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Revisione assegno divorzio e criteri di valutazione La richiesta di revisione dell’assegno di divorzio deve essere valutata sulla base di criteri giurisprudenziali vigenti all’epoca del divorzio o alla stregua del “diritto vivente” al momento della decisione sulla domanda di revisione?

Quesito con risposta a cura di Enesia Ciampa, Giovanna de Feo, Giacomo Migliarini

 

In tema di revisione dell’assegno divorzile, ai sensi dell’art. 9, L. 898/1970, una volta accertata, in fatto, la sopravvenienza di circostanze potenzialmente idonee, con riferimento alla fattispecie concreta, ad alterare l’assetto economico stabilito tra gli ex coniugi al momento della pronuncia sulle condizioni del divorzio, quale presupposto necessario per l’instaurazione del giudizio di revisione dell’assegno, il giudice deve procedere alla valutazione, in diritto, dei “giustificati motivi” che ne consentono la revisione sulla base del “diritto vivente”, tenendo conto della interpretazione giurisprudenziale delle norme applicabili corrente al momento della decisione. – Cass., sez. I, 19 gennaio 2023, n. 1645.

Nel caso di specie la Suprema Corte è chiamata a valutare se, una volta appurata la sopravvenienza di circostanze potenzialmente idonee a modificare la situazione di fatto e quindi ad alterare l’equilibrio economico esistente fra gli ex coniugi come accertato al momento della pronuncia di divorzio, la valutazione della domanda di revisione debba essere condotta sulla base dei criteri giurisprudenziali vigenti all’epoca del divorzio o alla stregua del “diritto vivente” al momento della decisione sulla domanda di revisione.

La vicenda processuale prende le mosse dal rigetto, in primo e in secondo grado, dell’istanza di modifica delle condizioni di divorzio presentata da uno degli ex coniugi ai sensi dell’art. 9, L. 898/1970. In particolare, secondo i giudici di merito, la revisione dell’assegno divorzile è possibile solo a fronte di un sopravvenuto mutamento delle condizioni economico-patrimoniali dell’uno e/o dell’altro coniuge; cambiamento, questo, che Secondo la Corte territoriale, non è avvenuto nel caso di specie.

Non solo. Anche il richiamo operato dal ricorrente ai principi sanciti in materia di assegno divorzile dalla recente giurisprudenza a Sezioni Unite (Cass. S.U. 18287/2018) sarebbe inconsistente, atteso che la presenza di un nuovo orientamento giurisprudenziale non può soddisfare il presupposto della sopravvenienza di “giustificati motivi” richiesto dall’art. 9, L. 898/1970.

Avverso la pronuncia del gravame, viene proposto ricorso per Cassazione, contestando, fra gli altri motivi, la violazione e falsa applicazione dell’art. 5, L. 898/1970, in ragione del mutamento interpretativo dei criteri a presidio del riconoscimento dell’assegno divorzile.

In particolare, il ricorrente, per il tramite del proprio difensore, ha rilevato che, posto che l’ermeneutica riconduce il requisito dei “giustificati motivi” richiesto dall’art. 9 ai soli “fatti” nuovi sopravvenuti, materialmente intesi, una volta accertati i richiamati mutamenti fattuali, la valutazione sulla persistenza dell’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge e della sua entità non può prescindere anche da un’analisi del diritto alla luce dei criteri espressi dal più recente orientamento delle Sezioni Unite, che ne mutano la base di concessione e permanenza.

In buona sostanza, sebbene la pronuncia della Corte Territoriale si fondasse su un precedente del Supremo Collegio, secondo cui il sopravvenuto mutamento delle condizioni patrimoniali attiene esclusivamente agli elementi di fatto – con la conseguenza che qualsiasi diversa interpretazione delle norme applicabili avallata dal diritto vivente giurisprudenziale sarebbe opzione esegetica non percorribile perché ricognitiva dell’esistenza e del contenuto di una “regola iuris”, e non creativa della stessa (Cass. S.U. 20 gennaio 2020, n. 1119) – non può ignorarsi che la funzione assistenziale e perequativa attribuita all’assegno divorzile incide inevitabilmente sulla considerazione e valutazione dei “fatti nuovi sopravvenuti”.

Esaminati i motivi in diritto e i propri precedenti giurisprudenziali, la Corte di Cassazione accoglie il ricorso considerando il motivo fondato e assorbente, in quanto la pronuncia della Corte di Cassazione alla base della sentenza impugnata non è pertinente al caso di specie, essendo la situazione di fatto differente rispetto vista la sopravvenienza di nuove circostanze di fatto, idonee ad alterare l’equilibrio economico precedentemente esistente tra gli ex coniugi.

Detto altrimenti, a fronte della sopravvenienza di nuove circostanze fattuali in grado di alterare l’equilibrio economico-patrimoniale degli ex coniugi, la valutazione della domanda di revisione deve essere condotta alla stregua del “diritto vivente” al momento della decisione sulla domanda di revisione medesima: infatti, una volta che il giudice abbia concretamente accertato in fatto il sopravvenuto mutamento delle condizioni patrimoniali delle parti, è possibile procedere al giudizio di revisione dell’assegno divorzile da rendersi proprio alla luce dei rinnovati principi giurisprudenziali e alla stregua della funzione assistenziale e perequativa attribuita ermeneuticamente a detto assegno.

La Corte, dunque, da un lato, ribadisce la natura sia assistenziale che perequativo-conservativa dell’assegno divorzile – intesa come funzione equilibratrice tra il riconoscimento del ruolo e del contributo effettivamente fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio familiare –, e la sopravvenuta inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, accompagnata dall’impossibilità oggettiva di procurarseli ex se, e, dall’altro lato, ricorda che gli orientamenti del giudice delle leggi hanno carattere retroattivo, in forza della natura dichiarativa dei propri enunciati.

Dalle considerazioni che precedono deriva che, in relazione al caso di specie, i fatti alla base della nozione di “giustificati motivi”, di cui all’art. 9, comma 1, L. 898/1970, rilevano non in senso naturalistico, ma in virtù dell’evidenza giuridica delle norme implicate, secondo la lettura fornita dal diritto vivente nel momento in cui la decisione viene assunta. In altri termini, uno stesso fatto può rilevare diversamente in virtù del mutamento dell’orientamento nomofilattico della giurisprudenza di legittimità, con la conseguenza che una volta dato legittimamente ingresso alla valutazione dei fatti sopravvenuti, il giudice di merito dovrà uniformarsi alla diversa lettura interpretativa maturata nel tempo.

Di qui l’accoglimento del ricorso e la cassazione della sentenza impugnata con rinvio alla Corte Territoriale.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. I, 20 gennaio 2020, n. 1119
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Formazione all’estero e validità in Italia I titoli di formazione professionale relativi a cicli di studi post-secondari conseguiti all’estero ai fini dell’esercizio della professione di docente sono validi in Italia?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. Plen., 29 dicembre 2022, n. 22.

La vicenda esaminata attiene al riconoscimento della validità del titolo di formazione professionale (denominato “Programului de studi psichopedagogice, Nivel I e Nivel II”) presso un’Università rumena, ai fini dell’esercizio della professione di docente conseguito in Romania.

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha confermato la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, a far data dalla nota sentenza “Morgenbesser” del 13 novembre 2003, in causa C-313/2001, ristabilendo il rispetto dei principi della Direttiva Europea n. 36/2005 in materia di mobilità delle professioni e conseguentemente il diritto alla libertà di circolazione e di stabilimento, previsti dagli artt. 45 e 49 del Trattato fondativo dell’Unione Europea.

Nel caso di specie rileva l’art. 13, comma 1, del D.Lgs. 206/2007, attuativo della Direttiva 2005/36/CE, per il quale: “Se, in uno Stato Membro ospitante, l’accesso ad una professione regolamentata o il suo esercizio sono subordinati al possesso di determinate qualifiche professionali, l’autorità competente di tale Stato Membro dà accesso alla professione e ne consente l’esercizio alle stesse condizioni dei suoi cittadini, ai richiedenti in possesso dell’attestato di competenza o del titolo di formazione di cui all’art. 11, prescritto da un altro Stato Membro per accedere alla stessa professione ed esercitarla sul suo territorio”.

Tale disposizione indica, dunque, il procedimento da seguire e dispone il riconoscimento con il solo possesso dell’attestato di competenza o del titolo di formazione, per accedere alla stessa professione, previsto da un altro Stato Membro.

Si afferma, quindi, che il Ministero italiano deve valutare la corrispondenza del corso di studi effettuato, e dell’eventuale tirocinio, con quello italiano, e all’esito dell’istruttoria può disporre
o il riconoscimento alle condizioni di cui all’art. 21 del D.Lgs. 206/2007 ovvero misure compensative di cui al successivo art. 22 del D.Lgs. 206/2007 cit.

In proposito, è importante evidenziare che la Commissione europea ha enunciato la non necessaria identità tra i titoli confrontati, essendo sufficiente una mera equivalenza per far scaturire il dovere di riconoscere il titolo conseguito all’estero.

Come affermato dai Giudici, il certificato va considerato secondo il sistema generale di riconoscimento, confrontando le qualifiche professionali attestate da altri Stati membri con quelle richieste dalla normativa italiana e disponendo, se del caso, misure compensative in applicazione dell’art. 14 della Direttiva 2005/36/CE.

Il Ministero dell’Istruzione riscontrata la possibile equivalenza deve, dunque, esaminare le istanze di riconoscimento del titolo formativo tenendo conto dell’intero compendio di competenze, conoscenze e capacità acquisite.

Sulla base di tali premesse, la VII Sezione del Consiglio di Stato ha rimesso la soluzione della questione all’Adunanza Plenaria, che in definitiva enuncia il seguente principio di diritto: “Spetta al Ministero competente verificare se, e in quale misura, si debba ritenere che le conoscenze attestate dal diploma rilasciato da altro Stato o la qualifica attestata da questo, nonché l’esperienza ottenuta nello Stato membro in cui il candidato chiede di essere iscritto, soddisfino, anche parzialmente, le condizioni per accedere all’insegnamento in Italia, salva l’adozione di opportune e proporzionate misure compensative ai sensi dell’art. 14 della Direttiva 2005/36/CE.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. VII, 14 luglio 2022, n. 5983; Id., 16 marzo 2022, n. 1850;
Cons. Stato, sez. VI, 3 novembre 2021, n. 7343; Id., 17 febbraio 2020, n. 1198
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Richieste assistenza giudiziaria internazionale È sindacabile l’atto con cui il Ministero della Giustizia provvede sulle richieste di assistenza giudiziaria internazionale (art. 723 c.p.p.)?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. Plen., 6 dicembre 2022, n. 15.

Il Consiglio di Stato enuncia che è sindacabile l’atto con cui il Ministero della Giustizia provvede sulle richieste di assistenza giudiziaria internazionale.

Si tratta, infatti, di un provvedimento amministrativo discrezionale che sotto il profilo del difetto di motivazione può essere sottoposto al vaglio del giudice amministrativo.

Con riguardo alla vicenda in esame, il collegio si è direttamente pronunciato nel merito degli appelli, accogliendoli, in specie annullando gli atti del Ministero per carenza di motivazione, con particolare riferimento alla possibile violazione del principio del ne bis in idem.

Nel caso di specie, la questione è partita da sei richieste dell’India di notificazione delle citazioni a giudizio ai vertici di una società per rispondere dei reati di corruzione e riciclaggio in pubbliche forniture al Governo straniero. I vertici della società, per i medesimi fatti, erano stati già processati in Italia e assolti in via definitiva. Il Consiglio di Stato ha annullato gli atti del Ministero di accoglimento delle richieste del Governo indiano, affermando che il Ministero non aveva motivato in ordine alle ragioni per cui non aveva esercitato il proprio potere di “blocco”.

L’Adunanza Plenaria evidenziava che, il Ministero esercita un potere discrezionale, in forza del quale è tenuto a valutare tutti i profili presi in considerazione dall’art. 723 c.p.p.”. Pertanto, la motivazione deve essere contenuta nell’atto di accoglimento della richiesta formulata dallo Stato estero o va desunta per relationem da un precedente atto infra-procedimentale.

Nel caso specifico, invece, non si è preso in considerazione il precedente “giudicato assolutorio” con il rischio concreto che “le medesime persone, già assolte, verrebbero nuovamente sottoposte ad un giudizio per i medesimi fatti, davanti all’autorità giudiziaria penale estera”, così ponendo in discussione la sovranità statale.

Nella medesima direzione va anche la possibile violazione della necessità della “doppia incriminazione”, con riguardo all’imputazione di riciclaggio formulata dall’autorità indiana, perché rivolta ai concorrenti nel reato di corruzione presupposta, in violazione dell’incompatibilità sancita invece da diritto penale interno (art. 648bis c.p.).

Tutte questioni sulle quali non si riscontra nei provvedimenti impugnati alcuna presa di posizione sul piano motivazionale.

Ciò premesso, per i Giudici va affermato che: “Il difetto di motivazione esplicita degli atti con cui è stato dato seguito alle richieste di assistenza giudiziaria internazionale è sindacabile, sotto il profilo del difetto di motivazione, poiché come nel caso di specie, si è in presenza di un provvedimento discrezionale, che va adeguatamente motivato”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 1° giugno 2022, n. 4487;
Cons. Stato, sez. VII, 16 marzo 2022, n. 1889;
Cons. Stato, sez. VI, 3 agosto 2021, n. 5727;
Cons. Stato, sez. IV, 21 febbraio 2020, n. 1341;
Cons. Stato, sez. V, 14 febbraio 2020, n. 1180
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Limite di età borse di studio Cassazionisti È legittima la scelta dell’Amministrazione di apporre un limite di età (fino al 45° anno di età) nel bando del CNF per l’erogazione delle borse di studio per l’acquisizione del titolo di cassazionista?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, lo precisa il Cons. Stato, sez. I, 21 dicembre 2022, n. 2057.

Il Consiglio di Stato ricorda che “tale limite d’età risponde alla ratio di “sostenere” e non “favorire” i giovani professionisti, vale a dire coloro che iniziano la professione” e che, pertanto, in considerazione della loro età anagrafica possono riscontrare maggiori difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro.

Ne discende la rispondenza ai criteri di proporzionalità e ragionevolezza di tale scelta che non sarebbe altrettanto ragionevole e proporzionata se dovesse utilizzare, per definire il giovane professionista, non l’età anagrafica ma l’età professionale, intesa – quest’ultima – quale lasso temporale dall’inizio della professione.

In proposito, l’art. 6 della direttiva 2000/78 prevede che le disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscano discriminazione là dove siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro e di formazione professionale con i relativi mezzi per il conseguimento necessario di tale finalità.

Ciò posto, occorre evidenziare che la fissazione del requisito risponde ad una logica che permea il Regolamento per l’erogazione dell’assistenza della Cassa di Previdenza e Assistenza, che mira a sostenere per i giovani professionisti l’avvio dell’attività.

In conclusione, la scelta operata dall’Amministrazione rientra nel margine di valutazione discrezionale di cui dispongono gli Stati membri nella scelta degli obiettivi di politica sociale da perseguire.

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Impugnazione delibera ANAC È impugnabile la delibera non vincolante dell’ANAC?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Le delibere ANAC possono essere impugnate qualora il provvedimento possa risultare lesivo, incidendo in concreto sulla sfera giuridica dei destinatari e arrecando, quindi, un vulnus diretto ed immediato. – Cons. Stato, sez. V, 22 dicembre 2022, n. 11200.

In senso generale, ai fini dell’impugnabilità di un provvedimento amministrativo, occorre valutare in concreto l’effetto che arreca nella sfera giuridica del destinatario e in che modo tale effetto possa arrecare pregiudizio alle posizioni giuridiche soggettive da quest’ultimo vantate.

I Giudici ricordano che, ai sensi dell’art. 213 del D.Lgs. 50/2016, l’ANAC: […] Garantisce la promozione dell’efficienza, della qualità dell’attività delle stazioni appaltanti, cui fornisce supporto […] nell’ambito dei poteri ad essa attribuiti, l’Autorità: a) vigila sui contratti pubblici, anche di interesse regionale, di lavori, servizi e forniture nei settori ordinari e nei settori speciali e sui contratti secretati o che esigono particolari misure di sicurezza ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. f-bis), della L. 6 novembre 2012, n.190, nonché sui contratti esclusi dall’ambito di applicazione del codice; b) vigila affinché sia garantita l’economicità dell’esecuzione dei contratti pubblici e accerta che dalla stessa non derivi pregiudizio per il pubblico erario […]”.

L’attività di vigilanza si sostanzia in una funzione di controllo sulla condotta delle amministrazioni e degli operatori, dunque, sulla regolarità della procedura di gara, sulla fase di esecuzione della commessa e sulla stipula dei protocolli d’intesa con le stazioni appaltanti.

La vicenda all’attenzione del Consiglio di Stato attiene ad un provvedimento che rilevava disfunzioni e irregolarità nell’esecuzione dell’appalto e che conseguentemente invitava l’amministrazione e l’operatore a comunicare le misure da adottare.

Nel caso specifico, la Delibera resa ai sensi dell’art. 213 del D.Lgs. 50/2016, contiene un evidente obbligo conformativo. L’ANAC ha reso una valutazione globale che ha investito l’intera procedura di gara, non limitandosi alla valutazione delle varianti, invitando stazione appaltante e operatore economico a conformarsi nella successiva attività alle modalità operative indicate, e contestualmente chiedendo di essere informato sulle azioni intraprese per l’allineamento con i rilievi espressi, nella sostanza, rappresentando un vincolo alle scelte che la pubblica amministrazione avrebbe inteso operare.

Orbene, la delibera risulta certamente suscettibile di ricorso.

Secondo il Consiglio di Stato: “L’impugnabilità di una delibera non vincolante dell’ANAC non è da escludersi in senso assoluto, atteso che tale provvedimento potrebbe assumere connotazione lesiva tutte le volte in cui, riferendosi alla fattispecie concreta, di fatto incide sulla sfera giuridica dei destinatari, essendo idonea ad arrecare un vulnus diretto ed immediato. Ne consegue che, la sua lesività non va valutata in astratto o sulla base dell’inquadramento dogmatico del provvedimento, dovendosi rilevare gli effetti conformativi che lo stesso produce, nell’immediato, nei confronti dei soggetti a cui è indirizzata”.

Sulla scorta di tanto, se le indicazioni dell’Autorità, nell’ambito del potere di vigilanza e controllo, assumono il ruolo di canoni oggettivi a cui conformarsi, determinano un effetto immediatamente lesivo nella sfera giuridica del destinatario e, pertanto, sono impugnabili: in sostanza, quando le deliberazioni dell’ANAC contengono vincoli conformativi puntuali alla successiva attività dei soggetti vigilati, in capo ai quali non residuano facoltà di modulazione quanto al contenuto e all’estensione, rappresentano provvedimenti lesivi nei confronti dei quali va garantita la tutela del diritto di difesa del destinatario ai sensi dell’art. 24 della Costituzione.

Inoltre, il ricorso è stato accolto anche con riferimento al superamento del termine di conclusione della delibera, secondo i criteri temporali individuati dal Regolamento dell’ANAC, che ne ha di fatto determinato l’illegittimità.

Non può applicarsi ai procedimenti che conducono all’adozione di provvedimenti lesivi o sanzionatori la regola della natura ordinatoria dei termini procedimentali non espressamente qualificati come perentori. A prescindere da un’espressa qualificazione normativa dei relativi provvedimenti, nei procedimenti che conducono a conseguenze pregiudizievoli, i termini sono sempre perentori, essendo la perentorietà imposta dal principio di effettività del diritto di difesa e dal principio di certezza dei rapporti giuridici.

Ad ogni modo, secondo i Giudici, l’esercizio di una potestà amministrativa che ha conseguenze pregiudizievoli, di qualsiasi natura, e a prescindere da una espressa qualificazione in tal senso nella legge o nel regolamento che la preveda, non può restare esposta sine die all’inerzia dell’autorità preposta.

Si conclude, pertanto che, quando le deliberazioni dell’ANAC contengono vincoli conformativi puntuali alla successiva attività dei soggetti vigilati, in capo ai quali non residuano facoltà di modulazione quanto al contenuto e all’estensione, rappresentano provvedimenti lesivi nei confronti dei quali va garantita la tutela del diritto di difesa del destinatario.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 19 agosto, 2020, n. 5097;
Cons. Stato, sez. VI, 11 marzo 2019, n. 1622;
Cons. Stato, sez. V, 23 aprile 2019, n. 2572
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Periodi di riposo al padre lavoratore dipendente Sono riconosciuti i periodi di riposo, ai sensi degli artt. 39 e 40 del D.Lgs. 151/2001, al padre lavoratore dipendente (del minore di anni uno) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. Plen., 28 dicembre 2022, n. 17.  

I Giudici ricordano che: “I periodi di riposo di cui all’art. 39 del D.Lgs. 151/2001 rientrano nel novero dei diritti riconosciuti in attuazione del valore costituzionale tutelato dalla funzione genitoriale, cui si riconnettono: 

  •  sia le responsabilità di entrambi i genitori nei confronti del figlio (naturale o adottivo), e dunque il diritto dei medesimi ad ottenere dall’ordinamento il riconoscimento delle migliori condizioni possibili onde assolvere ad una funzione non solo individuale, ma anche socialmente fondamentale;
  • sia, specularmente, il diritto del figlio ad ottenere, per il tramite dell’assistenza dei genitori, ottimali condizioni di crescita e di sviluppo della sua età evolutiva”.

Ed invero, l’esercizio della funzione genitoriale tende sia alla piena realizzazione dei diritti del bambino ad ottenere la migliore assistenza da parte dei genitori sia a costituire espressione del diritto “proprio” di ciascuno dei genitori, quale espressione della loro personalità, ad accompagnare la crescita del figlio.

Occorre, dunque, prendere le mosse dell’art. 40 del D.Lgs. 151/2001, che prevede la fruizione dei riposi orari del padre lavoratore nei casi: a) in cui i figli siano affidati al solo padre; b) in cui la madre lavoratrice non se ne avvalga; c) in cui la madre non sia lavoratrice dipendente; d) di morte o di grave infermità della madre.

La giurisprudenza si è interrogata se il diritto ai riposi orari spettasse anche nel caso in cui la madre fosse una casalinga; dunque, se potesse rientrare nel novero di “madre non lavoratrice dipendente”.

Sul punto vi sono stati diversi indirizzi interpretativi.

Secondo un primo indirizzo positivo, con “madre lavoratrice dipendente” si ricomprendono tutte le ipotesi in cui non esiste un rapporto di lavoro dipendente, dunque sia il caso della lavoratrice autonoma sia il caso della donna che non svolga alcun lavoro nonché il caso della donna che svolga un’attività non retribuita (come appunto la casalinga).

Orbene, la ratio della disposizione si individuava nel principio della paritetica partecipazione di entrambi i genitori alla cura e all’educazione della prole, così come enunciato nei precetti costituzionali contenuti negli artt. 3, 29, 30 e 31.

Per quanto attiene all’orientamento negativo, il principio di alternatività nella cura del minore andrebbe escluso in termini assoluti e non sarebbe possibile ricondurre la casalinga alla condizione di non lavoratrice dipendente. Interpretazione che si fonda sulla ricerca del necessario equilibrio tra il diritto-dovere di entrambi i coniugi di assistere i figli e le specifiche esigenze del datore di lavoro.

Si è poi affermato un indirizzo intermedio, secondo il quale il padre ha diritto ai permessi solo nel caso in cui dimostri che la moglie casalinga è impossibilitata ad assicurare le necessarie cure al bambino.

Tale contrasto interpretativo induceva la Seconda Sezione del Consiglio di Stato a deferire la questione all’Adunanza Plenaria, che osservava come: “i periodi di riposo di cui all’art. 39 rientrano nel novero dei diritti riconosciuti in attuazione del valore costituzionalmente tutelato della funzione genitoriale”.

Escludere il diritto del padre alla fruizione dei riposi in caso di presenza nel nucleo familiare della madre casalinga, comporterebbe un’irragionevole privazione del diritto del padre lavoratore dipendente, non giustificata dal testo della norma che nella sua chiarezza non consente interpretazioni riduttive.

Da quanto sin qui esposto, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha enunciato il principio di diritto secondo cui: «L’art. 40, comma 1, lett. c), D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità), laddove prevede che i periodi di riposo di cui al precedente art. 39 sono riconosciuti al padre lavoratore dipendente del minore di anni uno, “nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”, intende riferirsi a qualsiasi categoria di lavoratrici non dipendenti; e quindi anche alla donna che svolge attività lavorativa in ambito familiare, senza che sia necessario, a tal fine, che ella sia impegnata in attività che la distolgano dalla cura del neonato, ovvero sia affetta da infermità».

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. civ., sez. lav., 28 novembre 2019, n. 31137;
Cons. Stato, sez. III, 10 settembre 2014, n. 4618;
Cass., civ., sez. III, 20 luglio 2010, n. 16896; Id., 24 agosto 2007, n. 17977;
Id., 20 ottobre 2005, n. 20324
Difformi:      Cons. Stato, sez. II, 4 marzo 2021, n. 1851;
Cons. Stato, sez. IV, 30 ottobre 2017, n. 499;
Cons. Stato, sez. I, 22 ottobre 2009, n. 2732
monte orario tariffe avvocato

Avvocato: senza accordo sul monte orario si ricorre alle tariffe La mancata dimostrazione del monte orario per lo svolgimento dell’incarico professionale non impedisce al giudice di ricorrere alle tariffe per la determinazione del compenso

Monte orario in mancanza di patto

Il contenzioso sul quale la Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi, con ordinanza n. 3492-2024, ha avuto ad oggetto, in mancanza di un accordo sul del monte orario, la determinazione del compenso professionale spettante ad un’associazione di avvocati nei confronti dell’attività dalla stessa svolta in favore del proprio cliente.

Avverso la decisione adottata dalla Corte di Appello di Milano, con cui l’associazione di professionisti era stata condannata alla restituzione di quanto versato dal proprio cliente, la parte soccombente aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di cassazione, contestando il fatto che i giudici del merito avessero ritenuto, rispetto al caso di specie, di non poter dare applicazione alle tariffe professionali ai fini della quantificazione del compenso.

Sul punto, la ricorrente ha in particolare affermato che il giudice è “tenuto a determinare il compenso con criterio equitativo, indipendentemente dalla specifica richiesta del professionista e dalla carenza delle risultanze processuali sul quantum”.

Criterio pattizio: mero criterio di quantificazione del compenso

La Suprema Corte, con la sopracitata sentenza, ha accolto il ricorso proposto dall’associazione, ritenendolo fondato.

La Corte ha motivato la propria decisione facendo riferimento alla recente giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto, secondo cui, in tema di compensi professionali, la norma architrave, data dall’art. 2233 cod. civ “a tenore della quale il compenso dovuto per la prestazione d’opera intellettuale, se non è convenuto dalle parti e se non può essere stabilito secondo le tariffe o gli usi, è determinato dal giudice, sentito il parere dell’associazione professionale a cui il professionista appartiene, pone una gerarchia di carattere preferenziale tra i vari criteri di determinazione del compenso”. Medesimi criteri valgono per il caso in cui il professionista svolga attività stragiudiziale.

Sulla scorta di quanto sopra riferito, ha evidenziato la Corte “la mancata dimostrazione del monte orario occorso per lo svolgimento dell’incarico impedisce esclusivamente l’applicazione del parametro pattizio, il quale costituisce mero criterio di quantificazione del compenso non incidente sull’an del credito, ma non inibisce al giudice il potere di ricorrere al criterio residuale delle tariffe”.

Ne consegue, a giudizio della Suprema Corte, che i giudici del merito hanno errato nel ritenere che il compenso del professionista potesse essere quantificato esclusivamente facendo ricorso alle tariffe orarie, omettendo di liquidare gli onorari spettanti in ragione della mancata dimostrazione di tale presupposto.

Sulla scorta di tali argomentazioni, il Giudice di legittimità ha pertanto ritenuto fondato il motivo posto a fondamento del ricorso e ha cassato la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Milano.

Allegati

inammissibilità ricorso Cassazione

Inammissibilità ricorso Cassazione Il ricorso in Cassazione è inammissibile per diverse cause, alcune sancite dalla legge, altre dalla giurisprudenza

Definizione di inammissibilità

L’inammissibilità del ricorso in Cassazione richiede un chiarimento preventivo. Nel diritto processuale un atto è inammissibile quando non presenta i requisiti richiesti dalla legge. Tale vizio è considerato così grave da impedire al giudice di prendere in esame la richiesta avanzata dalla parte. Traslando questo concetto al ricorso in Cassazione, esaminiamo le ipotesi più emblematiche in cui la legge e la giurisprudenza sanciscono l’inammissibilità del ricorso in Cassazione.

Inammissibilità del ricorso in Cassazione: art. 360 bis c.p.c.

La prima norma che si occupa della inammissibilità del ricorso in Cassazione è l’articolo 360 bis c.p.c. Esso dispone, nello specifico, che il ricorso in Cassazione è inammissibile in due distinte ipotesi:

  • quando il provvedimento che viene impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo del tutto conforme all’indirizzo giurisprudenziale della Corte di Cassazione e dall’esame dei motivi non emergono elementi che possano condurre alla conferma o al mutamento di detto orientamento;
  • quando la censura sollevata dal ricorrente relativa alla violazione dei principi che regolano il giusto processo risulta manifestamente infondata.

La norma, introdotta nel 2009, consente di effettuare una selezione rigorosa dei ricorsi con lo scopo di ridurre il carico di lavoro della Corte di Cassazione.

Sottoscrizione del difensore e procura speciale

Un’altra causa di inammissibilità del ricorso in Cassazione è contemplata espressamente dall’art. 365 c.p.c La norma richiede infatti che il ricorso diretto alla Corte di Cassazione sia sottoscritto, a pena di inammissibilità, da un difensore iscritto nell’apposito albo degli avvocati Cassazionisti e che lo stesso sia munito di procura speciale che può avere la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata (art. 83 c.p.c).

Inammissibilità del ricorso per ragioni di contenuto

Un’altra causa di inammissibilità del ricorso in Cassazione è contemplata dall’art. 366 c.p.c che si occupa del contenuto di questo atto. La norma dispone infatti che il ricorso, a pena di inammissibilità, debba contenere i seguenti dati:

  • l’indicazione delle parti della controversia;
  • l’indicazione della sentenza oggetto del ricorso in Cassazione;
  • l’esposizione chiara dei fatti di causa che risultano essenziali per l’illustrazione dei motivi del ricorso;
  • l’esposizione chiara e sintetica dei motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza e l’indicazione delle norme sulle quali detti motivi si fondano;
  • l’indicazione della procura, se la stessa è stata conferita con un atto separato e del decreto con cui il ricorrente è stato ammesso al patrocinio gratuito;
  • l’indicazione specifica, per ogni motivo, degli atti del processo, dei documenti e dei contratti collettivi sui quali il motivo sollevato si fonda e l’illustrazione del contenuto rilevante di questi atti, documenti e contratti.

La necessità di produrre i documenti indicati dall’art. 366 c.p.c (anche in un momento successivo rispetto al ricorso) a pena di inammissibilità, è ribadita dall’art. 372 c.p.c. Questa norma precisa infatti che: “1. Non è ammesso il deposito di atti e documenti non prodotti nei precedenti gradi del processo, tranne di quelli che riguardano la nullità della sentenza impugnata e l’ammissibilità del ricorso e del controricorso. 2. Il deposito dei documenti relativi all’ammissibilità può avvenire indipendentemente da quello del ricorso e del controricorso, fino a quindici giorni prima dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio”. 

Cause giurisprudenziali di inammissibilità del ricorso in Cassazione

A queste cause di inammissibilità del ricorso in Cassazione se ne aggiungono di ulteriori, alcune delle quali precisate direttamente dalla Corte Suprema di legittimità. Vediamone alcune tra le più recenti.

Cassazione n. 3018/2024

L’inammissibilità del ricorso, spedito per la notificazione a mezzo posta, senza che risulti versato in atti l’avviso di ricevimento del piego raccomandato. Costituisce, invero, principio consolidato che << la produzione dell’avviso di ricevimento del piego raccomandato contenente la copia del ricorso per cassazione spedito per la notificazione a mezzo del servizio postale è richiesta dalla legge in funzione della prova dell’avvenuto perfezionamento del procedimento notificatorio e, dunque, dell’avvenuta instaurazione del contraddittorio. In caso di mancata produzione dell’avviso di ricevimento ed in assenza di attività difensiva dell’intimato, il ricorso per cassazione è inammissibile, non essendo consentita la concessione di un termine per il deposito (v. tra le altre, Cass. n.18361 del 2018).

Cassazione n. 3403/2024

E’ inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici o delle risultanze istruttorie operata dal giudice di merito (Cass. Sez. U. n. Corte di Cassazione – copia non ufficiale 10 di 13 34476/2019; Cass. n. 29404/2017; Cass. n. 19547/2017; Cass. n.8758/2017; Cass. n. 16056/2016; Cass. n. 5987/2021).

Cassazione n. 4300/2023

Il ricorso è palesemente inammissibile per violazione dell’art. 366, cod. proc. civ., sotto il duplice profilo della mancanza di una sintetica esposizione del fatto processuale  (…)  la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali è, per un verso, del tutto superflua, non essendo richiesto che si dia meticoloso conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale si è articolata; e per altro verso inidonea a soddisfare la necessità della sintetica esposizione dei fatti, in quanto equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto ovvero anche quello di cui non occorre sia informata, la scelta di quanto effettivamente rileva in ordine ai motivi di ricorso.

condominio parziale

Condominio parziale e lesioni: chi paga? La Cassazione chiarisce che le spese di ricostruzione di un solo corpo di fabbrica sono a carico dei condomini cui il bene comune serve

Condominio parziale e riparto delle spese: i fatti

Al fine di analizzare l’interessante arresto giurisprudenziale cui giunge la II sezione della Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 13229 del 16 maggio 2019 in tema di condominio parziale, è opportuno prendere le mosse dal dato normativo. Premesso il disposto di cui all’art. 1117 c.c. che elenca, salvo titolo contrario, le parti comuni dell’edificio, la norma-cardine in tema di condominio parziale è l’art. 1123 c.c. 3 comma.

Tale norma, pur intitolata alla  “ripartizione delle spese” stabilisce espressamente:

“Qualora un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell’intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condomini che ne trae utilità”.

Quindi, il presupposto per l’attribuzione in proprietà comune a tutti i condomini viene meno se le cose, gli impianti e i servizi di uso comune, per oggettivi caratteri strutturali e funzionali, siano necessari per l’esistenza o per l’uso (ovvero siano destinati all’uso o al servizio) di alcuni soltanto dei condomini (cfr. Trib. Salerno sent. 1517/2015; Cass. civ. II, n. 1680/2015).

Le conseguenze di ciò si riverberano anche nella gestione del fabbricato, nella ripartizione delle spese e consistono nel fatto che ogni atto ed ogni attività di amministrazione e/o di utilizzazione devono essere compiuti all’interno del condominio parziale, escludendo dai partecipanti quelli che sono proprietari di immobili che non godono di quel servizio o impianto, non ricevendo dallo stesso alcuna utilità.

A conferma di quanto sopra anche l’art. 1136 c.c. (“costituzione dell’assemblea e validità delle deliberazioni”), che al penultimo comma, stabilisce: “l’assemblea non può deliberare se non consta che tutti gli aventi diritto sono stati regolarmente convocati”. Mentre, antecedentemente alla Riforma, si faceva riferimento ai “condomini”, oggi attraverso la dicitura degli “aventi diritto” il legislatore ha adeguato l’impianto finendo così per riconoscere anche legittimità delle assemblee del  “condominio parziale”.

L’art. 1117 c.c. e il suo coordinamento con l’art. 1123, 3 comma, c.c.

In primo luogo si deve constatare che la legge si riferisce esplicitamente a beni comuni a tutti i condomini «se il contrario non risulta dal titolo» ex articolo 1117 c.c. Ciò vuol dire che esiste una sola eccezione per la quale i beni non sono comuni a tutti i condomini: la volontà contraria contenuta nel titolo di acquisto. Questa osservazione potrebbe sembrare sterile se il suo carattere formalistico non fosse convalidato da un ulteriore rilievo pratico e sostanziale: il motivo per cui i beni sono comuni anche a quei condomini che non li utilizzano risiede nel fatto che quei beni partecipano di un edificio unico che è, appunto, il condominio.

Il destino comune dei beni viene supportato dall’unità dell’edificio cui partecipano tutti i proprietari in virtù della loro ulteriore qualifica di condomini. In questa prospettiva il criterio di utilizzabilità non viene affatto preso in considerazione dalla legge per determinare la contitolarità dei beni di cui all’articolo 1117 c.c., per cui, se ci fermassimo nella nostra analisi, tali beni sarebbero comuni a tutti a prescindere dal loro utilizzo ed anche nel caso vi fosse un utilizzo solo da parte di alcuni.

In realtà è vero che il citato articolo 1117 c.c. non consente esplicitamente che la proprietà dei beni sia comune solo ad alcuni condomini però, a ben guardare, nemmeno lo vieta espressamente; tale possibilità è ammessa sulla base di una convenzione ma non si può escludere che il criterio dell’utilizzabilità (e quello correlato dell’utilità) non sia richiamato dall’articolo 1117 c.c. (in quanto sottinteso da quella normativa).

Il legislatore, allora, non ha esplicitamente dichiarato che il condominio riguarda solo coloro ai quali i beni servono perché tale stato di fatto rappresenta una condizione necessariamente preesistente all’operatività della norma, cioè essa è presupposta sulla base della logica determinazione dei fatti e dei conseguenti effetti che si verificano in questi casi.

Questo sembra essere il ragionamento che sta alla base dell’opinione per cui: «I presupposti per l’attribuzione della proprietà comune a vantaggio di tutti i partecipanti vengono meno se le cose, i servizi e gli impianti di uso comune, per oggettivi caratteri materiali e funzionali, sono necessari per l’esistenza o per l’uso, ovvero sono destinati all’uso o al servizio, non di tutto l’edificio, ma di una sola parte (o di alcune parti) di esso. Pertanto, del diritto soggettivo di condominio formano oggetto soltanto i servizi e gli impianti effettivamente legati alle unità abitative dal collegamento strumentale; vale a dire le sole parti di uso comune che siano necessarie per l’esistenza, ovvero siano destinate all’uso o al servizio di determinati piani o porzioni di piano».

La Cassazione (sent. n. 7885/1994)  determina anche il motivo specifico di tale conclusione: «La disposizione da cui risulta con certezza che le cose, i servizi e gli impianti di uso comune dell’edificio non appartengono necessariamente a tutti i partecipanti, si rinviene nell’art. 1123, comma terzo, c.c. Secondo questa norma, l’obbligazione di concorrere nelle spese per la conservazione grava soltanto sui condomini, ai quali appartiene la proprietà comune».

In realtà se si legge il comma in questione[1]  non si evince affatto quanto affermato dalla Cassazione, poiché viene disciplinato il criterio di spesa in base al criterio di utilità, per cui ad un primo esame, sembrerebbe che questa norma non disciplini affatto la parzialità della titolarità. Infatti, ben potrebbe intendersi nel senso che le spese sono sopportate dai condomini che ne traggono utilità ma la proprietà resta comunque in capo a tutti i condomini, anche a quelli che non usano i beni in oggetto, così come stabilito dal principio generale di sui all’articolo 1117 c.c.

È la stessa Cassazione che risponde al quesito sottolineando come il terzo comma dell’art. 1123 «non recepisce il criterio, che si assume valido in generale per la ripartizione delle spese per le parti comuni, secondo cui i contributi si suddividono tra i condomini in ragione dell’utilità. Se così fosse, il precetto sarebbe del tutto superfluo, perché ripeterebbe quello dettato dal capoverso precedente» tanto è vero che: «Posto che l’art. 1123 comma terzo ripartisce il concorso nelle spese per le parti comuni, destinate a servire le unità immobiliari in misura diversa, in proporzione all’uso che ciascuno può farne, dal contributo implicitamente esonera coloro i quali, per ragioni obbiettive afferenti alla struttura o alla destinazione, non utilizzano le parti, che non sono necessarie per l’esistenza o per l’uso, ovvero non sono destinate all’uso o al servizio dei loro piani o porzioni di piano. Se i proprietari delle unità immobiliari, non collegate con determinate parti comuni, fossero esonerati dal concorso nelle spese in virtù del criterio dell’utilità statuito dall’art. 1123 comma secondo c.c., il disposto dell’art. 1123 comma terzo sarebbe del tutto identico a quello fissato nel comma precedente e configurerebbe un duplicato inutile».

È questa un’interpretazione che collega funzionalmente le diverse parti di una norma in maniera esemplare per arrivare ad identificare una eadem ratio che sottende l’intero dettato normativo ed il ragionamento viene spiegato in questo modo: « In realtà, l’art. 1123 c.c. nei distinti capoversi contempla ipotesi differenti. Mentre al comma due regola solo ed esclusivamente la ripartizione delle spese per l’uso, al comma tre disciplina la suddivisione delle spese per la conservazione. La ragione della previsione espressa è che le cose, i servizi e gli impianti, essendo collegati materialmente e per la destinazione soltanto con alcune unità immobiliari, appartengono in comune solamente ai proprietari di queste. La disposizione, cioè, contempla l’ipotesi di condominio parziale».

Come si vede la Cassazione fa discendere esplicitamente dall’articolo 1123 c.c. III comma,  la previsione legislativa del condominio parziale il quale deve essere ammesso, non solo in base ai ragionamenti effettuati dalla Suprema Corte, ma anche in base al dato incontestabile che dalla legge non risulta alcun esplicito divieto di costituzione del condominio parziale e che il condominio parziale risulta essere una fattispecie che realizza interessi meritevoli di tutela alla stregua dei principi del nostro ordinamento giuridico.

Il caso affrontato dalla Cassazione

La fattispecie oggetto di analisi da parte della Suprema Corte attiene al riparto delle spese di risanamento di alcuni pilastri di un complesso immobiliare costituito da tre corpi di fabbrica separati da giunti tecnici. Siamo, quindi, in presenza di tre fabbricati distinti tra di loro per tipologia costruttiva e che a loro volta danno luogo a tre distinti condomini. Invero, il nesso di condominialità di cui all’art. 1117 c.c., è ravvisabile in svariate tipologie costruttive sia estese in verticale, sia costituite da corpi di fabbrica adiacenti orizzontalmente (cd. “condominio orizzontale”).

Ora, con riferimento al caso in commento, veniva impugnata una delibera assembleare che approvava la ripartizione delle spese – effettuata in base ai millesimi di proprietà generale dell’intero complesso edilizio – per il risanamento di alcuni pilastri posti al di sotto di in solo corpo di fabbrica.

La Cassazione, dopo aver delineato caratteri, presupposti, contenuto e limiti dell’istituto del condominio parziale, conferma la validità, per questo singolo caso concreto, della ripartizione effettuata per tabella generale di proprietà relativa a tutte e tre i fabbricati.

Ed infatti, seguendo gli accertamenti cui si era pervenuti in sede dei giudizi di merito, a dare prova della corretta ripartizione era proprio la circostanza che i pilastri pur risultando strutturalmente portanti per un solo corpo di fabbrica essi sostenevano non solo l’edificio sovrastante ma anche altri elementi comuni a tutti gli altri edifici (nel caso de quo un camminamento su porticato esterno condominiale). Diversamente, ove detti pilastri avessero avuto la funzione di servire solo il relativo corpo di fabbrica, il riparto delle spese per gli interventi di consolidamento avrebbe dovuto essere improntato al differente criterio di cui al terzo comma dell’art. 1123 c.c. 3° comma. Ciò in ossequio al principio di cui all’istituto del condominio parziale.

Riflessi in tema di gestione e amministrazione

La disciplina del condominio parziario si riflette anche nella validità delle convocazioni assembleari che devono avere come destinatari i soli condomini interessati;  nella costituzione della stessa assemblea che deve riportare i millesimi di comproprietà dei singoli condomini riferiti al condominio parziale e conseguentemente per lo stesso motivo anche alla fase della deliberazione.

Ora, tutti questi potrebbero apparire, a prima vista, vizi di mera annullabilità. Invero, la giurisprudenza ha più volte sancito, soprattutto negli ultimi tempi, che l’erronea determinazione dei soggetti che debbono partecipare alla decisione comporta il vizio di incompetenza dell’assemblea stessa con conseguente nullità assoluta e non mera annullabilità della decisione.

Tale più grave forma di invalidità può essere rilevata da ciascun condomino in ogni tempo. Si immagini per esempio che al posto di convocare i condomini interessati ai lavori straordinari di una scala o di un impianto a servizio di un’unica verticale si convocassero i condomini di altra scala o di altra verticale. Oppure, ancora, si faccia l’esempio dell’erroneità del riparto delle spese per i casi come quello appena descritto: si avrebbe una violazione in astratto dei criteri legali con conseguente nullità della delibera perché approvata in assenza di accordo unanime di tutti i partecipanti al condominio parziale.

Profili processuali del Condominio parziario

L’azione di accertamento negativo

Il condomino che in sede di riparto delle spese fatte dall’amministratore ritenga che esse non lo riguardino in quanto egli non è proprietario del bene per cui si è proceduto alla manutenzione, potrà chiedere al giudice, con una azione di accertamento ex art. 1123 c.c., che venga dichiarata la mancanza dell’obbligo al pagamento delle stesse in qualsiasi momento e ciò anche in sede di opposizione a decreto ingiuntivo (cfr. Cass. VI/II, ord. n. 33039/2018).

La legittimazione dell’amministratore

Ulteriori profili processuali di interesse per la figura del Condominio parziale attengono alla legittimazione dell’amministratore che è da ritenersi esclusiva anche se si controverte in materia di danni arrecati a terzi cagionati dalla cattiva custodia e manutenzione di un bene “che non appartiene a tutti i condomini”.

In presenza di condominio parziale, infatti, la legittimazione processuale spetta in ogni caso all’amministratore né il condominio parziale ha legittimità a nominare altro e diverso rappresentante in giudizio (Cass. 1264/2016, Cass. 651/2000, Trib. Salerno sent. n. 1517/2015)

Il riparto delle spese

E’ proprio dalla sentenza in esame che può trarsi il seguente principio: nei giudizi di risarcimento del danno per la cattiva manutenzione di un bene comune solo ad alcuni degli immobili in condominio, pur essendo la sentenza di condanna diretta al Condominio generalmente inteso, è poi onere dell’amministratore, in sede di riparto interno, fare buon governo dei principi di cui all’artt. 1123 c.c. 3 comma (Cass. civ. II, nn. 4436/2017 e 2363/2012).

 

[1] L’articolo 1123  III comma c.c. testualmente recita: «Qualora un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell’intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condomini che ne trae utilità».

convocazione assemblea condominio

Convocazione assemblea: l’amministratore non è obbligato ad allegare i bilanci La Cassazione chiarisce che non si configura un obbligo per l’amministratore di allegare all’avviso di convocazione anche i documenti giustificativi o i bilanci da approvare, è sufficiente l'ordine del giorno

Rendiconto e convocazione assemblea: i fatti

Un condomino impugnava la delibera assembleare per mancata allegazione del rendiconto all’avviso di convocazione contenente l’ordine del giorno. Il Giudice di prime cure respingeva la domanda attorea rilevando che il bilancio era stato allegato alla delibera di approvazione comunicata al condomino il quale non aveva, nelle more, richiesto di visionare e/o ricevere il predetto documento.

L’esito del processo di primo grado veniva ribaltato in Appello, in quanto la Corte riteneva che il bilancio dovesse essere comunicato preventivamente al condomino, essendo altrimenti leso “il diritto all’informativa generica con riferimento a quanto oggetto di assemblea”, non potendo a tal fine sopperire il successivo invio dell’atto, unitamente alla delibera di approvazione, dovendosi osservare l’obbligo di informazione in via preventiva e non successiva.

Allegazione rendiconto alla convocazione non necessaria

La Seconda Sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21271/2020 accoglie il ricorso del Condominio ritenendo come non necessaria l’allegazione del rendiconto in sede di convocazione. Ed infatti, a parere della Corte, l’obbligo di preventiva informazione dei condomini in ordine al contenuto degli argomenti posti all’ordine del giorno dell’assemblea risponde alla finalità di far conoscere ai convocati, sia pure in termini non analitici e minuziosi, l’oggetto essenziale dei temi da esaminare, in modo da consentire una partecipazione consapevole alla discussione ed alla relativa deliberazione (conformi Cass. civ. II sent. n. 21966/2017; Cass. civ. II sent. n. 25693/2018; Cass. civ. VI/II ord. n. 15587/2018).

Obbligo rispettato con l’invio dell’ordine del giorno

In altri termini, non si configura un obbligo per l’amministratore di allegare all’avviso di convocazione anche i documenti giustificativi o i bilanci da approvare, non venendo pregiudicato il diritto alla preventiva informazione sui temi in discussione, fermo restando che a ciascun condomino è riconosciuta la facoltà di richiedere, anticipatamente e senza interferire sull’attività condominiale, le copie dei documenti oggetto di eventuale approvazione.

Ove tale richiesta non sia stata avanzata, il singolo condomino non può poi invocare l’illegittimità della successiva delibera di approvazione per l’omessa allegazione dei documenti contabili all’avviso di convocazione dell’assemblea, ma può impugnarla per motivi che attengono esclusivamente alla modalità di approvazione o al contenuto delle decisioni assunte.

Conclusioni

La soluzione proposta dalla Cassazione appare improntata ad equità soprattutto se si tiene conto che la Riforma ha onerato l’amministratore alla tenuta di una ricca mole di documentazione contabile (si vedano gli elementi di cui deve comporsi obbligatoriamente il rendiconto, passati in rassegna in apertura del presente commento). Se ciò è vero, altro è affermare che tutti i predetti documenti devono essere spediti in sede di convocazione assembleare per l’approvazione dei rendiconti, con oneri cospicui a carico di tutto il Condominio. La trasparenza, a dire della Corte, è comunque rispettata stante lo strumento di richiesta di accesso alla documentazione presso lo studio dell’amministratore, da effettuarsi comunque senza sfociare in “mere esplorazioni”.

Il provvedimento in commento aderisce, dunque, ad un orientamento che sembra guadagnare consensi nel panorama giurisprudenziale di legittimità e di merito (Cass. civ. II sent. n. 21966/2017; Cass. civ. II sent. n. 25693/2018; Cass. civ. VI/II ord. n. 15587/2018)

Non si può non dare atto, tuttavia, del differente indirizzo interpretativo (ex multis Cass. civ. VI/II n. 33038/2018) maggiormente rigoroso e formalista, prevalente fino agli inizi dello scorso decennio, (contraria solo Corte Appello Roma, sent. 21 dicembre 1995), alla stregua del quale la mancata allegazione degli elementi del rendiconto all’avviso di convocazione produrrebbe comunque l’invalidità della delibera. La forma di tale invalidità viene comunque individuata nell’annullabilità, e pertanto la delibera viziata sarebbe comunque sanabile in mancanza di impugnativa nel termine di trenta giorni dalla delibera (per i condomini presenti, dissenzienti o astenuti) o dalla ricezione del verbale (per gli assenti).