particolare tenuità del fatto

Punibile la madre che impedisce al padre di vedere i figli Per la Cassazione, l'impedimento sistematico impedisce l'applicazione della non punibilità ex art. 131-bis c.p.

Particolare tenuità del fatto

Non si può applicare la particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p. nei confrontoi della madre che impedisce al padre in modo sistematico di vedere i figli. Così la seconda sezione penale della Cassazione, nella sentenza n. 47882-2023.

La vicenda

Nella vicenda, la donna ricorreva al Palazzaccio avverso la sentenza della Corte d’Appello di Salerno che, in funzione di giudice del rinvio, dichiarava l’imputata colpevole del reato ex art. 388, comma 2, c.p., per non aver consentito per quattro mesi al marito separato di vedere i figli a lei affidati, in violazione degli accordi fra coniugi recepiti nel decreto di omologa della consensuale, condannandola alla pena di trecento euro di multa oltre al risarcimento del danno subito dalla parte civile.

La donna proponeva ricorso chiedendo l’annullamento della sentenza in particolare per l’omessa applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis c.p. Lamentava, nello specifico, che la sentenza impugnata non aveva indicato le ragioni per cui il reato era stato ritenuto sussistente, avendo valorizzato soltanto le dichiarazioni della parte civile e ignorando quelle rese dalla stessa, ed escludendo “la causa di non punibilità sulla base di due indimostrate circostanze, costituite dagli impegni di lavoro che avrebbero impedito al marito di essere puntuale agli appuntamenti fissati e dal presunto interesse della stessa a privilegiare il rapporto con il nuovo compagno a discapito del diritto del padre di incontrare i figli, in assenza di episodi indicativi di tale fatto, non riferiti neppure dalla persona offesa”.

La decisione

Per la Cassazione, tuttavia, il ricorso è inammissibile perchè proposto con motivi non consentiti o manifestamente infondati. Già nella sentenza di appello, sostengono i giudici della S.C., era stato già accertato che la donna, “con sistematicità” aveva impedito l’incontro tra l’ex marito e i figli “in termini del tutto ingiustificati” rispetto a quanto previsto nel provvedimento giudiziale di omologazione della separazione (così la sentenza rescindente). Il giudice del rinvio, successivamente, “ha escluso che le modalità della condotta elusiva, protrattasi per un periodo apprezzabile, nonchè il danno cagionato al padre dei figli minori consentissero di ritenere l’offesa di particolare tenuità”.

Per cui, affermano ancora da piazza Cavour, la motivazione, seppur sintetica “risulta immune dai vizi denunciati dalla ricorrente”. All’inammissibilità dell’impugnazione, segue di conseguenza anche la condanna della donna al pagamento delle spese del procedimento nonchè, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, di tremila euro in favore della Cassa delle Ammende.

Allegati

nullità avviso accertamento

Nullità dell’avviso di accertamento La nullità dell’avviso di accertamento può derivare dal mancato rispetto dei requisiti di forma e di sostanza che l’atto dell’ente impositore deve avere

Avviso di accertamento, quando è nullo

L’avviso di accertamento è l’atto con cui l’Agenzia delle Entrate avvisa il contribuente di aver rideterminato l’imposta dovuta e di conseguenza ingiunge a questi di versare una determinata somma a titolo di tributo e di pagare la corrispondente sanzione e gli interessi maturati.

Dal 2011, l’avviso di accertamento è un atto direttamente esecutivo e perciò ha valore di titolo esecutivo: ciò vuol dire che, se il destinatario non ottempera al pagamento ivi indicato nei termini stabiliti dalla legge, l’ente impositore può avviare la conseguente azione esecutiva, senza necessità di eseguire ulteriori comunicazioni (non è quindi necessaria la notifica di una cartella esattoriale).

L’atto in esame deve rispondere a determinati requisiti previsti dalla legge, la cui mancanza può comportare la nullità dell’avviso di accertamento stesso. In tal caso, il contribuente ha la possibilità di impugnare l’avviso davanti agli organi di giustizia tributaria per farne dichiarare l’annullamento.

I rimedi per la nullità dell’avviso di accertamento

Per far valere i vizi dell’avviso di accertamento, il contribuente ha a disposizione diversi rimedi.

Oltre ad esperire il ricorso davanti alle Commissioni Tributarie, infatti, il destinatario dell’atto ha facoltà di richiedere l’annullamento dell’atto in autotutela, indirizzando tale richiesta allo stesso ente impositore, con l’indicazione delle relative motivazioni.

Inoltre, con una proposta di accertamento in adesione, da svolgersi in contraddittorio, egli ha la possibilità di ottenere uno sconto sulle sanzioni previste. Altre vie percorribili sono il reclamo, la mediazione e la conciliazione giudiziale.

Avviso di accertamento requisiti

Tra i dati che l’avviso di accertamento deve necessariamente contenere a pena di nullità, vi è innanzitutto l’indicazione degli imponibili accertati, delle aliquote applicate e dell’imposta liquidata, oltre all’intimazione a pagare entro 60 giorni dal ricevimento dell’atto.

Inoltre, il contribuente deve essere messo in condizioni di conoscere non solo quale sia l’organo giurisdizionale presso cui presentare l’eventuale ricorso, ma anche quale sia l’ufficio presso cui poter ottenere informazioni, nonché il funzionario responsabile del procedimento amministrativo che ha portato all’adozione dell’atto.

Nullità avviso accertamento giurisprudenza

La nullità dell’avviso di accertamento può derivare dalle più disparate difformità dell’atto rispetto ai requisiti di legge.

Ad esempio, une recente ordinanza della Corte di Cassazione (Cass. sez. V trib., ord. n. 13620/2023) ha focalizzato l’attenzione sulla necessità che l’avviso di accertamento sia motivato per garantire il diritto di difesa del contribuente, chiarendo, in particolare, che “l’avviso di accertamento non può essere supportato da motivazione contraddittoria, poiché in tal caso esso non consente al contribuente di avere certezza degli elementi fondanti le ragioni della pretesa; e ha specificato che tale vizio si configura anche laddove vengano indicate ragioni concorrenti ma contraddistinte da assoluta eterogeneità e, come tali, inidonee a fungere da complessivo presupposto della pretese“.

Quando poi, l’accertamento derivi da una precedente ispezione presso gli uffici del contribuente, l’ente deve necessariamente attivare il contraddittorio preventivo col contribuente, che ha a disposizione sessanta giorni per presentare le proprie osservazioni, di cui l’ente deve necessariamente tener conto. Se manca l’attivazione di tale fase, l’atto è inficiato da nullità (cfr. Cass., ord. n. 2135/2021). La nullità dell’avviso di accertamento, inoltre, è stata dichiarata anche in casi in cui l’Agenzia delle Entrate non ha, più semplicemente, dato prova dell’avvenuto invio dell’invito al contradittorio (cfr. CTP Prato, sent. n. 212/2019).

In una diversa ipotesi, l’avviso di accertamento è stato annullato perché era stato firmato digitalmente dal funzionario incaricato, ma poi recapitato solo via posta cartacea (cfr. sent. n. 3848/26/2019 – Comm. Trib. Reg. Campania).

Importante è anche il rispetto dei limiti di competenza, nei casi in cui l’atto venga firmato da un funzionario con delega di firma: con ordinanza numero 32386/2022, la Corte di Cassazione ha dichiarato nullo l’avviso firmato dal funzionario avente una delega di firma per avvisi relativi a importi inferiori rispetto all’importo dell’atto da lui firmato.

tempus regit actum

Il principio “tempus regit actum” nel procedimento amministrativo In ambito amministrativo, si discute se debba rispettarsi sempre la regola tempus regit actum o se occorra considerare il procedimento nel suo complesso

Che significa la regola tempus regit actum

Con la locuzione latina tempus regit actum si suole indicare la circostanza per cui, in diritto, un atto è regolato dalla legge vigente nel momento in cui è compiuto.

Questo principio trova applicazione in vari ambiti, e principalmente in campo processuale. Ma è nel diritto amministrativo che la regola tempus regit actum si trova al centro di un vivace dibattito, poiché una parte della dottrina e molte recenti pronunce giurisprudenziali ritengono che, in tale settore, debba valere il diverso principio del tempus regit actionem, specialmente con riferimento alle regole che disciplinano il procedimento amministrativo.

Tempus regit actum e procedimento amministrativo

Per comprendere appieno le differenze tra le due regole sopra citate, è opportuno ricordare brevemente in cosa consiste il procedimento amministrativo.

Esso rappresenta il normale strumento attraverso cui la pubblica amministrazione addiviene ad una decisione in cui si sostanzia la sua azione. In concreto, il procedimento amministrativo si sostanzia in una serie concatenata di atti amministrativi che sfociano in un atto conclusivo, chiamato provvedimento amministrativo.

Ebbene, i fautori della tesi secondo cui anche in ambito amministrativo procedimentale vige la regola tempus regit actum, sostengono che ogni singolo atto del procedimento amministrativo rimane regolato dalla disciplina normativa vigente al momento in cui esso è stato adottato.

Ciò significa che, se sopravviene una nuova normativa astrattamente applicabile alla fattispecie oggetto del procedimento amministrativo, quest’ultima dovrà essere osservata solo in relazione agli atti di quel procedimento ancora da compiere, mentre la regolarità degli atti endoprocedimentali già compiuti in quel medesimo procedimento continuerebbe a dover essere valutata in base alle norme della previgente disciplina.

In realtà, tale principio è stato per lungo tempo pacificamente osservato anche in tale ambito, ma di recente numerose pronunce degli organi giurisdizionali amministrativi hanno abbracciato la tesi di quella parte della dottrina che ritiene applicabile al procedimento amministrativo il principio tempus regit actionem.

Bandi di gara e principio tempus regit actionem

In buona sostanza, tale tesi sposta l’attenzione dall’atto singolarmente considerato all’azione amministrativa complessivamente identificata dal singolo procedimento.

Per fare un esempio, quando un ente pubblico bandisce una gara di appalto, fissa una serie di requisiti per la partecipazione e una serie di regole che garantiscono la parità tra i concorrenti e la trasparenza delle condizioni.

Se la normativa di riferimento mutasse in pendenza della scadenza dei termini per la partecipazione a quella gara, si rischierebbe di pregiudicare il rispetto di tali canoni di parità e trasparenza, finendo per inquinare la correttezza e la regolarità della gara.

Per questo motivo, in ambito di aggiudicazioni e, più in generale di procedure selettive in ambito amministrativo, si ritiene che debba rispettarsi la regola “tempus regit actionem”, e che, pertanto, l’intera gara debba rimanere disciplinata dalla normativa vigente al momento della pubblicazione del bando.

Al riguardo, cfr. tra tante, la sentenza del Consiglio di Stato n. 2521/2021, secondo cui “occorre ribadire il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui nelle gare pubbliche la procedura di affidamento di un contratto pubblico è soggetta alla normativa vigente alla data di pubblicazione del bando (…); pertanto, anche per ragioni di tutela dell’affidamento (…), deve escludersi che lo ius superveniens possa avere alcun effetto diretto sul procedimento di gara, altrimenti venendo sacrificati i principi di certezza e buon andamento, con sconcerto delle stesse ed assoluta imprevedibilità di esiti, ove si imponesse alle amministrazioni di modificare in corso di procedimento le regole di gara per seguire le modificazioni normative o fattuali intervenute successivamente all’adozione del bando (tra le tante, Cons. Stato, V, 7 giugno 2016, n. 2433; V, 12 maggio 2017, n. 2222). Si può forse sostenere che nei procedimenti di gara il criterio informatore sia quello del tempus regit actionem”.

Allo stesso modo, anche in altri ambiti del diritto amministrativo si fa largo l’idea che debba osservarsi la legge vigente al momento in cui l’amministrazione procedente avvia la fase istruttoria del procedimento amministrativo. In tal modo, da un lato viene valorizzata l’idea che il procedimento amministrativo sia un unicum in cui si sostanzia l’azione amministrativa e in cui confluiscono i vari atti che hanno rilevanza esclusivamente endoprocedimentale. Dall’altro, si valorizza l’esigenza di rispetto degli interessi legittimi esistenti in capo ai soggetti interessati dal procedimento, che possono ritenersi davvero tutelati solo se valutati in relazione alla legge vigente all’inizio del procedimento che li coinvolge.

In altri ambiti, come ad esempio quello delle concessioni edilizie, rimane invece ancora pacificamente osservata la regola del tempus regit actum: il provvedimento finale, cioè, deve rispondere alla normativa sopravvenuta nel corso del procedimento e non a quella vigente all’inizio dello stesso.

spese rifacimento balconi

Balconi: spese di rifacimento a carico dei soli proprietari Per la Cassazione, è nulla la delibera assembleare che dispone il rifacimento dei balconi di natura individuale ripartendo le spese tra i condomini in parti uguali

Riparto spese manutenzione balconi

Il riparto delle spese di manutenzione dei balconi è tematica sovente foriera di contrasti in assemblea. Ciò anche in considerazione del fatto che il codice civile non fornisce alcuna nozione di balcone, limitandosi solo a non menzionarlo nell’elenco delle “parti comuni”. Questa lacuna è stata colmata dall’opera della dottrina e della giurisprudenza, chiamate in più occasioni a fare chiarezza sul punto.

In base alle caratteristiche esteriori dei balconi, questi possono suddividersi in due macro-categorie:

1- “balconi aggettanti”, che sporgono rispetto alla facciata e sono di proprietà esclusiva del proprietario dell’appartamento dal quale vi si accede costituendone un prolungamento.

Il proprietario dell’immobile è, dunque, titolare del diritto di proprietà (e dei relativi obblighi di manutenzione e custodia) anche della pavimentazione, elemento fondamentale nella soluzione al caso in commento risolto dalla Cassazione.

Quanto detto non vale per gli elementi decorativi del balcone (parapetti, cielini o sottobalconi) per il caso in cui gli stessi siano idonei a svolgere funzione di decoro caratterizzanti l’estetica dell’edificio e che, in simili fattispecie, rientrano nel novero delle parti comuni, precisamente della facciata (Cass. civ. II n. 30071/2017).

Questa è una valutazione che deve effettuarsi in riferimento a ciascun caso concreto tenendo presenti le caratteristiche del singolo fabbricato in questione.

Una delle conseguenze di quanto detto è che il proprietario di un piano inferiore non vanta diritti sulla parte inferiore del balcone aggettante del piano sovrastante e quindi, ad esempio, non potrà agganciare una tenda alla soletta del balcone superiore senza acquisire il preventivo consenso del proprietario dello stesso.

2- “balconi incassati” (detti anche “loggia”), viceversa, sono quelli che non sporgono rispetto alla facciata. L’accesso ai medesimi si raggiunge dai locali interni e tale tipologia di balconi (detti anche “terrazze incassate”) presentano uno o più “lati aperti” (rispettivamente avremo balconi “incassati a U” ovvero balconi “incassati a L”). La pavimentazione è parte integrante del locale da cui vi si accede e, di norma, funge da copertura per l’appartamento sottostante, individuandosi così due soggetti interessati per il riparto delle spese di manutenzione.

Recente giurisprudenza ha, tuttavia, sottolineato che anche una terrazza incassata può essere considerata di proprietà esclusiva del condomino-proprietario dell’appartamento da cui si accede a condizione che così risulti dal titolo (diritto di proprietà) o anche nell’ipotesi in cui la predetta loggia si configuri – funzionalmente e strutturalmente – quale parte integrante del piano cui è  annessa, in modo tale per cui la funzione di copertura del piano sottostante risulti meramente sussidiaria.

Anche in questo caso occorrerebbe un’indagine tecnico-valutativa sulla singola fattispecie concreta.

Per la parte ”aperta” di tale tipologia di balconi, ove rientrante nella facciata (parte comune ex art. 1117 c.c., salvo titolo contrario), può riprendersi lo stesso discorso già effettuato sopra circa la funzione di decoro che può, a seconda dei casi, venire in rilievo.

Balconi di proprietà esclusiva e riparto spese: il caso

Nella vicenda decisa dalla Cassazione (con ordinanza n. 7042/2020), un condomino citava in giudizio il Condominio per sentirsi dichiarare esonerato dalle spese relative al rifacimento dei balconi degli altri condomini, chiedendo il rimborso delle spese sostenute o, in subordine, la condanna del Condominio alla restituzione delle somme pagate per i balconi di proprietà esclusiva degli altri partecipanti.

Sia il Tribunale di Forlì (rectius la Sez. distaccata di Cesena) che la Corte d’Appello di Bologna rigettavano la domanda dell’attore evidenziando il difetto di legittimazione attiva in quanto la delibera impugnata aveva disposto che “ogni condomino avrebbe ristrutturato il pavimento dei balconi a proprie spese”.

Mancava, poi, a dire dei Giudici di primo e secondo grado la prova che la delibera di approvazione dei lavori avesse posto a carico dell’attore (anche in quota-parte) le spese di ristrutturazione dei balconi degli altri condomini. Prova ne era che l’impresa appaltatrice incaricata della ristrutturazione aveva emesso fattura nei confronti dei singoli proprietari.

L’istante ricorre per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Bologna denunciando l’omesso esame di un fatto decisivo in relazione alla circostanza che la predetta deliberazione approvativa dei lavori limitava l’obbligo di contribuzione per le spese di manutenzione a carico dei singoli proprietari alla sola “pavimentazione dei balconi”.

Denunciava, altresì la violazione e/o falsa applicazione – ex multis – dell’art. 1117 c.c. (“parti comuni dell’edificio”) e dell’art. 1123 c.c. (“ripartizione delle spese”).

Balconi: spese a carico del proprietario

La Sez. VI/II della Suprema Corte di Cassazione accoglie il ricorso, in particolare facendo riferimento – si faccia attenzione – alla circostanza che, in via subordinata, il ricorrente chiedeva la condanna del Condominio alla restituzione delle somme corrisposte indebitamente ex art. 2033 c.c.

Nelle proprie difese l’istante aveva, infatti, più volte posto riferimento alla nullità della delibera che aveva statuito in ordine a beni di natura individuale.

In tema di Condominio negli edifici, i balconi aggettanti, in quanto prolungamento della corrispondente unità immobiliare appartengono in via esclusiva al proprietario di questa, dovendosi considerare beni comuni a tutti i condomini solamente i rivestimenti e gli elementi decorativi della parte frontale e di quella inferiore, quando si inseriscono nel prospetto dell’edificio e contribuiscono a renderlo esteticamente gradevole.

Ne deriva, dunque, che le spese relative alla manutenzione dei balconi, comprensive non soltanto delle opere di pavimentazione, ma anche di quelle relative alla piattaforma o soletta, all’intonaco, alla tinta ed alla decorazione del soffitto restano a carico del solo proprietario che vi accede e non possono essere ripartite – come invece era stato fatto nel caso in questione – tra tutti i condomini in base al valore della proprietà di ciascuno.

tabelle millesimali

Tabelle millesimali: approvazione e revisione I quorum necessari per l’approvazione e per la revisione delle tabelle millesimali in condominio

Art. 1118 c.c.

L’art. 1118 c.c., come sostituito dall’art. 3 della l. 11 dicembre 2012, stabilisce espressamente che:

“1. Il diritto di ciascun condomino sulle parti comuni, salvo che il titolo non disponga altrimenti, è proporzionale al valore dell’unità immobiliare che gli appartiene.

  1. Il condomino non può rinunziare al suo diritto sulle parti comuni.
  2. Il condomino non può sottrarsi all’obbligo di contribuire alle spese per la conservazione delle parti comuni, neanche modificando la destinazione d’uso della propria unità immobiliare, salvo quanto disposto da leggi speciali.
  3. Il condomino può rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, se dal suo distacco non derivano notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per altri condomini. In tal caso il rinunziante resta tenuto a concorrere al pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria dell’impianto e per la sua conservazione e messa a norma”.

Premesso doverosamente il dato normativo, è opportuno sin da subito ribadire che le tabelle millesimali rappresentano lo strumento per procedere all’esatta ripartizione degli oneri condominiali ordinari e straordinari, stabilendo il valore di contribuzione delle singole unità immobiliari in relazione alle parti comuni.

In altri termini, hanno natura valutativa della proprietà ed esprimono, a un tempo, l’ampiezza del diritto spettante a ciascun condomino sulle parti comuni ed il potere di voto nelle deliberazioni assembleari, in cui si ragiona alla stregua del parametro della “doppia maggioranza”, con riferimento, da un lato, agli intervenuti e, dall’altro, ai millesimi.

Quorum per l’approvazione delle tabelle millesimali

È da premettere che fino al leading case delle Sezioni Unite del 2010 (Cass. civ.. SS.UU. n. 18477/2010), dottrina e giurisprudenza operavano una netta demarcazione tra la maggioranza necessaria per approvare la tabella generale di proprietà (cd. Tabella A) e tutte le altre Tabelle millesimali (scale, ascensori ecc.) La prima veniva, infatti, considerata quale risultato di un accordo negoziale tale da richiedere l’unanimità dei condomini per poterla modificare. Per tutte le altre era sufficiente la maggioranza degli intervenuti all’assemblea che rappresentasse la metà del valore del fabbricato (art. 1136, comma 2 c.c.). Con la sopra menzionata sentenza, tuttavia, tale netta demarcazione viene meno in quanto la tabella generale di proprietà viene considerata come mera espressione matematica della forza del voto in assemblea e misura di partecipazione alle spese di cui all’art. 1123, comma 1 c.c.. L’atto di approvazione assembleare delle tabelle viene inteso non più come accordo negoziale (per cui si necessitava di unanimità) bensì come “mera documentazione ricognitiva … dove la tabella altro non era che l’espressione della forza del voto in assemblea e del peso relativo agli obblighi”.

Ne derivava che, in forza della lettura in combinato disposto degli artt. 1138 c.c. – che richiede per l’approvazione del regolamento cd. assembleare la maggioranza di cui al secondo comma dell’art. 1136 c.c., e 68 disp. att. c.c. – si necessitava del medesimo quorum per l’approvazione e per la modifica delle tabelle millesimali.

Successivamente, entrata in vigore la l. 220/2012, la stessa modificava l’art. 69 delle disposizioni attuative del codice civile prevedendo la regola generale che i valori proporzionali delle unità immobiliari espressi nelle tabelle millesimali di cui all’art. 68 disp. att. c.c. potessero essere modificati o rettificati all’unanimità.

A tale regola era possibile derogare, prevedendosi l’applicazione della maggioranza di cui all’art. 1136 comma 2 c.c. (maggioranza degli intervenuti in assemblea che rappresentino la metà del valore dell’edificio), anche nell’interesse di un solo condomino, in due casi:

1) quando risulti che le tabelle sono conseguenza di un errore

2) quando per le mutate condizioni di parte dell’edificio, in conseguenza di sopraelevazione, incremento di superfici, incremento o diminuzioni delle unità immobiliari, è alterato per più di un quinto il valore proporzionale dell’unità immobiliare anche di un solo condomino.

La disposizione previgente, prevedeva, in riferimento al secondo requisito indicato, il generico requisito della “notevole alterazione” del rapporto originario tra i valori dei singoli piani o porzioni di piano.

Ora, la “nuova” disciplina prevede requisiti stringenti per la rettifica o modifica delle tabelle millesimali, con approvazione delle relative deliberazioni all’unanimità. Essa, tuttavia, non può essere estesa anche all’approvazione delle stesse, rimanendo ferme, dunque, per tale diversa fattispecie le risultanze raggiunte dalla costante opera di dottrina e giurisprudenza sul punto. (ex multis Cass. n. 11837/2013, Cass. n. 10762/2012).

 

mutamento destinazione d'uso

Tabelle millesimali e mutamento destinazione d’uso Il mutamento della destinazione d'uso e il frazionamento dell'unità immobiliare

Il mutamento della destinazione d’uso

Oggetto della presente disamina è il rapporto tra il mutamento della destinazione d’uso e la potenziale alterazione della caratura millesimale dell’immobile in condominio. Si faccia il caso, di cui pure la giurisprudenza si è occupata in diverse occasioni, che il proprietario per un qualsiasi motivo abbia a richiedere il mutamento della originaria destinazione catastale.

In tali casi, per legittimare il proprietario dell’unità immobiliare in questione a richiedere – anche a mezzo atto di citazione da notificarsi all’amministratore (e non più a tutti i condomini) – la revisione delle tabelle millesimali, occorre accertare che sussistano le condizioni di cui all’art. 69 disp. att. c.c. sopra menzionate (errore o alterazione di almeno 1/5 del valore dell’immobile).

Non è sufficiente di per sé, dunque, il mero dato del mutamento della destinazione d’uso ad incidere sull’assetto millesimale, atteso che l’individuazione dei valori proporzionali deve avvenire tenendo conto delle caratteristiche obiettive proprie degli immobili e non anche della loro possibile destinazione, determinata essenzialmente da valutazioni di carattere soggettivo, quali le personali necessità e/o le esigenze economiche (Cass.  n. 19797/2016).

Il frazionamento dell’unità immobiliare

Le medesime considerazioni valgono per il caso di divisione orizzontale in due parti di un appartamento in condominio. Con sentenza n. 15109 del 3 giugno 2019, la II sezione civile della Corte di Cassazione ha analizzato tale fattispecie alla luce del criterio della “notevole alterazione del rapporto originario tra i valori dei singoli piani o porzioni di piano”.

Tale criterio era vigente in epoca ante-riforma e veniva in rilievo nella fattispecie in commento in quanto applicabile ratione temporis.

Il frazionamento aveva determinato una diversa intestazione della quota millesimale, in precedenza attribuita ad un unico condomino e ciò imponeva, al più, di adeguare le regole di gestione del condominio alla mutata situazione, mentre non ha inciso sulle tabelle millesimali, non essendosi notevolmente alterato il rapporto originario tra i valori dei singoli piani o porzione di piano, da intendersi, allo stato, come alterazione di almeno 1/5 del valore proporzionale dell’unità immobiliare. È solo oltre tale soglia che si può richiedere ed ottenere la revisione delle tabelle.

La Cassazione conclude la disamina affermando che “grava sull’assemblea l’onere di provvedere a ripartire le spese tra le due nuove parti così create ed i rispettivi titolari, determinandone i valori proporzionali espressi in millesimi sulla base dei criteri sanciti dalla legge”.

Quanto appena detto è supportato dalla circostanza che in ambito condominiale non trova (rectius non trova più) cittadinanza il principio dell’apparenza del diritto, non sussistendo relazione di terzietà tra condominio e condomino.

Ne deriva che le spese gravano esclusivamente sul proprietario effettivo dell’unità immobiliare e che l’amministratore ha il potere/dovere di aggiornare i propri dati tenendo conto della reale composizione dell’edificio e, ai fini del riparto, anche a mezzo consultazione dei pubblici registri immobiliari (conformi Cass. civ. VI/II n. 23621/2017 e Cass. civ.  II n. 17039/2007).

 

riforma Cartabia processo civile

Riforma Cartabia processo civile La riforma Cartabia del processo civile e i correttivi in fase di approvazione per rendere la procedura ancora più efficiente 

Riforma Cartabia e correttivi

La riforma Cartabia del processo civile è stata attuata con il decreto legislativo n. 149 del 2022. La legge di bilancio 2023 n. 127/2022 ha anticipato l’entrata in vigore di molte disposizioni della riforma, che ha modificato in modo organico il processo civile.

A meno di un anno dalla sua entrata in vigore, il Ministro della Giustizia Nordio ha già presentato una serie di correttivi alla Riforma Cartabia per velocizzare e alleggerire la procedura, soprattutto attraverso una maggiore digitalizzazione.

In attesa dell’approvazione definitiva dei correttivi, ricordiamo in breve le principali modifiche apportate dalla Cartabia al codice di procedura civile.

Modifiche alle disposizioni generali

Ampliata la competenza per valore del Giudice di Pace, che è stata innalzata a 10.000,00 euro per le cause relative a beni mobili e a 25.000,00 euro per le cause risarcitorie che riguardano i danni prodotto dalla circolazione stradale.

Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione ora può essere rilevato anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, mentre il difetto del giudice ordinario nei confronti del giudice amministrativo o di altri giudici speciali può essere rilevato anche d’ufficio nel giudizio di primo grado. Nei gradi di impugnazione il difetto può essere rilevato solo se oggetto di un motivo specifico. L’attore però non può impugnare la sentenza per denunciare la giurisdizione del giudice a cui si è rivolto.

In presenza di cause connesse relative a cause accessorie, di garanzia, accertamento incidentale o eccezione di compensazione, se una di esse è soggetta al rito semplificato di cognizione e l’altra a un rito speciale, le cause devono essere trattate con il rito semplificato di cognizione.

Cambiano le regole del regolamento di competenza. Chi propone l’istanza deve depositare il ricorso e i documenti a corredo della stessa nel termine perentorio di 20 giorni, che decorre dalla data dell’ultima notificazione alle parti. I processi nel cui ambito viene richiesto il regolamento di competenza sono sospesi dal giorno in cui la copia del ricorso notificato vene depositata davanti al giudice  innanzi al quale pende la causa o dal giorno in cui viene emessa l’ordinanza con cui il giudice chiede il regolamento di competenza.

Il Tribunale in composizione collegiale non decide più le cause indicate nei punti 5 e 6 dell’art. 50 bis c.p.c tra le quali figurano:

  • le impugnazioni alle delibere assembleari;
  • le cause di impugnazione dei testamenti e di riduzione della legittima.

A causa delle imponenti modifiche che hanno investito la normativa dedicata alle persone e alla famiglia l’art. 78 c.p.c limita la nomina del curatore speciale ai soli casi in cui viene rilevata l’urgenza di avere una persona che assista o rappresenti un incapace, una persona giuridica o una associazione, in attesa che venga nominato il soggetto che ne assuma la rappresentanza o lo assista. La nomina del curatore è prevista inoltre se c’è conflitto di interessi tra rappresentato e rappresentante.

Chi si comporta male in giudizio, nei casi contemplati dall’art. 96 c.p.c (responsabilità aggravata), viene raggiunto anche da una sanzione pecuniaria che varia da un minimo di 500 a un massimo di 5.000 euro.

Aggiunto un nuovo comma all’art. 101 c.p.c, dedicato al principio del contraddittorio, che  prevede l’adozione di provvedimenti opportuni nel caso in cui il giudice rilevi una lesione del diritto di difesa.

Il nuovo art. 121 c.p.c, nel sancire la libertà della forme per gli atti per i quali la legge non prevede forme determinate, per tutti gli atti del processo sancisce il rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità.

Introdotta la possibilità di svolgere le udienze da remoto, mediante collegamenti audiovisivi, come previsto dal nuovo art. 127 bis c.p.c. e di sostituire l’udienza con il deposito di note scritte come prevede il nuovo art. 127 ter c.p.c.

Tante le novità che hanno investito le notifiche, con conseguente modifica degli articoli 137, 139, 147 e 149 bis c.p.c. Eliminate le comunicazioni a mezzo telefax, nessun limite orario per le notifiche a mezzo pec, che l’UG esegue ai destinatari obbligati di munirsi di un indirizzo di posta elettronica.

Le novità del processo di cognizione

La parte introduttiva del giudizio di cognizione cambia notevolmente. Modificato il contenuto dell’atto di citazione art. 163 c.p.c, modificati i termini per comparire art. 163 bis, le regole di costituzione dell’attore art. 165 c.p.c e del convenuto art. 166 c.p.c.

Le attività che le parti svolgevano a causa già iniziata con le memorie art. 183 c.p.c vengono ora anticipate all’interno delle memorie integrative art. 171 ter da produrre prima della prima udienza, la cui disciplina, contenuta nell’art. 183 c.p.c è stata completamente riformulata.

Eliminata l’udienza 184 c.p.c dedicata all’assunzione dei mezzi di prova, la riforma ha modificato anche l’art. 188 c.p.c. In base alla nuova formulazione di questa norma il giudice, una volta completata l’istruttoria, rimette le parti davanti al Collegio per la decisione, assegnando termini per note e comparse o dopo la discussione orale art. 275 bis c.p.c.

Cambiate le regole per la remissione della causa dal Collegio al Giudice monocratico e viceversa e introdotto il procedimento semplificato di cognizione per le cause “pronte”per la decisione.

Cambiato anche il procedimento davanti al giudice di Pace, che viene avviato con ricorso e al quale si applicano, in quanto compatibili, le stesse norme del procedimento semplificato di cognizione.

Il giudizio di appello è stato in gran parte riformato. Modificato l’art. 342 c.p.c sulla forma dell’atto di appello e l’art. 343 c.p.c sui modi e termini dell’appello incidentale, che deve essere proposto a pena di decadenza almeno 20 giorni prima dell’udienza di comparizione fissata dall’appellante. Cambiate le regole sulla improcedibilità dell’appello, che ora viene dichiarata con sentenza. Completamente riformato l’art. 348 bis c.p.c sulla inammissibilità e manifesta infondatezza dell’appello. Torna il giudice istruttore in appello se il procedimento si svolge davanti alla Corte, cambia la trattazione in appello e anche la fase decisionale, che avviene alternativamente in base alle regole dell’art. 350 bis c.p.c dopo la discussione orale o in base a quanto previsto dall’art. 352 c.p.c, che prevede la decisione dopo la concessione di termini per note e comparse.

Il giudizio davanti alla Cassazione viene rinnovato attraverso la previsione di nuovi casi di ricorso e del nuovo rinvio pregiudiziale per la risoluzione di questioni di diritto. Cambiato anche il contenuto del ricorso e i termini di deposito del controricorso e del ricorso incidentale. Distribuiti diversamente anche i casi in cui la Cassazione può pronunciarsi in udienza pubblica o in camera di consiglio.

Il processo esecutivo è stato rinnovato con l’eliminazione della formula esecutiva da apporre sul titolo, sostituita dalla copia attestata conforme all’originale. Riformata la norma sul pignoramento in generale e l’art. 492 bis c.p.c sulla ricerca telematica dei beni da  pignorare. Introdotto ex novo l’art. 568 bis c.p.c che consente al debitore di procedere alla vendita diretta dell’immobile pignorato alle condizioni stabilite dall’art. 569 bis c.p.c.

assegno di divorzio

Assegno di divorzio: si conta anche la convivenza Le Sezioni Unite della Cassazione chiariscono che la convivenza prematrimoniale deve essere presa in considerazione nella determinazione dell'assegno divorzile

Convivenza prematrimoniale nell’assegno divorzile

La convivenza prematrimoniale che ha «consolidato» una divisione dei ruoli domestici capace di creare «scompensi» destinati a proiettarsi sul futuro matrimonio e sul divorzio, deve necessariamente essere presa in considerazione nella determinazione dell’assegno divorzile. Così, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza n. 35385-2023, ha accolto il gravame proposto dalla ricorrente in relazione al computo della convivenza prematrimoniale ai fini della determinazione dell’assegno divorzile.

I criteri di determinazione dell’assegno divorzile

A tal proposito, il Giudice di legittimità ha anzitutto compiuto un ampio excursus in ordine ai criteri di determinazione dell’assegno divorzile, ricordando, in particolare, quanto stabilito dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la storica sentenza n. 18287/2018 con cui era stata superata la distinzione tra “criterio attributivo e criteri determinativo dell’assegno di divorzio, essendosi affermato che il giudice deve accertare l’adeguatezza dei mezzi (…) alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto”. La suddetta sentenza, inoltre, aveva introdotto il principio di autoresponsabilità nell’ambito del rapporto coniugale e durante tutta la sua durata, dunque anche nella fase patologica.

La rilevanza della convivenza prematrimoniale

Posto quanto sopra, la Corte è poi passata all’esame del caso di specie, riguardante le contestazioni avanzate da un’ex moglie in ordine alla mancata valutazione, da parte del Giudice di merito, del contributo economico e personale dalla stessa fornito durante la fase prematrimoniale. La ricorrente ha in particolare messo in rilievo come, già durante detto periodo, i futuri coniugi avevano compiuto scelte comuni di organizzazione della vita familiare e di riparto dei rispettivi ruoli.

Rispetto a tale doglianza, le Sezioni Unite hanno ricordato che nel nostro ordinamento sussiste indubbiamente “una differenza (..) tra matrimonio e convivenza, (..) dato che il matrimonio e, per volontà del legislatore, l’unione civile, appartengono ai modelli c.d. «istituzionali», mentre la convivenza di fatto, al contrario, è un modello «familiare non a struttura istituzionale». Tuttavia, convivenza e matrimonio sono comunque modelli familiari dai quali scaturiscono obblighi di solidarietà morale e materiale, anche a seguito della cessazione dell’unione istituzionale e dell’unione di fatto”.

Ciò posto, la Corte ha messo in luce come, considerata la crescente diffusione sociale del fenomeno della convivenza, la convivenza prematrimoniale, laddove protrattasi nel tempo ed abbia «consolidato» una divisione dei ruoli domestici capace di creare «scompensi» destinati a proiettarsi sul futuro matrimonio e sul divorzio che dovesse seguire, deve necessariamente essere presa in considerazione anche nella fase patologica del rapporto coniugale e dunque anche ai fini della determinazione dell’assegno divorzile, tenendo conto dei criteri stabiliti dalle Sezioni Unite nel 2018.

Concluso l’esame sulla questione di massima importanza sopra riassunta, il Giudice di legittimità ha enunciato il seguente principio di diritto “Ai fini dell’attribuzione e della quantificazione, ai sensi dell’art. 5, comma 6, l. n. 898/1970, dell’assegno divorzile, avente natura, oltre che assistenziale, anche perequativo-compensativa, nei casi peculiari in cui il matrimonio si ricolleghi a una convivenza prematrimoniale della coppia, avente i connotati di stabilità e continuità, in ragione di un progetto di vita comune, dal quale discendano anche reciproche contribuzioni economiche, laddove emerga una relazione di continuità tra la fase «di fatto» di quella medesima unione e la fase «giuridica» del vincolo matrimoniale, va computato anche il periodo della convivenza prematrimoniale, ai fini della necessaria verifica del contributo fornito dal richiedente l’assegno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei coniugi, occorrendo vagliare l’esistenza, durante la convivenza prematrimoniale, di scelte condivise dalla coppia che abbiano conformato la vita all’interno del matrimonio e cui si possano ricollegare, con accertamento del relativo nesso causale, sacrifici o rinunce, in particolare, alla vita lavorativa/professionale del coniuge economicamente più debole, che sia risultato incapace di garantirsi un mantenimento adeguato, successivamente al divorzio”.

Allegati

opposizione a decreto ingiuntivo

Opposizione a decreto ingiuntivo: mediazione a carico del condominio Nell’opposizione a decreto ingiuntivo l’obbligo di esperire il procedimento di mediazione spetta al Condominio

Mediazione obbligatoria

Non è richiesta la mediazione obbligatoria per le controversie relative alla riscossione dei contributi dovuti dai singoli condomini, solo quando la relativa pretesa è azionata con il ricorso per decreto ingiuntivo. Infatti, in tal caso, la mediazione obbligatoria, opererà solo nell’eventuale fase del giudizio di opposizione e solo dopo la pronuncia “sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione”.

Onere della mediazione

La riforma Cartabia ha, tuttavia, precisato all’art. 5 bis che: “Quando l’azione di cui all’articolo 5, comma 1, è stata introdotta con ricorso per decreto ingiuntivo, nel procedimento di opposizione l’onere di presentare la domanda di mediazione grava sulla parte che ha proposto ricorso per decreto ingiuntivo”.

Da ciò ne consegue che l’amministratore, in caso di opposizione del decreto monitorio, ha l’onere di presentare la domanda di mediazione.

Tuttavia, egli non è costretto a convocare l’assemblea condominiale al riguardo.

Infatti, l’amministratore del condominio, per effetto della richiamata modifica normativa  di cui all’art. 5 ter non necessita della delibera assembleare autorizzativa dall’assemblea per attivare la mediazione.

Solo se il condòmino moroso opponente parteciperà alla mediazione attivata dall’amministratore e verrà formulata una proposta transattiva in quel caso l’amministratore convocherà l’assemblea per deliberare in merito.

 

impugnazione delibera condominiale

Impugnazione delibera: in mediazione occorre indicare i motivi Il Tribunale di Napoli rimarca l'obbligo di indicare espressamente i motivi di impugnativa nel procedimento di mediazione

Obbligo di mediazione impugnativa delibera assembleare

Ai sensi dell’art. 5, co. 1, d.lgs 28/2010, chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, associazione in partecipazione, consorzio, franchising, opera, rete, somministrazione, società di persone e subfornitura, è tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione, il che significa che, nelle materie di cui sopra, l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L’improcedibilità è eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza.

Quando l’azione di cui all’articolo 5, co. 1, è stata introdotta con ricorso per decreto ingiuntivo, nel procedimento di opposizione l’onere di presentare la domanda di mediazione grava sulla parte che ha proposto ricorso per decreto ingiuntivo (art 5 bis, d.l gs 28/2010) e quindi sul condominio ricorrente.

Ai fini della tempestività (al fine di impedire, nella specie, la decadenza per inosservanza del termine di cui all’art. 1137, 2° comma, c.c.) della domanda di mediazione obbligatoria ex art. 5 d.lgs. 25/2010, quel che conta, afferma il tribunale di Napoli, nella sentenza n. 10208/2023, “è la comunicazione a controparte della avvenuta presentazione della domanda, e non anche della data di convocazione dinanzi all’organismo di mediazione”.

L’art. 5, 6° comma, del d.lgs. 28/2010 prevede, infatti, che “Dal momento della comunicazione alle altre parti, la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale. Dalla stessa data, la domanda di mediazione impedisce altresì la decadenza per una sola volta, ma se il tentativo fallisce la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza, decorrente dal deposito del verbale di cui all’art. 11 presso la segreteria dell’organismo”.

Pertanto, osserva ancora il tribunale, “non è dal momento della presentazione della domanda di mediazione, ma soltanto dal momento della relativa comunicazione all’altra o alle altre parti, che si verifica l’effetto, collegato dalla legge alla proposizione della relativa procedura deflattiva, di impedire la decadenza eventualmente prevista per la proposizione dell’azione giudiziale, come nel caso della impugnazione delle delibere dell’assemblea condominiale, ex art. 1137, 2° comma, c.c.” (cfr. Cass. 2273/2019).

Peraltro, non sembra possa validamente porsi in dubbio che l’onere della comunicazione (al fine anzidetto) della presentazione della domanda di mediazione incomba sulla parte che l’ha presentata, e non già sull’adito organismo di mediazione, come si evince in modo univoco dalla stessa formulazione della norma, che collega l’effetto interruttivo della prescrizione o impeditivo della decadenza al momento della comunicazione alle altre parti della domanda di mediazione.

Obbligo di indicare i motivi di impugnativa in mediazione

Quanto all’obbligo di indicare, a pena di improcedibilità, tutti i vizi e le motivazioni e le domande che saranno poi oggetto dell’azione giudiziaria, il tribunale ricorda che ai sensi dell’art. 4, comma 2 del d.lgs. 28/2010: “L’istanza deve indicare l’organismo, le parti, l’oggetto e le ragioni della pretesa” e deve avere gli stessi elementi (parti, oggetto e ragioni) riproposti in sede processuale (persone, petitum e causa petendi dell’art. 125 c.p.c.) ciò in quanto la mediazione è effettiva solo ove la parte chiamata viene messa in condizione di conoscere tutte le questioni costitutive della pretesa dell’altra parte. L’istanza perciò deve essere completa, così da rendere possibile il raggiungimento di un accordo che risolva la materia del contendere evitando un procedimento giudiziale.

“Una domanda di mediazione generica sotto il profilo del petitum o della causa petendi, non può considerarsi validamente espletata e comporta l’improcedibilità della domanda” (nota 1).

Nella specie, invero, parte attrice ha avanzato istanza di mediazione dalla quale si evince soltanto l’oggetto della domanda, ossia l’impugnativa della delibera del 17.12.2021 con particolare riguardo ai capi 2 e 3 all’ordine del giorno senza alcuna indicazione dei motivi di tale impugnazione.

Orbene, precisa il giudice, se è vero che per la mediazione ante causam è sempre possibile sanare l’improcedibilità, potendo il giudice demandare un nuovo esperimento della mediazione e, solo in caso di mancato (valido) esperimento di tale nuova mediazione, pronunciare l’improcedibilità della domanda, è anche vero che nel caso di impugnazione di delibera condominiale sussiste un termine di decadenza che viene interrotto  dalla “comunicazione” (che può essere fatta sia dall’organismo di mediazione che direttamente dall’istante) della istanza di mediazione alla controparte una sola volta e che inizia a decorrere nuovamente dal deposito del verbale conclusivo della mediazione.

Tale effetto interruttivo, però, può essere riconosciuto solo ad una procedura validamente espletata ed in relazione all’istanza comunicata che sia simmetrica alla futura domanda giudiziale, tenuto conto della natura deflattiva dell’istituto della mediazione, volto ad instaurare subito, già dinanzi al mediatore e prima del processo, un effettivo contraddittorio sulle questioni che saranno oggetto del futuro ed eventuale giudizio di merito. Ed è sempre in virtù della fine della procedura che il legislatore ricollega, per una sola volta, alla mediazione l’interruzione delle decadenze.

Diversamente, consentire alla parte di avvalersi del beneficio dell’impedimento delle decadenze con la mera presentazione di una “istanza” che non presenti i requisiti sopra indicati, significherebbe svilire l’istituto della mediazione ad un mero adempimento burocratico, in contrasto con la ratio ad esso sotteso, ed incentivare il suo uso meramente dilatorio, a beneficio di una sola parte.

Nel caso di specie l’istanza di mediazione versata in atti si presenta del tutto generica, non contiene alcun riferimento alle singole delibere impugnate ed ai vizi ad esse imputati; la domanda giudiziale, invece, contiene l’impugnativa di più deliberati (si tratta, infatti, di più delibere assunte su diversi ordini del giorno della stessa seduta) e l’esposizione, per ciascuna di essi, dei singoli vizi denunciati (contemplando, peraltro, in alcuni casi, anche censure che non si sostanziano, strictu sensu, in vizi di legittimità delle delibere).

Mancando la necessaria simmetria tra l’istanza di mediazione e la domanda giudiziale in concreto formulata, la mediazione non può ritenersi validamente svolta e, quindi, non impedita la decadenza dell’impugnazione ex art. 1137 c.c. (per cui sarebbe risultato inutile demandare alle parti una nuova mediazione che mai avrebbe potuto sanare la decadenza nella quale è incorsa la parte attrice).

Infatti, nel caso sottoposto all’esame del tribunale “non può parlarsi di parziale difformità, di non perfetta coincidenza di petitum e causa petendi ovvero di generica indicazione dei motivi giacché essi oggettivamente non risultano in alcun modo richiamati nell’istanza di mediazione”.

Conseguentemente, il tribunale napoletano dichiara improcedibile la domanda e inammissibile l’impugnazione per intervenuta decadenza.