che ai sensi dell’articolo 122 del codice civile rende annullabile il matrimonio. Se infatti l’attore avesse saputo fin dall’inizio che la moglie in passato era stato un uomo e che le difficoltà a procreare erano riconducibili al cambio di sesso, sicuramente non si sarebbe sposato.

Costituitasi in giudizio la moglie chiede il rigetto della domanda attorea, stante l’impossibilità di ricondurre il loro caso all’errore invocato dal marito di cui all’articolo 122 del codice civile. La donna afferma infatti che l’attore era   al corrente, prima di contrarre matrimonio, del procedimento di rettificazione di sesso a cui si era sottoposta.

Errore sull’identità della persona se il marito sposa una donna che prima era uomo?

Il Tribunale, conclusa l’istruttoria ritiene che la domanda dell’attore debba essere rigettata. Nel caso di specie è emerso che l’attore in realtà non era stato informato dell’avvenuta rettificazione di sesso della moglie. Vero però che tale mancata conoscenza non è riconducibili giuridicamente all’errore previsto dall’articolo 122 del codice civile. L’uomo infatti, da parte sua, non ha mai  approfondito le vere cause dell’incapacità a procreare della convenuta. L’errore eccepito dal marito non ricade né sull’identità della persona né sulle sue qualità personali.

“Non vi è stato errore sulla identità della persona in quanto il (…) a tutti gli effetti, si è unito in matrimonio con la persona che intendeva e riteneva di sposare (….), che all’epoca già risultava donna, tanto anagraficamente quanto sotto l’aspetto dei caratteri sessuali (…) l’identità (di genere) della (moglie) si è sempre identificata con quella femminile e non con quella maschile, tanto che, la stessa (…) in modo particolarmente significativo” in una conversazione telefonica … “per più di una volta, nel rispondere alle domande incalzanti del (marito) relative al fatto se fosse o se fosse stata in passato un uomo, ha ribadito “io non sono un uomo”, “io non ero un uomo”.

Il cambio di sesso infatti non modifica l’identità sessuale della persona, ma adegua  i caratteri somatici e le risultanze anagrafiche alla identità reale dell’individuo.

Il marito quindi non è caduto in alcun errore essenziale sulle qualità personali del coniuge, per cui la richiesta di annullamento del matrimonio va rigettata.

 

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disposizioni anticipate di trattamento

Disposizioni anticipate di trattamento (DAT) Cosa sono le DAT, come si fa il testamento biologico, chi è il fiduciario nel biotestamento e cos’è la Banca dati per le disposizioni anticipate di trattamento

Cosa si intende per disposizioni anticipate di trattamento

Le disposizioni anticipate di trattamento, o DAT, sono dichiarazioni di volontà in merito a trattamenti sanitari cui si desidera, o meno, essere sottoposti. Le DAT possono essere rilasciate volontariamente da un soggetto maggiorenne e capace di intendere e volere, in previsione dell’eventualità in cui successivamente ci si trovi in condizioni di non poter decidere consapevolmente o esprimere e comunicare le proprie volontà.

Come è evidente, si tratta di un istituto che riguarda aspetti molto delicati – al centro anche di dibattito politico – perché coinvolge profili etici come la libertà di autodeterminazione di ciascun individuo nella scelta relativa ai trattamenti terapeutici e agli accertamenti diagnostici cui sottoporsi in caso di necessità (si pensi ad esempio all’alimentazione artificiale).

Dove si registrano le DAT?

Le disposizioni anticipate di trattamento rappresentano il c.d. testamento biologico, o biotestamento, ed è opportuno che siano decise soltanto dopo che il soggetto abbia acquisito un’idonea informazione medica, ad esempio facendosi assistere nella stesura delle stesse da un proprio medico di fiducia.

Consenso informato DAT

A livello normativo, la materia del consenso informato e delle DAT è disciplinata dalla legge n. 219 del 2017, entrata in vigore dal 31 gennaio 2018.

In base a tale disciplina, le disposizioni anticipate di trattamento devono essere sottoscritte personalmente dal soggetto disponente ed essere rilasciate nelle seguenti modalità:

  • depositate in originale presso lo studio di un notaio, in forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata;
  • consegnate personalmente al personale preposto presso il proprio Comune di residenza (Ufficio di stato civile), presso le strutture sanitarie della Regione competente o presso l’Ufficio Consolare (per i cittadini residenti all’estero).

Nel caso di soggetti con particolari disabilità, le DAT possono essere rilasciate (e analogamente revocate) con l’utilizzo di tecnologie di registrazione, davanti a due testimoni, per poi essere depositate secondo quanto sopra esposto.

Il rilascio delle DAT è esente da tasse e imposte di bollo.

La Banca dati nazionale per il testamento biologico

Il notaio o il personale pubblico che raccoglie le dichiarazioni del testamento biologico è tenuto, previa raccolta del consenso dell’interessato, a trasmettere le stesse alla Banca Dati nazionale delle DAT, istituita presso il Ministero della salute e attiva 1° febbraio 2020. Alla registrazione consegue una notifica via mail all’indirizzo del disponente.

È importante evidenziare che, così come non ha un termine di scadenza di validità, il biotestamento può anche essere modificato o revocato in qualsiasi momento, con analoga dichiarazione del disponente. Allo stesso modo, il dichiarante può richiedere la cancellazione delle DAT dalla Banca dati nazionale.

L’accesso alla Banca dati è possibile con SPID o Carta Nazionale dei Servizi ed è riservato al disponente, al suo fiduciario (di cui si dirà oltre) e al medico che ha in cura il disponente – quando questi si trovi in situazioni di incapacità ad autodeterminarsi – e sia tenuto a sottoporlo a trattamenti sanitari o accertamenti diagnostici oggetto del biotestamento.

Biotestamento, chi è il fiduciario

Come accennato, una figura importante nell’ambito della disciplina delle disposizioni anticipate di trattamento è il fiduciario.

Quest’ultimo è il soggetto – necessariamente maggiorenne – che il disponente indica quale suo rappresentante nei rapporti con medici e strutture sanitarie, in merito a ciò che concerne le DAT e la loro osservanza.

In caso di nomina di un fiduciario, quest’ultimo deve sottoscrivere l’accettazione nell’atto stesso o con separato atto e produrre – così come il disponente – il proprio documento d’identità al pubblico ufficiale che riceve le dichiarazioni, oltre a sottoscrivere l’informativa per il trattamento dei dati personali.

Quando le DAT possono essere disattese

È importante evidenziare, infine, che le disposizioni contenute nel testamento biologico possono essere disattese, anche solo parzialmente, con l’accordo tra medico curante e fiduciario, quando appaiano palesemente incongrue con le condizioni del paziente o qualora siano sopravvenute terapie non prevedibili al momento della sottoscrizione delle DAT.

In caso di mancato accordo tra il medico e il fiduciario, la decisione spetta al giudice tutelare.