certificato carichi pendenti

Certificato carichi pendenti: cos’è e chi può richiederlo Il certificato carichi pendenti serve a conoscere se un soggetto ha procedimenti penali in corso a suo carico

Il certificato dei carichi pendenti è un documento ufficiale che attesta se un soggetto ha procedimenti penali in corso a suo carico ed eventuali relativi giudizi di impugnazione. Viene rilasciato dal Ministero della Giustizia e può essere richiesto per una serie di motivi legali, amministrativi o professionali.

Vediamo nel dettaglio cos’è il certificato carichi pendenti, come si richiede e chi può farne richiesta.

Cos’è il certificato carichi pendenti

Il certificato dei carichi pendenti è dunque un documento che certifica la presenza o meno di procedimenti penali in corso a carico di una persona. Questi procedimenti possono riguardare indagini, processi o procedimenti esecutivi che non sono ancora stati definitivi (ad esempio, una sentenza di condanna che non è ancora passata in giudicato). Il certificato, quindi, non riporta condanne definitive (distinguendosi perciò dal certificato del casellario giudiziale), ma solo quelle in corso di svolgimento.

Il certificato ha valore legale ed è spesso richiesto in ambito lavorativo, per la partecipazione a concorsi pubblici, o per altre finalità amministrative e legali.

Come si richiede il certificato carichi pendenti

La richiesta del certificato può essere fatta in vari modi, a seconda delle necessità del richiedente e della modalità che preferisce.

Il certificato viene rilasciato dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale che ha giurisdizione sul luogo di residenza dell’interessato. Il documento riporta i procedimenti pendenti presso tale ufficio e quelli in corso presso le procure distrettuali antimafia (DDA), di cui si è ricevuta comunicazione.

Non risultano comunque divieti al rilascio del certificato da parte di una Procura diversa da quella di residenza.

Presso molti uffici giudiziari, inoltre, è possibile prenotare il certificato online tramite l’apposito modulo disponibile nelle procure e sul sito del ministero della Giustizia, unitamente a un documento di riconoscimento in corso di validità.

I certificati prenotati si ritirano allo sportello dell’ufficio locale del casellario selezionato, consegnando il modulo di richiesta prodotto dal sistema ovvero in alternativa il numero di prenotazione assegnato nel corso della procedura online.

Chi può richiedere il certificato

Il certificato carichi pendenti può essere richiesto da:

  • dal diretto interessato o da persona da lui delegata;
  • dalle pubbliche amministrazioni o dai gestori di pubblici servizi, quando è necessario per l’espletamento delle loro funzioni;
  • dall’autorità giudiziaria penale, che provvede direttamente alla sua acquisizione;
  • dal difensore dell’imputato, nei confronti della persona offesa o del testimone.

Quando viene richiesto il certificato dei carichi pendenti

Il certificato è spesso richiesto in numerosi contesti, tra cui:

Concorsi pubblici

Molti concorsi pubblici, soprattutto per incarichi che implicano responsabilità giuridiche o finanziarie, richiedono che i candidati presentino il certificato dei carichi pendenti per escludere soggetti con procedimenti penali in corso.

Assunzione in aziende private

Alcune aziende, soprattutto nei settori della sicurezza o in posizioni sensibili, possono chiedere il certificato dei carichi pendenti ai propri dipendenti o ai candidati per garantire che non ci siano procedimenti legali in corso.

Procedimenti legali

In caso di contenziosi legali, l’avvocato potrebbe richiedere il certificato per accertare la situazione penale del cliente o della controparte.

Cessione di immobili o altri contratti

In alcune situazioni, come la cessione di beni immobili o la firma di contratti di rilevante valore, può essere richiesto il certificato per verificare l’affidabilità della parte coinvolta.

spese condominio

Spese condominiali: costruttore esonerato Spese condominiali: è valida e non viola il Codice del Consumo la clausola che esonera il costruttore venditore dal pagamento

Spese condominiali: valida la clausola di esonero

Valida la clausola del regolamento contrattuale che esonera il costruttore dal pagamento delle spese condominiali che si riferiscono alle unità immobiliari invendute. La clausola può essere modificata, ma occorre l’unanimità. Lo afferma la sentenza del Tribunale di Bari n. 4515-2024.

Violazione del regolamento condominiale

Il costruttore e venditore di un edificio condominiale contesta l’addebito delle spese condominiali poste a suo carico dal consesso condominiale in violazione dell’articolo 23 del regolamento contrattuale. Questa regola lo esonera, infatti, nella sua qualità di costruttore, dall’obbligo di contribuire alle spese condominiali relative alle proprietà invendute. Nella citazione l’attore chiede quindi la dichiarazione di nullità/annullamento delle due delibere che pongono a suo carico le spese ordinarie e di manutenzione dello stabile.

Il Condominio convenuto contesta la validità dell’art. 23 del Regolamento perché contrario alle regole previste dal Codice del Consumo. La clausola risulterebbe infatti abusiva.

Clausola di esonero dalle spese condominiali

Il Tribunale accoglie le richieste dell’attore ricordando che la giurisprudenza di legittimità, in diverse occasioni, si è pronunciata a favore delle clausole contenute nei regolamenti condominiali che esonerano il costruttore dal pagamento delle spese condominiali.

Il regolamento, nel caso di specie, ha natura contrattuale, per cui, sono valide e vincolanti per tutti i condomini, le clausole che, anche in violazione dell’art. 1123 c.c., dispongono in materia di spese condominiali. E’ legittima la deroga al criterio di riparto che si basa sulle quote millesimali stabilito dalla legge, anche se esonera dal pagamento uno dei condomini e nonostante la previsione dell’art., 1118 c.c.

Clausola di esonero: modificabile all’unanimità

La clausola che esonera il costruttore dal contribuire alle spese del condominio può comunque essere modificata, ma solo all’unanimità, costruttore beneficiario compreso. La delibera che venisse adottata a maggioranza invece sarebbe nulla perché così come il contratto richiede la volontà unanime per l’approvazione del regolamento contrattuale, tutti devono esprimersi a favore anche per la sua modifica. La deroga al criterio stabilito dall’art. 1223 c.c può essere contenuta in una convenzione di modifica contenuta nel regolamento condominiale o in una delibera approvata all’unanimità.

Clausola di esonero: vessatoria se crea squilibrio

Il Tribunale ricorda poi che la Cassazione nell’ordinanza n. 20007/2022 ha chiarito che: la validità della clausola regolamentare che esoneri il costruttore dal pagamento delle spese condominiali non può essere messa in dubbio nemmeno mediante il richiamo alla disciplina delle clausole vessatorie di cui al Codice del consumo, quanto meno nel rapporto tra condominio e impresa costruttrice.” 

La giurisprudenza di legittimità in effetti ha qualificato il Condominio come un soggetto consumatore, ma non si deve confondere il rapporto tra questo soggetto e il singolo condomino moroso in relazione alle spese condominiali con quello che riguarda il costruttore – venditore e l’acquirente della singola unità.

La vessatorietà della clausola può essere fatta valere solo dal Condominio acquirente se la stessa provoca uno squilibrio dei diritti e degli obblighi che derivano dal contratto di compravendita e se incide sulla prestazione traslativa del bene, che si estende alle parti comuni, dovuta dall’alienante, o sull’obbligo di pagamento del prezzo gravante sullacquirente restando di regola estraneo al programma negoziale sinallagmatico della vendita del singolo appartamento l’obbligo del venditore di contribuire alle spese per le parti comuni in proporzione al valore delle restanti unità immobiliari che tuttora gli appartengano.”

 

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colpa medica

Colpa medica per dimissioni premature Le dimissioni premature del paziente con infarto in corso portano alla responsabilità penale omissiva del medico di pronto soccorso

Dimissioni premature e responsabilità penale omissiva

Colpa medica per le dimissioni premature e il mancato approfondimento diagnostico che provocano la morte del paziente a distanza di poche ore nella propria abitazione. Scatta la responsabilità per omissione del medico di pronto soccorso. L’alterazione della troponina, in base a quanto previsto dalle linee guide, richiede un monitoraggio per procedere eventualmente a un esame successivo del valore. L’ospedale sovraffollato e l’impossibilità di un intervento tempestivo non rilevano. Queste le conclusioni a cui è giunta la Cassazione nella sentenza n. 41173/2024.

Responsabilità medico di pronto soccorso

La Corte d’Appello assolve l’imputato dal reato di omicidio colposo perché prescritto.

Il PM lo ha ritenuto responsabile del decesso della vittima a causa della sua negligenza, imperizia e imprudenza. Nella sua qualità di medico del pronto soccorso, l’imputato ha infatti ignorato le linee guida da adottare in caso di sospetto infarto, procedendo alle dimissioni premature del paziente.

La Corte ha ritenuto non contestabili le conclusioni dei periti del PM e del GUP. Gli esami di laboratorio hanno rivelato un aumento della troponina, dal valore di riferimento di 14 a 17,42. Le linee guida della società europea di cardiologia del 2011 impongono che il paziente che presenti questi valori sia mantenuto in uno stato d’osservazione con ripetizione degli esami di laboratorio ogni 3 ore. Previsto poi il ricovero in presenza dell’aumento del valore, con esami da ripetere nelle 6/24 ore successive. Tutte queste condotte sono state  omesse dal medico. Il paziente infatti, una volta dimesso, è deceduto presso la propria abitazione dopo circa 6 ore e 1/2.

Ipertensione pregressa del paziente: segnale significativo

Per la Corte la presenza della pregressa patologia del paziente (ipertensione arteriosa) era tale da aggravare i profili di responsabilità del sanitario, che avrebbe dovuto essere maggiormente allertato in ordine alla necessità di un monitoraggio diretto del medesimo secondo quanto suggerito dalle linee guida (con consulenza cardiologica, esame ecocardiografico, test da sforzo, controlli seriali da ECG e ripetizione ogni quattro ore per almeno tre volte degli esami sugli enzimi miocardici); responsabilità, tra l’altro, ritenuta desumibile anche sulla base della prescrizione indicata in sede di dimissioni e con le quali era stato suggerito il mero monitoraggio dei soli valori pressori.”

Quando il paziente è entrato nel pronto soccorso non presentava una percentuale elevata di rischio di morte. Se la crisi cardiaca fosse sopraggiunta in ospedale e fosse stata trattata adeguatamente, il paziente si sarebbe potuto salvare.

La Corte d’Appello ha concluso quindi per la responsabilità penale del medico per condotta omissiva e nesso di causa tra questa e il decesso del paziente. La stessa però ha rilevato che il reato era estinto a causa della prescrizione sopravvenuta e quindi lo ha assolto sotto il profilo della responsabilità penale, ritenendolo responsabile dal punto di vista civilistico.

Errata l’assoluzione per prescrizione del reato

L’imputato nell’impugnare la decisione contesta la negata assoluzione con la formula “perché il fatto non costituisce reato.” Per l’imputato è errato avere ritenuto che il lieve aumento della troponina fosse collegato alla crisi cardiaca causata dalla crisi ipertensiva. I dati clinici rivelavano l’assenza di una alterazione ecocardiografica per cui escludevano con una probabilità elevata l’infarto del miocardio. Più verosimile che lo stesso si fosse manifestato quando il paziente era a casa. Da escludere quindi il nesso di causa. Il tutto senza trascurare che le condizioni del pronto Soccorso erano tali da non poter garantire un’adeguata e rapida assistenza. L’evento letale pertanto si sarebbe manifestato comunque.

Colpa medica per omissione

Per la Cassazione però il ricorso è del tutto inammissibile e l’unico motivo sollevato del tutto infondato.

Dopo aver analizzato la giurisprudenza in materia di responsabilità penale medica la Cassazione ribadisce che: in tema di responsabilità del sanitario per omissione, l’accertamento del nesso causale, ed in particolare il giudizio controfattuale necessario per stabilire l’effetto salvifico delle cure omesse, deve essere effettuato secondo un giudizio di alta probabilità logica, tenendo conto non solo di affidabili informazioni scientifiche ma anche delle contingenze significative del caso concreto, ed in particolare, della condizione specifica del paziente (…) conseguendone che l’esistenza del nesso causale può essere ritenuta quando l’ipotesi circa il sicuro effetto salvifico dei trattamenti terapeutici non compiuti sia caratterizzata da elevata probabilità logica, ovvero sia fortemente corroborata alla luce delle informazioni scientifiche e fattuali disponibili.” 

Nesso di causa tra dimissioni premature e decesso

I giudici di merito hanno effettuato delle valutazioni inattaccabili e fondate sul sapere scientifico. Dalle prove è emerso che la patologia che ha condotto all’esito letale si stava sviluppando nel momento in cui è intervenuto l’imputato. Se il medico avesse seguito il percorso diagnostico corretto, sottoponendo il paziente a un elettrocardiogramma e alla ripetizione del dosaggio della troponina, la diagnosi si sarebbe rivelata rapida e corretta. Questa condizione avrebbe permesso di intervenire repentinamente ed efficacemente. L’evento sarebbe stato scongiurato con una probabilità prossima alla certezza. Per la Cassazione i Giudici di merito sono giunti pertanto a una valutazione corretta, aderente e rispettosa ai principi sanciti dalla giurisprudenza in materia di responsabilità penale medica. Sussiste infatti il nesso causale tra la condotta omissiva del medico e la morte del paziente in base al criterio della probabilità logica calato nel caso concreto.

 

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studenti plusdotati

Studenti plusdotati: piani formativi ad hoc Studenti plusdotati: al Senato un ddl che prevede piani didattici personalizzati e un referente dedicato

Studenti plusdotati: ratio del ddl n. 180

Per gli studenti plusdotati sono in arrivo piani di formazione personalizzati. Lo prevede il disegno di legge n. 180, in corso di esame in Commissione al Senato da lunedì 11 novembre 2024.

Il disegno di legge nasce dall’iniziativa del parlamentare Pierantonio Zanettin ed è composto da 10 articoli.

Con questo disegno di legge ci si propone di uniformare la legislazione italiana a quella di diversi paesi europei, che da anni si preoccupano di valorizzare gli alunni plusdotati per fornire loro insegnamenti appropriati per valorizzare e potenziare le loro capacità.

Gli Stati Uniti hanno molto a cuore questo tema. Nelle scuole di questo paese i ragazzi plusdotati vengono inseriti fin dai primi anni scolastici in programmi speciali.

I ragazzi più dotati devono infatti poter disporre di programmi adeguati, che consentano loro di saltare alle classi superiori e terminare prima il percorso di studi.

Una disciplina specifica è necessaria sia per sviluppare pienamente il potenziale di questi ragazzi, sia per preparare un personale docente in grado di supportare le esigenze di apprendimento di questi studenti capaci e precoci.

Pari opportunità agli studenti plusdotati

Il disegno di legge all’articolo 1 individua la finalità primaria dell’intervento normativo, ossia garantire pari opportunità di formazione agli studenti più dotati, senza trascurare le loro necessità sociali ed emotive.

Questa finalità si può perseguire però con il necessario coinvolgimento anche di insegnanti, genitori e specialisti.

Riconoscimento del potenziale cognitivo

L’articolo 2  prevede che il riconoscimento del potenziale dello studente debba essere individuato da specialisti come neuropsichiatri infantili, psichiatri e psicologi specializzati.

Al riconoscimento possono procedere sia medici delle strutture sanitarie pubbliche, che private accreditate. Il riconoscimento, una volta effettuato, viene comunicato alla famiglia e, in accordo con la stessa, alla scuola frequentata dal figlio.

Referente scolastico per l’alto potenziale

L’articolo 3 del ddl prevede la figura del referente scolastico presso ogni scuola di ordine e grado.

Questa figura è tenuta a partecipare a corsi di aggiornamento specifici della durata di 20 ore il primo anno e 15 ore negli anni a seguire. Il tutto presso università, associazioni accreditate e strutture private.

Al termine del percorso il soggetto deve sostenere un esame per ottenere il certificazione di abilitazione alla funzione di referente. Il ddl assegna a questo soggetto il compito di predisporre piani didattici personalizzati e in accordo con le famiglie propone il passaggio dellalunno alle classi superiori, la cui iscrizione è consentita ai sensi dell’art. 5 del ddl.

Formazione personale scolastico

Gli insegnanti e lo psicologo delle scuole di ordine e grado sono tenuti a frequentare corsi di formazione presso università associazioni e strutture, sull’alto potenziale della durata minima di 10 ore il primo anno e a seguire di 5 ore. In questo modo potranno individuare più facilmente gli alunni con potenziale e adottare le iniziative e le misure più idonee.

Misure didattiche per studenti capaci e precoci

Il ddl prevede che all’inizio di ogni anno scolastico le scuole debbano adottare programmi didattici personalizzati che tengano conto anche delle necessità relazionali ed emotive di questi alunni.

Questi piani possono contemplare anche la frequentazione di classi superiori per apprendere nuove materie o approfondirne una o più.

Le misure didattiche devono essere periodicamente monitorate per valutarne l’efficacia.

Per tutte queste attività e scuole possono avvalersi dell’aiuto di figure professionali.

Attuazione ddl

Il ddl richiede per la sua attuazione l’adozione di un regolamento con decreto del Ministero dell’istruzione e del merito di intesa con il Ministero della salute.

Le Regioni a Statuto speciale e le province autonome possono procedere all’attuazione del ddl nel rispetto delle loro competenze e dei loro Statuti.

 

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riuso edilizio

Riuso edilizio: la pronuncia della Consulta La Corte Costituzionale boccia alcune norme della regione Sardegna in materia di riuso edilizio e aggiudicazione dei contratti pubblici

Riuso edilizio e aggiudicazione dei contratti pubblici: la Consulta, con la sentenza n. 174/2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di due disposizioni della legge della Regione Sardegna n. 17 del 2023, impugnate dal Governo.

Il riuso edilizio

La prima disposizione (art. 4, comma 1, lettera a, numero 1), modificando l’art. 124, comma 2, della legge regionale n. 9 del 2023, prevede che gli interventi di riuso dei seminterrati, piani pilotis e locali al piano terra degli immobili destinati ad uso abitativo sono consentiti anche mediante il superamento degli indici volumetrici e dei limiti di altezza e numero dei piani previsti dalle vigenti disposizioni urbanistico edilizie comunali e regionali.

La Corte ha ritenuto che “una simile disciplina contrasta con la necessità che le deroghe agli indici di densità edilizia introdotte dal legislatore regionale siano connotate dall’eccezionalità e dalla temporaneità, nel rispetto del principio di pianificazione urbanistica espresso dall’art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942”.

La norma impugnata è stata dichiarata illegittima nella parte in cui consente, in via stabile, di superare gli indici volumetrici, in violazione del suddetto principio, che limita la competenza legislativa regionale primaria in materia di «edilizia ed urbanistica» (art. 3, primo comma, lettera f, dello statuto).

Aggiudicazione contratti pubblici

La seconda disposizione (art. 7, comma 16) inserisce nell’art. 37 della legge regionale n. 8 del 2018 un nuovo comma 3-bis, prevedendo che nelle procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa «costituisce requisito di ammissione dell’offerta tecnica il raggiungimento del punteggio minimo pari al 60 per cento del valore massimo attribuibile all’offerta tecnica stessa».

La Consulta ha ritenuto che il legislatore regionale, imponendo un inderogabile punteggio minimo dell’offerta tecnica, abbia leso l’autonomia di scelta delle stazioni appaltanti, precludendo ad esse una diversa ponderazione dei criteri di valutazione delle offerte, in contrasto con l’art.108 del vigente codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 36 del 2023).

Conseguentemente, “la disposizione impugnata ha superato i limiti che le norme di tale codice sulla scelta del contraente, adottate dallo Stato in nome della tutela della concorrenza, pongono alla potestà legislativa regionale primaria in materia di «lavori pubblici di esclusivo interesse della Regione» (art. 3, primo comma, lettera e, dello statuto)”.

Il giudice delle leggi ha osservato, inoltre, che la garanzia di un confronto concorrenziale effettivo necessita dell’autonomia delle stazioni appaltanti nella valutazione caso per caso della migliore offerta. Ha sottolineato, inoltre, che tale autonomia – anche al fine di favorire la concorrenza – è stata rafforzata dal nuovo codice dei contratti pubblici del 2023 rispetto alle precedenti sue versioni, come è chiaramente dimostrato dalle importanti norme contenute nei primi tre articoli del codice, dedicate ai «principi generali» che regolano la contrattualità pubblica: principio del risultato (art. 1), principio della fiducia (art. 2) e principio dell’accesso al mercato (art. 3). L’autonomia delle stazioni appaltanti, dunque, risulta potenziata: limitarla significherebbe pregiudicare la competizione tra le imprese che aspirano all’aggiudicazione del contratto.

durc documento

DURC: il documento unico di regolarità contributiva DURC: una breve guida al documento unico che attesta la regolarità contributiva nei confronti di INPS, INAIL e Casse Edili

Cos’è il DURC

Il DURC, acronimo di Documento Unico di Regolarità Contributiva, è un certificato che attesta la conformità di un’azienda ai requisiti contributivi e previdenziali previsti dalla legge. Il documento infatti viene rilasciato previa verifica della regolarità dei pagamenti verso INPS, INAIL e verso le Casse Edili. In questo modo si garantisce il corretto adempimento contributivo da parte delle aziende.

Quando è obbligatorio presentare il DURC

Il DURC è un documento obbligatorio in diversi contesti. Vediamo i più importanti.

  • Quando si partecipa a un appalto pubblico il DURC deve essere presentato in tutte le fasi: dalla partecipazione alla gara fino al pagamento finale, compresi i pagamenti per gli stati di avanzamento lavori (SAL), per i certificati di collaudo e per la verifica di conformità.
  • Se si effettuano opere di edilizia privata il DURC è necessario per ottenere il permesso di costruire e presentare la SCIA. Esso deve essere fornito dalle imprese appaltatrici e dai subappaltatori prima dell’inizio dei lavori.
  • Il DURC serve anche per ottenere la certificazione di qualificazione per partecipare agli appalti pubblici.
  • Esso serve anche nel caso in cui ci si voglia iscrivere all’albo fornitori e quando si desidera accedere all’erogazione di sovvenzioni, contributi e vantaggi economici.
  • Dal 2024 il DURC è necessario anche per richiedere la patente a crediti.

Che cosa contiene il DURC?

Il DURC contiene diverse  informazioni essenziali come:

  • la denominazione e la sede legale dell’azienda verificata;
  • il codice fiscale e l’iscrizione all’INPS, all’INAIL e alle Casse Edili;
  • la dichiarazione di regolarità contributiva.
  • il numero identificativo, la data di verifica e quella di scadenza del documento (validità di 120 giorni). 

Il documento deve essere richiesto mediante il servizio online “Durc online”presente sul sito dell’INPS a cui si accede con le credenziali SPID, CIE o CNS.  Il documento viene emesso in formato PDF e non può essere modificato.

Nel caso in cui la risposta non avvenga in tempo reale il documento viene inviato alle sedi territoriali degli enti che eseguiranno un’istruttoria. L’esito della verifica viene quindi inviato all’interessato o al delegato con invito a regolarizzare la posizione nel termine di 15 giorni.

Come richiedere il documento unico

Dal 1° luglio 2015, il DURC può essere richiesto solo online. Le amministrazioni pubbliche, le società di attestazione (SOA) e gli altri soggetti interessati possono accedere tramite il portale INPS o INAIL.

I lavoratori autonomi e le aziende invece possono delegare la richiesta del DURC a consulenti del lavoro o altri soggetti abilitati. La delega deve essere formalizzata e comunicata agli enti coinvolti.

Piattaforma VeRA

Dal giugno 2024 l’INPS ha introdotto nuove funzionalità sulla piattaforma VeRA per migliorare la gestione delle irregolarità contributive. E’ infatti possibile verificare anticipatamente la situazione contributiva, inviando notifiche all’azienda tramite PEC, email o SMS fino a 30 giorni prima della scadenza del DURC. In questo modo le aziende possono intervenire tempestivamente, sanare eventuali posizioni irregolari e prevenire esiti negativi.

Questa funzione “pre-DURC” semplifica il processo, garantisce un servizio più efficace e favorisce la collaborazione tra l’INPS, le aziende e gli intermediari. L’implementazione di VeRA mira a migliorare la trasparenza e la continuità della regolarità contributiva, riducendo il rischio di sanzioni o esclusioni dalle gare d’appalto.

Messaggio INPS: VeRA/Simulazione DURC

Il messaggio INPS n. 3662/2024 informa che nell’ambito della piattaforma unica per la verifica della regolarità contributiva è ora disponibile la procedura VeRA/Simulazione DURC per consentire a chi è in possesso della Delega master (titolare, legale rappresentante dell’azienda o intermediario) di consultare le varie segnalazioni che richiedono un intervento di regolarizzazione.

Irregolarità e sanzioni

La mancata regolarità contributiva può comportare infatti diverse sanzioni, tra cui:

  • l’esclusione dalle gare d’appalto;
  • la non aggiudicazione del contratto o la mancata stipula del contratto in caso di irregolarità;
  • la comunicazione all’Autorità in caso di scoperture significative, con invito all’impresa a sanare la posizione entro 15 giorni.

In caso di scoperture minori (fino al 5% del dovuto o inferiori a 100 euro), il DURC viene comunque rilasciato, ma l’azienda deve sanare il debito entro 30 giorni. Se l’impresa non regolarizza la propria posizione, l’irregolarità viene indicata nei DURC emessi per le successive fasi dell’appalto.

Nel settore dell’edilizia privata, la mancanza del DURC regolare può comportare invece la sospensione del permesso di costruire o dei lavori in corso. La presentazione di un DURC regolare però consente di riprendere l’attività.

 

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autotutela tributaria

Autotutela tributaria: le linee guida del fisco I chiarimenti dell'Agenzia delle Entrate in una circolare dopo le modifiche introdotte dal decreto legislativo n. 219/2023

Nuova autotutela tributaria

L’Agenzia delle Entrate ha recentemente fornito chiarimenti sul nuovo regime dell’autotutela tributaria, in seguito alle modifiche introdotte dal Decreto Legislativo n. 219/2023. Con la Circolare n. 21/E, l’Amministrazione Finanziaria ha definito con maggiore precisione il perimetro del nuovo istituto e le modalità con cui i contribuenti possono presentare le richieste di autotutela.

Autotutela obbligatoria

La riforma ha profondamente modificato l’istituto dell’autotutela tributaria, introducendo una distinzione fondamentale tra autotutela obbligatoria e facoltativa. In particolare, il nuovo articolo 10-quater dello Statuto dei diritti del contribuente impone all’Amministrazione finanziaria di annullare, anche senza una specifica istanza da parte del contribuente, gli atti di imposizione che presentano manifesta illegittimità. Questo obbligo sussiste anche in pendenza di giudizio o in presenza di atti definitivi, qualora ricorrano uno dei vizi tassativamente previsti dalla legge, tra cui:

  • Errore di persona o di calcolo
  • Errore nell’individuazione del tributo
  • Errore materiale facilmente riconoscibile dall’Amministrazione
  • Errore sul presupposto di imposta
  • Mancata considerazione di pagamenti di imposta regolarmente effettuati
  • Mancanza di documentazione che è stata successivamente sanata entro i termini previsti

Tuttavia, l’obbligo di autotutela non si applica in caso di sentenza passata in giudicato favorevole all’Amministrazione finanziaria, né se è trascorso più di un anno dalla definitività dell’atto viziato senza che il contribuente abbia impugnato l’atto.

Autotutela facoltativa

L’articolo 10-quinquies dello Statuto dei diritti del contribuente regola invece l’autotutela facoltativa. In questo caso, se l’illegittimità dell’atto di imposizione non è evidente e non ricorrono i vizi specifici elencati nell’articolo 10-quater, l’Amministrazione finanziaria ha comunque la facoltà di annullare l’atto, anche senza richiesta da parte del contribuente. Tale annullamento può avvenire se l’ente impositore riconosce che l’atto o l’imposizione sono illegittimi o infondati, anche se l’atto è già definitivo o in pendenza di giudizio.

Modalità di presentazione della richiesta di autotutela

La richiesta di autotutela deve essere indirizzata all’Ufficio che ha emesso l’atto oggetto della contestazione. Il contribuente deve presentare l’istanza in modo dettagliato, indicando tutti gli elementi che giustificano la richiesta di annullamento, e allegare la documentazione pertinente. Per la presentazione, è necessario utilizzare modalità che certifichino l’invio, come i servizi telematici (SPID, CIE o CNS), la posta elettronica certificata (PEC) o la consegna diretta dell’istanza allo sportello dell’ufficio competente.

In sintesi, il Decreto Legislativo n. 219/2023 ha introdotto importanti novità sulla procedura di autotutela tributaria, migliorando l’accesso e l’efficienza del sistema, a beneficio tanto dei contribuenti quanto dell’Amministrazione finanziaria

fattura elettronica

Fattura elettronica: prova idonea per il decreto ingiuntivo La fattura elettronica potrà essere utilizzata per dimostrare il credito vantato e ottenere il decreto ingiuntivo dal giudice competente

Fattura elettronica: prova per il decreto ingiuntivo

La fattura elettronica costituirà una prova scritta idonea per richiedere e ottenere il rilascio del decreto ingiuntivo. Lo prevede il correttivo più recente della Riforma Cartabia (D.Lgs. n. 164/2024), approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri il 29 ottobre 2024 e pubblicato in GU l’11 novembre 2024 per entrare in vigore il prossimo 26 novembre.

La fattura elettronica entra nell’art. 634 c.p.c.

I correttivi intervengono sull’articolo 634 c.p.c. La norma si occupa infatti delle prove scritte idonee a fondare la domanda per ottenere dal giudice competente il decreto ingiuntivo, atto che consente  di recuperare i crediti liquidi ed esigibili.

Dopo il primo periodo il correttivo aggiunge un secondo periodo nel quale dispone che i crediti per i quali sarà possibile ottenere l’ingiunzione di pagamento, potranno essere dimostrati anche con le fatture elettroniche trasmesse tramite il Sistema di interscambio gestito dall’Agenzia delle Entrate e istituito dal Ministero dell’economia e delle Finanze.

L’intervento correttivo equipara la fattura elettronica a quella cartacea annotata nelle scritture contabili. Si tratta di una novità molto rilevante perché l’articolo 634 c.p.c include tra le condizioni di ammissibilità per ottenere il decreto ingiuntivo, la prova scritta del credito.

La novità legislativa descritta è stata preceduta da alcuni importanti interventi giurisprudenziali. Diversi i giudici di merito hanno infatti emesso diversi decreti ingiuntivi sulla base delle fatture elettroniche prodotte come prova scritta dai creditori richiedenti.

Scritture contabili tenute con strumenti informatici

Questa novità sulle fatture elettroniche è in linea con le modifiche apportate anche al comma 2 dell’articolo 634 c.p.c.

La norma nella sua formulazione attuale dispone che: “Per i crediti relativi a somministrazioni di merci e di danaro nonché per prestazioni di servizi fatte da imprenditori che esercitano una attività commerciale e da lavoratori autonomi anche a persone che non esercitano tale attività, sono altresì prove scritte idonee gli estratti autentici delle scritture contabili di cui agli articoli 2214 e seguenti del codice civile, purché bollate e vidimate nelle forme di legge e regolarmente tenute, nonché gli estratti autentici delle scritture contabili prescritte dalle leggi tributarie, quando siano tenute con l’osservanza delle norme stabilite per tali scritture.” 

In base alla modifica contenuta nel correttivo la norma assumerà il seguente tenore:Per i crediti relativi a somministrazioni di merci e di danaro nonché per prestazioni di servizi fatte da imprenditori che esercitano una attività commerciale e da lavoratori autonomi anche a persone che non esercitano tale attività, sono altresì prove scritte idonee gli estratti autentici delle scritture contabili di cui agli articoli 2214 e seguenti del codice civile nonché di quelle prescritte dalle leggi tributarie, purché tenute, anche con strumenti informatici, con losservanza delle norme stabilite dalla legge.”

 

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Rifiuto ingiustificato del paziente e concorso nel danno Il rifiuto ingiustificato del paziente di un intervento emendativo di un errore medico configura un concorso colposo del creditore, ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c.?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi

 

Il paziente ha il diritto di rifiutare il trattamento medico, ma se il rifiuto è ingiustificato, perché non correlato ad attività gravosa o tale da determinare notevoli rischi o rilevanti sacrifici, può integrare un concorso colposo del creditore, ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c, ove emerga che il completamento clinico rifiutato avrebbe, più probabilmente che non, portato alla guarigione o ad apprezzabili miglioramenti, senza rischi significativi ovvero estranei a quelli del percorso terapeutico inizialmente compiutamente consentito (Cass., sez. III, 11 dicembre 2023, n. 34395 (rifiuto ingiustificato del paziente).

La decisione in commento si pone in frontale contrasto con i precedenti della Cassazione, i quali hanno sostenuto che il rifiuto del paziente di sottoporsi ad un trattamento medico non può considerarsi una condotta idonea a ridurre il quantum del danno risarcibile ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c.

Funzionale all’attribuzione della responsabilità civile è il nesso di causalità nella sua doppia veste di causalità materiale e giuridica:

  • la prima necessaria per stabilire se vi sia responsabilità e a quale condotta vada imputata;
  • la seconda necessaria per delineare l’area del danno risarcibile e determinare la misura del risarcimento.

Tale distinzione assume notevole peso in particolar modo nell’indagine su eventi ad eziologia multifattoriale: in conseguenza della infrazionabilità del nesso eziologico, coerente con l’orientamento maggioritario della Cassazione che non aderisce al modello nord-americano della causalità proporzionale (così, tra gli altri precedenti, Cass. 21 luglio 2011, n. 15991), l’accertamento di questo si risolve nella dicotomia tra sussistenza ed insussistenza.

L’infrazionabilità del nesso di causalità materiale tra condotta ed evento è indirettamente confermata dall’art. 1227 c.c., che circoscrivendo la riduzione di responsabilità al solo caso di concorso causale fornito dalla vittima, esclude la frazionabilità nel caso in cui la condotta del responsabile concorra con cause naturali o condotte non colpevoli.

La materia della responsabilità medica è tipicamente teatro di eventi dall’eziologia complessa. Qui, in virtù del nuovo regime di responsabilità a doppio binario introdotto dalla L. 22 dicembre 2017, n. 219, l’istituto di cui all’art. 1227 c.c. trova rilevanza sia nel caso di responsabilità contrattuale tipico del rapporto tra paziente e struttura sanitaria sia, in forza dell’espresso rinvio contenuto nell’art. 2056 c.c., in quello di responsabilità extracontrattuale che interviene tra il primo e l’esercente la professione sanitaria.

Il caso concretamente oggetto della pronuncia in commento ha dato l’occasione alla Cassazione per esprimersi nuovamente sulla possibilità di considerare il rifiuto del paziente di sottoporsi a un trattamento medico rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 1227, comma 2, c.c. Questo presuppone che l’evento dannoso sia interamente ascrivibile alla responsabilità del debitore fungendo da criterio selettivo del danno risarcibile: si escludono i danni che il creditore avrebbe potuto evitare attraverso una condotta diligente.

L’analisi, rispetto al primo comma del medesimo articolo, si sposta pertanto sul piano della causalità giuridica, sul presupposto che il danno che taluno arreca a sé stesso non può essere traslato sull’autore della causa concorrente. Altra lettura individua in questa norma una portata causalistica, incentrata sull’esclusione dall’area del danno risarcibile le conseguenze non immediatamente e direttamente riconducibili alla condotta del danneggiante sulla base del fatto che la condotta del danneggiato interromperebbe il nesso di causalità giuridica già innescato, viene preferita una lettura solidaristica.

La tesi prevalente reputa, infatti, che alla regolazione della causalità sia esaustivamente demandato l’art. 1223 c.c. L’art. 1227, comma 2, va infatti letto quale norma comportamentale che addossa un dovere di autoresponsabilità al creditore. Alla luce del principio solidaristico che permea il Codice Civile ove letto attraverso il filtro dei dettami costituzionali si sancisce una regola etico-giuridica di condotta che impone doveri comportamentali ex art. 1176 c.c. anche al creditore. Così non si risarcisce il danno che sarebbe stato evitabile attraverso una condotta doverosa di quest’ultimo.

Di questo aspetto la Corte si è già occupata in un intervento del 2020 (Cass. 15 gennaio 2020, n. 515). In tale sede la Cassazione ha ricordato che il rifiuto di sottoporsi a determinate cure mediche, sia per motivi religiosi che per altra natura non può essere considerato un fattore anomalo e imprevedibile ma è espressione di un diritto di rango costituzionale.

Sul punto, tale pronuncia ribadisce l’orientamento in tema: nessuno può essere sottoposto a un trattamento sanitario senza consenso e non può essere configurato alcun obbligo a carico della vittima di sottoporsi al trattamento sanitario in quanto si tratterebbe di incidere surrettiziamente sull’intensità e sulla qualità del pieno riconoscimento del diritto di un soggetto di rifiutare un trattamento sanitario.

Il rifiuto ingiustificato del paziente non è quindi inquadrabile nell’ipotesi di concorso colposo del creditore previsto dall’art. 1227 c.c., intendendosi comprese nell’ambito dell’ordinaria diligenza di cui all’art. 1227, comma 2, c.c., soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici (così anche Cass. 5 luglio 2007, n. 15231; Cass. 10 maggio 2001, n. 6502). In sostanza, i danni derivanti dalla condotta pregiudizievole del medico che il paziente abbia omesso di mitigare mediante un trattamento sanitario non sono da considerarsi “danni evitabili” secondo quanto disposto dall’art. 1227, comma 2, c.c.

La vicenda di cui si occupa la Cassazione nella sentenza in commento trae origine dalla domanda di risarcimento derivante da un intervento chirurgico negligente dal quale era poi scaturito il rifiuto del paziente-creditore di un ulteriore trattamento.

In questa occasione la Corte, in contrasto con i precedenti sopra citati, ammette che dal rifiuto del paziente di sottoporsi a trattamenti sanitari possano derivare conseguenze sul piano risarcitorio. Recuperando il nucleo centrale del principio solidaristico, la Cassazione concepisce l’art. 1227, comma 2 c.c. come un modo per ripartire i costi dell’esercizio del diritto di autodeterminazione del creditore. Non si tratta, infatti, di sanzionare l’esercizio di un diritto quanto di impedire che dei danni conseguenti a questo possa rispondere un soggetto che, effettivamente, non li ha cagionati. Attraverso il riferimento al rifiuto “ingiustificato”, poi, si introduce la necessità di un vaglio in concreto sulle ragioni del rifiuto dell’attività medica, tenendo in considerazione le relazioni tra i rischi derivanti dall’intervento e quelli derivanti dalla non sottoposizione allo stesso. È qui che si inserisce la valutazione (e la prova) sulla probabilità che l’intervento non voluto fosse determinante per l’evoluzione in senso migliorativo delle condizioni di salute del danneggiato e che non rischiasse di introdurre nel quadro clinico ulteriori e inaspettati pericoli.

Così la pronuncia in commento armonizza, nell’ambito dell’art. 1227, comma 2 c.c., la lettura solidaristica attraverso l’aggancio al principio di solidarietà e buona fede nel sindacato sulle ragioni del rifiuto, con quella causalistica mediante il rinvio al giudizio controfattuale ipotetico sul peso che l’intervento medico non accettato avrebbe avuto sul decorso causale che ha portato alle conseguenze dannose di cui il paziente-creditore si duole.

 

Contributo in tema di “Rifiuto ingiustificato del paziente e concorso nel danno”, a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 78 / Ottobre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

tutela del marchio

Tutela del marchio: risoluzione automatica per chi delocalizza A tutela del marchio di particolare interesse nazionale il decreto del 28 ottobre 2024 prevede il subentro del MIMIT e di imprese estere

Decreto del MIMIT: tutela del marchio

A tutela del marchio il Ministero delle Imprese e del Made in Italy ha emanato il decreto del 28 ottobre 2024 contenente le “Disposizioni operative relative alle procedure di tutela dei marchi di particolare interesse e valenza nazionale” pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, Serie generale n. 160 del 6 novembre 2024.

Intestazione al MIMIT e alle imprese che operano in Italia

Il decreto si occupa dei marchi di particolare interesse e valore nazionale per i quali il comma 2 dell’articolo 7 della legge n. 206/2023 prevede il subentro gratuito del MIMIT nella titolarità del marchio di quelle imprese che intendono cessare l’attività purché il marchio non sia stato ceduto dall’impresa licenziataria o che ne abbia la titolarità.

Ai sensi del co. 3 di detto articolo 7 il MIMIT può anche depositare la domanda di registrazione per i marchi inutilizzati da almeno cinque anni. Il co. 4 del suddetto art. 7 prevede infine che questi marchi possano essere anche utilizzati da imprese estere solo se hanno intenzione di trasferire in Italia le attività produttive collocate all’estero.

Subentro del Ministero o di un’impresa estera

Alla luce di queste previsioni il primo articolo del decreto prevede, a carico dell’impresa che voglia cessare l’attività, l’obbligo di redigere un progetto di cessazione, utilizzando un format appositamente predisposto.

Progetto che va poi trasmesso all’indirizzo pec della Direzione Generale per la politica industriale, la riconversione e la crisi industriale, l’innovazione, le PMI e il Made in Italy: DGIND@pec.mimit.gov.it.

Il decorso di tre mesi senza riscontro deve essere interpretato come manifestazione di non interesse a subentrare nel marchio. In caso contrario il Ministero dovrà avviare immediatamente i lavori con l’impresa.

Nel caso in cui l’interesse all’utilizzo del marchio provenga da un impresa estera la stessa dovrà presentare apposita richiesta e inviarla all’UMASI, l’ufficio a supporto delle imprese, al seguente indirizzo pec: umasi@pec.mise.gov.it

Risoluzione automatica se l’impresa delocalizza

L’articolo 2 del decreto prevede infine che “il contratto di licenza d’uso del  marchio si risolve qualora l’impresa licenziataria cessi  l’attività o delocalizzi gli stabilimenti produttivi al di fuori del territorio nazionale.”

Per consentire il monitoraggio del rispetto delle prescrizioni l’impresa licenziataria dovrà trasmettere una relazione ogni sei mesi all’UMASI, che potrà anche effettuare verifiche sugli stabilimenti presenti sul territorio nazionale dell’impresa licenziataria.

 

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