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Pensione di inabilità: spese per la CTU non dovute Pensione di inabilità: il titolare del trattamento, se in condizione di disagio economico non è tenuto a pagare le spese della CTU
- Pubblicato da Annamaria Villafrate
Pensione di inabilità e disagio economico
Il titolare della pensione inabilità, in disagio economico, se chiede prestazioni previdenziali o assistenziali non può essere obbligato a pagare le spese della consulenza tecnica d’ufficio (CTU), a meno che la sua pretesa sia infondata o temeraria. Lo ha sancito la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 30147/2024, con cui ha annullato un decreto del Tribunale di Roma.
Pensione di inabilità: la vicenda
La vicenda nasce dalla decisione del Tribunale di Roma, che aveva rigettato la richiesta di pensione ordinaria di inabilità e di assegno ordinario di invalidità presentata da una ricorrente. Il Tribunale nel respingere le richieste aveva posto a carico della stessa le spese della CTU. Decisione incomprensibile, considerato che la stessa aveva dichiarato un reddito familiare inferiore al limite previsto per l’esonero dalle spese processuali.
La ricorrente ha impugnato quindi la decisione in Cassazione, lamentando la violazione dell’art. 152 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile. La norma prevede infatti che chi si trova in condizioni economiche disagiate non deve sostenere le spese del processo, inclusa la CTU, se il giudizio riguarda prestazioni previdenziali o assistenziali.
Spese della CTU non possono gravare sul richiedente
La Corte di Cassazione ha infatti accolto il ricorso, richiamando un principio consolidato. Essa ha sancito infatti che nei giudizi relativi a prestazioni previdenziali o assistenziali, le spese della CTU non possono gravare sul ricorrente che rispetta i limiti reddituali previsti, salvo che la domanda risulti palesemente infondata o temeraria.
Nella pronuncia, la Corte evidenzia che il giudice di merito non si è attenuto a questo principio. La ricorrente aveva infatti chiaramente i requisiti reddituali per l’esonero e la sua pretesa non era manifestamente infondata o avanzata in malafede. Il Tribunale, pertanto, non aveva il potere di condannarla al pagamento delle spese di CTU.
La Corte ha quindi cassato senza rinvio la parte del decreto che poneva le spese della CTU a carico della ricorrente. Ha inoltre condannato l’INPS, controparte del giudizio, al rimborso delle spese del processo di legittimità.
Art. 152 disp. att. c.p.c.: norma a tutela dei più fragili
L’art. 152 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile tutela chi si trova in difficoltà economiche. Essa stabilisce infatti che non può essere condannato al pagamento di spese processuali, competenze o onorari nei giudizi promossi per ottenere prestazioni previdenziali od assistenziali. In questi casi, l’esonero si applica anche alle spese per la CTU, strumento spesso necessario per accertare le condizioni di salute o di invalidità. Tuttavia, l’esonero non si applica se il ricorso è palesemente infondato o temerario, cioè se manca del tutto una base giuridica o fattuale per la richiesta.
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Assegno di mantenimento: rileva il dovere di assistenza materiale Assegno di mantenimento: se dovuto in caso di separazione non si può trascurare l’assistenza materiale prestata dal coniuge richiedente
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Mantenimento e dovere di assistenza materiale
Nel determinare l’assegno di mantenimento occorre considerare anche il dovere di assistenza materiale. Lo ha precisato la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 30119/2024, in cui sottolinea che il principio di assistenza materiale tutela il coniuge economicamente più debole e garantisce che le scelte prese durante il matrimonio, come la divisione dei ruoli e delle responsabilità, non penalizzino una parte in modo sproporzionato in caso di separazione.
Separazione e assegno di mantenimento per la moglie
Il caso, originato da una richiesta di separazione legale, vede il marito contestare l’obbligo di versare l’assegno di mantenimento mensile di 300 euro stabilito in primo grado. L’uomo sottolinea l’autosufficienza economica della moglie, che ha sempre lavorato, e lamenta l’errata valutazione patrimoniale delle parti, nonché l’utilizzo di un criterio prognostico basato sulle aspettative pensionistiche future della controparte. La Corte d’Appello conferma la sentenza di primo grado, motivando la decisione con una valutazione complessiva delle condizioni economiche e reddituali delle parti e ribadendo il dovere di assistenza materiale tra coniugi.
Dovere di assistenza morale permane durante la separazione
Il ricorso del marito giunge infine in Cassazione. Gli Ermellini rigettano le istanze, sottolineando alcuni principi chiave. La Corte ribadisce in particolare che l’assegno di mantenimento conseguente alla separazione personale si basa sulla necessità di garantire al coniuge economicamente più debole un tenore di vita comparabile a quello goduto durante il matrimonio, nel rispetto del dovere di assistenza materiale, che permane anche durante la separazione.
L’art. 156 c.c disciplina l’assegno di mantenimento e stabilisce che esso non è legato alla solidarietà post-coniugale, tipica dei procedimenti di divorzio, ma a un vincolo coniugale ancora in essere. Il giudizio non può quindi prescindere dall’analisi del contributo materiale ed economico offerto da ciascun coniuge durante la vita matrimoniale.
Assistenza materiale: ruolo nella determinazione dell’assegno
L’aspetto cruciale evidenziato nel caso di specie riguarda il ruolo dell’assistenza materiale fornita da un coniuge all’altro, sia in termini economici che di supporto concreto nella gestione familiare. La Corte chiarisce che questa assistenza è un elemento fondamentale da considerare per stabilire l’ammontare dell’assegno. Anche se entrambi i coniugi hanno capacità lavorative, la disparità patrimoniale e reddituale deve essere bilanciata per evitare ingiuste sperequazioni. Nel caso specifico, il marito ha evidenziato il basso tenore di vita mantenuto durante il matrimonio e l’assenza di contributo economico diretto della moglie al ménage familiare. La Corte però ha riconosciuto il diritto all’assegno sulla base di una disparità patrimoniale accertata e sul contributo non economico offerto dalla moglie.
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Allegati
- Cass-30119-2024 (1) (757 kB)
Pensione reversibilità anche senza domanda La pensione di reversibilità si basa sui requisiti maturati dal de cuius, non serve la domanda amministrativa
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Pensione reversibilità: per il diritto rilevano i requisiti
La pensione di reversibilità rappresenta un diritto fondamentale che si lega al raggiungimento dei requisiti pensionistici del de cuius, ossia la persona deceduta. La sua concessione non dipende dalla presentazione, da parte del de cuius, della domanda amministrativa per ottenere il trattamento previdenziale, ma esclusivamente dalla maturazione dei requisiti richiesti. Questo principio, riaffermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 30315/2024, stabilisce che il diritto alla reversibilità non può essere negato per la semplice mancanza di una domanda formale da parte del titolare deceduto.
Domanda di reversibilità su pensione di anzianità
La questione affrontata dalla sezione Lavoro della Corte di Cassazione riguarda una donna che, in qualità di erede, aveva richiesto la reversibilità della pensione del marito deceduto. Quest’ultimo percepiva una pensione di invalidità, ma al momento del decesso aveva maturato i requisiti per accedere a un trattamento pensionistico più favorevole, quello di anzianità. Il de cuius aveva accumulato 35 anni di contributi e aveva richiesto il riscatto degli anni di laurea, completando quasi interamente l’iter necessario per il miglior trattamento. L’unica condizione non ancora soddisfatta era il pagamento dell’ultima rata per il riscatto degli anni di studio, a cui aveva provveduto la moglie dopo la morte del marito. La donna, pertanto, ha chiesto che la pensione di reversibilità venisse calcolata in base al trattamento più vantaggioso, ovvero quello di anzianità, e non su quello di invalidità percepito dal marito.
Pensione di reversibilità: contano i requisiti
La Corte di Cassazione ha confermato il diritto della moglie di ricevere la pensione di reversibilità parametrata al trattamento di anzianità, anche se il marito non aveva presentato la domanda per questo tipo di pensione prima della morte. La pronuncia si fonda su un principio chiaro: i requisiti previdenziali raggiunti sono sufficienti a far valere il diritto al miglior trattamento pensionistico. La mancanza del presupposto amministrativo della domanda da parte del de cuius non può pregiudicare il diritto dell’erede.
Il riscatto degli anni di laurea, anche se formalmente concluso post mortem, contribuisce a consolidare il diritto del de cuius al trattamento di anzianità. Questo aspetto si traduce in un beneficio economico maggiore per la pensione di reversibilità spettante all’erede.
Questa sentenza è significativa infatti non solo per la donna che ha ottenuto il riconoscimento del suo diritto, ma anche per tutti i casi analoghi futuri. Essa infatti stabilisce che:
- il diritto alla reversibilità si basa sui requisiti previdenziali raggiunti dal de cuius;
- la mancata presentazione della domanda non inficia il diritto degli eredi;
- è legittimo parametrare la reversibilità al trattamento più favorevole, se i requisiti sono stati maturati.
In situazioni simili gli eredi possono quindi avanzare una richiesta per ottenere il trattamento previdenziale più favorevole, anche se il de cuius non ha presentato formalmente la domanda.
Leggi anche: La pensione di reversibilità non si eredita
Allegati
- Cass-30315-2024 (2 MB)
Assegno divorzile e funzione perequativa-compensativa Il sacrificio della propria carriera da parte di un coniuge al fine di dedicare il proprio tempo alla famiglia è elemento rilevante nella quantificazione dell’assegno divorzile?
- Pubblicato da Redazione
Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi
L’assegno divorzile spetta all’ex coniuge non esclusivamente in funzione assistenziale bensì anche in funzione perequativa-compensativa proprio per le scelte operate dallo stesso in costanza di matrimonio. In queste sono ricompresi non solo il contributo offerto alla comunione familiare ma anche la rinuncia concordata a occasioni lavorative e di crescita professionale in costanza di matrimonio e l’apporto alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell’ex coniuge (Cass., sez. II, 26 agosto 2024, n. 23083).
Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte dichiara infondati i motivi di ricorso miranti all’eliminazione dell’assegno divorzile riconosciuto dai giudici di merito nei confronti dell’ex coniuge. Sia il Tribunale di prime cure che la Corte d’Appello territorialmente competente avevano infatti dichiarato lo scioglimento di un matrimonio durato venticinque anni e confermato la spettanza dell’assegno divorzile posto a carico del ricorrente. Come provato in queste sedi, il coniuge beneficiario ha rinunciato a numerose occasioni di carriera per agevolare l’attività professionale del marito fino a sacrificarla definitivamente quando questa è diventata incompatibile con la crescita della famiglia, dedicandosi completamente a soddisfare i bisogni di quest’ultima.
La cessazione del matrimonio comporta il venir meno della condizione coniugale ma il sorgere di obblighi di carattere patrimoniale fondati sulla perdurante solidarietà postconiugale. Tra gli obblighi così identificati si staglia quello di corresponsione dell’assegno divorzile contenuto nell’art. 5, L. 1° dicembre 1970, n. 898.
All’esito di un percorso interpretativo inaugurato a metà degli anni ’70, le Sezioni Unite hanno definitivamente superato gli indirizzi volti a considerare nella funzione assistenziale l’unico parametro alla luce del quale valutare la spettanza e la consistenza dell’istituto in esame. La Cassazione ha, così, ricostruito la funzione dell’assegno divorzile assegnando rilevanza centrale ai principi costituzionali di pari dignità e di solidarietà che permeano l’unione matrimoniale anche dopo lo scioglimento del vincolo. La natura composita di tale funzione, insieme assistenziale e perequativo-compensativa, rappresenta una declinazione di tale principio di solidarietà volta al raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito alla realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle eventuali aspettative professionali sacrificate (Cass., Sez. Un., 11 luglio 2018, n. 18287). Ciò avviene all’interno di un meccanismo di “profilazione economico-patrimoniale del coniuge” che si serve dei criteri delineati dall’art. 5 cit. Le Sezioni Unite precisano, in particolare, la necessità di provare l’incidenza causale tra il sacrificio delle aspettative di carriera serie e concrete e la condizione di disequilibrio dalla quale genera la spettanza dell’assegno divorzile.
La ricostruzione in questi termini del quadro normativo ed ermeneutico di riferimento permette alla Cassazione nella sentenza in commento, di ritenere soddisfatti i criteri sopra menzionati e fornita la prova del contributo offerto alla comunione familiare, della rinuncia concordata ad occasioni lavorative e di crescite professionale in costanza di matrimonio e dell’apporto alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell’ex coniuge, così come chiarito da Cass., Sez Un., 5 novembre 2021, n. 32198.
Clausole claims made: legittime nella responsabilità medica Le clausole claims made non sono nulle ai sensi art. 2965 c.c, non stabiliscono una decadenza che rende difficile l’esercizio del diritto
- Pubblicato da Annamaria Villafrate
Responsabilità medica: clausole claims made legittime
La Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sulla legittimità delle clausole “claims made” nei contratti assicurativi, riaffermando il loro inquadramento nell’ambito della responsabilità civile. Con la sentenza n. 29483 del 2024, la Terza Sezione Civile ha sancito il seguente principio di diritto: “La clausola -claims made- non integra una decadenza convenzionale, nulla ex art. 2965 cod. civ. nella misura in cui fa dipendere la perdita del diritto dalla scelta di un terzo, dal momento che la richiesta del danneggiato è fattore concorrente alla identificazione del rischio assicurato, consentendo pertanto di ricondurre tale tipologia di contratto al modello di assicurazione della responsabilità civile.”
Questo principio è stato ribadito in un caso di malpractice sanitaria, con condanna della USLL coinvolta e una contestuale richiesta di manleva nei confronti degli istituti assicurativi.
Clausole claims made
Le clausole “claims made” o a “richiesta fatta” prevedono che la copertura assicurativa si attivi in relazione alle richieste risarcitorie avanzate durante la vigenza della polizza. In questo caso la compagnia non è obbligata a tenere indenne il contraente se la richiesta risarcitoria perviene alla stessa dopo la scadenza del contratto, anche se l’evento dal punto di vista temporale avviene entro questa scadenza.
Questa caratteristica distingue tali clausole da quelle “loss occurrence”, dove la copertura riguarda eventi accaduti durante la vigenza del contratto, indipendentemente da quando venga avanzata la richiesta, ossia anche dopo la scadenza dello stesso, se l’evento da cui origina la richiesta risarcitoria si è verificato entro questo termine.
La legittimità delle clausole “claims made” è spesso oggetto di dibattito giuridico, in particolare quando si tratta di bilanciare i diritti delle parti coinvolte e le limitazioni imposte all’assicurato.
Malpractice medica e legittimità clausole claims made
Il caso trattato dalla Cassazione riguarda una controversia nata da una sentenza di condanna per malpractice medica. In primo grado, il tribunale aveva rigettato la richiesta di manleva, giudicando valida la clausola “claims made”, che subordinava la copertura assicurativa alla presentazione della richiesta di risarcimento durante la validità del contratto.
La Corte d’Appello, invece, aveva parzialmente accolto il ricorso dell’azienda sanitaria, dichiarando nulla la clausola. Secondo i giudici di secondo grado, la clausola doveva ritenersi nulla perchè subordinava l’operatività della polizza alla denuncia della richiesta risarcitoria del terzo, durante il rapporto. Per il giudice dell’impugnazione trattasi di clausola vessatoria apposta in contrasto con quanto stabilito dall’art. 2965 c.c. perché rende eccessivamente difficile l’esercizio del diritto. La norma del codice civile dispone infatti che “E’ nullo il patto con cui si stabiliscono termini di decadenza che rendono eccessivamente difficile a una delle parti l’esercizio del diritto.”
Clausole claims made legittime
La Suprema Corte però ha rigettato il ricorso principale, accogliendo invece un motivo proposto in via incidentale dalle compagnie assicurative. I giudici hanno sottolineato che la clausola “claims made” non rientra nell’ambito delle decadenze convenzionali previste dall’art. 2965 cod. civ., poiché non incide su un diritto già insorto, ma sulla sua nascita. La richiesta del terzo danneggiato è infatti un elemento fondamentale per definire l’operatività del rischio assicurato.
La Cassazione ha fatto riferimento alla consolidata giurisprudenza delle Sezioni Unite (sentenze n. 9140/2016 e n. 22437/2018), che ha stabilito che queste clausole non sono vessatorie né richiedono una specifica approvazione scritta. Esse sono invece perfettamente compatibili con la struttura del contratto di assicurazione contro i danni.
La Corte ha precisato nello specifico che:
- La clausola “claims made” si basa su un evento futuro e imprevedibile, ossia la richiesta di risarcimento da parte di un terzo
- Non si configura una decadenza convenzionale, ma una condizione che determina l’insorgenza stessa del diritto
- Tali clausole non violano i limiti inderogabili posti dall’ 2965 cod. civ.
Con questa sentenza, la Cassazione ha ribadito che le clausole “claims made” sono legittime e in linea con il modello di assicurazione contro i danni. La loro validità è strettamente connessa alla natura stessa del contratto assicurativo, che richiede l’identificazione del rischio in base a fattori esterni e imprevedibili, come la richiesta di risarcimento da parte di un terzo.
Leggi anche: Assicurazione responsabilità civile e clausola claims made
Allegati
- Cass-29483-2024 (4 MB)
Servizi sociali anche per violenza sessuale La Cassazione chiarisce che può essere concesso l'affidamento ai servizi sociali anche per il reato ex art. 609-bis c.p.
- Pubblicato da Redazione
Affidamento ai servizi sociali
Sì all’affidamento ai servizi sociali al soggetto che si è macchiato del reato di violenza sessuale (ex art. 609 bis c.p.). Così la prima sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 17374/2024.
La vicenda
Nella vicenda, iI Tribunale di sorveglianza di Torino respingeva l’istanza di differimento pena ai sensi dell’art. 147 cod. pen. e dell’affidamento in prova al servizio sociale formulate. Ciò a ragione della gravità dei reati commessi, tra cui quello di cui all’art. 609-bis cod. pen., nonchè dell’assenza di una seria e verificabile attività lavorativa e della sperimentazione, allo stato, di altre forme trattamentali (permessi premio), infine della mancanza di elementi sulla base dei quali superare la diagnosi di pericolosità derivante dal reato commesso.
Il ricorso
Avverso tale ordinanza l’imputato adiva il Palazzaccio, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento al rigetto dell’istanza di affidamento in prova al servizio sociale.
A dire della difesa, il Tribunale di sorveglianza ha ritenuto dirimente e preponderante, rispetto agli elementi positivi pur evidenziati dalla relazione di sintesi dell’equipe e, comunque, emergenti dagli atti, la gravità del reato commesso e i plurimi precedenti di cui risulta gravato, sottostimando, invece, plurimi elementi positivi, quali il parere ampiamente favorevole dell’equipe.
Affidamento in prova ai servizi sociali: presupposti
Per la S.C., il ricorso è fondato.
L’art. 47, comma 2, ord. pen. consente l’applicazione dell’affidamento in prova al servizio sociale ove si possa ritenere che la misura, «anche attraverso le prescrizioni di cui al comma 5, contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati».
Nel caso di specie, il giudice specializzato ha reso una motivazione contraddittoria e, comunque, carente. Benché “nella stringata parte espositiva avesse dato atto dell’assenza di precedenti penali e carichi pendenti, senza minimamente confrontarsi con quanto emergente dalla relazione dell’equipe trattamentale – spiegano dalla S.C. – ha concentrato in via esclusiva la sua attenzione sulla condanna per il delitto di cui all’art. 609-bis c.p., sull’asserita mancata sperimentazione di permessi premio e sulla mancanza di prospettive lavorative”. Invece, la relazione dell’equipe della casa circondariale aveva espresso parere favorevole al riconoscimento della misura alternativa, valorizzando il fatto che l’uomo avesse aderito volontariamente ad un programma specifico rivolto ai condannati per reati di violenza di genere e che, compatibilmente con le condizioni di salute (che non rendevano possibile una partecipazione più ampia alle attività trattamentali), avesse svolto un percorso detentivo positivo.
Il giudice specializzato, in definitiva, secondo i giudici di piazza Cavour, ha fondato il provvedimento di rigetto sul solo argomento della gravità dei reati commessi, facendo di essi una considerazione assoluta e ponendoli da soli a sostegno della decisione, senza considerazione adeguata di diversi altri fattori riguardanti l’evoluzione della personalità del ricorrente, successiva alla consumazione della condotta sanzionata e senza fare congrua valutazione delle risultanze indicate nella relazione dell’equipe.
Al riguardo, dunque, la Corte ribadisce i principi ormai consolidati, secondo i quali “in tema di affidamento in prova al servizio sociale, ai fini del giudizio prognostico in ordine alla realizzazione delle prospettive cui è finalizzato l’istituto, e, quindi, dell’accoglimento o del rigetto dell’istanza, non possono, di per sé, da soli, assumere decisivo rilievo, in senso negativo, elementi quali la gravità del reato per cui è intervenuta condanna, i precedenti penali o la mancata ammissione di colpevolezza, né può richiedersi, in positivo, la prova che il soggetto abbia compiuto una completa revisione critica del proprio passato, essendo sufficiente che, dai risultati dell’osservazione della
personalità, emerga che un siffatto processo critico sia stato almeno avviato (Sez. 1, n. 1410 del 30/10/2021, M., Rv. 277924; Sez. 1, n. 773 del 03/12/2013, dep. 2014, Naretto, Rv. 258402)”.
Il principio di diritto
Il Tribunale non ha fatto, dunque, buon governo del principio di diritto secondo cui «ai fini della concessione di una misura alternativa alla detenzione, si deve tener conto del grado di consapevolezza e di rieducazione raggiunto dal condannato, nonché dell’evoluzione della sua personalità successivamente al fatto, al fine di consentire un’ulteriore evoluzione favorevole e un ottimale reinserimento sociale» (cfr. Cass. n. 10586/2019).
Il profilo che deve essere valorizzato non è se abbia o meno l’interessato ammesso le sue colpe ovvero, pur avendole ammesse, ne abbia depotenziato li valore, ma se abbia accettato la sentenza e quindi la sanzione a lui inflitta, prestando la dovuta collaborazione nel percorso rieducativo.
La decisione
Da qui l’annullamento dell’ordinanza impugnata relativamente al diniego dell’affidamento in prova al servizio sociale, con rinvio al Tribunale di sorveglianza di Torino per nuovo esame che, libero negli esiti, sia ossequiante dei principi sopraesposti.
Allegati
- Cass-17374-2024 (2 MB)
Mantenimento figli maggiorenni: dovuto anche se fuori casa Mantenimento figli maggiorenni: l'obbligo permane anche se sono fuori casa per motivi di studio, se il genitore si occupa dei loro bisogni
- Pubblicato da Annamaria Villafrate
Mantenimento figli maggiorenni
Il mantenimento dei figli maggiorenni è un tema che continua a generare discussioni e controversie in ambito giuridico, soprattutto quando i figli vivono lontano dal domicilio familiare per motivi di studio o formazione. La recente ordinanza n. 30179/2024 della Corte di Cassazione, offre un’interessante panoramica sulla questione, precisando che l’allontanamento da casa dei figli maggiorenni per motivi di studio e formazione non fa venire meno l’obbligo di mantenimento a carico dei genitori.
Genitori, figlie e obbligo di mantenimento
La controversia nasce dalla richiesta di un padre di essere esonerato dall’obbligo di versare alla ex moglie un assegno di mantenimento di 5.000 euro mensili destinato alle figlie. Il ricorrente sostiene che le figlie, ormai maggiorenni e residenti in altre città per motivi di studio, non convivono più con la madre. Questo elemento, secondo lui, farebbe venir meno il diritto di quest’ultima a ricevere l’assegno.
Il Tribunale di Napoli rigetta la richiesta, sostenendo che l’allontanamento delle figlie per motivi di studio non configura una cessazione della convivenza, ma solo una condizione di residenza temporanea fuori sede. Il padre inoltre non ha provato un’effettiva riduzione delle sue capacità reddituali.
Residenza stabile, non più temporanea
La Corte d’Appello, su reclamo del padre, invece accoglie la sua richiesta, ritenendo che le figlie abbiano ormai consolidato la loro posizione lavorativa e accademica nelle città in cui vivono, configurandosi in questo modo una residenza stabile e non più temporanea. Di conseguenza, la madre non è più legittimata a richiedere l’assegno per conto delle figlie. Le stesse devono agire autonomamente per ottenere un eventuale contributo dal padre.
Per la Corte le figlie hanno raggiunto una sufficiente capacità lavorativa e, pur non essendo ancora pienamente autosufficienti, sono comunque in grado di proseguire il proprio percorso senza un vincolo diretto di coabitazione con la madre.
Allontanamento da casa: la convivenza non viene meno
La questione giunge fino alla Corte di Cassazione, dove vengono sollevate due questioni principali.
- La Corte d’Appello avrebbe pronunciato una decisione in contrasto con le richieste iniziali del padre, introducendo un tema nuovo, che è quello dell’indipendenza economica delle figlie, solo in sede di reclamo.
- Non è stata inoltre adeguatamente considerata la documentazione attestante il ritorno periodico delle figlie alla casa materna e la dipendenza economica dalle risorse anticipate dalla madre.
La Cassazione accoglie il secondo motivo, evidenziando che l’allontanamento delle figlie dalla casa materna per motivi di studio non implica automaticamente il venir meno della convivenza, soprattutto se la madre continua a rappresentare il punto di riferimento stabile per il loro sostentamento.
Obbligo oltre la coabitazione fisica
Un aspetto cruciale della sentenza è l’interpretazione del concetto di “convivenza” in relazione al mantenimento. La giurisprudenza più recente chiarisce che la convivenza non deve essere intesa come una mera permanenza fisica continua, ma come una relazione di sostegno materiale e morale. La Corte di Cassazione in questa decisione ribadisce che l’obbligo di mantenimento può sussistere anche se il figlio vive altrove per motivi di studio, a condizione che il genitore convivente sia ancora colui che si occupa materialmente delle sue necessità.
Questo principio si riflette anche nell’articolo 337-septies del codice civile, secondo il quale il contributo di mantenimento può essere versato al genitore con cui il figlio maggiorenne coabita, a meno che il giudice non stabilisca diversamente. È fondamentale che tale genitore continui a provvedere alle spese del figlio, anche in assenza di una coabitazione continuativa.
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- Cass-30179-2024 (2 MB)
Motivazione per relationem: valida se esaustiva Nel processo civile, la motivazione per relationem per essere valida deve contenere in modo chiaro, univoco ed esaustivo le ragioni della decisione
- Pubblicato da Redazione
Processo civile e motivazione per relationem
La motivazione per relationem per essere valida deve contenere in modo chiaro, univoco ed esaustivo le ragioni della decisione. Così la sentenza n. 28517/2024 della sezione tributaria della Cassazione.
La vicenda
Nella vicenda, l’Agenzia delle Entrate notificava un avviso di accertamento, con cui rettificava, ai fini IRPEF, la dichiarazione dei redditi presentata per l’anno 2006, avendo accertato che il contribuente aveva ricevuto un bonifico di oltre un milione di euro da una società francese. Il contribuente, chiamato a rendere giustificazioni circa il detto versamento, dichiarava trattarsi di ‘giroconto fondi’ per vendita di un’abitazione. L’Ufficio acclarava, quindi, che detto importo corrispondeva, in realtà, ad utili della società distribuiti all’uomo, quale socio al 100% della società, sicchè riprendeva a tassazione il 40% dell’importo, quale reddito di capitale di fonte estera.
Il contribuente impugnava l’avviso e la CTP di Pordenone accoglieva il ricorso. L’ufficio quindi proponeva appello alla CTR la quale confermava la sentenza di prime cure e il fisco a questo punto adiva la Cassazione, lamentando nullità della sentenza in quanto sia il thema decidendum sia la motivazione risulterebbero del tutto carenti. La motivazione, in particolare, sarebbe affidata a mere clausole di stile, con rimando alla decisione di prime cure.
Motivazione per relationem
La Corte dà ragione all’Agenzia. “Giova premettere che secondo la giurisprudenza di questa Corte la motivazione è solo «apparente» e la sentenza è nulla quando benché graficamente esistente, non renda percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere li ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie ipotetiche congetture (Cass., Sez. U., 7/4/2014 n. 8053)” affermano innanzitutto dal Palazzaccio.
Con riferimento, in particolare, “alla tecnica motivazionale per relationem – aggiunge la Corte che è stato ripetutamente affermato che – detta motivazione è valida a condizione che i contenuti mutuati siano fatti oggetto di autonoma valutazione critica e le ragioni della decisione risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo (Cass., Sez. U., 4/6/2008 n. 14814)”.
Il giudice di appello, proseguono da piazza Cavour, “è tenuto ad esplicitare le ragioni della conferma della pronuncia di primo grado con riguardo ai motivi di impugnazione proposti (ex multis, Cass., 7/8/2015 n. 16612) sicché deve considerarsi nulla – in quanto meramente apparente – una motivazione per relationem alla sentenza di primo grado, qualora la laconicità della motivazione, come nel caso di specie, non consenta di appurare che alla condivisione della decisione di prime cure il giudice di appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame, previa specifica ed adeguata considerazione delle allegazioni difensive, degli elementi di prova e dei motivi di appello (ex multis, Cass. 21/9/2017 n. 22022 e Cass. 25/10/2018 n. 27112)”.
La decisione
Nel caso di specie, la CTR ha indicato in modo del tutto generico la materia del contendere, limitandosi ad affermare, apoditticamente, che le valutazioni dei giudici di primo grado fossero «ineccepibili». “Tali affermazioni, per la loro genericità, non consentono in alcun modo di apprezzare l’iter logico posto a fondamento della decisione di appello e di verificare le ragioni che hanno indotto la CTR a confermare la sentenza di primo grado”.
Da qui l’accoglimento del ricorso. Parola al giudice del rinvio.
Allegati
- Cass-28517-2024 (3 MB)
Reati tributari e sequestro preventivo di beni immobili In tema di reati tributari può essere disposta la confisca su di un ammontare superiore al valore dei beni sottratti fraudolentemente alla garanzia dell’amministrazione finanziaria per le imposte evase?
- Pubblicato da Redazione
Quesito con risposta a cura di Alessandra Fantauzzi e Viviana Guancini
In tema di reati tributari, i beni immobili appartenenti a soggetto indagato del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, alienati per far venire meno le garanzie di un’efficace riscossione dei tributi da parte dell’Erario, sono suscettibili di sequestro preventivo per la successiva confisca ai sensi dell’art. 240, comma 1, c.p., in quanto costituiscono lo strumento per mezzo del quale è stato commesso il reato, a nulla rilevando la loro qualificazione anche come prezzo o profitto di tale delitto (Cass. pen., sez. III, 13 agosto 2024, n. 32578).
Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la correttezza della confisca disposta su beni aventi un valore superiore a quella della imposta la cui riscossione è stata resa inefficace.
Il Tribunale, in qualità di giudice del riesame, con ordinanza, aveva annullato il decreto di sequestro preventivo disposto a carico di tre indagati in relazione al reato di cui all’art. 11 D.Lgs. 74/2000.
In particolare, il sequestro era stato disposto dal Gip in relazione a una provvisoria imputazione avente a oggetto la violazione dell’art. 11 predetto, per avere i tre indagati compiuto atti simulati o fraudolenti dismissivi del patrimonio della società allo scopo di rendere vana o inefficace la procedura di riscossione coattiva delle imposte. Il Gip, ritenuta la sussistenza del fumus delicti, aveva ritenuto di assoggettare alla misura cautelare, strumentale a una eventuale confisca ex art 12bis del citato decreto legislativo, non solamente i beni aventi il valore del debito tributario gravante sulla società, ma l’intero valore dei beni oggetto delle transazioni fraudolente, sebbene questo fosse superiore all’importo dei carichi tributari.
L’impostazione è stata ritenuta non corretta dal Tribunale del riesame, il quale ha affermato che in tal modo si giungerebbe al risultato di ipotizzare la possibilità di disporre la confisca di beni aventi un valore superiore a quella della imposta la cui riscossione è stata resa inefficace, facendo assumere alla predetta confisca carattere sanzionatorio.
Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il P.M. deducendo la violazione degli artt. 11 e 12bis D.Lgs. 74/2000 in cui il Tribunale sarebbe incorso nell’affermare che il principio per cui il profitto del reato di cui al menzionato art. 11 è rappresentato dal valore dei beni sottratti fraudolentemente alla garanzia dei crediti dell’amministrazione finanziaria per le imposte evase, e non dall’ammontare del debito tributario rimasto inadempiuto, debba applicarsi limitatamente ai casi in cui tale ammontare superi il valore dei beni oggetto delle operazioni fraudolente.
Nell’impostazione del Tribunale del riesame, la limitazione del profitto del reato sequestrabile alla soglia del valore del debito tributario inadempiuto sarebbe imposta: dal principio di proporzionalità di cui agli artt. 3, 25 e 27 Cost, 17 e 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; dall’interpretazione teleologica delle disposizioni del D.Lgs. 74/2000, improntato alla tutela dell’adempimento delle obbligazioni tributarie e al recupero delle somme dovute all’erario, quindi dalla necessaria configurazione della confisca ivi prevista come misura ristorativa dell’interesse violato con il reato; dal rilievo che il sequestro finalizzato alla confisca non possa avere a oggetto cose di cui non sia consentita la misura ablatoria finale; dal principio, affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’estinzione del debito tributario determina l’illegittimità del decreto di sequestro preventivo emesso in relazione al reato ex art. 11 D.Lgs. 74/2000 negando in tal modo che il profitto del reato in esame debba sempre essere ancorata al solo valore dei beni fraudolentemente sottratti alla garanzia dell’amministrazione finanziaria.
A confutazione di tale impostazione, il Pm ricorrente ha osservato che: l’individuazione del profitto di cui all’art. 11 D.Lgs. 74/2000 nella riduzione, pur eccedente l’ammontare del debito tributario inadempiuto, del patrimonio dell’agente su cui il fisco ha diritto di soddisfarsi sarebbe coerente con la struttura di reato di pericolo della fattispecie in parola; che i beni di cui sia contestata la sottrazione fraudolenta alla garanzia dei crediti dell’amministrazione finanziaria sarebbero confiscabili ex art. 240, comma 1, c.p. in quanto strumenti della consumazione del reato, a prescindere dalla relativa qualificazione come profitto dello stesso; infine, che l’illegittimità di un sequestro preventivo disposto nonostante l’intervenuto adempimento del debito tributario non dipenderebbe dal venir meno del reato o del profitto da esso derivante, bensì dal venir meno della stessa esigenza cautelare giustificativa della misura reale.
La Suprema Corte, nella decisione de qua, accogliendo il ricorso, ha affermato, preliminarmente, che sebbene l’art. 12bis D.Lgs. 74/2000 prevede che, in caso di condanna o di applicazione della pena per uno dei reati previsti dal decreto legislativo in esame, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, deve, tuttavia, rilevarsi che l’art. 240, comma 1 c.p. consente, nel caso di condanna, al giudice di procedere alla confisca, oltre delle cose che costituiscono il profitto o il prodotto del reato, anche di quelle che “servirono o furono destinate a commettere il reato”. Fra queste devono essere ricompresi, secondo il Collegio, i beni che sono stati l’oggetto delle transazioni simulate o fraudolente che costituiscono la materiale condotta attraverso la quale si è determinato il reato.
In tal senso la Corte ha richiamato il principio di diritto secondo cui in tema di reati tributari, i beni immobili appartenenti a soggetto indagato del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, alienati per far venir meno le garanzie di un’efficace riscossione dei tributi da parte dell’Erario, sono suscettibili di sequestro preventivo per la successiva confisca ai sensi dell’art. 240, comma 1, c.p., in quanto costituiscono lo strumento per mezzo del quale è stato commesso il reato, a nulla rilevando la loro qualificazione anche come prezzo profitto di tale delitto.
Il Collegio ha evidenziato che, seppure sia vero che, il profitto del reato di cui all’art. 11 del D.Lgs. 74/2000 sia rapportabile oggettivamente al valore dei beni sottratti fraudolentemente alla garanzia dei crediti dell’Amministrazione finanziaria per le imposte evase e non già al debito tributario rimasto inadempiuto, una tale regola deve, tuttavia, essere declinata coerentemente con la finalità la cui disposizione precettiva e sanzionatoria è preposta: cioè quella di assicurare agli organi pubblici una più agevole forma di esazione coattiva delle imposte interessate dalla normativa in esame il cui versamento sia stato, anche in un secondo momento rispetto al compimento degli atti simulati o fraudolenti, omesso dal contribuente.
Ebbene, nel caso di specie la Corte ha ritenuto che la confisca, e lo strumentale sequestro preventivo, siano riconducibili, quanto a sua causale normativa, non all’art. 12bis D.Lgs. 74/2000, ma all’art. 240, comma 1, c.p., cioè alle cose che “servirono o furono destinate a commettere il reato”. Invero, ricorrendo a una tale accezione normativa non vi è più la necessità di contenere l’ammontare del valore dei beni soggetti alla misura ablativa alla ratio dell’illiceità penale della condotta attribuita all’agente (l’esistenza di un possibile debito erariale in ordine al quale rendere ragionevole l’azione esecutiva fiscale) considerato che ora la confisca non sarebbe relativa al profitto del reato ma allo strumento utilizzato per la sua perpetrazione.
Tale principio deve essere inteso in termini rigidi, vale a dire che laddove l’attività di fraudolenta dismissione dei beni si sia articolata attraverso non un solo atto depauperativo del patrimonio del contribuente ma attraverso una pluralità di essi, ciascuno riferito a beni diversi o a porzioni diverse di un medesimo bene, gli atti effettivamente rilevanti dal punto di vista penale sono quelli che hanno determinato un concreto pericolo di inefficacia dell’azione esecutiva dell’Erario volta alla riscossione delle imposte. Risulta, pertanto, necessario che anche l’oggetto di tali ulteriori atti costituisca corpo del reato, cioè che anche questi atti siano stati in grado di ledere ex se il bene giuridico tutelato dalla norma.
Infine, la Corte ha ritenuto superata la problematica che il Tribunale del riesame ha posto in relazione alla necessità dell’esistenza di un rapporto di proporzionalità fra la misura ed il valore del bene oggetto di essa. Invero, secondo la Corte, siffatta problematica risulta essere ultronea ove si riporti la ratio della confisca non alla ipotesi della ablazione del profitto del reato ma a quella della confisca degli strumenti per mezzo dei quali il reato è stato consumato. Ipotesi per la quale non è determinante che i beni abbiano un valore economico proporzionato all’imposta alla cui evasione è finalizzata l’attività simulata o fraudolenta di dismissione patrimoniale.
Alla luce di tali argomentazioni, il Collegio annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale competente.
Particolare tenuità del fatto: la guida Particolare tenuità del fatto: istituto che esclude la punibilità per esiguità del danno, del pericolo o per la condotta del soggetto agente
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ToggleParticolare tenuità del fatto: cos’è
La “particolare tenuità del fatto” contemplata dall’articolo 131-bis del Codice Penale rappresenta una novità significativa nell’ordinamento giuridico italiano. La norma ha infatti introdotto questo concetto come causa di esclusione della punibilità in determinati casi.
Ratio dell’istituto
Questo istituto, introdotto con dal Dlgs n. 28/2015 e modificato dal Dlgs n. 150/2022, si pone l’obiettivo di evitare che il sistema penale si sovraccarichi di procedimenti per reati di lieve entità, riservando le risorse giuridiche ai reati più gravi. Questo principio consente di applicare una giustizia più equa, adattando la risposta penale alla reale pericolosità sociale del fatto.
Inoltre, la tenuità del fatto può rappresentare una forma di risoluzione più rapida ed efficace per i casi in cui il danno causato è irrilevante, contribuendo a ridurre il carico sulle corti e a focalizzare l’attenzione su reati di maggiore allarme sociale.
Analisi dell’art. 131-bis c.p
L’articolo 131-bis del Codice Penale stabilisce che quando il fatto non è di particolare gravità, il giudice può escludere la punibilità dell’imputato. La valutazione della tenuità del fatto si basa su criteri oggettivi, come la scarsa entità del danno o del pericolo causato, e criteri soggettivi, come la personalità dell’imputato e il comportamento successivo al reato.
Valutazione della tenuità del fatto
L’articolo 131-bis indica quindi due fattori fondamentali nella valutazione della tenuità:
- la modesta entità del danno o del pericolo derivante dal reato;
- la personalità dell’imputato, con riferimento alla sua condotta e alle circostanze in cui è avvenuto il fatto.
Questi criteri consentono al giudice di valutare se il fatto possa essere considerato di scarsa gravità, escludendo la necessità di una punizione penale, ma lasciando la strada aperta alla possibilità di applicare misure alternative come la sanzione pecuniaria o altre forme di risarcimento.
Valutazione della non tenuità del fatto
L’offesa non può essere considerata invece di particolare tenuità quando l’autore ha agito per motivi abietti o futili, con crudeltà, anche verso animali, oppure usando sevizie o approfittando della condizione di minorata difesa della vittima, ad esempio a causa dell’età e quando dalla condotta sono derivate, anche non volute, la morte o lesioni gravissime a una persona.
L’offesa non è di particolare tenuità anche in presenza di reati
- puniti con una pena massima superiore a due anni e sei mesi di reclusione, se commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive;
- commessi contro pubblici ufficiali o agenti di pubblica sicurezza e polizia giudiziaria nell’esercizio delle loro funzioni, come previsti dagli articoli 336, 337, 341-bis e 343;
- di particolare gravità, consumati o tentati, previsti dagli articoli indicati (es. corruzione, omicidio, violenze sessuali, lesioni aggravate, stalking, rapina aggravata, riciclaggio);
- previsti in ambiti specifici, come interruzione illegale di gravidanza (art. 19, comma 5, della legge n. 194/1978), traffico di stupefacenti (art. 73 del DPR n. 309/1990, escluse alcune ipotesi minori), reati in materia finanziaria (articoli 184 e 185 del D.Lgs. n. 58/1998);
- legati alla violazione del diritto d’autore, salvo quelli meno gravi di cui all’ 171 della legge n. 633/1941.
Particolare tenuità del fatto: giurisprudenza Cassazione
La Corte di Cassazione ha avuto modo di pronunciarsi in più occasioni sull’applicazione dell’articolo 131-bis, fornendo importanti chiarimenti interpretativi.
Gli Ermellini, in diverse sentenze, hanno ribadito che la tenuità del fatto deve essere valutata in modo rigoroso, tenendo conto non solo della gravità oggettiva del reato, ma anche del contesto complessivo in cui si è svolto il fatto.
In una sentenza del 2018 (Cass. Pen. n. 21060), la Corte ha sottolineato che l’applicazione dell’articolo 131-bis richiede una valutazione complessiva, che prenda in considerazione non solo l’entità del danno, ma anche la condotta successiva dell’imputato, la sua sincerità e il suo atteggiamento di responsabilizzazione.
In un altro caso (Cass. Pen. n. 30247/2017), la Corte ha evidenziato che non è sufficiente un mero danno economico modesto per escludere la punibilità, ma bisogna anche considerare l’effettivo pericolo creato dall’illecito penale.
Leggi anche: Particolare tenuità del fatto per la prima volta in Cassazione
Tasso di interesse usurario nel finanziamento tra privati Secondo quali parametri il giudice deve qualificare le operazioni di finanziamento intercorrenti tra privati ai fini della valutazione del tasso di interesse come usurario?
- Pubblicato da Redazione
Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi
Il giudice del merito deve rinvenire i profili di omogeneità tra le categorie individuate dai decreti ministeriali e il rapporto in causa, rispetto ai quali assumono rilievo soprattutto: la natura del prestito, ossia se si tratta di un negozio tra privati, non tra professionisti quali banche o intermediari non bancari, rispetto al quale dovrebbe essere chiarita l’eventuale funzione di scopo del finanziamento tale da integrare la struttura tipica del negozio, ampliandone la causa, nonché, con riferimento ai rischi assunti dai creditori, la corresponsione annuale di interessi convenzionali e il pagamento della quota capitale per intero, oltre alla dazione di garanzie personali (Cass., sez. II, 5 settembre 2024, n. 23866).
Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla qualificazione giuridica di un contratto di finanziamento al fine di valutare se gli interessi applicati allo stesso fossero o meno usurari.
In primo grado il Giudice qualificava il contratto intercorrente tra le parti come operazione di mutuo, sulla base delle categorie individuate dal Ministero del Tesoro per l’individuazione del tasso-soglia, ritenendo pertanto come usurario il tasso del 10% applicato.
Il Giudice d’appello, viceversa, riteneva valida la clausola di previsione degli interessi convenzionali contenuta all’interno della scrittura privata intercorrente tra le parti; in particolare, il rapporto dedotto in giudizio veniva qualificato come “altro finanziamento a breve, medio/lungo termine”, sulla base dell’assunto che le operazioni di finanziamento chirografario non possono essere qualificate come mutui.
Viene proposto ricorso per Cassazione, contestando l’erronea qualificazione della scrittura privata nella categoria “altri finanziamenti” anziché in quella dei contratti di mutuo, con conseguente applicazione di un diverso tasso di riferimento per la determinazione dell’usura.
La Suprema Corte, nella decisione de qua, delinea i criteri sulla base dei quali deve essere effettuata l’operazione di qualificazione del contratto di finanziamento oggetto di causa. In particolare, in caso di dubbio circa la riconducibilità di un’operazione finanziaria all’una o all’altra delle categorie, identificate con Decreto Ministeriale cui si riferisce la rilevazione dei tassi globali medi, l’interprete deve procedere ad individuare i profili di omogeneità che l’operazione stessa presenti rispetto alle diverse tipologie ivi contemplate, attribuendo rilievo, a tal fine, ai richiamati parametri normativi individuati dall’art. 2, comma 2, L. 108/1996, apprezzando, in particolare, quelli, tra essi, che, sul piano logico, meglio giustifichino l’inclusione del prestito preso in esame in questa o in quella classe di operazioni. Pertanto, i parametri da valorizzare sono la natura del prestito nonché, con riferimento ai rischi assunti dai creditori, la corresponsione annuale di interessi convenzionali e il pagamento della quota capitale per intero, oltre alla dazione di garanzie personali.
Per tali ragioni, la Corte di cassazione ha ritenuto di accogliere il motivo proposto e di rinviare il giudizio rinviato alla medesima Corte d’Appello che, in applicazione dei principi sopra riportati, provvederà alla corretta qualificazione del rapporto negoziale di cui è causa ai fini dell’individuazione del tasso-soglia di riferimento.
Affidamento figli: multa per la madre che ostacola il rapporto col padre Nell'affidamento dei figli se la madre tiene una condotta finalizzata a ostacolar il rapporto padre-figlio va sanzionata
- Pubblicato da Annamaria Villafrate
Affidamento figli: madre sanzionabile art. 709 ter c.p.c.
Nel procedimenti per l’affidamento dei figli, va sanzionata la madre che tiene una condotta ostruzionistica e ostile solo per tenere lontano il figlio dal padre.
Lo ha stabilito la Cassazione nell’ordinanza n. 29690/2024, chiarendo il contenuto e l’applicazione degli articoli art. 709 ter c.p.c (confluito dopo la riforma Cartabia nell’art. 473-bis.39) e 614 bis c.p.c.
Ripristino della responsabilità genitoriale materna
Una madre presenta ricorso contro una decisione che ha decretato la sua decadenza dall’esercizio della responsabilità genitoriale nei confronti del figlio. Il provvedimento ha anche previsto il collocamento del minore in una casa famiglia e la sospensione temporanea dei rapporti madre-figlio. I giudici del rinvio, dopo aver ascoltato il minore e condotto una nuova consulenza psicologica d’ufficio, hanno ristabilito la responsabilità genitoriale della donna limitatamente alla gestione ordinaria. Il minore è stato quindi collocato presso l’abitazione materna, ma sotto la supervisione dei servizi sociali per monitorarne lo sviluppo psicofisico.
Garantire la bigenitorialità nell’affidamento dei minori
Per l’autorità giudiziaria competente è fondamentale rispettare il principio di bigenitorialità per assicurare al minore una vita affettiva equilibrata con entrambe le figure genitoriali. Nel caso in questione, la constatazione di una violazione del diritto paterno alla genitorialità non implica automaticamente la revoca della responsabilità genitoriale della madre. Tuttavia, non si possono ignorare i risultati delle perizie e le dichiarazioni del minore. Il ragazzo, ormai tredicenne, percepisce separatamente la madre, che lotta contro le istituzioni per proteggerlo, e il padre, vissuto come un avversario che vuole allontanarlo dalla mamma. In questa situazione, il giovane appare ostile a qualsiasi intervento istituzionale e considera il padre un persecutore. Risulta quindi utile intraprendere un percorso terapeutico per aiutare il ragazzo a elaborare il dolore accumulato negli anni piuttosto che recuperare immediatamente il rapporto con il padre. Quest’ultimo deve avere pazienza e lavorare per ricostruire una relazione con il figlio nella speranza che col tempo questi comprenda gli sforzi compiuti.
Le autorità hanno preso le misure necessarie nei confronti della madre per prevenire ulteriori possibili danni al minore. L’affidamento ai servizi sociali è motivato invece dalla condotta ostruzionistica della donna verso tutte le decisioni adottate dal Tribunale dei minorenni e dalla sua incapacità di gestire adeguatamente la propria responsabilità genitoriale. La madre è stata infatti esortata a comprendere i danni causati dalla triangolazione emotiva cui è stato sottoposto il figlio e a incoraggiarlo a intraprendere un percorso psicoterapeutico per migliorare il suo benessere psicologico.
Condotta ostruzionistica della madre: sanzioni applicabili
Il padre ha contestato la decisione in Cassazione. La Corte d’appello non si è espressa sul suo diritto di visita e ha ignorato numerose violazioni dei diritti del minore. L’uomo critica l’uso dei risultati dell’ascolto del figlio perché avvenuto sotto costrizione psicologica e si oppone al collocamento presso la madre a causa della sua personalità deviante. Inoltre, sostiene che la Corte non abbia, tra le altre cose, adottato misure sanzionatorie nei confronti della madre secondo quanto previsto dall’articolo 709 ter c.p.c., come una multa amministrativa pecuniaria.
Affidamento minori: sanzioni ex art. 709 ter c.p.c.
Secondo la Cassazione, se i primi cinque motivi del ricorso paterno sono infondati, non si può dire lo stesso riguardo alla richiesta di sanzioni applicabili alla madre a causa del suo comportamento. La Cassazione sottolinea che il motivo sollevato dal padre riguarda l’omessa applicazione delle sanzioni previste dall’articolo 709 ter del codice di procedura civile (ora sostituito dall’articolo 473-bis.39 c.p.c.) e dell’articolo 614 bis c.p.c.
La Corte ricorda che l’articolo 709 ter c.p.c. prevedeva misure punitive per i genitori che ostacolavano gravemente l’affidamento o arrecavano danno al minore, tra cui:
- ammonizione del genitore inadempiente;
- risarcimento dei danni a favore del minore o dell’altro genitore;
- sanzione pecuniaria da 75 a 5.000 euro.
Con la riforma del 2022, queste disposizioni sono state trasferite all’articolo 473-bis.39 c.p.c., ampliandone l’efficacia. L’articolo 614 bis c.p.c. invece consente al giudice di stabilire somme crescenti per ogni giorno di violazione con scopo coercitivo e preventivo (astreintes).
Nel caso specifico, il padre lamenta di come gli atteggiamenti ostativi della madre abbiano impedito rapporti tra lui e suo figlio. Sebbene la Corte d’Appello abbia riconosciuto il comportamento ostile della madre non ha però applicato né le sanzioni previste dal già citato art. 709 ter né quelle coercitive indirette dell’articolo 614 bis c.p.c.
Il padre aveva infatti richiesto sia sanzioni per impedimenti già avvenuti che per prevenirne di futuri. Secondo l’articolo 709 ter c.p.c., infatti:
- il giudice può intervenire d’ufficio modificando provvedimenti vigenti;
- sanzionando violazioni già accadute.
Tuttavia le astreintes dell’articolo 614bis c.p.c si applicano solo su istanza di parte in specifiche situazioni, ma nel presente giudizio tale richiesta non è stata valutata data l’assenza di sufficiente contestazione nel ricorso.
Leggi anche: Affidamento condiviso
Allegati
- Cassazione n. 29690-2024 (6 MB)