giurista risponde

Codice appalti e proposta di aggiudicazione L’art. 93, comma 6 del D.Lgs. 50/2016 è applicabile al soggetto destinatario della proposta di aggiudicazione?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il comma 6 dell’art. 93, D.Lgs. 50/2016 nel prevedere che la “garanzia provvisoria” a corredo dell’offerta “copre la mancata sottoscrizione del contratto dopo l’aggiudicazione dovuta ad ogni fatto riconducibile all’affidatario” – delinea un sistema di garanzie che si riferisce al solo periodo compreso tra l’aggiudicazione ed il contratto e non anche al periodo compreso tra la “proposta di aggiudicazione” e l’aggiudicazione.– Cons. Stato, Ad. plen., 26 aprile 2022, n. 7

L’Adunanza plenaria si è pronunciata sulla questione che le era stata rimessa dalla sez. IV con la sent. 4 gennaio 2022, n. 26, al fine di stabilire se la garanzia provvisoria che correda l’offerta dei partecipanti alla procedura di evidenza pubblica di cui all’art. 93, comma 6 del D.Lgs. 50/2016 copra soltanto i “fatti” che si verificano nel periodo compreso tra l’aggiudicazione e il contratto ovvero se si estenda anche a quelli che si verificano nel periodo compreso tra la “proposta di aggiudicazione” e l’aggiudicazione.

La questione specifica rimessa all’esame dell’Adunanza Plenaria riguarda in particolare, l’individuazione dei “soggetti” nei cui confronti può essere escussa la “garanzia provvisoria”.

L’orientamento espresso nell’ordinanza di rimessione è nel senso che i “soggetti” siano non solo l’“aggiudicatario”, ma anche il destinatario di una “proposta di aggiudicazione” per le seguenti ragioni.

In primo luogo, si osserva che occorre valorizzare una interpretazione di «carattere logico-sistematico e teleologico», che fa emergere «plasticamente l’assoluta identità […] tra la situazione dell’aggiudicatario e quella in cui versa il soggetto “proposto per l’aggiudicazione” che, tuttavia, si sia visto rifiutare la formale aggiudicazione, con contestuale esclusione dalla procedura, poiché, all’esito dei controlli operati dalla stazione appaltante proprio in vista della stipulazione del contratto, sia emersa l’assenza, non importa se originaria o sopravvenuta, dei necessari requisiti di legge».

In secondo luogo, si afferma che risulterebbe «contraddittorio e diseconomico obbligare la stazione appaltante a procedere all’aggiudicazione nei confronti del “proposto” e, subito dopo, ad esercitare l’annullamento in autotutela di tale provvedimento per carenza, in capo all’affidatario, di un imprescindibile requisito soggettivo».

L’Adunanza Plenaria ritiene, tuttavia, di aderire ad una differente soluzione rispetto a quella proposta, facendo applicazione dei criteri di interpretazione, di cui all’art. 12 delle preleggi.

Sul piano dell’interpretazione letterale, si afferma che il comma 6 dell’art. 93 del decreto legislativo 50/2016 è chiaro nello stabilire che «la garanzia copre la mancata sottoscrizione del contratto dopo l’aggiudicazione dovuta ad ogni fatto riconducibile all’affidatario […]».

Il riferimento sia all’aggiudicazione, quale provvedimento finale della procedura amministrativa, sia al «fatto riconducibile all’affidatario» e non anche al concorrente destinatario della “proposta di aggiudicazione” rende palese il significato delle parole utilizzate dal legislatore nel senso di delimitare l’operatività della garanzia al momento successivo all’aggiudicazione.

Il comma 9 dello stesso art. 93 prevede, inoltre, che «la stazione appaltante, nell’atto con cui comunica l’aggiudicazione ai non aggiudicatari, provvede contestualmente, nei loro confronti, allo svincolo della garanzia» prestata a corredo dell’offerta.

Sul piano dell’interpretazione teleologica, inoltre, il legislatore ha inteso ridurre l’ambito di operatività del sistema delle garanzie nella fase procedimentale, come risulta dall’analisi della successione delle leggi nel tempo.

In particolare, il Codice del 2016 non ha confermato il sistema previgente disciplinato dall’art. 48 del Codice del 2006, che prevedeva la possibilità, ricorrendo i presupposti indicati, di escutere la garanzia, con funzione sanzionatoria, anche nei confronti dei partecipanti alla procedura ove fosse stata accertata la mancanza dei requisiti richiesti. Ne consegue che l’estensione del perimetro della “garanzia provvisoria” si porrebbe in contrasto con la ratio legis.

Sul piano dell’interpretazione sistematica, in primo luogo, dall’analisi del contesto in cui la norma è inserita e, in particolare, dalla lettura coordinata di alcune disposizioni del Codice risulta chiara la distinzione tra la fase procedimentale relativa alla “proposta di aggiudicazione” e la fase provvedimentale relativa all’“aggiudicazione”.

Con riguardo alla “proposta di aggiudicazione” formulata dalla commissione di gara, il Codice – che, ha inteso attribuirle natura autonoma – disciplina il rapporto tra essa e l’aggiudicazione. Il destinatario della proposta è ancora un concorrente, ancorché individualizzato.

In questa fase si inseriscono i seguenti adempimenti: i) la stazione appaltante, prima dell’aggiudicazione dell’appalto, «richiede all’offerente cui ha deciso di aggiudicare l’appalto […] di presentare documenti complementari aggiornati», nel rispetto di determinate modalità, per dimostrare la sussistenza dei requisiti generali e speciali di partecipazione alla gara (art. 85, comma 5); ii) la “proposta di aggiudicazione” «è soggetta ad approvazione dell’organo competente secondo l’ordinamento della stazione appaltante e nel rispetto dei termini dallo stesso previsti, decorrenti dal ricevimento della proposta di aggiudicazione da parte dell’organo competente» (art. 33, comma 1); iii) la stazione appaltante, dopo la suddetta approvazione, «provvede all’aggiudicazione» (art. 32, comma 5).

Nella prospettiva della tutela, la “proposta di aggiudicazione”, essendo atto endoprocedimentale, non è suscettibile di autonoma impugnazione.

Con riguardo all’aggiudicazione, il Codice nel disciplinarne il rapporto con il contratto, all’art. 32, comma 6, stabilisce che «l’aggiudicazione non equivale ad accettazione dell’offerta», in quanto occorre la stipula del contratto e l’offerta dell’aggiudicatario è irrevocabile per sessanta giorni.

Nella prospettiva della tutela, l’aggiudicazione è il provvedimento finale di conclusione del procedimento di scelta del contraente che, in quanto tale, ha rilevanza esterna e può essere oggetto sia di impugnazione in sede giurisdizionale sia di autotutela amministrativa.

In secondo luogo, la valutazione sistematica anche delle regole civilistiche impone di evitare che il terzo – che ha stipulato un contratto autonomo di garanzia collegato al rapporto principale tra amministrazione e partecipante alla procedura di gara – debba eseguire prestazioni per violazioni non chiaramente definite dalle regole di diritto pubblico.

Sul piano dell’interpretazione analogica, la diversità della disciplina e delle situazioni regolate relativa alle due fasi, risultante dall’applicazione degli esposti criteri interpretativi, impedisce di estendere alla fase procedimentale le “garanzie provvisorie” della fase provvedimentale per i motivi di seguito indicati.

Nel caso di mancata stipulazione del contratto a seguito di una “aggiudicazione”, le ragioni possono dipendere sia dalla successiva verifica della mancanza dei requisiti di partecipazione sia, soprattutto, dalla condotta dell’aggiudicatario che, per una sua scelta, decide di non stipulare il contratto.

In queste ipotesi la stazione appaltante deve annullare d’ufficio il provvedimento di aggiudicazione e rinnovare il procedimento con regressione alla fase della “proposta di aggiudicazione”.

In tale contesto i possibili pregiudizi economici determinati dalla condotta dell’aggiudicatario sono coperti dalla “garanzia provvisoria” che consente all’amministrazione di azionare il rimedio di adempimento della prestazione dovuta con la finalità di compensare in via fortettaria i danni subiti dall’amministrazione per violazione delle regole procedimentali nonché dell’obbligo di concludere il contratto.

Nel caso di “mancata aggiudicazione” a seguito di una “proposta di aggiudicazione”, i motivi di tale determinazione possono dipendere, oltre che da ragioni relative all’offerta, dalla verifica negativa preventiva del possesso dei requisiti di partecipazione del concorrente individuato. In queste ipotesi, contrariamente a quanto affermato nell’ordinanza di rimessione, l’amministrazione non è costretta a procedere all’aggiudicazione e poi ad esercitare il potere di annullamento in autotutela, potendosi limitare a non adottare l’atto di aggiudicazione e ad individuare il secondo classificato nei cui confronti indirizzare la nuova “proposta di aggiudicazione”.

In tale contesto i pregiudizi economici, se esistenti, hanno portata differente rispetto a quelli che si possono verificare nella fase provvedimentale, con possibilità per l’amministrazione, ricorrendone i presupposti, di fare valere l’eventuale responsabilità precontrattuale del concorrente ai sensi degli artt. 1337-1338 cod. civ.

Rimane fermo, altresì, il potere dell’Autorità nazionale anticorruzione di applicare sanzioni amministrative pecuniarie qualora si accertino specifiche condotte contrarie alle regole della gara da parte degli operatori economici (art. 213, comma 13, D.Lgs. 50/2016).

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. IV, 15 dicembre 2021, n. 8367
Difformi:      Cons. Stato, sez. IV, 4 gennaio 2022, n. 26
bonus assunzioni donne

Bonus assunzioni donne vittime di violenza Il bonus assunzioni previsto in favore di datori di lavoro che assumono donne vittime di violenza prevede un esonero contributivo del 100% per durate variabili

Bonus assunzioni donne vittime di violenza: cos’è

Il bonus per le assunzioni di donne vittime di violenza è una misura introdotta dalla legge di bilancio 2024, che la contempla al comma 191 dell’articolo 1. Essa consiste in un esonero dal pagamento dei contributi (esclusi premi e contributi INAIL) che viene riconosciuto a quei datori di lavoro che nel triennio 2024-2026 assumono donne che sono state vittime di violenza e che beneficiano del Reddito di Libertà. In  presenza di un contratto di somministrazione il beneficio si trasferisce all’utilizzatore finale della lavoratrice. I dettagli del bonus sono contenuti nella circolare INPS n. 41 del 5 marzo 2024. 

Importo esonero contributivo

L’esonero dei contributi è riconosciuto nella misura del 100% nel rispetto del limite annuo di 8000 euro riparametrato su base mensile. Il datore è quindi sgravato dall’onere contributivo mensile di 666,66 euro (8000 : 12 mesi), mentre per i rapporti che nascono, terminano o si trasformano nel corso del mese l’importo viene ricalcolato tenendo conto dell’importo giornaliero di 21,50 euro (666,66:31 giorni).

Esonero contributivo datori di lavori: finalità

Attraverso il riconoscimento dell’esonero contributivo in favore dei datori di lavoro si vogliono incentivare le assunzioni delle donne vittime di violenza per favorirne l’ingresso nel mondo del lavoro e la contestuale uscita da una realtà violenta.

Requisiti soggettivi donne vittime di violenza

Il bonus spetta se i datori assumono donne in possesso dei seguenti requisiti:

  • devono essere state vittime di violenza;
  • possono essere o non essere madri;
  • devono essere seguite da centri antiviolenza riconosciuti dalla Regione e da servizi sociali nei percorsi finalizzati a renderle autonome;
  • devono avere la residenza italiana se cittadine italiane o comunitarie, se invece sono donne extracomunitarie devono essere in possesso di un regolare permesso di soggiorno;
  • devono trovarsi in uno stato di disoccupazione;
  • devono aver dichiarato in forma telematica al sistema informativo delle politiche del lavoro di essere immediatamente disponibili a svolgere un’attività lavorativa e a partecipare alle misure di politica attiva dei centri per l’impiego;
  • devono percepire il Reddito di libertà o misure similari riconosciute a livello regionale o provinciale, fatta eccezione per le assunzioni del 2024, per le quali l’esonero è riconosciuto anche alle donne che hanno percepito il reddito di libertà nel 2023.

Bonus assunzioni: rapporti di lavoro

I rapporti di lavori per i quali è previsto il riconoscimento dell’esonero contributivo sono i seguenti:

  • contratti di assunzione a tempo indeterminato, in questo caso l’esonero spetta per 24 mesi;
  • contratti di assunzione a tempo determinato, l’esonero spetta per tutta la durata del rapporto fino a un massimo di 12 mesi;
  • in caso di trasformazione di un rapporto di lavoro a tempo determinato in uno a tempo indeterminato, sia esso agevolato o non agevolato, l’esonero spetta per un massimo di 18 mesi, che decorrono dalla data di assunzione con contratto a tempo determinato.

L’esonero spetta anche se il contratto è part time o l’assunzione ha la forma del rapporto di lavoro subordinato con vincolo associativo presso una cooperativa di lavoro.

Bonus assunzioni: quando non spetta

L’esonero contributivo non spetta nei seguenti casi:

  • l’assunzione viene effettuata in virtù di un obbligo preesistente stabilito dalla legge anche se con contratto di somministrazione;
  • l’assunzione viola il diritto di precedenza di un altro lavoratore, in virtù di una legge o di un contratto collettivo di lavoro, che ha diritto alla riassunzione dopo il licenziamento relativo a un rapporto a tempo determinato o indeterminato;
  • riorganizzazione aziendale o crisi presso il datore o l’utilizzatore, che comportano la sospensione dal lavoro, fatte salve alcune eccezioni;
  • il datore che assume presenta gli stessi assetti proprietari del datore che nei sei mesi precedenti ha licenziato determinate lavoratrici, non ha diritto all’esonero per quelle lavoratrici.

Esoneri: compatibilità e coordinamento

L’esonero contributivo spetta a tutti i datori di lavoro privati di ogni settore che hanno le proprie unità produttive localizzate in qualsiasi parte del paese. La misura non rientra pertanto nella disciplina di cui all’articolo 107 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, che si occupa degli aiuti di Stato, perché non crea vantaggi per certe imprese, certi settori produttivi o certe aree territoriali.

La misura è compatibile con altre misure agevolative (es. riduzione dei contributi dovuti dalla lavoratrice madre come previsto dai commi  180-182 legge bilancio 2024)di tipo contributivo ed economico,  se non è escluso in maniera espressa. Se compatibile con altri esoneri, l’ultimo esonero introdotto dalla legge si cumula con i precedenti sulla contribuzione residua dovuta.

L’esonero è invece incompatibile con altre misure se il cumulo è escluso espressamente come nel caso dell’incentivo strutturale all’occupazione giovanile (articolo 1, commi 100 e seguenti, legge 27 dicembre 2017, n. 205).

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Illegittimità atto a fini risarcitori (art. 34, 3° comma, c.p.a.) Per l’accertamento dell’illegittimità dell’atto ai soli fini risarcitori, di cui all’art. 34, comma 3, c.p.a., quando la domanda di annullamento sia diventata improcedibile è sufficiente che il ricorrente abbia formulato un’istanza generica o è necessaria l’esposizione degli elementi costitutivi dell’azione risarcitoria?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Per procedersi all’accertamento dell’illegittimità dell’atto ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a. è sufficiente dichiarare di avervi interesse a fini risarcitori; non è pertanto necessario specificare i presupposti dell’eventuale domanda risarcitoria né tanto meno averla proposta nello stesso giudizio di impugnazione, purché la dichiarazione sia resa nelle forme e nei termini previsti dall’art. 73 c.p.a. – Cons. Stato, Ad. plen., 13 luglio 2022 n. 8.

L’Adunanza Plenaria ha risolto il contrasto interpretativo sull’applicazione dell’art. 34, comma 3, c.p.a. aderendo all’orientamento che ritiene sufficiente la dichiarazione del ricorrente di avere interesse a che sia accertata l’illegittimità dell’atto impugnato in vista della futura azione risarcitoria, non ritenendo altresì necessario che l’interessato alleghi a tal fine anche i presupposti della successiva domanda risarcitoria.

A tale esito interpretativo si perviene sulla base dell’art. 30, comma 5, c.p.a. secondo cui nel giudizio di annullamento: “La domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza”; dell’art. 35, comma 1, lett. c), c.p.a., che prevede l’improcedibilità del ricorso: “quando nel corso del giudizio sopravviene il difetto di interesse delle parti alla decisione”, soggetta non solo all’eccezione di parte ma anche al rilievo ufficioso del giudice; e dell’art. 104, comma 1, c.p.a., che, nell’enunciare il c.d. divieto dei nova in appello, secondo cui “non possono essere proposte nuove domande”, precisa che: “Resta fermo quanto previsto dall’art. 34, comma 3”.

Si afferma, in particolare, che l’improcedibilità del ricorso si verifica quando viene meno l’interesse ad una decisione nel merito della domanda azionata. In questa situazione il processo non ha assolto alla sua funzione di affermare in modo incontrovertibile il diritto o l’interesse giuridicamente protetto la cui lesione ha portato il titolare ad agire in giudizio, con una pronuncia che ai sensi dell’art. 2909 cod. civ. è idonea a costituire giudicato sostanziale.

Dall’art. 30, comma 5 c.p.a. si desume inoltre l’autonomia dell’azione risarcitoria rispetto a quella di annullamento, in considerazione del superamento del precedente assetto di origine giurisprudenziale incentrato invece sulla c.d. pregiudiziale amministrativa.

Dunque, in coerenza con il principio di cui all’art. 1 c.p.a. di pienezza ed effettività della tutela, e nel quadro di un sistema evoluto di tutela giurisdizionale contro gli atti della Pubblica Amministrazione, in cui alla tradizionale azione di annullamento si è affiancata con pari dignità rispetto ad essa l’azione risarcitoria, l’accertamento di illegittimità ai fini risarcitori previsto dalla disposizione processuale in esame risponde all’esigenza di conservare un’utilità alla decisione di merito sulla domanda di annullamento, pur a fronte di un mutamento della situazione di fatto e di diritto rispetto all’epoca in cui la stessa è stata azionata.

L’esigenza che l’interesse sia dichiarato dalla parte si correla alla natura di giurisdizione di diritto soggettivo della giurisdizione amministrativa, sicchè è allo stesso ricorrente che è per legge rimessa l’iniziativa a tutela del suo interesse risarcitorio.

La manifestazione dell’interesse risarcitorio, una volta venuto meno quello all’annullamento dell’atto impugnato è, dunque, ritenuto il presupposto indispensabile affinché il giudice possa pronunciarsi sulla legittimità dello stesso atto con pronuncia di mero accertamento. In questi termini va inteso l’inciso finale dell’art. 34, comma 3, c.p.a.: “Se sussiste l’interesse ai fini risarcitori”, posto a condizione della pronuncia di accertamento.

La dichiarazione è condizione necessaria ma nello stesso tempo sufficiente perché sorga l’obbligo per il giudice di accertare l’eventuale illegittimità dell’atto impugnato.

Non occorre a questo scopo né che siano esposti i presupposti dell’eventuale domanda risarcitoria né tanto meno che questa sia in concreto proposta.

L’accertamento di cui all’art. 34, comma 3, cit. va infatti coordinato con la disciplina processuale dell’azione di risarcimento contenuta nel codice del processo amministrativo, ed in particolare con il sopra richiamato art. 30, comma 5, c.p.a., che consente di proporre la domanda risarcitoria “nel corso del giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza”.

La manifestazione dell’interesse risarcitorio ai fini dell’eventuale azione di risarcimento dei danni dell’atto originariamente impugnato, ma per il cui annullamento è venuto meno l’interesse nel corso del giudizio, consente al privato di ricavare dal giudizio di impugnazione un’utilità residua, impeditiva della pronuncia in rito ex art. 35, comma 1, lett. c), c.p.a. nella futura prospettiva di una tutela per equivalente monetario che il codice consente di fare valere in separato giudizio.

Nello stesso tempo, è possibile individuare nell’accertamento ex art. 34, comma 3, cit. una funzione deflattiva, rispondente alle esigenze del ricorrente di conoscere anticipatamente se è fondato il presupposto principale dell’eventuale domanda di risarcimento dei danni, oltre che alle esigenze prospettate nell’ordinanza di rimessione, riferite all’Amministrazione autrice dell’atto impugnato, di conoscere anticipatamente se questo sia o meno illegittimo e se vi sono pertanto rischi di esborsi economici, e dunque di assumere le opportune iniziative attraverso il proprio potere di autotutela. L’effetto di deflazione si ricava dal fatto che se l’accertamento richiesto dal ricorrente dovesse essere negativo, e dunque l’atto impugnato risultasse legittimo, l’azione risarcitoria sarebbe preclusa.

Per ottenere l’accertamento preventivo si palesa dunque sufficiente una semplice dichiarazione, da rendersi nelle forme e nei termini previsti dall’art. 73 c.p.a., a garanzia del contraddittorio nei confronti delle altre parti, con la quale, a modifica della domanda di annullamento originariamente proposta, il ricorrente manifesta il proprio interesse affinché sia comunque accertata l’illegittimità dell’atto impugnato.

Dal punto di vista processuale il fenomeno è inquadrabile nella c.d. emendatio della domanda, in senso riduttivo quanto al petitum immediato, non integrante pertanto un mutamento non consentito nell’ambito del principio della domanda, come evincibile dalla clausola di salvezza rispetto al c.d. divieto dei nova in appello previsto dall’art. 104, comma 1, c.p.a., sopra richiamato.

In forza delle considerazioni finora svolte diviene evidentemente superfluo, oltre che privo di base normativa, onerare il ricorrente di promuovere nello stesso giudizio la domanda risarcitoria, quando il termine ultimo si colloca oltre la definizione del giudizio di annullamento.

L’accertamento di legittimità dell’atto impugnato in funzione dell’interesse risarcitorio si pone in termini di contraddizione logica con la domanda di risarcimento del danno. Esso presuppone non già una domanda risarcitoria in atto, ma la sola proponibilità della stessa, che come più volte precisato è consentita entro il termine di decadenza previsto dall’art. 30, comma 5, c.p.a. della sentenza che definisce il giudizio di annullamento. Se la domanda è stata invece proposta, l’accertamento mero si palesa inutile ed è assorbito da quello che deve svolgersi in sede di esame della domanda risarcitoria.

Sono poi superabili le preoccupazioni espresse dall’ordinanza sul rischio che l’accertamento intervenga a fronte di un interesse solo potenziale e non attuale, carente pertanto dei requisiti che secondo l’art. 100 c.p.c. condizionano la pronuncia giurisdizionale nel merito dell’azione proposta.

Si rileva, al riguardo, che la pronuncia ex art. 34, comma 3, c.p.a. origina da una modifica in senso riduttivo di una domanda già proposta, quella di annullamento, divenuta tuttavia priva di interesse per il ricorrente in pendenza di giudizio, e in relazione al quale lo stesso ricorrente ritenga nondimeno che residui un’utilità ai fini di un ristoro per equivalente dei danni eventualmente subiti a causa dei provvedimenti amministrativi impugnati.

Considerazioni analoghe possono essere svolte con riguardo alla tesi che può essere definita intermedia, per la quale ai fini dell’accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato è comunque necessario che il ricorrente indichi i presupposti della futura eventuale azione risarcitoria. Anche questa posizione non trova fondamento normativo. Essa tende inoltre a produrre una sovrapposizione tra le due domande, di annullamento e risarcitoria, che il codice del processo – e in particolare l’art. 30 – considera distinte e non avvinte da pregiudizialità della prima rispetto alla seconda come invece si era affermato in epoca antecedente, salvo il solo temperamento dato dal comma 3 della disposizione ora richiamata.

In presenza di una domanda risarcitoria non ancora formulata, l’accertamento sui relativi presupposti non avrebbe peraltro attitudine al giudicato. In conseguenza di quest’ultimo rilievo deve pertanto escludersi che il giudice “possa comunque pronunciarsi su una questione assorbente e dunque su ogni profilo costitutivo della fattispecie risarcitoria”, come ipotizza l’ordinanza di rimessione.

Conclusivamente, sulla base di tali considerazioni, l’Adunanza plenaria condivide l’orientamento giurisprudenziale originario, per cui: “L’art. 34, comma 3, c.p.a. va interpretato nel senso che l’obbligo di pronunciare sui motivi di ricorso (ovvero di accertare l’illegittimità dell’atto impugnato) sussista in caso di istanza, o, comunque, espressa dichiarazione di interesse della parte ricorrente, non potendo il giudice, alla declaratoria di improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse, far seguire la verifica d’ufficio della permanenza dell’interesse del ricorrente ad una pronuncia sulla fondatezza dei motivi di ricorso per fini risarcitori”. A questo scopo è sufficiente “la dichiarazione di interesse della parte ricorrente» e non già «un’istanza circostanziata che alleghi il danno concretamente subito”.

Infine, con riguardo ai rapporti con la domanda risarcitoria: “Se fosse stata proposta domanda di risarcimento in cumulo con la domanda di annullamento, il giudice, pur avendo accertato l’improcedibilità della domanda di annullamento, per il carattere autonomo della domanda risarcitoria, sarebbe comunque tenuto a pronunciarsi sulla stessa per il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato ex art. 112 c.p.a., incorrendo, altrimenti, nel vizio di omessa pronuncia. In tale ricostruzione, pertanto, la disposizione contenuta nell’art. 34, comma 3, c.p.a., sarebbe del tutto superflua; essa, invece, si rende necessaria proprio per l’assenza di rituale domanda risarcitoria che la parte ben potrebbe proporre successivamente in autonomo giudizio, una volta ottenuto dal giudice l’accertamento dell’illegittimità dell’azione amministrativa”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 29 gennaio 2020, n. 727
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Ius superveniens e legittimo affidamento Quale rapporto intercorre tra lo ius superveniens e il legittimo affidamento?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. plen., 5 agosto 2022, nn. 9 e 10.

La vicenda esaminata attiene a due diverse discipline che corrispondono al momento di entrata in vigore della nuova norma, per cui lo stesso rapporto è regolato, per il tempo della sua durata, in modi differenti.

Quel che rileva è che la nuova disciplina – prevista al comma 458 dell’art. 1 della legge di stabilità del 2014 – incide negativamente sui diritti in godimento del dipendente pubblico.

Essa ridefinisce il trattamento dei professori universitari, per il rientro nei medesimi ruoli, dopo aver svolto incarchi diversi.

È rilevante, dunque, accertare l’eventuale contrasto con il principio del legittimo affidamento del dipendente pubblico.

Il principio del legittimo affidamento nella certezza delle situazioni giuridiche costituisce un limite alla scelta del legislatore ordinario di introdurre discipline che modificano rapporti giuridici in corso di svolgimento.

Tale principio, dunque, tutela l’aspettativa della parte privata a poter conservare, per tutto il periodo di spettanza e nell’originaria entità, l’utilità legittimamente acquisita.

La disposizione va, dunque, sottoposta a scrutinio di ragionevolezza, verificando il corretto bilanciamento tra le opposte esigenze.

Pur ritenendo legittimamente maturata l’aspettativa dei consiglieri c.d. laici alla conservazione del favorevole trattamento economico in godimento all’entrata vigore dei commi 458 e 459 dell’art. 1 della L. 147/2013, le nuove regole rispondono ad interessi generali – che, dunque, hanno causa normativa adeguata – ciò rende ragionevole la decisione in punto di loro applicazione.

La nuova disciplina risponde ad un’esigenza di contenimento della spesa pubblica, poiché sopprime l’assegno ad personam, non correlato all’attività svolta, ma percepito per il solo fatto del pregresso svolgimento dell’incarico.

Sulla base di tali premesse, l’Adunanza Plenaria, in definitiva ha enunciato i seguenti principi di diritto: “L’appellato, proprio in quanto privato di un surplus di retribuzione riferita ad un incarico ormai passato, non sopporta alcun onere individuale eccessivo, di modo che si può ben dire raggiunto il giusto bilanciamento (fair balance) tra interesse generale e diritti fondamentali della persona”.

Inoltre, con riferimento alle nuove disposizioni: “Si applicano ai ratei da corrispondersi a partire dal 1° febbraio 2014 anche se il conferimento dell’incarico di componente c.d. laico del C.S.M. sia avvenuto antecedentemente alla data di entrata in vigore della L. 147/2003 e senza che ciò comporti lesione del legittimo affidamento maturato dal consigliere”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Corte Cost. 108/2019; Corte Cost. 16/2017; Corte Cost. 203/2016;
Corte Cost. 34/2015; Corte Cost. 92/2013; Corte Cost. 302/2010;
Corte Cost. 236/2009
giurista risponde

Criteri di calcolo appello sentenza Tar Quali criteri di calcolo utilizzare in seguito alla proposizione di un appello avverso una sentenza del TAR pubblicata prima del periodo di sospensione feriale?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. plen., 3 settembre 2022, n. 11 e 12 settembre 2022, n. 12. 

La Plenaria è stata chiamata a pronunciarsi sulle modalità di calcolo del termine lungo di impugnazione delle sentenze e sull’incidenza, ai fini di detto calcolo, del periodo di sospensione feriale (introdotta dall’art. 14 del D.L. 132/2014, convertito dalla L. 162/2014).

Secondo un orientamento della Suprema Corte, il termine lungo di impugnazione deve essere calcolato includendo fittiziamente anche il periodo di sospensione feriale e, successivamente, sommando ad esso ulteriori 31 giorni.

Secondo, invece, altra parte della giurisprudenza, anche della Cassazione e del Consiglio di Stato, il decorso del termine di impugnazione ha inizio durante il periodo di sospensione feriale, tale inizio è differito alla fine di detto periodo (art. 1 della L. 742/1969).

Tale secondo orientamento risulta, secondo i giudici amministrativi, preferibile in quanto consentirebbe di evitare incongruenze e disparità di trattamento derivanti dalla decorrenza del dies a quo per l’impugnazione che, nella fattispecie, seguirebbe regole diverse a seconda dell’inizio della decorrenza stessa, prima del periodo di sospensione feriale o durante lo stesso.

Come è noto, nell’ambito dei termini processuali, i termini di impugnazione delle sentenze (artt. 326 c.p.c. e 92 c.p.a.) sono termini perentori fissati dalla legge, la cui decorrenza dà luogo automaticamente alla decadenza del potere di compiere l’atto, termini che non possono essere abbreviati o prorogati.

Invero, i termini processuali sono soggetti a ipotesi particolati di sospensione, tra cui la sospensione dei termini feriali che costituisce un’ipotesi di sospensione generale a tutela del diritto di difesa.

L’art. 1 della l. n. 742/1969 dispone la sospensione di diritto dei termini processuali dall’1 al 31 agosto di ciascun anno, fa espresso riferimento ai termini relativi alla giurisdizione ordinaria e amministrativa.

Da quanto sin qui esposto, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato accogliendo l’orientamento tradizionale, ha enunciato il principio di diritto secondo cui: Qualora il termine lungo di impugnazione abbia iniziato a decorrere prima del periodo feriale, al termine di impugnazione, calcolato a mesi, ai sensi degli artt. 155, comma 2, c.p.c. e 2963, comma 4, c.c. (per cui il decorso del tempo si ha, indipendentemente dall’effettivo numero dei giorni compresi nel rispettivo periodo, allo spirare del giorno corrispondente a quello del mese iniziale coincidente con la data di pubblicazione della sentenza), va alla fine aggiunto, realizzandosi un prolungamento di tale termine nella misura corrispondente, il periodo di 31 giorni di sospensione previsto dalla L. 742/1969, come ribadito dall’art. 54, comma 2, c.p.a., computo ex numeratione dierum ai sensi dell’art. 155, comma 1 c.p.c..

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. II, n. 1248 del 2022; Cass. civ., sez. III, 4426/2022; Id., 6592/2019; Cons. Stato, sez. VI, 1145/2011; Cons. Stato, Ad. plen., 5/1978
giurista risponde

Intepretazione art. 10 comma 5 D.Lgs. n. 373/2003 L’art. 10, comma 5, del D.Lgs. 373/2003 deve essere interpretato come riferito ai soli conflitti di competenza (positivi o negativi) attuali o anche a quelli virtuali, determinati dalla contemporanea pendenza dell’appello sulla competenza davanti al CGA Siciliana e al Consiglio di Stato?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

L’art. 10, comma 5, del D.Lgs. 373/2003 va interpretato come riferito ai conflitti di competenza positivi o negativi, reali o virtuali. Tuttavia la mera pendenza di due procedimenti identici, in assenza di provvedimenti giudiziari che costituiscano invasione della sfera di competenza riservata, non costituisce un’ipotesi di conflitto. Qualora il TAR per la Sicilia abbia declinato la propria competenza, indicando la competenza di un altro TAR, il relativo regolamento di competenza va proposto dinanzi al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana. – Cons. Stato, Ad. plen., 13 settembre 2022, n. 13.

Con l’ord. 98/2022, il Consiglio di giustizia amministrativa aveva sottoposto all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato i seguenti quesiti: “1) se l’art. 10, comma 5, del D.Lgs. 373/2003 debba essere interpretato come riferito ai soli conflitti di competenza (positivi o negativi) attuali, o anche a quelli virtuali che sono determinati dalla contemporanea pendenza dell’appello sulla competenza davanti al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana e al Consiglio di Stato; 2) se, nell’ipotesi in cui il Tar per la Sicilia abbia declinato la propria competenza indicando la competenza di un altro Tar, il relativo regolamento di competenza debba essere proposto dinanzi al Consiglio di Stato o al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana”.

Con riguardo alla prima questione, l’Adunanza Plenaria richiama l’art. 10, comma 5, D.Lgs. 373/2013, il quale stabilisce che: “All’Adunanza plenaria, composta ai sensi del comma 4” (cioè integrata da due magistrati del Consiglio di giustizia) è altresì devoluta la cognizione dei conflitti di competenza, in sede giurisdizionale, tra il Consiglio di giustizia amministrativa ed il Consiglio di Stato”.

Si evidenzia che “in tal modo viene assicurato che i conflitti di competenza che coinvolgano il Consiglio di giustizia amministrativa, le cui prerogative sono garantite dallo Statuto della Regione siciliana, trovino tutela nella composizione allargata dell’Adunanza Plenaria che vede la presenza dei membri della Sezione giurisdizionale del massimo consesso siciliano”.

Si ribadisce che “analoga esigenza non si riscontra invece nei conflitti di competenza che vedano coinvolto il TAR Sicilia, che pertanto, stante anche il chiaro e inequivoco tenore letterale del citato art. 10, comma 5, del D.Lgs. 373/2003, sono sottoposti alla disciplina del regolamento di competenza ordinariamente stabilita dal codice del processo amministrativo”.

In particolare, si afferma che:L’art. 10, comma 5, si è dunque riferito, quale presupposto per adire necessariamente l’Adunanza Plenaria, ad una situazione di “conflitto”, senza null’altro specificare”.

Si richiama, nello specifico, quanto affermato dall’Adunanza Plenaria con l’ord. 9 marzo 2011, n. 6, secondo cui: “Si tratta di una disposizione speciale, contenuta in una fonte tra l’altro di rango sub costituzionale, e non trasfusa nel codice del processo amministrativo, ragion per cui non rileva, per la sua corretta interpretazione, il rinvio esterno alle disposizioni del codice di procedura civile, effettuato dall’art. 39 del c.p.a.; la fattispecie non può essere assimilata al conflitto di competenza disciplinato dall’articolo 45 del codice di procedura civile (riguardante il solo conflitto negativo virtuale, a prevenzione del conflitto reale); la formulazione dell’art. 10, comma 5, è di tale ampiezza da ricomprendere sia il conflitto positivo che quello negativo, sia il conflitto reale che quello virtuale. In conclusione, ad avviso della Adunanza Plenaria, tali considerazioni vanno di per sé ribadite, con la precisazione che l’art. 10, comma 5, presuppone per la sua applicazione che vi sia un conflitto, sia pure virtuale: non è invece sufficiente il ‘mero rischio di conflitto virtuale’, per la pendenza di due procedimenti analoghi, in assenza di un provvedimento che possa considerarsi quale esplicita o implicita invasione della sfera di competenza dell’altro ufficio giudiziario”.

Con riguardo alla seconda questione, ovvero “se, nell’ipotesi in cui il Tar per la Sicilia abbia declinato la propria competenza indicando la competenza di un altro Tar, il relativo regolamento di competenza debba essere proposto dinanzi al Consiglio di Stato o al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana”, l’Adunanza Plenaria richiama l’art. 4, comma 3, del D.Lgs. 373/2003, il quale dispone testualmente che in sede giurisdizionale il Consiglio di giustizia amministrativa esercita le funzioni di giudice di appello contro le pronunce del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia.

Si ritiene, quindi, che la formulazione della norma, nella sua ampiezza, riguardando tutte le funzioni del giudice di appello (cioè del Consiglio di Stato) da esercitare ratione loci, e non già il solo mezzo dell’appello, ben si presta a ricomprendere anche il regolamento di competenza che il codice del processo attribuisce, per l’appunto, in via generale al giudice di appello.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, Ad. plen., 22 aprile 2014, n. 11; Id., ord. 9 marzo 2011, n. 6
giurista risponde

Impugnazione sentenza penale e avvio procedimento disciplinare Da quando decorre il termine per l’avvio del procedimento disciplinare in caso di impugnazione parziale di una sentenza penale? Occorre fare riferimento ai giudicati parziali ovvero all’ultimo giudicato?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il procedimento disciplinare deve essere instaurato o ripreso a decorrere dalla data di intervenuta conoscenza della sentenza che conclude definitivamente e complessivamente il processo penale, non assumendo alcun rilievo, ai fini della determinazione del dies a quo, il passaggio in giudicato di precedenti sentenze con riferimento a singoli capi di imputazione. – Cons. Stato, Ad. plen., 13 settembre 2022, n. 14.

Richiamando l’art. 55ter del D.Lgs. 165/2001, i Giudici ricordano che per il personale alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni (e, nel caso di specie, con riguardo ai militari imputati di fatti penalmente rilevanti, per i quali in modo non dissimile da quanto previsto per il cd. personale contrattualizzato dispongono gli artt. 1392 e 1393, D.Lgs. 66/2010) resta fermo il principio generale di “autonomia temperata” del procedimento disciplinare rispetto a quello penale.

L’avvio del procedimento disciplinare, anche in pendenza di procedimento penale, costituisce, dunque, la regola nell’impiego pubblico, mentre la sospensione rappresenta l’eccezione, dipendente dalla sussistenza di due distinti presupposti: i) la natura particolarmente grave della sanzione astrattamente irrogabile all’esito del procedimento; ii) la particolare “complessità” dell’istruttoria, ovvero la indisponibilità di “elementi conoscitivi sufficienti”, che solo le indagini penali e il successivo dibattimento possono fornire.

La sospensione, quindi, ove ne ricorrano le condizioni, risponde all’esigenza di acquisire tutti gli elementi emergenti dal processo penale per una migliore valutazione, a tutela dell’interesse pubblico e di quello del dipendente.

Ciò che le norme intendono tutelare, per il tramite dell’attesa della definizione del giudizio penale, è la correttezza e completezza della valutazione in sede disciplinare di tutti i fatti che hanno formato oggetto di giudizio penale, sia nell’interesse pubblico che nell’interesse del dipendente.

Sulla base di tali considerazioni, i Giudici ritengono preferibile la soluzione ermeneutica che individua la decorrenza del termine per avviare o riaprire il procedimento disciplinare solo dalla conclusione dell’intero processo penale (senza quindi considerare le eventuali sentenze parziali coperte da giudicato).

L’Adunanza Plenaria ha, dunque, concluso che: “Il procedimento disciplinare nei confronti del personale militare deve essere instaurato o ripreso, ai sensi dell’art. 1392, comma 3, e dell’art. 1393, comma 4, D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 66, a decorrere dalla data di intervenuta conoscenza della sentenza che conclude definitivamente e complessivamente il processo penale, non assumendo alcun rilievo, ai fini della determinazione del dies a quo, il passaggio in giudicato di precedenti sentenze con riferimento a singoli capi di imputazione. La conoscenza della sentenza conclusiva del processo penale deve essere integrale, non essendo sufficiente la mera conoscenza del dispositivo o di estratti della stessa, e legalmente certa, dovendo la stessa irrevocabilità risultare formalmente, secondo le modalità previste dalla legge”.

giurista risponde

Sindacabilità atto ministero giustizia richieste art. 723 c.p.p. È sindacabile l’atto con cui il Ministero della Giustizia provvede sulle richieste di assistenza giudiziaria internazionale (art. 723 c.p.p.)?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. plen., 6 dicembre 2022, n. 15.

Il Consiglio di Stato enuncia che è sindacabile l’atto con cui il Ministero della Giustizia provvede sulle richieste di assistenza giudiziaria internazionale.

Si tratta, infatti, di un provvedimento amministrativo discrezionale che sotto il profilo del difetto di motivazione può essere sottoposto al vaglio del giudice amministrativo.

Con riguardo alla vicenda in esame, il collegio si è direttamente pronunciato nel merito degli appelli, accogliendoli, in specie annullando gli atti del Ministero per carenza di motivazione, con particolare riferimento alla possibile violazione del principio del ne bis in idem.

Nel caso di specie, la questione è partita da sei richieste dell’India di notificazione delle citazioni a giudizio ai vertici di una società per rispondere dei reati di corruzione e riciclaggio in pubbliche forniture al Governo straniero. I vertici della società, per i medesimi fatti, erano stati già processati in Italia e assolti in via definitiva. Il Consiglio di Stato ha annullato gli atti del Ministero di accoglimento delle richieste del Governo indiano, affermando che il Ministero non aveva motivato in ordine alle ragioni per cui non aveva esercitato il proprio potere di “blocco”.

L’Adunanza Plenaria evidenziava che, il Ministero esercita un potere discrezionale, in forza del quale è tenuto a valutare tutti i profili presi in considerazione dall’art. 723 c.p.p.”. Pertanto, la motivazione deve essere contenuta nell’atto di accoglimento della richiesta formulata dallo Stato estero o va desunta per relationem da un precedente atto infra-procedimentale.

Nel caso specifico, invece, non si è preso in considerazione il precedente “giudicato assolutorio” con il rischio concreto che “le medesime persone, già assolte, verrebbero nuovamente sottoposte ad un giudizio per i medesimi fatti, davanti all’autorità giudiziaria penale estera”, così ponendo in discussione la sovranità statale.

Nella medesima direzione va anche la possibile violazione della necessità della “doppia incriminazione”, con riguardo all’imputazione di riciclaggio formulata dall’autorità indiana, perché rivolta ai concorrenti nel reato di corruzione presupposta, in violazione dell’incompatibilità sancita invece da diritto penale interno (art. 648bis c.p.).

Tutte questioni sulle quali non si riscontra nei provvedimenti impugnati alcuna presa di posizione sul piano motivazionale.

Ciò premesso, per i Giudici va affermato che: “Il difetto di motivazione esplicita degli atti con cui è stato dato seguito alle richieste di assistenza giudiziaria internazionale è sindacabile, sotto il profilo del difetto di motivazione, poiché come nel caso di specie, si è in presenza di un provvedimento discrezionale, che va adeguatamente motivato”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 1° giugno 2022, n. 4487;
Cons. Stato, sez. VII, 16 marzo 2022, n. 1889;
Cons. Stato, sez. VI, 3 agosto 2021, n. 5727;
Cons. Stato, sez. IV, 21 febbraio 2020, n. 1341;
Cons. Stato, sez. V, 14 febbraio 2020, n. 1180
giurista risponde

Corretta valutazione offerte tecniche nelle gare Qual è la corretta modalità di valutazione delle offerte tecniche da parte dei commissari nelle gare in cui è previsto l’utilizzo del metodo del confronto a coppie?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. plen., 14 dicembre 2022, n. 16.

I Giudici di Palazzo Spada hanno ammesso che, sia nel caso in cui il disciplinare di gara preveda l’utilizzo del metodo del confronto a coppie sia nel caso in cui la stazione appaltante abbia deciso di adottare il metodo dell’attribuzione discrezionale di un coefficiente variabile tra zero e uno, con valutazione discrezionale della singola offerta rispetto ai contenuti della lex specialis, per entrambi i metodi di valutazione tra i commissari può esserci un preventivo confronto sui contenuti delle offerte tecniche.

In tale confronto ciascun componente dell’organo collegiale potrà apporvi un personale contributo rispetto alle proprie competenze specifiche.

Nello specifico, i due metodi di valutazione si differenziano:

  • nel caso in cui il disciplinare abbia previsto l’attribuzione discrezionale di un coefficiente, “all’esito di una valutazione collegiale i singoli commissari ben possono ritenere, unanimemente, di assegnare il medesimo coefficiente ad ogni singola offerta, via via che essa viene esaminata”, in quanto ogni offerta è valutata singolarmente rispetto a standard ideali e non in confronto alle altre offerte;
  • nel confronto a coppie, invece, non può considerarsi legittimo un giudizio comparativo sempre identico tra i singoli commissari, “in quanto a differenza di un giudizio assoluto di volta in volta espresso rispetto alla singola offerta, quello comparativo a coppie, in quanto relativo, deve riflettere una individualità del singolo giudizio nella preferenza nettamente distinguibile da quella degli altri”.

Da quanto sin qui esposto, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha enunciato i seguenti principi di diritto: “a) Nel diritto dei contratti pubblici, i commissari di gara cui è demandato il compito di esprimere una preferenza o un coefficiente numerico, quando procedono alla valutazione degli elementi qualitativi dell’offerta tecnica, possono confrontarsi tra loro in ordine a tali elementi prima di attribuire individualmente il punteggio alle offerte, purché tale confronto non si presti ad una surrettizia introduzione del principio di collegialità, con la formulazione di punteggi precostituiti ex ante, laddove tali valutazioni debbano essere, alla luce del vigente quadro regolatorio, anzitutto di natura esclusivamente individuale; b) con riferimento al metodo del confronto a coppie, in particolare, l’assegnazione di punteggi tutti o in larga parte identici e non differenziati da parte di tutti i commissari annulla l’individualità della valutazione che, anche a seguito della valutazione collegiale, in una prima fase deve necessariamente mantenere una distinguibile autonomia preferenziale nel confronto tra la singola offerta e le altre in modo da garantire l’assegnazione di coefficienti non meramente ripetitivi e il funzionamento stesso del confronto a coppie; c) le valutazioni espresse dai singoli commissari, nella forma del coefficiente numerico non comparativo, possano ritenersi assorbite nella decisione collegiale finale”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 15 settembre 2021, n. 6296; Id., 14 febbraio 2018, n. 952;
Cons. Stato, sez. III, 13 ottobre 2017, n. 4772; Cons. Stato, sez. V, 11 agosto 2017, n. 3994;

Id., 8 settembre 2015, n. 4209; Id., 24 marzo 2014, n. 1428;
Cons. Stato, sez. IV, 16 febbraio 2012, n. 810

giurista risponde

Periodi di riposo padre lavoratore dipendente Sono riconosciuti i periodi di riposo, ai sensi degli artt. 39 e 40 del D.Lgs. 151/2001, al padre lavoratore dipendente (del minore di anni uno) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

 

Il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. – Cons. Stato, Ad. plen., 28 dicembre 2022, n. 17. 

I Giudici ricordano che: “I periodi di riposo di cui all’art. 39 del D.Lgs. 151/2001 rientrano nel novero dei diritti riconosciuti in attuazione del valore costituzionale tutelato dalla funzione genitoriale, cui si riconnettono:

 

–   sia le responsabilità di entrambi i genitori nei confronti del figlio (naturale o adottivo), e dunque il diritto dei medesimi ad ottenere dall’ordinamento il riconoscimento delle migliori condizioni possibili onde assolvere ad una funzione non solo individuale, ma anche socialmente fondamentale;

–   sia, specularmente, il diritto del figlio ad ottenere, per il tramite dell’assistenza dei genitori, ottimali condizioni di crescita e di sviluppo della sua età evolutiva”.

Ed invero, l’esercizio della funzione genitoriale tende sia alla piena realizzazione dei diritti del bambino ad ottenere la migliore assistenza da parte dei genitori sia a costituire espressione del diritto “proprio” di ciascuno dei genitori, quale espressione della loro personalità, ad accompagnare la crescita del figlio.

Occorre, dunque, prendere le mosse dell’art. 40 del D.Lgs. 151/2001, che prevede la fruizione dei riposi orari del padre lavoratore nei casi: a) in cui i figli siano affidati al solo padre; b) in cui la madre lavoratrice non se ne avvalga; c) in cui la madre non sia lavoratrice dipendente; d) di morte o di grave infermità della madre.

La giurisprudenza si è interrogata se il diritto ai riposi orari spettasse anche nel caso in cui la madre fosse una casalinga; dunque, se potesse rientrare nel novero di “madre non lavoratrice dipendente”.

Sul punto vi sono stati diversi indirizzi interpretativi.

Secondo un primo indirizzo positivo, con “madre lavoratrice dipendente” si ricomprendono tutte le ipotesi in cui non esiste un rapporto di lavoro dipendente, dunque sia il caso della lavoratrice autonoma sia il caso della donna che non svolga alcun lavoro nonché il caso della donna che svolga un’attività non retribuita (come appunto la casalinga).

Orbene, la ratio della disposizione si individuava nel principio della paritetica partecipazione di entrambi i genitori alla cura e all’educazione della prole, così come enunciato nei precetti costituzionali contenuti negli artt. 3, 29, 30 e 31.

Per quanto attiene all’orientamento negativo, il principio di alternatività nella cura del minore andrebbe escluso in termini assoluti e non sarebbe possibile ricondurre la casalinga alla condizione di non lavoratrice dipendente. Interpretazione che si fonda sulla ricerca del necessario equilibrio tra il diritto-dovere di entrambi i coniugi di assistere i figli e le specifiche esigenze del datore di lavoro.

Si è poi affermato un indirizzo intermedio, secondo il quale il padre ha diritto ai permessi solo nel caso in cui dimostri che la moglie casalinga è impossibilitata ad assicurare le necessarie cure al bambino.

Tale contrasto interpretativo induceva la Seconda Sezione del Consiglio di Stato a deferire la questione all’Adunanza Plenaria, che osservava come: “i periodi di riposo di cui all’articolo 39 rientrano nel novero dei diritti riconosciuti in attuazione del valore costituzionalmente tutelato della funzione genitoriale”.

Escludere il diritto del padre alla fruizione dei riposi in caso di presenza nel nucleo familiare della madre casalinga, comporterebbe un’irragionevole privazione del diritto del padre lavoratore dipendente, non giustificata dal testo della norma che nella sua chiarezza non consente interpretazioni riduttive.

Da quanto sin qui esposto, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha enunciato il principio di diritto secondo cui: “L’art. 40, comma 1, lett. c), D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità), laddove prevede che i periodi di riposo di cui al precedente art. 39 sono riconosciuti al padre lavoratore dipendente del minore di anni uno, “nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”, intende riferirsi a qualsiasi categoria di lavoratrici non dipendenti; e quindi anche alla donna che svolge attività lavorativa in ambito familiare, senza che sia necessario, a tal fine, che ella sia impegnata in attività che la distolgano dalla cura del neonato, ovvero sia affetta da infermità.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. civ., sez. lav., 28 novembre 2019, n. 31137;
Cons. Stato, sez. III, 10 settembre 2014, n. 4618;
Cass. civ., sez. III, 20 luglio 2010, n. 16896; Id., 24 agosto 2007, n. 17977;
Id., 20 ottobre 2005, n. 20324
Difformi:      Cons. Stato, sez. II, 4 marzo 2021, n. 1851; Cons. Stato, sez. IV, 30 ottobre 2017, n. 499; Cons. Stato, sez. I, 22 ottobre 2009, n. 2732