Parcheggio non pagato: non è valido il verbale dell’agente ATM Per la Cassazione, gli ispettori dell'azienda di trasporto pubblico non hanno il potere di accertare le violazioni del Cds nell'intero territorio comunale

Quesito con risposta a cura di Sara Frattura, Raffaella Lofrano e Maria Lavinia Violo
La condotta di chi, con violenza o minaccia, allontani l’offerente da una gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private, oltre ad integrare il reato di cui all’art. 353 c.p., può integrare altresì quello di cui all’art. 629 c.p. ove abbia causato un danno patrimoniale derivante dalla perdita di una seria e consistente possibilità di ottenere un risultato utile per effetto della partecipazione alla predetta gara. Nella nozione di danno patrimoniale rilevante ai fini della configurabilità del delitto di estorsione rientra anche la perdita della seria e consistente possibilità di conseguire un bene o un risultato economicamente valutabile, la cui sussistenza deve essere provata sulla base della nozione di causalità propria del diritto penale (Cass., Sez. Un., 22 luglio 2024, n. 30016 – Turbativa ed estorsione).
Il reato di turbata libertà degli incanti, previsto dall’art. 353 c.p., punisce colui che con una condotta vincolata, ovvero con violenza o minaccia, impedisce o turba la gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private oppure ne allontana gli offerenti.
La questione sottoposta all’attenzione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione riguarda la possibilità che il medesimo fatto possa configurare un concorso formale con il reato di estorsione nel caso in cui oltre all’allontanamento dalla gara, o ad altra turbativa, venga prodotto un altro evento dannoso che non è previsto dall’art. 353 c.p.: l’ingiusto profitto o l’altrui danno.
Il reato di turbata libertà degli incanti è infatti un reato comune di condotta a dolo generico poiché prescinde dal realizzarsi dell’ingiusto profitto o dall’altrui danno.
Anche il bene giuridico protetto dalla fattispecie cambia in questo caso: nel reato previsto dall’art. 353 c.p. si tutela la libertà di scelta del contraente; nel reato di estorsione il bene tutelato è il patrimonio del soggetto passivo.
Le due fattispecie di reato si pongono in rapporto di specialità reciproca perché sono caratterizzate da elementi costitutivi differenziati, ed è per questo che si è posta dinnanzi alle Sezioni Unite la questione relativa alla possibilità di riconoscere il concorso formale con il reato di estorsione quando viene anche cagionato un danno o conseguito un ingiusto profitto.
In particolare, la questione riguarda la possibilità di ravvisare il concorso formale con il reato di estorsione quando il danno corrisponda a una perdita di chance. Le Sezioni Unite risolvono positivamente la questione, affermando che rientra nella nozione di danno di cui all’art. 629 c.p. anche la perdita della seria e consistente possibilità di conseguire un risultato utile di cui sia provata la sussistenza sulla base di una nozione di causalità propria del diritto penale.
La causalità nel diritto penale è determinata sulla base del criterio di “oltre ogni ragionevole dubbio”, mentre la perdita di chance è una nozione civilistica, in cui la causalità è determinata in base alla regola del “più probabile che non”, quindi potrebbe risultare arduo applicare il criterio penalistico per accertare tale elemento costitutivo.
Un primo e più risalente orientamento riteneva sussistente solo un concorso apparente di norme tra i due reati poiché la fattispecie di turbata libertà agli incanti assorbirebbe in sé l’intero disvalore del fatto criminoso in base al presupposto per cui il danno dell’estorsione coinciderebbe con la lesione della libertà di partecipare o meno ad una gara e influenzarne l’esito, danno già punito alla luce dell’art. 353 c.p.
Un secondo orientamento riteneva invece configurabile il concorso formale tra le due fattispecie criminose evidenziando i differenti elementi costitutivi di entrambe: nell’estorsione l’elemento fondamentale è la coartazione della volontà altrui al fine specifico di conseguire un ingiusto profitto con altrui danno; il reato di turbata libertà degli incanti invece è integrato nel caso di cosciente e volontario impedimento o turbativa di una gara o dall’allontanamento degli offerenti, senza che sia necessario il verificarsi di un ulteriore danno o il conseguimento di un profitto ingiusto.
A questo secondo orientamento aderiscono le Sezioni Unite affermando che nel reato di estorsione l’elemento centrale è costituito dal danno, che deve essere verificato secondo i canoni previsti dal diritto penale, ovvero la regola che impone un accertamento “oltre ogni ragionevole dubbio”, e che il danno può essere costituito da qualsiasi parte del patrimonio della vittima, compresi i beni immobili e le aspettative di diritto perché il patrimonio non è costituito solo da beni materiali, ma da rapporti giuridici attivi e passivi aventi contenuto economico unificati dalla legge in considerazione dell’appartenenza al medesimo soggetto, così da ricomprendere nel concetto di danno di cui all’art. 629 c.p. qualunque situazione idonea ad incidere negativamente sull’assetto economico dell’individuo, compresa la delusione delle aspettative e le chance future di arricchimento o di consolidamento dei propri interessi.
Alla luce di queste premesse, le Sezioni Unite concludono affermando che la perdita dell’aspettativa di conseguire un vantaggio economico, ovvero la chance, può essere ricondotta nell’ambito di operatività del danno patrimoniale quale elemento costitutivo del reato di estorsione ex art. 629 c.p.
Infine, si precisa che il rapporto di causalità tra la condotta e l’evento dannoso corrispondente alla perdita della possibilità di conseguire il risultato favorevole deve essere provato mediante l’utilizzo degli strumenti di cui il giudice penale dispone per effettuare le valutazioni probatorie e si considera sussistente quando, considerate tutte le circostanze del caso concreto, possano escludersi processi causali alternativi e si possa affermare in termini di certezza processuale, ovvero di alta credibilità razionale o probabilità logica, che sia stata proprio quella condotta a determinare l’evento dannoso.
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ToggleCon la sentenza n. 17603/2025, le Sezioni Unite civili della Cassazione hanno sciolto i dubbi interpretativi in merito alla possibilità di sostituire le udienze orali con il deposito di note scritte anche nel rito del lavoro.
La decisione stabilisce che l’articolo 127-ter del Codice di procedura civile, introdotto dalla riforma Cartabia, trova applicazione pure nei giudizi di lavoro, dove tradizionalmente prevale il principio dell’oralità. Tuttavia, tale modalità di trattazione cartolare è ammessa solo in presenza del consenso di tutte le parti processuali, a garanzia del contraddittorio e della parità di posizione.
Le Sezioni Unite hanno precisato che, quando il giudice indica una data entro cui depositare le note scritte, l’eventuale indicazione di un orario non costituisce un termine perentorio tale da far ritenere tardivo il deposito effettuato nel medesimo giorno.
In particolare, l’orario va inteso come coincidente con l’intero periodo di apertura dell’ufficio giudiziario competente. Inoltre, l’adozione del deposito telematico ormai pienamente operativo in ambito civile rende ancor più chiaro che il termine fissato non possa assumere carattere rigido, purché l’adempimento sia completato entro la giornata stabilita.
Un altro aspetto importante affrontato dalla sentenza riguarda la pubblicazione del dispositivo. La Suprema Corte ha chiarito che il deposito telematico del dispositivo produce effetti equivalenti alla lettura in udienza, anche qualora quest’ultima non avvenga alla presenza delle parti.
Questa evoluzione rispecchia la tendenza normativa, già emersa durante la fase emergenziale, a favorire forme di trattazione camerale che consentano di velocizzare le fasi decisionali senza comprimere le garanzie difensive.
La Corte ha affermato che la regola dell’oralità non è inderogabile. La possibilità di sostituire l’udienza con difese scritte è legittima “ogni volta che la struttura e la funzione del procedimento o dell’attività processuale lo permettano”, purché le parti si trovino in condizioni di parità.
Il consenso unanime è quindi la condizione imprescindibile per attivare la modalità cartolare nel processo del lavoro, a tutela del diritto di difesa sancito dall’art. 24 della Costituzione e dall’art. 6 CEDU.
La sentenza si colloca nel solco delle pronunce costituzionalmente orientate che riconoscono alla pubblicità dell’udienza un valore importante ma non assoluto. È infatti compatibile con il sistema processuale la previsione di deroghe motivate da esigenze oggettive, come la rapidità di definizione delle controversie di lavoro e l’efficienza dell’amministrazione della giustizia.
L’introduzione di strumenti che riducano l’onere della presenza fisica delle parti risponde a questa esigenza, a condizione che si rispetti la piena effettività del contraddittorio.
Con l’ordinanza n. 17228/2025, la Cassazione ha riaffermato il valore inderogabile del segreto professionale dell’avvocato. La Guardia di Finanza, in caso di opposizione al sequestro di documenti coperti da riservatezza, può procedere al loro esame solo se munita di un’autorizzazione specifica rilasciata dal Procuratore della Repubblica o dall’autorità giudiziaria competente. In difetto, i dati raccolti sono inutilizzabili.
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ToggleLa vicenda trae origine da un’ispezione fiscale svolta dalle Fiamme Gialle presso lo studio di un avvocato.
Nel corso dell’accesso, i militari avevano individuato un block notes contenente informazioni di rilievo fiscale e contabile. L’avvocato aveva immediatamente eccepito il segreto professionale, opponendosi all’esame e all’acquisizione del documento.
Nonostante l’opposizione, i finanzieri avevano proceduto comunque alla consultazione e al sequestro del block notes, basandosi su un’autorizzazione preventiva e generica rilasciata dal Procuratore della Repubblica.
La Cassazione ha chiarito che l’autorizzazione generica non è sufficiente quando viene formalmente eccepito il segreto professionale.
In queste situazioni:
Questo principio tutela la riservatezza del rapporto fiduciario tra avvocato e cliente, che rappresenta un presidio essenziale del diritto di difesa.
I giudici di legittimità hanno condiviso la conclusione della Commissione tributaria regionale, che aveva dichiarato l’inutilizzabilità delle informazioni tratte dal block notes “secretato”.
In particolare, è stato evidenziato che: “Non è sufficiente l’esistenza di un’autorizzazione preventiva e generica a procedere all’accesso, essendo necessaria un’autorizzazione successiva e specifica rilasciata dall’autorità giudiziaria competente una volta opposto il segreto professionale.”
Di conseguenza, tutti i dati utilizzati dall’amministrazione finanziaria e derivanti da quell’atto di acquisizione sono stati dichiarati privi di efficacia probatoria.
La Corte ha ribadito che la tutela del segreto professionale prevale sulle esigenze istruttorie dell’amministrazione, salvo che non sia rispettata la procedura di autorizzazione prevista dalla legge.
In sintesi:
Quesito con risposta a cura di Caterina D’Alessandro, Giulia Fanelli e Mariella Pascazio
In tema di azione revocatoria, quando l’atto di disposizione è anteriore al sorgere del credito, ad integrare la “dolosa preordinazione” richiesta dall’art. 2901, comma 1, c.c. non è sufficiente la mera consapevolezza, da parte del debitore, del pregiudizio che l’atto arreca alle ragioni dei creditori (c.d. dolo generico), ma è necessario che l’atto sia stato posto in essere dal debitore in funzione del sorgere dell’obbligazione, al fine d’impedire o rendere più difficile l’azione esecutiva o comunque di pregiudicare il soddisfacimento del credito, attraverso una modificazione della consistenza o della composizione del proprio patrimonio (c.d. dolo specifico), e che, trattandosi di atto a titolo oneroso, il terzo fosse a conoscenza dell’intento specificamente perseguito dal debitore rispetto al debito futuro (Cass., Sez. Un., 27 gennaio 2025, n. 1898).
Con la sentenza in commento, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, investite dalla questione dalla Terza Sezione Civile, sono intervenute per dirimere un contrasto giurisprudenziale riguardante la natura generica o specifica del dolo del debitore richiesto dall’art. 2901, comma 1, c.c. ai fini della revocatoria degli atti di disposizione patrimoniale anteriori al sorgere del credito.
Sul punto, infatti, coesistevano nella giurisprudenza di legittimità di due diversi orientamenti, che individuavano il consilium fraudis rispettivamente nella dolosa preordinazione dell’atto alla compromissione del soddisfacimento del credito e nella mera previsione del pregiudizio che l’atto arreca alle ragioni dei creditori.
Secondo le Sezioni Unite, ai fini della risoluzione della questione posta dall’ordinanza interlocutoria, occorre muovere dalla lettura del testo dell’art. 2901, comma 1, c.c., il quale subordina la dichiarazione di inefficacia degli atti di disposizione patrimoniale compiuti dal debitore in pregiudizio alle ragioni del creditore alle seguenti condizioni: 1) che il debitore conoscesse il pregiudizio che l’atto arrecava alle ragioni del creditore o, trattandosi di atto anteriore al sorgere del credito, l’atto fosse dolosamente preordinato al fine di pregiudicarne il soddisfacimento; 2) che, inoltre, trattandosi di atto a titolo oneroso, il terzo fosse consapevole del pregiudizio e, nel caso di atto anteriore al sorgere del credito, fosse partecipe della dolosa preordinazione.
La tesi del dolo generico attribuisce portata non decisiva alla differente formulazione delle due parti di cui si compone il n. 1 della norma in esame, osservando che la stessa non richiede, ai fini della configurabilità della dolosa preordinazione, che il debitore abbia agito con la specifica intenzione di danneggiare i creditori, ma solo che abbia posto in essere l’atto nella consapevolezza di pregiudicarne le ragioni, ed escludendo quindi, in entrambe le ipotesi da essa contemplate, la necessità sia dell’animus nocendi, ovverosia di “una callida volontà dell’obbligato di danneggiare il creditore”, sia, nel caso di atto a titolo oneroso, della conoscenza da parte del terzo dello specifico credito di cui l’atto dispositivo è volto a pregiudicare la soddisfazione.
In realtà, la mera considerazione del significato letterale delle espressioni utilizzate nell’art. 2901, comma 1, c.c. risulta di per sé sufficiente ad evidenziare l’intento del legislatore di subordinare l’accoglimento della revocatoria a presupposti soggettivi diversi, a seconda che la stessa abbia ad oggetto un atto posto in essere in epoca anteriore o successiva al sorgere del credito allegato a sostegno della domanda: mentre il verbo “conoscere” significa avere notizia o cognizione di una cosa o del suo modo di essere, per averne fatto direttamente o indirettamente esperienza o per averla appresa da altri, il sostantivo “preordinazione” fa riferimento alla predisposizione di un mezzo in funzione del raggiungimento di un risultato.
La seconda espressione implica, pertanto, una finalizzazione teleologica della condotta del debitore, il cui disvalore trova una particolare sottolineatura nell’aggiunta dell’aggettivo “dolosa”, che allude al carattere fraudolento o quanto meno intenzionale dell’azione, indirizzata ad impedire od ostacolare l’azione esecutiva del creditore o comunque il soddisfacimento del credito; tale finalizzazione è del tutto assente nella prima espressione, che fa invece riferimento alla mera coscienza del pregiudizio che l’atto oggettivamente arreca o può arrecare alle ragioni dei creditori, per la riduzione della garanzia patrimoniale che ne consegue, indipendentemente dalle finalità concretamente perseguite dal debitore attraverso il compimento dello stesso.
L’utilizzazione di due espressioni aventi un significato completamente differente nell’ambito della medesima disposizione appare tutt’altro che casuale, se solo si tiene conto del dibattito dottrinale e giurisprudenziale sviluppatosi, proprio con riguardo all’azione revocatoria, precedentemente all’entrata in vigore del Codice civile del 1942.
Nel Codice civile del 1865, la medesima azione era infatti disciplinata dall’art. 1235, il quale, oltre a prevedere (almeno secondo l’opinione prevalente) soltanto la revocabilità degli atti dispositivi posti in essere dal debitore in epoca successiva al sorgere del credito, la subordinava alla condizione che gli stessi fossero stati “fatti in frode” delle ragioni dei creditori.
Il significato di tale espressione era controverso, ritenendosi da parte di alcuni autori che con la stessa il legislatore avesse inteso fare riferimento all’intenzione di recare danno ai creditori (c.d. animus nocendi), e da parte di altri che avesse voluto invece richiedere, ai fini dell’accoglimento della domanda, la mera coscienza del pregiudizio arrecato ai creditori, attraverso la creazione o l’aggravamento di una situazione d’insolvibilità (c.d. scientia damni). Alla fine prevalse la seconda tesi, in virtù della considerazione che l’individuazione del presupposto soggettivo della revocatoria nell’animus nocendi avrebbe comportato un eccessivo restringimento dei limiti di operatività dell’azione, impedendo alla stessa di svolgere efficacemente la propria funzione di mezzo di conservazione della garanzia patrimoniale.
Tale indirizzo trovò accoglimento anche in sede di redazione del Codice vigente, il quale, tuttavia, ha ampliato l’ambito applicativo dell’azione, ammettendone l’esercizio anche nei confronti degli atti dispositivi posti in essere anteriormente al sorgere del credito, ma differenziandone il presupposto soggettivo da quello richiesto ai fini della revocatoria degli atti posti in essere successivamente, nel senso che, mentre per la dichiarazione d’inefficacia di questi ultimi è necessaria soltanto la prova della “conoscenza del pregiudizio” arrecato alle ragioni dei creditori, per quella dei primi occorre la prova della “dolosa preordinazione” al fine di pregiudicare il soddisfacimento del credito. In quanto adottata nella piena consapevolezza dei contrasti insorti in ordine all’interpretazione della disciplina previgente, la formulazione letterale dell’art. 2901, comma 1, c.c. non può dar luogo ad equivoci, testimoniando chiaramente la volontà del legislatore di regolare in maniera diversa il profilo soggettivo delle due fattispecie da esso contemplate, attraverso l’introduzione di una disciplina più restrittiva per la revocatoria degli atti compiuti in epoca anteriore al sorgere del credito: diversamente, infatti, la norma si sarebbe limitata a chiarire che l’azione era proponibile anche contro gli atti dispositivi compiuti in epoca anteriore al sorgere del credito, richiedendo per entrambe le ipotesi la prova della consapevolezza da parte del debitore della dell’incidenza dell’atto sulla consistenza quantitativa o qualitativa del proprio patrimonio, e quindi sulla garanzia generica dei creditori, senza fare alcun riferimento alla necessità di un disegno fraudolento, volto a sottrarre il bene alienato o vincolato all’azione esecutiva del creditore o a rendere più difficile il soddisfacimento del suo credito.
La differenza esistente tra la pura e semplice consapevolezza del pregiudizio arrecato ai creditori e la volontà di danneggiarli mediante il compimento dell’atto dispositivo era stata d’altronde già colta dalla dottrina in epoca anteriore all’entrata in vigore del Codice civile del 1942, anche se ne era stata sminuita la portata concreta: premesso infatti che il consilium fraudis presuppone ad un tempo la rappresentazione dell’effetto dannoso dell’atto e la volontà di porlo ugualmente in essere, si era osservato che nella gestione del proprio patrimonio il debitore non tiene normalmente conto dell’interesse del creditore, ma agisce come se lo stesso non esistesse, e si era pertanto concluso che, ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo della revocatoria, non era necessaria una specifica intenzione di danneggiare il creditore o determinati creditori, ma era sufficiente la coscienza, da parte del debitore, di determinare o accrescere la propria insolvenza, attraverso il compimento dell’atto dispositivo, mettendo quindi il proprio patrimonio in condizione di non poter offrire ai creditori la garanzia dell’adempimento delle obbligazioni contratte .
La necessità di un quid pluris, sotto il profilo soggettivo, era invece emersa in giurisprudenza, proprio nell’ambito di un orientamento volto a ricondurre nell’ambito applicativo dell’azione revocatoria anche gli atti dispositivi anteriori al sorgere del credito: nel dichiarare ammissibile la domanda proposta dal primo acquirente di un immobile a tutela del credito risarcitorio vantato nei confronti del venditore, il quale aveva successivamente alienato il medesimo bene ad un terzo, che aveva reso inattaccabile il proprio acquisto mediante la tempestiva trascrizione, la giurisprudenza di legittimità aveva infatti ritenuto che l’azione potesse essere esercitata anche nel caso in cui l’atto anteriore alla frode fosse stato compiuto “con l’obliquo intento di rendere vano il credito che stava per sorgere”, non essendovi ragione di negare tutela al soggetto rimasto danneggiato da questo più raffinato consilium fraudis. (cfr. Cass., Sez. Un., 22 dicembre 1930, n. 3669).
Al di là dei profili collegati all’interpretazione letterale e storico-sistematica della norma in esame, la scelta tra l’una e l’altra tesi impone peraltro d’interrogarsi anche in ordine alle conseguenze che l’accoglimento di una concezione più o meno restrittiva del consilium fraudis può produrre nei rapporti tra le parti dell’obbligazione ed in quelli con i terzi che siano entrati in contatto con le stesse, nonché, più in generale, sul piano della certezza e della rapidità dei traffici giuridici.
L’identificazione dell’elemento soggettivo della revocatoria nella mera consapevolezza da parte del debitore del pregiudizio arrecato i creditori comporta, infatti, un’indubbia dilatazione dei margini di operatività dell’istituto, già alquanto estesi per effetto dell’opinione comune, che ritiene configurabile il presupposto dell’eventus damni non solo in presenza di una compromissione totale della consistenza del patrimonio del debitore, ma anche a fronte di una variazione quantitativa o qualitativa dello stesso tale da rendere più incerta o difficile la soddisfazione del credito.
Tale dilatazione, che si traduce naturalmente in un rafforzamento della tutela dei diritti dei creditori, si pone, tuttavia, in contrasto con la natura eccezionale che l’azione revocatoria viene ad assumere nell’ipotesi in cui abbia ad oggetto atti dispositivi posti in essere in epoca anteriore al sorgere del credito: in quanto avente la funzione di consentire al creditore di soddisfarsi su beni che hanno cessato di far parte del patrimonio del debitore prima dell’insorgenza dell’obbligazione, essa costituisce una deroga al principio generale, sancito dall’art. 2740, comma 1, c.c., secondo cui il debitore risponde dell’adempimento “con tutti suoi beni presenti e futuri”, cioè con quelli esistenti nel suo patrimonio alla data in cui è sorta l’obbligazione e con quelli che abbia acquistato in epoca successiva, e non anche con quelli di cui alla predetta data avesse già cessato di essere titolare.
Questa esclusione trova giustificazione nella considerazione che, nel momento in cui entra in contatto con il debitore, il creditore è perfettamente in grado di rendersi conto dell’attuale consistenza e composizione del suo patrimonio, nonché di apprezzarne l’idoneità a garantire il soddisfacimento del credito in caso d’inadempimento: può quindi ritenersi ragionevole che l’esercizio dell’azione revocatoria resti limitato all’ipotesi, avente carattere ordinario, in cui il debitore abbia disposto dei propri beni in epoca successiva, nella consapevolezza del pregiudizio in tal modo arrecato al creditore, nonché a quella, eccezionale, in cui l’atto dispositivo, pur essendo stato posto in essere in epoca anteriore, costituisca attuazione di un disegno volto a disfarsi dei propri beni, proprio in vista dell’assunzione di quello specifico debito.
L’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione ha pubblicato una relazione di studio sul Decreto Sicurezza n. 48/2025, convertito nella legge n. 80/2025 e in vigore dal 10 giugno 2025. L’Ufficio ha sollevato dubbi di legittimità costituzionale e problemi di merito e metodo. La relazione è una “base di analisi” orientativa e non vincola decisioni future. Il documento tuttavia si rivela molto importante perché fornisce ai magistrati uno strumento per comprendere la nuova normativa.
Il documento di 129 pagine segnala la presenza di diverse problematiche. Sul fronte del metodo, i giudici della Cassazione condividono il parere dei giuristi: la trasformazione del disegno di legge in decreto-legge manca del requisito di “necessità e urgenza”, come previsto dalla Costituzione. Criticato anche il ricorso anomalo alla decretazione d’urgenza in materia penale, che svilisce il ruolo del Parlamento.
Analizzando il testo articolo per articolo, vengono individuati profili di incostituzionalità in molti reati a causa dell’abbassamento della soglia di punibilità e dell’innalzamento delle pene. Le critiche degne di segnalazione riguardano principalmente il reato di detenzione di materiale con finalità di terrorismo, la resistenza passiva in carcere, la vendita della cannabis light. Il contenuto del testo di legge infine è ritenuto troppo “eterogeneo” perché si occupa di materie troppo diverse.
La relazione ha subito sollevato critiche e perplessità. L’azione della Cassazione è stata giudicata come una “invasione di campo”; una “provocazione”.
Dura la reazione del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che si è detto “incredulo” delle notizie diffuse dalla stampa sulla relazione e ha dato mandato di acquisire la relazione per verificarne il regime di divulgazione, per appurare che la pubblicazione non risulti dannosa per il Governo.
Anche il ministro Piantedosi in un’intervista si è espresso negativamente sulla relazione della Suprema Corte, ritenendola “ideologica”.
Leggi anche: Dl Sicurezza: legge in vigore
Con l’ordinanza n. 17237/2025, la Cassazione ha chiarito un principio fondamentale in tema di responsabilità per illecito condominiale. Quando più soggetti intervengono sulla cosa comune, ciascuno può essere chiamato a rispondere per l’intero danno, indipendentemente dall’ordine cronologico dei loro comportamenti.
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ToggleUn condomino aveva convenuto in giudizio la proprietaria di un’unità immobiliare, lamentando che l’apposizione di pannelli in cartongesso su una vetrata comune avesse ridotto la luce naturale nella scala.
La Corte d’appello aveva respinto in parte la domanda, ritenendo che l’oscuramento derivasse prevalentemente da pannelli precedentemente collocati da un altro condomino confinante. Il controsoffitto installato successivamente non sarebbe stato idoneo ad aggravare in modo apprezzabile la situazione.
Il ricorrente aveva contestato questa ricostruzione, affermando che la Corte di merito avesse trascurato la circostanza che l’illecito concorresse con quello precedente e che la responsabilità non dipendesse dalla priorità temporale del comportamento.
Accogliendo il ricorso, la Cassazione ha ricordato che in tema di illecito condominiale il criterio fondamentale è l’articolo 2043 del codice civile, che impone l’obbligo di risarcire il danno ingiusto cagionato da fatto doloso o colposo.
Ai sensi dell’articolo 2055 c.c., quando il danno è prodotto da più soggetti, tutti rispondono in solido verso il danneggiato.
Di conseguenza, chi interviene successivamente su una situazione già compromessa non può invocare la condotta anteriore di terzi per escludere la propria responsabilità. Il danneggiato può rivolgersi indifferentemente a ciascun autore, senza che assuma rilievo chi abbia compiuto per primo l’abuso.
La Corte ha enunciato un principio chiaro e destinato a trovare applicazione in casi analoghi: “Anche in tema di rapporti condominiali, del fatto illecito di un condomino che si aggiunga al fatto illecito di altro condomino nei confronti della cosa comune può essere chiamato a rispondere indifferentemente l’uno o l’altro degli autori, senza che debba aversi riguardo alla priorità nella commissione del fatto”.
Si tratta di un orientamento coerente con la giurisprudenza precedente (Cass. n. 1757/1987 e n. 6041/2010), secondo cui ciascun condomino può agire autonomamente a tutela del bene comune e ciascun autore risponde per l’intero danno.
Oltre alla questione della responsabilità solidale, la Cassazione ha accolto ulteriori motivi di ricorso del condomino danneggiato.
In particolare, la Corte di merito aveva omesso di pronunciarsi:
sulla violazione del regolamento condominiale,
sulle modifiche apportate agli infissi senza autorizzazione.
La decisione è stata dunque cassata con rinvio, per un nuovo esame di tutti i profili di illegittimità dedotti.
La sentenza n. 16788/2025 della Cassazione fornisce importanti chiarimenti sulla responsabilità della pubblica amministrazione in caso di danni causati da cani randagi. Il risarcimento spetta solo se il danneggiato dimostra che il morso è conseguenza diretta dell’omesso controllo sul territorio e che esiste un nesso di causalità tra la condotta inadeguata dell’ente e il danno subito.
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TogglePrima di stabilire il principio di diritto, i giudici di legittimità hanno individuato tre regole fondamentali per questo tipo di controversie:
Il danneggiato deve dimostrare che la pubblica amministrazione non ha predisposto adeguati strumenti e risorse per prevenire il fenomeno del randagismo.
Il cittadino deve provare che l’omessa attività di controllo sia stata la causa del morso. Questa prova può avvenire anche in via presuntiva, evidenziando che si è realizzato proprio quel rischio che l’amministrazione avrebbe dovuto evitare.
L’ente pubblico può liberarsi dalla responsabilità dimostrando il caso fortuito, ossia un evento imprevedibile e inevitabile.
I giudici hanno ribadito che la responsabilità dell’amministrazione si fonda sull’articolo 2043 del codice civile, che disciplina il risarcimento del danno ingiusto causato da fatto illecito.
Il principio affermato è chiaro: “La responsabilità della pubblica amministrazione per i danni causati da cani randagi è soggetta alle regole dell’art. 2043 c.c.; pertanto, la persona danneggiata da un cane randagio che intenda agire per il risarcimento ha l’onere di provare la colpa della pubblica amministrazione ed il nesso di causa tra questa e il danno patito.”
Non basta dimostrare che un cane randagio abbia causato la lesione: occorre provare la carenza organizzativa del servizio di prevenzione del randagismo e che un’adeguata attività avrebbe impedito il danno.
La Cassazione ha precisato che, solo dopo aver dimostrato la colpa della pubblica amministrazione, è possibile ricorrere al criterio della concretizzazione del rischio.
Questo criterio permette di ritenere provato il nesso causale se l’evento lesivo coincide con il rischio che la norma violata era destinata a prevenire. In altre parole, se l’ente avesse adottato un’azione corretta di controllo e cattura dei randagi, l’aggressione non si sarebbe verificata.
Se manca la prova dell’insufficienza dei controlli o il collegamento diretto tra omissione e danno, il risarcimento non può essere riconosciuto. La sola presenza del cane randagio sul territorio non è sufficiente a far scattare la responsabilità dell’amministrazione.
Quesito con risposta a cura di Caterina D’Alessandro, Giulia Fanelli, Mariella Pascazio
Il diritto del locatore a conseguire, ai sensi dell’art. 1223 c.c., il risarcimento del danno da mancato guadagno a causa della risoluzione del contratto per inadempimento del conduttore non viene meno, di per sé, in seguito alla restituzione del bene locato prima della naturale scadenza del contratto, ma richiede, normalmente, la dimostrazione da parte del locatore di essersi tempestivamente attivato, una volta ottenuta la disponibilità dell’immobile, per una nuova locazione a terzi, fermo l’apprezzamento del giudice delle circostanze del caso concreto anche in base al canone della buona fede e restando in ogni caso esclusa l’applicabilità dell’art. 1591 c.c. (Cass., Sez. Un., 25 febbraio 2025, n. 4892).
Con la sentenza in commento, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, investite dalla questione dalla Terza Sezione Civile, sono intervenute per dirimere un contrasto giurisprudenziale riguardante il diritto del locatore di conseguire il risarcimento del danno da mancato guadagno conseguente alla risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore, in relazione ai casi in cui la restituzione del bene locato avvenga in data antecedente alla scadenza naturale del contratto. In particolare, ci si interroga se il locatore possa ottenere un risarcimento per i canoni non percepiti tra la riconsegna dell’immobile e la naturale scadenza del contratto o, se anteriore, fino alla stipula di una nuova locazione.
In assenza di una disposizione normativa volta a regolare la fattispecie, sussistevano sul punto due orientamenti giurisprudenziali contrastanti.
Secondo un primo orientamento, prevalente seppur più risalente, risolto il contratto di locazione per inadempimento del conduttore riconsegnato l’immobile al locatore, questi avrebbe avuto anche diritto al risarcimento del danno per la anticipata cessazione del rapporto, da individuarsi nella mancata percezione dei canoni concordati fino al reperimento di un nuovo conduttore e il cui ammontare è riservato alla valutazione del giudice di merito sulla base di tutte le circostanze del caso concreto. (Cass. 5 gennaio 2023, n. 194; Cass. 5 maggio 2020, n. 8482; Cass. 13 febbraio 2015, n. 286; Cass. 3 settembre 2007, n. 18510 e Cass. 29 gennaio 1980, n. 676).
Secondo altro orientamento, recepito dalla sentenza di merito, il locatore, una volta rientrato nella materiale disponibilità dell’immobile, non avrebbe diritto ad ottenere alcun risarcimento correlato alla mancata percezione dei canoni, rappresentando i canoni il corrispettivo che il locatore percepisce per non potere godere direttamente dell’immobile. Invece, un danno correlato alla mancata percezione del canone dopo il rilascio può configurarsi se, per le concrete condizioni in cui si trova l’immobile, la restituzione del bene non abbia consentito al locatore di poter esercitare, né in via diretta né in via indiretta, il godimento di cui si era privato concedendo il bene in locazione, commisurandosi in tal caso la perdita al tempo occorrente per il relativo ripristino quale conseguenza dell’inesatto adempimento dell’obbligazione di rilascio nei sensi dell’art. 1590 c.c. (Cass. 20 gennaio 2017, n. 1426; Cass. 10 dicembre 2013, n. 27614).
Con la pronuncia in esame, pur con alcune puntualizzazioni, le Sezioni Unite si sono espresse in favore del primo orientamento, rilevando che la diversa tesi che individua la causa della locazione nella preliminare rinuncia al godimento diretto non considera che non necessariamente in capo al locatore risiede un interesse al godimento diretto del proprio immobile, compensato dal canone.
Tale impostazione, secondo le Sezioni Unite, sarebbe riduttiva e non aderente alla realtà contrattuale della locazione, atteso che non terrebbe conto di tutte quei casi, diffusi nella pratica, in cui chi loca un bene intende utilizzarlo al solo fine di trarne delle rendite o realizzare profitti (es. società commerciale orientata a realizzare profitti attraverso l’acquisto sistematico di immobili da destinare con immediatezza al godimento di terzi dietro compensi).
La tesi secondo cui il rilascio dell’immobile locato a seguito di risoluzione per inadempimento del conduttore non sarebbe di per sé tale da integrare un danno trascura la mancata realizzazione del programma negoziale originariamente convenuto tra le parti.
Attraverso la conclusione di un contratto, le parti non si propongano affatto di ricomporre, come conseguenza della realizzazione della causa contrattuale, il medesimo equilibrio economico originario astrattamente considerato (sia pure in una diversa composizione materiale: una somma di danaro al posto di un periodo di godimento dell’immobile, e viceversa), bensì a raggiungere un diverso e più avanzato assetto economico-giuridico della propria sfera patrimoniale, rivisto attraverso il prisma delle proprie prospettive d’interesse.
La frustrazione che il locatore è costretto a subire per effetto dell’inadempimento del conduttore, in relazione al compimento del programma contrattuale originariamente convenuto (e, dunque, in relazione al forzato sacrificio degli interessi negoziati), non potrà in tal senso mai essere reintegrata, sul piano risarcitorio, dalla ricollocazione dello stesso locatore nella medesima condizione economico-patrimoniale precedente la conclusione del contratto.
Muovendo da queste premesse, le Sezioni Unite ritengono di dover dar seguito all’orientamento secondo il quale “il locatore, il quale abbia chiesto e ottenuto la risoluzione anticipata del contratto di locazione per inadempimento del conduttore, ha diritto anche al risarcimento del danno per l’anticipata cessazione del rapporto, da individuare nella mancata percezione dei canoni concordati fino alla scadenza del contratto o al reperimento di un nuovo conduttore”.
Allo stesso tempo, deve essere escluso qualsiasi automatismo in ipotesi volto a identificare il danno del locatore nell’insieme dei canoni non percepiti. Non si deve confondere l’azione risarcitoria con l’azione di adempimento (solo grazie alla quale il locatore può esigere il mancato pagamento dei canoni convenuti fino alla scadenza del rapporto) e, dall’altro, occorre rammentare come l’operazione di liquidazione del danno si fondi necessariamente sulla preliminare distinzione fra danno-evento (qui coincidente con l’inadempimento e identificato dalla mancata percezione dei canoni di locazione concordati fino alla scadenza del contratto o al reperimento di un nuovo conduttore) e danno-conseguenza disciplinato dall’art. 1223 c.c., ai sensi del quale il “mancato guadagno” del locatore, in tanto potrà ritenersi risarcibile, in quanto appaia configurabile alla stregua di una “conseguenza immediata e diretta” dell’inadempimento.
Tale nesso di “causalità giuridica” tra l’evento di danno e le sue conseguenze pregiudizievoli (il carattere di derivazione immediata e diretta di queste ultime dal primo) costituisce materia di un onere probatorio (necessariamente) incombente sul locatore ai sensi dell’art. 2697 c.c.; e tanto, a prescindere da quanto il conduttore potrà eventualmente opporre ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c.
Da questa prospettiva, la circostanza dell’avvenuta restituzione anticipata dell’immobile da parte del conduttore inadempiente a seguito della risoluzione del contratto se, da un lato, non esclude di principio la risarcibilità delle possibili conseguenze dannose correlate alla mancata percezione dei canoni dovuti fino alla naturale scadenza del contratto (o alla conclusione di un’eventuale nuova locazione), dall’altro, non potrà non offrire al giudice del merito elementi utili (sul piano del ragionamento probatorio d’indole critica) ai fini della più corretta ricostruzione in fatto delle conseguenze dannose effettivamente ricollegabili al l’inadempimento, normalmente identificabili con la perdita dei canoni previsti fino alla naturale scadenza del contratto.
È in questo quadro che si colloca la giustificazione dell’attribuzione di un carattere ragionevolmente dirimente alla dimostrazione, da parte del locatore, d’essersi convenientemente attivato, non appena ottenuta la riconsegna del proprio immobile, al fine di rendere conoscibile con i mezzi ordinari la disponibilità dell’immobile per una nuova locazione.
Le Sezioni Unite, infine, hanno anche escluso in tali ipotesi la possibilità di fare applicazione in via analogica della disciplina prevista dalla regola dettata dall’art. 1591 c.c. (“Il conduttore in mora a restituire la cosa è tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto fino alla riconsegna, salvo l’obbligo di risarcire il maggior danno”), rimarcando che detta norma disciplina le sole conseguenze risarcitorie connesse al ritardo nella restituzione dell’immobile da parte del conduttore.
Corso d’inglese ai figli: con l’ordinanza n. 17017/2025, la Cassazione ha ribadito un principio importante in materia di separazione e responsabilità genitoriale: le spese per i corsi di lingua inglese, sebbene possano sembrare “straordinarie”, rientrano a pieno titolo tra le spese ordinarie e prevedibili, e pertanto non necessitano del preventivo assenso dell’altro genitore.
In generale, il genitore collocatario può sostenere spese legate ai figli senza dover ottenere un accordo preliminare, purché si tratti di esborsi ripetitivi e prevedibili nella vita del minore, come:
spese scolastiche ricorrenti,
cure mediche di routine,
attività sportive o didattiche integrative di comune diffusione.
Il preventivo assenso è invece richiesto per le spese straordinarie, ovvero quelle non usuali, imprevedibili o economicamente rilevanti, tali da incidere significativamente sull’equilibrio patrimoniale o educativo del minore.
Nel caso specifico, il genitore collocatario aveva iscritto il figlio a un corso di lingua inglese senza informare l’ex coniuge. La Corte ha ritenuto tale scelta conforme al superiore interesse del minore, riconoscendo che oggi l’apprendimento dell’inglese costituisce una necessità formativa, radicata nel contesto sociale e lavorativo contemporaneo.
L’insegnamento dell’inglese non solo rafforza il percorso scolastico, ma prepara il minore agli studi universitari e all’ingresso nel mondo del lavoro. Per questo motivo, tale spesa, se pur apparentemente “straordinaria”, assume un carattere ordinario e prevedibile.
Un altro aspetto fondamentale chiarito dalla Cassazione è che, anche laddove una spesa possa rientrare tra quelle straordinarie, l’assenza di accordo preventivo non preclude il diritto al rimborso da parte dell’altro genitore. La condizione è che il giudice ne valuti:
la rispondenza all’interesse del minore,
la congruità con il tenore di vita familiare precedente.
Con l’ordinanza n. 16399/2025, la seconda sezione civile della Cassazione ha ribadito che l’articolo 66, comma 3, delle disposizioni di attuazione del c.c. impone modalità tassative per la comunicazione dell’avviso di convocazione dell’assemblea condominiale. Tale disciplina è inderogabile e non può essere modificata neanche da regolamenti interni o consuetudini.
Nel caso esaminato, alcuni condomini avevano impugnato una delibera assembleare sostenendo che l’avviso di convocazione fosse stato inviato tramite posta elettronica ordinaria e affissione in bacheca condominiale, invece che tramite posta certificata, fax, raccomandata o consegna a mano, come previsto dalla normativa.
La Corte d’Appello aveva ritenuto valida la delibera, ma la Cassazione ha accolto il ricorso, ritenendo che tali modalità non garantiscano la certezza della ricezione né la regolarità formale della convocazione.
L’art. 66, comma 3, dispone che l’avviso di convocazione — con ordine del giorno, luogo e ora — debba essere comunicato almeno cinque giorni prima della prima convocazione a mezzo:
posta raccomandata,
posta elettronica certificata (PEC),
fax,
o consegna a mano.
Queste forme sono espressamente tipizzate e non derogabili, ai sensi del comma 4 e dell’art. 72 disp. att. c.c., che non permette ai regolamenti di modificare tali prescrizioni.
Secondo la Corte Suprema, il requisito fondamentale della convocazione è garantire la certezza della conoscenza da parte di ciascun condomino, nel corretto termine dilatorio di cinque giorni. L’utilizzo di modalità più informali, come email non certificata, WhatsApp o affissioni in bacheca, non offre alcuna garanzia reale e reale evidenza dell’avvenuto ricevimento. Di conseguenza, tali modalità non soddisfano la forma prescritta e rendono annullabile la delibera assembleare ai sensi dell’art. 1137 c.c.
Carriere separate per gli avvocati: i magistrati della Corte di Cassazione e della Procura Generale richiamano l’attenzione del Parlamento e del Governo sulla necessità di attuare la separazione delle carriere anche per gli avvocati.
Il 19 giugno 2025 presso l’Aula Magna del Palazzo di Giustizia, si è tenuta infatti l’Assemblea Generale della Suprema Corte di Cassazione. L’incontro, che segue quelle del 2009 e del 2015 affronta il tema del rapporto tra la nomofilachia, ossia l’interpretazione uniforme della legge e il sindacato di legittimità, previsto dal comma 7 dell’articolo 111 della Costituzione.
Dal documento scaturito dall’Assemblea uno dei punti di maggiore interesse da segnalare è la proposta di modificare l’accesso degli avvocati all’albo speciale dei patrocinatori davanti alle giurisdizioni superiori.
Per l’Assemblea sarebbe opportuno separare gli avvocati in due categorie distinte: avvocati abilitati a patrocinare davanti alle corti di merito e avvocati specializzati solo nel giudizio di legittimità di fronte alla Corte di Cassazione. Il giudizio di legittimità richiede infatti conoscenze specifiche, che necessita di avvocati altamente specializzati nel proporre ricorsi a critica vincolata. L’attuazione di questa riforma porterebbe il vantaggio di ricorsi qualitativamente superiori e in grado di assicurare la tutela effettiva dei diritti. Non solo, la creazione di una categoria di avvocati con competenze esclusive nei giudizi di legittimità consentirebbe all’Italia di allinearsi a quanto già previsto in diversi paesi europei.
Analizziamo ora, in sintesi, il contenuto del documento suddiviso in quattro punti, ciascuno dei quali merita un’attenta disamina.
Nel primo punto vengono elencati i valori che l’Assembla generale ritiene di condividere.
Prima di tutto la funzione interpretativa della Cassazione deve essere intesa come un valore metodologico, non come un fattore di irrigidimento della produzione giurisprudenziale. I giudici di legittimità e giudici di merito devono dialogare per contribuire alla formazione del diritto vivente.
La funzione interpretativa mira a garantire i diritti fondamentali della persone e la loro tutela e deve essere in grado di adeguarsi all’evoluzione sociale. Il continuo confronto tra la Cassazione e le altre giurisdizioni deve fornire agli avvocati e agli assistiti linee guida chiare per consentire loro di scegliere consapevolmente.
La Cassazione deve anche rapportarsi con la Corte Costituzionale e con gli organi di giustizia sovranazionali perché il confronto arricchisce e rinforza la tutela dei diritti.
Una delle questioni più importati sollevate nel documento è quella in cui la Cassazione sottolinea l’importanza del confronto con tutti i protagonisti della giurisdizione e con i giuristi, come quello avviato da tempo con il Consiglio nazionale Forense. Occorre anche continuare a collaborare per attuare i Protocolli CEDU e della Corte UE e rendere sempre più completa la formazione grazie alla Scuola Superiore della Magistratura. I giudici devono uscire dall’isolamento e aprirsi alla comunità, perché l’interpretazione della legge parte dal basso.
La Cassazione esprime la volontà di razionalizzare la trattazione dei ricorsi per dedicare una maggiore attenzione a quelli che pongono nuovi interrogativi o che stimolano la revisione degli indirizzi precedenti. Occorre che gli avvocati specializzati nel giudizio della Cassazione siano sempre più preparati. I magistrati da parte loro devono operare dando priorità ai diritti dei cittadini e alla loro tutela. La Cassazione esalta poi il ruolo dell’Ufficio per il processo, che è riuscito a ridurre i tempi del processo e a realizzare un cambio di mentalità importante.
I punti due e tre del documento contengono le proposte dell’Assemblea Generale all’Esecutivo e all’organo legislativo:
Al CSM l’assemblea chiede invece di:
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