giurista risponde

Giudicati impliciti giudice ordinario e vincoli giudice amministrativo In caso di traslatio iudicii conseguente a declaratoria di difetto di giurisdizione, i giudicati impliciti formatisi innanzi al giudice ordinario che ha declinato la giurisdizione vincolano il giudice amministrativo innanzi al quale la domanda sia poi riproposta?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia evidenzia la non vincolatività. – CGARS, sez. giur., 27 luglio 2023, n. 468.

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia risponde al quesito prendendo le mosse dall’art. 59, comma 2, della L. 69/2009, che stabilisce che, ove nel termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della decisione che declini la giurisdizione ed indichi il giudice nazionale munito di giurisdizione sulla controversia, la domanda venga “riproposta” dinanzi a quest’ultimo giudice, “nel successivo processo le parti restano vincolate a tale indicazione e sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è stata dichiarata la giurisdizione fosse stato adito fin dall’instaurazione del primo giudizio, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute. Il comma 5 aggiunge che: “In ogni caso di riproposizione della domanda davanti al giudice di cui al comma 1, le prove raccolte nel processo davanti al giudice privo di giurisdizione possono essere valutate come argomenti di prova”.

Con riferimento al processo amministrativo, l’art. 11, comma 2, c.p.a. stabilisce che: “Quando la giurisdizione è declinata dal giudice amministrativo in favore di altro giudice nazionale o viceversa, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute, sono fatti salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda se il processo è riproposto innanzi al giudice indicato nella pronuncia che declina la giurisdizione, entro il termine perentorio di tre mesi dal suo passaggio in giudicato”. Il successivo comma 6 precisa che: “Nel giudizio riproposto davanti al giudice amministrativo, le prove raccolte nel processo davanti al giudice privo di giurisdizione possono essere valutate come argomento di prova”; il comma 7, infine, che: “Le misure cautelari perdono la loro efficacia trenta giorni dopo la pubblicazione del provvedimento che dichiara il difetto di giurisdizione del giudice che le ha emanate. Le parti possono riproporre le domande cautelari al giudice munito di giurisdizione”.

Con riguardo alla vicenda in esame, il Collegio osserva che dalle suesposte disposizioni normative, al contrario di quanto dedotto dagli appellanti, non si evince la esatta unicità del processo instaurato dinanzi al giudice privo di giurisdizione e continuato, in virtù di tempestiva riassunzione, dinanzi al giudice indicato come munito di giurisdizione, in quanto sono le medesime norme di legge a perimetrare puntualmente gli effetti della traslatio iudicii, stabilendo la salvezza degli “effetti processuali e sostanziali della domanda”, ferme comunque restando “le preclusioni e decadenze intervenute”; nonché specificando che, nei rapporti tra giurisdizioni diverse, non si verifica mai la “riassunzione” dello stesso processo dinnanzi a un altro giudice, ma si ha sempre la “riproposizione della domanda” medesima in un distinto processo, in cui è tuttavia data ex lege salvezza, a certi fini e a determinate condizioni, agli effetti sostanziali e processuali della stessa domanda che, nel primo e distinto processo, era stata proposta a diversa giurisdizione.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., Sez. Un., 27 ottobre 2020, n. 23599; Id. 28 marzo 2019, n. 8674
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Passaggio in giudicato sentenza giudice amministrativo Quando la sentenza del giudice amministrativo passa in giudicato e decorre il termine per proporre la domanda risarcitoria?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Individua tali momenti il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia. – CGARS, sez. giurisd., 27 luglio 2023, n. 488. 

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia ha affermato che: “Il momento del passaggio in giudicato della sentenza amministrativa, coincidente con il dies a quo del termine decadenziale di cui all’art. 30, comma 5, c.p.a., entro cui può proporsi la domanda risarcitoria, risulta articolato come segue:

a) la proposizione della revocazione ordinaria, essendo un mezzo di impugnazione ordinario, è ostativa alla immediata formazione del giudicato sulla sentenza revocanda, il quale dunque si forma con la pubblicazione della decisione di inammissibilità della revocazione, qualora tale ultima sentenza non sia passibile di ricorso per cassazione;

b) né, a prolungare di sei mesi tale termine, soccorre l’art. 107, comma 1, c.p.a., perché avverso la declaratoria di inammissibilità della revocazione non è ammesso il ricorso in Cassazione, non potendosi configurare da parte di tale sentenza una violazione dei limiti esterni della giurisdizione;

c) ne deriva che le sentenze del Consiglio di Stato passano in giudicato, nei vari possibili casi:

c.1) con lo spirare dei termini per proporre il ricorso per cassazione o la revocazione ordinaria, ove non proposti;

c.2) con la pubblicazione della sentenza che dichiara inammissibile il ricorso per revocazione;

c.3) il giorno in cui spirano i termini del ricorso per cassazione avverso la sentenza resa nel giudizio di revocazione, ove esso, avendo positivamente superato la fase rescindente e dunque revocato la sentenza gravata, abbia deciso in qualsiasi senso il c.d. giudizio rescissorio: è solo a tale ipotesi che si riferisce, ove correttamente inteso, l’art. 107, comma 1, c.p.a.;

d) la suddetta casistica non implica una sostanziale differenza tra revocazione ordinaria e straordinaria, poiché:

d.1) anche per quest’ultima, invero, superata positivamente la fase rescindente e rimosso così il giudicato che si era formato, la decisione sulla revocazione resa in esito alla fase c.d. rescissoria riapre – analogamente al caso di cui alla superiore lett. c.3) – il termine per il ricorso in cassazione ex art. 107, comma 1, c.p.a.; nonché, ove la decisione rescissoria sia favorevole anche nel merito, altresì il termine di 120 giorni ex art. 30, comma 5, c.p.a., per proporre la domanda risarcitoria;

d.2) viceversa, la declaratoria di inammissibilità della revocazione – sia straordinaria, sia ordinaria – tiene ferma la data di formazione del giudicato e, quindi, quella di decorrenza del termine ex art. 30, comma 5, c.p.a.:

d.2.1)  alla data della già avvenuta formazione del giudicato, per quella straordinaria;

d.2.2)  alla data della declaratoria di inammissibilità della revocazione, per quella ordinaria;

d.2.3)  salvo che, in ambo tali ipotesi, sia stato già proposto autonomamente il ricorso per cassazione, nel rispetto dei termini per esso previsti, comportando esso che il giudicato si vada a formare (non sulla decisione della revocazione, bensì sulla decisione, ove successiva, della Corte di Cassazione)”.

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Fonti alternative per la rilevazione dei prezzi È possibile l’apporto di fonti alternative per la rilevazione dei prezzi?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato si esprime positivamente. – Cons. Stato, sez. V, 27 luglio 2023, n. 7359.

I Giudici di Palazzo Spada hanno condiviso le obiezioni dell’Associazione Nazionale Costruttori di Impianti e dei costruttori edili. Non è di per sé censurabile, l’utilizzo del meccanismo che fa perno su tre fonti di rilevazione “ufficiali”, per la rilevazione delle variazioni percentuali, in aumento o in diminuzione, dei singoli prezzi dei materiali da costruzione più significativi, trattandosi di un modo di organizzazione della discrezionalità, e come tale idoneo a vincolare in positivo le scelte dello stesso organo consultivo. Tuttavia, nel caso in esame, la discrasia e l’incongruità dei dati raccolti risultano sintomatiche del metodo di rilevazione seguito da ciascun Provveditorato, nonché dell’inadeguatezza scientifica della relativa verifica e del raffronto dei dati provenienti dalle diverse fonti. Pertanto, non risponde ai principi di ragionevolezza e di buona amministrazione privarsi dell’apporto di fonti alternative, in primo luogo, a fini di controllo del risultato ottenuto, e, quindi, di supporto all’istruttoria, se e nei limiti in cui sia necessaria l’implementazione di dati eventualmente mancanti. Alla luce di ciò risulta ragionevole e corretto procedere a rinnovare, in tutto o in parte, la fase della rilevazione quando vi siano scarti eccessivi tra i valori rilevati in ambito ministeriale e i valori risultanti da fonti private.

reato lieve entità

Reato di lieve entità: non è impedita l’emersione del lavoro nero La Corte Costituzionale ha ritenuto irragionevole il rigetto automatico dell'istanza di emersione del lavoratore straniero irregolare per la precedente condanna per un reato lieve

Reato lieve e lavoro irregolare

“È irragionevole e non conforme al principio di proporzionalità far discendere in via automatica il rigetto dell’istanza di emersione del lavoratore straniero irregolare da una precedente condanna per un reato di lieve entità, anziché dall’accertamento in concreto della sua attuale pericolosità”. È quanto si legge nella sentenza n. 43/2024 della Corte Costituzionale, con cui è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 103, comma 10, lett. c), del decreto-legge n. 34 del 2020, nella parte in cui “include fra i reati che comportano l’automatica esclusione dalla procedura di emersione del lavoro irregolare la previa condanna per il cosiddetto piccolo spaccio”.

Quest’ultimo è definito dal legislatore come illecito di ridotta offensività e rientra fra i reati per i quali opera l’arresto facoltativo in flagranza, vale a dire la regola utilizzata dallo stesso legislatore (all’art. 103, comma 10, lett. d), del decreto-legge n. 34 del 2020) per richiamare reati di minore gravità, ai quali non viene applicato il citato automatismo.

Esclusione automatica lavoratore da procedura di emersione

Per la Corte, la condanna per il richiamato reato non costituisce un indice univoco di persistente pericolosità tale da giustificare l’esclusione automatica del lavoratore dalla procedura di emersione. Ben può accadere, infatti, che il lavoratore straniero, tenuto conto del tempo trascorso dalla condanna, dell’espiazione della pena, dell’eventuale percorso rieducativo seguito, della condotta tenuta successivamente e di altri possibili indici probatori, non rappresenti più un pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza.

L’automatismo è stato, quindi, ritenuto non coerente con la stessa finalità della legge introdotta nel corso dell’emergenza pandemica e «ispirata all’istanza di favorire l’integrazione lavorativa e sociale di persone che con il proprio lavoro avevano contribuito, spesso in condizioni di carenza di tutele, […] ad apportare significativi benefici alla comunità dei consociati nel contesto dell’emergenza epidemiologica da COVID-19».

A seguito della pronuncia della Corte, all’ipotesi del lavoratore che in passato ha riportato una condanna per il reato di piccolo spaccio, troverà applicazione la previsione che lo esclude dalle procedure di emersione del lavoro irregolare solo se la pubblica amministrazione accerta in concreto la sua attuale pericolosità per l’ordine pubblico e per la sicurezza dello Stato (art. 103, comma 10, lett. d), del decreto-legge n. 34 del 2020).

Allegati

Jobs Act

Jobs Act: ok a tutele crescenti ai lavoratori già impiegati La Corte Costituzionale dichiara legittima l'applicazione del contratto a tutele crescenti ai lavoratori già impiegati in piccole imprese

Jobs Act e tutele crescenti

Ok alle tutele crescenti ai lavoratori già impiegati in piccole imprese. Lo ha sancito la Corte costituzionale (con la sentenza n. 44/2024) dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 3, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, che consente l’attrazione nell’ambito applicativo del regime delle tutele crescenti anche di lavoratori di piccole imprese, già in servizio alla data del 7 marzo 2015, in concomitanza e in conseguenza di assunzioni aggiuntive a tempo indeterminato, successive all’entrata in vigore dello stesso decreto, che abbiano comportato il superamento dei limiti dimensionali previsti dall’art. 18, commi ottavo e nono, statuto dei lavoratori.

La qlc

La Sezione lavoro del Tribunale di Lecce aveva censurato tale disciplina deducendo la violazione dell’art. 76 della Costituzione, in riferimento ai criteri di delega fissati dall’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014 (cosiddetto Jobs Act).

Secondo il tribunale l’oggetto della delega, in quanto circoscritto alle «nuove assunzioni», ossia ai lavoratori “giovani” assunti a partire dalla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015 (7 marzo 2015), sarebbe violato nella misura in cui il nuovo regime si applica anche a lavoratori assunti prima di tale data, ma in piccole imprese che, solo successivamente, abbiano superato la soglia di quindici dipendenti occupati nell’unità produttiva.

In base alla delega legislativa, la disciplina dei licenziamenti doveva essere rivista «per le nuove assunzioni» in un assetto a doppio regime, ispirato alla logica secondo cui i lavoratori in servizio alla data del 7 marzo 2015, che già avessero la tutela reintegratoria ex art. 18 statuto dei lavoratori, l’avrebbero conservata immutata anche in caso di licenziamenti intimati successivamente; mentre ai lavoratori assunti ex novo, a partire da tale data, si sarebbe applicata direttamente la nuova più limitata disciplina del decreto legislativo.

Jobs Act sotto la lente della Consulta

Questo duplice e parallelo regime di tutela è stato già esaminato dalla Consulta con riferimento ai licenziamenti collettivi, in quanto “licenziamenti economici”, nella sentenza n. 7 del 2024, che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevate denunciando la violazione del medesimo criterio di delega.

Invece, con la sentenza n. 22 del 2024 la Corte ha ritenuto violato tale criterio di delega sotto altro e diverso profilo ed ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, del decreto legislativo limitatamente alla parola «espressamente».

Legittima la tutela crescente

Nella sentenza n. 44 del 2024, ora pubblicata, la Corte considera essere in sintonia con la legge di delega la disciplina per i lavoratori che erano sì già in servizio al 7 marzo 2015, ma che a quella data non beneficiavano della tutela reintegratoria perché non era integrato il requisito occupazionale previsto dall’ottavo e nono comma dell’art. 18 e quindi ad essi trovava applicazione solo la tutela indennitaria di cui alla legge n. 604 del 1966. In particolare la Corte ha ritenuto che il legislatore delegato, nell’esercizio del suo potere di completamento del quadro della disciplina, poteva regolare anche la posizione dei dipendenti di piccole aziende, per i quali non c’era un regime di tutela reintegratoria ex art. 18 da conservare, e ciò poteva fare tenendo conto dello «scopo» della delega e del bilanciamento voluto dal legislatore delegante (la non regressione della tutela reintegratoria di chi, essendo già in servizio, l’avesse alla data dell’entrata in vigore della nuova disciplina). In tal modo, da una parte non c’è stata una regressione in peius per tali lavoratori in quanto la tutela del decreto legislativo è, comunque, più favorevole del regime della legge n. 604 del 1966, ad essi applicabile in precedenza, prima del superamento della soglia occupazionale. D’altra parte è soddisfatto lo «scopo» della delega nel senso che, se invece fosse stata consentita l’acquisizione ex novo del regime di tutela dell’art. 18, ciò avrebbe potuto rappresentare una remora, per il datore di lavoro, a fare nuove assunzioni, proprio quelle assunzioni che invece il legislatore delegante voleva incentivare.

Quindi non è violata la legge di delega, sotto questo profilo, e pertanto ai lavoratori di piccole imprese, assunti prima dell’entrata in vigore dello decreto legislativo, non si applica l’art. 18 statuto dei lavoratori, bensì il regime di tutela del licenziamento individuale illegittimo, previsto per i contratti a tutela crescente, nel caso in cui il datore di lavoro abbia superato la soglia dimensionale di quindici lavoratori occupati nell’unità produttiva in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del decreto stesso.

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Piano paesaggistico e pianificazione territoriale Il piano paesaggistico prevale rispetto agli altri strumenti di pianificazione territoriale e urbanistici?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

La Corte costituzionale ribadisce il principio della prevalenza del piano paesaggistico sui piani urbanistici e, in sua applicazione, accoglie, in parte qua, una questione di legittimità costituzionale – sollevata dal Consiglio di Stato – avente ad oggetto una norma di legge regionale (nella specie, si trattava di una disposizione inserita nella legge sul c.d. piano casa della Regione Puglia) che abilitava i Comuni ad individuare ambiti territoriali o immobili, pur se ricadenti in aree sottoposte a vincolo paesaggistico istituito dal Piano paesaggistico territoriale regionale (PPTR), sui quali consentire la realizzazione di interventi edilizi straordinari. – Corte cost. 27 luglio 2022, n. 192

Con sentenza non definitiva del 14 maggio 2021 (R.G. n. 147 del 2021), il Consiglio di Stato, Sezione IV, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, lett. c-bis), della legge della Regione Puglia 30 luglio 2009, n. 14 (“Misure straordinarie e urgenti a sostegno dell’attività edilizia e per il miglioramento della qualità del patrimonio edilizio residenziale”), nel testo in vigore anteriormente all’abrogazione disposta dall’art. 1 della legge della Regione Puglia 24 marzo 2021, n. 3, recante: “Modifica all’articolo 6 della legge regionale 30 luglio 2009, n. 14 (Misure straordinarie e urgenti a sostegno dell’attività edilizia e per il miglioramento della qualità del patrimonio edilizio residenziale) e disposizioni in materia di prezzario regionale delle opere pubbliche”.

Secondo il giudice a quo, la disposizione censurata violerebbe l’art. 117, comma 2, lett. s), della Costituzione, in relazione all’art. 145, comma 3, del D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’art. 10 della L. 6 luglio 2002, n. 137), poiché consentirebbe di porre in essere gli interventi straordinari previsti dalla stessa legge reg. Puglia n. 14 del 2009 (d’ora in avanti, anche: Piano casa per la Puglia) in deroga alla disciplina dettata dal Piano paesaggistico territoriale regionale (PPTR) della Puglia, così violando il principio di prevalenza della pianificazione paesaggistica sugli strumenti urbanistici.

Prodromica all’esame della questione è la ricostruzione del panorama normativo in cui essa si colloca.

La legge reg. Puglia 14/2009 ha dato attuazione al cd. Piano casa, in relazione a quanto stabilito nell’intesa raggiunta in sede di Conferenza unificata il 1° aprile 2009, sull’atto concernente misure per il rilancio dell’economia attraverso l’attività edilizia, in applicazione dell’art. 11 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (“Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”), convertito, con modificazioni, nella L. 6 agosto 2008, n. 133.

Per ciò che interessa in questa sede, con la legge regionale in parola si prevede la possibilità di operare interventi straordinari di ampliamento (art. 3) e di demolizione e ricostruzione (art. 4); interventi che vengono, peraltro, sottoposti ad una serie di limiti, fra i quali quello sancito dall’art. 6, comma 1, lett. f), della stessa legge, che non li ammette «su immobili ubicati in aree sottoposte a vincolo paesaggistico ai sensi degli artt. 136 e 142» cod. beni culturali.

Tale previsione configurava, in origine, un limite assoluto, escludendo in radice l’applicabilità del Piano casa per la Puglia a tale tipologia di immobili. Per mitigare, tuttavia, il rigore della preclusione, con l’art. 4 della legge della Regione Puglia 5 dicembre 2016, n. 37, recante “Modifiche alla legge regionale 30 luglio 2009, n. 14 (Misure straordinarie e urgenti a sostegno dell’attività edilizia e per il miglioramento della qualità del patrimonio edilizio residenziale) e alla legge regionale 15 novembre 2007, n. 33 (Recupero dei sottotetti, dei porticati, di locali seminterrati esistenti e di aree pubbliche non autorizzate)”, è stata inserita all’art. 6, comma 2, della legge reg. Puglia 14/2009 la lett. c-bis), oggi censurata, che permette ai Comuni di individuare, con deliberazione motivata del consiglio comunale, “ambiti territoriali nonché […] immobili ricadenti in aree sottoposte a vincolo paesaggistico ai sensi del Piano paesaggistico territoriale regionale (PPTR), approvato con deliberazione della Giunta regionale 176/2015, nei quali consentire, secondo gli indirizzi e le direttive del PPTR, gli interventi di cui agli artt. 3 e 4 della presente legge, purché gli stessi siano realizzati, oltre che alle condizioni previste dalla presente legge, utilizzando per le finiture, materiali e tipi architettonici legati alle caratteristiche storico-culturali e paesaggistiche dei luoghi.

Come ricorda lo stesso giudice a quo, l’art. 6, comma 2, lett. c-bis), della legge reg. Puglia 14/2009 è stato abrogato dall’art. 1 della legge reg. Puglia 3/2021. Con tale abrogazione si è dato seguito ai rilievi provenienti dal Ministero per i beni e le attività culturali (oggi Ministero della cultura) sulla necessità di superare tale disciplina, in quanto lesiva della potestà legislativa esclusiva statale in materia di tutela paesaggistica.

Da ultimo, è opportuno ricordare che il legislatore pugliese è nuovamente intervenuto in materia, reintroducendocon l’art. 3 della legge della Regione Puglia 30 novembre 2021, n. 39, recante “Modifiche alla legge regionale 31 maggio 1980, n. 56 (Tutela ed uso del territorio), disposizioni in materia urbanistica, modifica alla legge regionale 27 luglio 2001, n. 20 (Norme generali di governo e uso del territorio), modifica alla legge regionale 6 agosto 2021, n. 25 (Modifiche alla legge regionale 11 febbraio 1999, n. 11 “Disciplina delle strutture ricettive ex artt. 5, 6 e 10 della L. 17 maggio 1983, n. 217 delle attività turistiche ad uso pubblico gestite in regime di concessione e delle associazioni senza scopo di lucro” e disposizioni varie) e disposizioni in materia derivazione acque sotterranee” – un regime derogatorio del generale divieto posto dall’art. 6, comma 1, lett. f), della legge reg. Puglia 14/2009, analogo a quello previsto dalla censurata lettera c-bis) ma maggiormente articolato nei presupposti.

Con il citato art. 3 si prevede, infatti, che, “[a]i sensi dell’articolo 3, comma 1, lettera d), del decreto del Presidente della Repubblica del 6 giugno 2001, n. 380 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamenti in materia edilizia), così come interpretato con circolare del 2 dicembre 2020 dei Ministeri delle Infrastrutture, Trasporti e Pubblica Amministrazione e con parere del Consiglio superiore dei Lavori pubblici dell’8 luglio 2021, sono consentiti, previa deliberazione del Consiglio comunale, gli interventi previsti dagli articoli 3 e 4 della legge regionale 30 luglio 2009, n. 14 (Misure straordinarie e urgenti a sostegno dell’attività edilizia e per il miglioramento della qualità del patrimonio edilizio residenziale) in aree individuate dal Piano paesaggistico territoriale regionale (PPTR), approvato con deliberazione della Giunta regionale 16 febbraio 2015, n. 176 ed elaborato attraverso co-pianificazione Stato-Regione unilateralmente inderogabile, alle condizioni che l’intervento sia conforme alle prescrizioni, indirizzi, misure di salvaguardia e direttive dello stesso PPTR e che siano acquisiti nulla osta, comunque denominati, delle amministrazioni competenti alla tutela paesaggistica”.

Ciò premesso, la questione è fondata nei termini di seguito precisati.

Come si è già ricordato, il giudice a quo ritiene l’art. 6, comma 2, lett. c-bis), della legge reg. Puglia 14/2009, costituzionalmente illegittimo, poiché prevedrebbe la derogabilità delle prescrizioni dei piani paesaggistici e, in particolare, di quelle contenute nel PPTR Puglia, risultando così incompatibile con l’art. 145, comma 3, cod. beni culturali, e, quindi, in contrasto con l’art. 117, comma 2, lett. s), Cost.

Il citato art. 145, dedicato al “[c]oordinamento della pianificazione paesaggistica con altri strumenti di pianificazione”, nel precisare, al comma 3, che le disposizioni dei piani paesaggistici sono, comunque sia, prevalenti su quelle contenute negli atti di pianificazione ad incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, esprime il cosiddetto principio di prevalenza delle prime sulle seconde.

Come questa Corte ha rilevato in più occasioni, mediante tale principio, il codice dei beni culturali ha inteso garantire l’impronta unitaria della pianificazione paesaggistica, valore imprescindibile e pertanto non derogabile dal legislatore regionale, in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme di tutela, conservazione e trasformazione del territorio. In forza di tale principio, al legislatore regionale è impedito di adottare, sia normative che deroghino o contrastino con norme di tutela paesaggistica che pongono obblighi o divieti, cioè con previsioni di tutela in senso stretto (fra le molte, sent. 261, 141 e 74/2021, e 86/2019), sia normative che, pur non contrastando con (o derogando a) previsioni di tutela in senso stretto, pongano alla disciplina paesaggistica limiti o condizioni (sent. 74/2021), che, per mere esigenze urbanistiche, escludano o ostacolino il pieno esplicarsi della tutela paesaggistica.

In altri termini, “i rapporti tra le prescrizioni del piano paesaggistico e le prescrizioni di carattere urbanistico ed edilizio” sono definiti “secondo un modello di prevalenza delle prime, non alterabile ad opera della legislazione regionale” (sent. 11/2016; in senso analogo, sent. 45 e 24/2022, 124 e 74/2021).

La disposizione censurata contrasta con il principio di prevalenza del Piano paesaggistico su tutti gli altri strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica, violando, così, il parametro interposto evocato dal rimettente.

La legge reg. Puglia 14/2009 disciplina ipotesi (straordinarie) di demolizione, ricostruzione e ampliamento, ossia interventi che, quando pure non risultino espressamente vietati, sono sottoposti a limiti e condizioni, talvolta stringenti, dal PPTR, e in specie dalle prescrizioni specifiche di quest’ultimo.

In tale contesto, la disposizione censurata, nel prevedere che detti interventi possano interessare ambiti e immobili sottoposti a vincolo paesaggistico, non fa alcuna menzione del necessario rispetto anche delle richiamate prescrizioni specifiche del PPTR, ossia di quelle prescrizioni che impongono precisi obblighi o divieti inerenti all’utilizzo e – per ciò che qui rileva – alla trasformazione dei beni paesaggistici (norme, queste ultime, mediante le quali si esplica la funzione precettiva del Piano).

Posto il carattere confliggente della normativa censurata con la disciplina paesaggistica, l’omesso richiamo al generale rispetto delle prescrizioni specifiche del PPTR non può essere inteso alla stregua di un mero silenzio della legge, colmabile – come sostenuto dalla parte – in via interpretativa, nel senso che la relativa disciplina sia implicitamente applicabile, bensì come una deroga, o meglio come la facoltà per i Comuni e i privati, rispettivamente, di consentire e porre in essere tali interventi non osservando il contenuto precettivo del PPTR.

La conclusione è avvalorata, a contrario, dalla circostanza che la norma censurata si limita a richiedere il rispetto dei soli «indirizzi» e «direttive» del PPTR: previsione che non vale a escludere il rilevato contrasto con il principio di prevalenza del Piano paesaggistico, proprio perché il rinvio è circoscritto alla parte programmatica del Piano, a traverso la quale quest’ultimo non detta specifiche regole sull’utilizzo e sulla trasformazione dei beni paesaggistici, ma pone gli obiettivi di qualità della pianificazione.

Parimente inidonea a garantire la prevalenza del Piano paesaggistico sugli strumenti urbanistici è la generica previsione, contenuta sempre nella disposizione censurata, in base alla quale gli interventi in questione debbono essere realizzati “utilizzando per le finiture, materiali e tipi architettonici legati alle caratteristiche storico-culturali e paesaggistiche dei luoghi.

Una simile previsione non vale certamente ad assicurare l’osservanza delle prescrizioni del PPTR, e rende anzi evidente il carattere derogatorio della norma in esame rispetto a queste ultime. Il PPTR, laddove ammette interventi sui beni paesaggistici, può contemplare una ben più ampia e dettagliata serie di regole sulla loro trasformazione: basti pensare, a titolo meramente esemplificativo, alle regole sul colore degli edifici, all’obbligo di rimuovere, nell’effettuazione degli interventi, gli elementi artificiali, ovvero, infine, al divieto di compromettere i coni visivi.

Come ha già ricordato questa Corte, «la normativa sul Piano casa, pur nella riconosciuta finalità di agevolazione dell’attività edilizia, non può far venir meno la natura cogente e inderogabile delle previsioni del codice dei beni culturali e del paesaggio, adottate dal legislatore statale nell’esercizio della propria competenza esclusiva in materia di “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”» (sent. 261/2021; in senso analogo, sent. 86/2019).

Anche per tale ragione il PPTR deve essere messo al riparo dalla pluralità e dalla parcellizzazione degli interventi delle amministrazioni locali, che possono mettere in discussione la complessiva ed unitaria efficacia del Piano paesaggistico (fra le varie, sent. 261 e 74/2021, e 11/2016).

Al fine di rimuovere il vulnus costituzionale denunciato, non è peraltro necessario eliminare in toto la norma censurata (operazione che ripristinerebbe, nella sua originaria assolutezza, il divieto di interventi straordinari sugli immobili ricompresi in aree soggette a vincolo paesaggistico), ma è sufficiente introdurre in essa, con pronuncia a carattere additivo, la previsione inerente all’esigenza di rispetto (anche) delle prescrizioni del PPTR.

L’art. 6, comma 2, lett. c-bis), della legge reg. Puglia 14/2009, nel testo in vigore anteriormente all’abrogazione ad opera dell’art. 1 della legge reg. Puglia 3/2021, va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che gli interventi edilizi disciplinati dalla stessa legge regionale debbano essere realizzati anche nel rispetto delle specifiche prescrizioni del PPTR.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Corte cost. 2 marzo 2022, n. 45; Id., 29 dicembre 2021, n. 261;
Id., 13 dicembre 2021, n. 241; Id., 21 aprile 2021, n. 74 del 2021;
Id., 18 novembre 2020, n. 240
giurista risponde

Occupazione sine titulo e danno in re ipsa È configurabile un danno in re ipsa nell’ipotesi di occupazione sine titulo di un immobile?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

 

Nell’ipotesi di occupazione sine titulo di un immobile, al proprietario spetta, in conseguenza della perdita della concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento – diretto o indiretto – sulla cosa, il risarcimento sia del danno da perdita subita (liquidato dal giudice, ove non dimostrabile nel suo preciso ammontare, con valutazione equitativa, anche mediante il parametro del canone locativo di mercato) che del danno da mancato guadagno (corrispondente a quanto lo stesso avrebbe ottenuto se avesse concesso il bene in godimento ad altri verso un corrispettivo superiore al canone locativo di mercato ovvero lo avesse venduto ad un prezzo più conveniente di quello di mercato). – Cass. Sez. Un. 13 dicembre 2022, n. 114.

Con la pronuncia in rassegna le Sezioni Unite della Corte di cassazione, nel comporre un contrasto interno tra sezioni semplici, hanno fatto luce sulla questione della configurabilità di un danno c.d. in re ipsa nell’ipotesi di occupazione sine titulo di un immobile chiarendo che il fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento è rappresentato dalla concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento (diretto o indiretto mediante concessione del godimento ad altri dietro corrispettivo) che è andata perduta e, al contempo, specificando quali siano i criteri da seguire per la liquidazione del relativo danno, nella duplice componente della perdita subita e del mancato guadagno.

La Corte, nel formulare i principi di cui in massima, dopo aver riassunto gli opposti orientamenti formatisi in seno alla II e alla III Sezione civile, ha osservato quanto segue: a) la questione posta dal contrasto è, al fondo, se la violazione del contenuto del diritto di proprietà su un bene immobile in conseguenza dell’occupazione dello stesso sine titulo da parte di un terzo, in quanto integrante essa stessa un danno risarcibile, sia suscettibile di tutela non solo reale ma anche risarcitoria; b) a tale quesito deve darsi una risposta positiva nei termini emersi nella linea evolutiva seguita dalla giurisprudenza della II Sezione civile, secondo cui la locuzione “danno in re ipsa” va sostituita con quella di “danno presunto” o “danno normale”, privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio allegato; c) detto esito interpretativo, per quanto riguarda la lesione della facoltà di godimento, resta coerente al significato di danno risarcibile quale perdita patrimoniale subita in conseguenza di un fatto illecito. In particolare la linea da perseguire è quella del punto di mediazione fra la teoria normativa del danno, emersa nella giurisprudenza della II Sezione civile, e quella della teoria causale, sostenuta dalla III Sezione civile, e, al fine di salvaguardare tale punto di mediazione, l’estensione della tutela dal piano reale a quello risarcitorio, per l’ipotesi della violazione del contenuto del diritto, deve lasciare intatta la distinzione fra le due forme di tutela; d) la distinzione fra azione reale e azione risarcitoria è, infatti, il riflesso processuale di quella sostanziale fra regole di proprietà (property rules) e regole di responsabilità (liability rules) sicché la tutela reale è orientata al futuro e mira al ripristino dell’ordine formale violato mediante l’accertamento dello stato di diritto e la rimozione dello stato di fatto contrario al diritto soggettivo (a parte la tutela inibitoria come negli artt. 844 e 1171 c.c.), nel mentre l’azione risarcitoria è orientata al passato e costituisce il rimedio per la perdita subita a causa della violazione del diritto costituendo la misura riparatoria per la concreta lesione del bene della vita verificatasi in conseguenza della condotta abusiva dei terzi; in altri termini, mentre la tutela reale costituisce il rimedio per l’alterazione dell’ordinamento formale, la tutela risarcitoria è compensativa del bene della vita perduto, secondo le modalità del danno emergente se la perdita patrimoniale (o non patrimoniale) è in uscita, del lucro cessante se la perdita è in entrata; e) la distinzione fra le due forme di tutela (reale e risarcitoria) comporta che il fatto costitutivo dell’azione risarcitoria non possa coincidere senza residui con quello dell’azione di rivendicazione ma debba contenere l’ulteriore elemento costitutivo del danno risarcibile; ciò significa tenere ferma la distinzione, espressione della teoria causale del danno, fra causalità materiale e causalità giuridica; in proposito va rilevato che: e1) la distinzione fra causalità materiale e causalità giuridica è un’acquisizione risalente della giurisprudenza delle sezioni unite della Corte di cassazione (Cass.  Sez. Un. 11 gennaio 2008, n. 576; Id., 11 novembre 2008, n. 26972, pronunce che, muovendo entrambe dall’ipotesi del danno non patrimoniale, hanno differenziato nell’ambito dell’illecito aquiliano la causalità materiale, rilevante ai fini dell’imputazione del danno evento – dommage o damnum – ad una determinata condotta secondo i criteri di responsabilità previsti dalla disciplina del fatto illecito, e la causalità giuridica, di cui sono espressione gli artt. 1223 e 2056 c.c., la quale, in funzione di selezione delle conseguenze dannose risarcibili, attiene al nesso eziologico fra il danno evento ed il c.d. danno conseguenza – préjudice o praeiudicium –, costituente l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria); ed invero, già prima delle appena richiamate pronunce delle sezioni unite, vi erano stati, nella medesima direzione, altri arresti delle sezioni semplici (cfr. Cass., sez. III, 16 ottobre 2007, n. 21619; Id., 24 ottobre 2003, n. 16004; Id., 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828, tutte rese in materia di danno non patrimoniale) e della giurisprudenza costituzionale (secondo la linea evolutiva che va da Corte cost. 14 luglio 1986, n. 184 a Corte cost. 27 ottobre 1994, n. 372 e da cui è emersa la distinzione fra danno evento e danno conseguenza, da ultimo ripresa da Corte cost. 15 settembre 2022, n. 205); e2) la giurisprudenza delle sezioni unite della Corte di cassazione ha, altresì, chiarito che “se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno conseguenza, non vi è l’obbligazione risarcitoria” (Cass. Sez. Un. 11 gennaio 2008, cit.), così temperando l’originario rigorismo della tesi della causalità giuridica presente nella dottrina che la introdusse (ad avviso della quale la fattispecie della responsabilità risarcitoria si perfeziona con la verificazione del fatto, comprensivo dell’azione e dell’evento, mentre la causalità giuridica interviene solo in funzione selettiva del danno risarcibile all’esito di una responsabilità già accertata; visione che resta nell’alveo della prospettiva pan-penalistica dell’atto antigiuridico – non iure, nel senso di comportamento non giustificato dal diritto – mentre il punto di vista della moderna responsabilità civile, improntata al principio di solidarietà ex art. 2 Cost. è quello dell’allocazione del danno contra ius – “ingiusto” – secondo la qualifica dell’art. 2043 c.c.); al rigorismo dell’originaria tesi dottrinale va obiettato che in assenza delle conseguenze previste dall’art. 1223 c.c. non vi è alcuna responsabilità risarcitoria da accertare perché non vi è danno da risarcire; ciò in quanto la fattispecie del fatto illecito si perfeziona con il danno conseguenza sicché la perdita subita e il mancato guadagno (art. 1223 c.c.) non sono un posterius rispetto al danno ingiusto, ma sono i criteri di determinazione di quest’ultimo, secondo la lettera dell’art. 2056 c.c. con la conseguenza che, da un lato, il “danno” di cui fa menzione la seconda parte dell’art. 2043 c.c. non è altra cosa dal “danno ingiusto” di cui si parla nella prima parte e, dall’altro, se non c’è danno conseguenza non c’è danno ingiusto; e3) causalità materiale e causalità giuridica non sono, così, le fasi di una successione cronologica, ma sono i due diversi punti di vista in sede logico-analitica dell’unitario fenomeno del danno ingiusto (di “profili diversi” dell’unico danno già discorreva Cass. Sez. Un. 11 gennaio 2008, cit., punto n. 5.1.), il quale non è identificabile se non alla luce di questa dualità di nessi causali, l’uno informato al criterio della regolarità causale, l’altro a quello della conseguenzialità immediata e diretta; cagionato l’evento di danno, la fattispecie del fatto illecito è, infatti, integrata con la realizzazione delle conseguenze pregiudizievoli, senza che fra evento e conseguenza vi sia un distacco temporale sicché la distinzione in parola è logica, non cronologica; f) così precisati i termini della distinzione fra evento di danno e danno conseguenza, quale caposaldo della teoria del risarcimento del danno, e chiarita la necessità dell’elemento costitutivo ulteriore nella causa petendi della domanda risarcitoria rispetto a quella della domanda di rivendicazione, occorre definire più specificatamente il danno risarcibile in presenza di violazione del contenuto del diritto di proprietà; in proposito deve rilevarsi che: f1) la circostanza che la violazione dell’ordine giuridico sia suscettibile di tutela non solo reale, ma anche risarcitoria, trova riscontro nel fatto che il diritto soggettivo appartiene al novero delle situazioni giuridiche mezzo, nelle quali il potere giuridico di cui è investito il soggetto rappresenta lo strumento, a sua disposizione, per la soddisfazione dell’interesse ad un determinato bene della vita; f2) la violazione del diritto può così comportare la lesione dell’interesse al bene della vita, che di quel diritto costituisce il substrato materiale e l’elemento teleologico, e configurare dunque l’illecito aquiliano; g) ai fini della definizione del danno risarcibile da violazione dell’ordine giuridico, deve muoversi dalla distinzione fra la lesione del bene costituente l’oggetto del diritto di proprietà e la lesione del contenuto stesso del diritto; in particolare: g1) quando l’azione dannosa attinge sulla base del nesso di causalità materiale il bene, l’evento di danno è rappresentato dalla lesione del diritto per il pregiudizio cagionato alla cosa oggetto del diritto di proprietà, ma affinché un danno risarcibile vi sia, perfezionandosi così la fattispecie del danno ingiusto, è necessario che al profilo dell’ingiustizia, garantito dalla violazione del diritto, si associ quello del danno conseguenza, e perciò la perdita subita e/o il mancato guadagno che, sulla base del nesso di causalità giuridica, siano conseguenza immediata e diretta dell’evento dannoso (come accade, ad esempio, nel caso del danno da c.d. “fermo tecnico di veicolo incidentato”, per il quale è richiesta la prova della spesa sostenuta per procacciarsi un mezzo sostitutivo su cui si vedano Cass., sez. III, 14 ottobre 2015, n. 20620 e le altre conformi fino alla recente Cass., sez. III, 19 settembre 2022, n. 27389); g2) quando l’azione lesiva attinge invece il contenuto del diritto di proprietà (“il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”), ciò che viene in primo luogo in rilievo è la violazione dell’ordine giuridico e l’ordinamento appresta lo strumento di ripristino dell’ordine formale violato, ossia la tutela reale di reintegrazione del diritto leso; questa tutela può eventualmente concorrere con la misura restitutoria del bene, di cui è pure espressione la fattispecie di cui all’art. 1148 c.c., la quale disciplina con riferimento ai frutti naturali separati e ai frutti civili maturati le conseguenze della restituzione della cosa da parte del possessore (nella specie di mala fede o comunque nello stato soggettivo di cui all’art. 1147, comma 2, c.c.) convenuto dal proprietario in sede di rivendicazione; sia la cosa (art. 810 c.c.), che i frutti (art. 820 c.c.), appartengono alla disciplina dei beni e perciò restano nell’alveo dell’azione di rivendicazione sotto il profilo degli effetti restitutori; h) la domanda risarcitoria presuppone che l’azione lesiva del contenuto del diritto di proprietà sia valutabile non solo come violazione dell’ordine formale, ma anche come evento di danno; in quest’ultimo caso il nesso di causalità materiale si stabilisce fra l’occupazione senza titolo dell’immobile e direttamente la lesione del diritto di proprietà, senza passare per l’intermediazione del pregiudizio cagionato alla cosa oggetto del diritto di proprietà sicché l’evento di danno riguarda non la cosa, ma proprio il diritto di godere in modo pieno ed esclusivo della cosa stessa ed il danno risarcibile è rappresentato dalla specifica possibilità di esercizio del diritto di godere che è andata persa quale conseguenza immediata e diretta della violazione, cagionata dall’occupazione abusiva, del “diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”; il nesso di causalità giuridica si stabilisce così fra la violazione del diritto di godere della cosa, integrante l’evento di danno condizionante il requisito dell’ingiustizia, e la concreta possibilità di godimento che è stata persa a causa della violazione del diritto medesimo, quale danno conseguenza da risarcire; i) saldando il danno suscettibile di risarcimento alla concreta possibilità di godimento persa, per un verso si rende risarcibile il contenuto del diritto violato, in ossequio alla teoria normativa del danno, per l’altro si riconduce la violazione giuridica a una specifica perdita subita, in ossequio alla teoria causale; più segnatamente: i1) il riferimento alla specifica circostanza di godimento perso stabilisce la discontinuità fra il fatto costitutivo dell’azione di rivendicazione e quello dell’azione risarcitoria, preservando la distinzione fra la tutela reale e quella risarcitoria; diversamente si avrebbe l’inaccettabile conseguenza non del danno punitivo, come pure affermato dalla giurisprudenza della terza sezione civile, ma del danno irrefutabile che non ammette prova contraria; i2) affinché si abbia un danno punitivo è necessario un quid ulteriore che colleghi la riparazione della perdita subita alla riprorevolezza della condotta del danneggiante, con un’amplificazione della componente riparatoria in misura proporzionale al grado della colpa o all’intensità del dolo del danneggiante (mediante il cumulo di compensatory damage e punitive damage), e tale non può dirsi che sia l’esito della tesi del danno in re ipsa; i3) viceversa, se la causa petendi dell’azione risarcitoria viene fatta coincidere senza residui con quella dell’azione risarcitoria (rectius reale n.d.r.), il risarcimento spetterebbe sempre a fronte della denuncia della compressione del diritto di godere della cosa quale astratta posizione riconosciuta dall’ordinamento, senza che si dia possibilità della prova contraria; j) non è, invece, richiesta l’allegazione della concreta possibilità di godimento persa nell’ipotesi dell’occupazione sine titulo da parte della pubblica amministrazione, trattandosi di fattispecie retta da criteri del tutto differenti rispetto alla comune occupazione abusiva (sui connotati specifici dell’occupazione sine titulo da parte della pubblica amministrazione si vedano: Cons. Stato, Ad. plen., 9 aprile 2021, n. 6; Id., 20 gennaio 2020, nn. 2 e n. 4; Id., 18 febbraio 2020, n. 5); in particolare: j1) l’art. 42bis del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, prevede che, in caso di utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico e di successivo provvedimento di acquisizione, sia corrisposto al proprietario un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest’ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene; l’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale è determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l’occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell’art. 37 del medesimo D.P.R. 327/2001, per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l’interesse del cinque per cento annuo sul valore del bene come appena determinato; j2) anche nel caso di mancanza di formale acquisizione ai sensi dell’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001, o di procedimento non conclusosi con un valido ed efficace decreto di esproprio o con un accordo di cessione, è configurabile per la giurisprudenza un danno per il mancato godimento del fondo illegittimamente occupato, abitualmente determinato in via equitativa in favore del privato, ove non sia fornita la prova di un danno maggiore, in base al criterio degli interessi legali per ogni anno di occupazione sulla somma corrispondente all’indennità di espropriazione o sul prezzo di cessione volontaria del bene (fra le tante Cass., sez. I, ord. 20 novembre 2018, n. 29990); j3) la determinazione legislativa in via forfettaria dell’indennizzo, senza esigere dal proprietario l’allegazione della mancata possibilità di godimento nel periodo di occupazione senza titolo, salva la possibilità per entrambe le parti del giudizio di dimostrare la diversa entità del danno in concreto (in melius o in pejus rispetto a quel limite – per il proprietario ad esempio la perdita di occasioni particolari di profitto), costituisce una valutazione legale tipica di pregiudizio e di relativa compensazione; si tratta di una valutazione, come anche quella del diritto vivente appena richiamato, tipizzata di pregiudizio al bene della vita, il cui presupposto di fatto è l’esplicazione del rapporto fra privato e pubblica amministrazione, istituzionalmente asimmetrico dal punto di vista del potere, secondo modalità ablatorie non rispettose della legge; ciò in quanto, come spiega Cass., Sez. Un., 20 luglio 2021, n. 20691, “nella materia espropriativa l’agire amministrativo è cadenzato da atti formali che sono, di per sé, evocativi di conseguenze pregiudizievoli per il privato, apprezzabili secondo l’id quod plerumque accidit, nel caso in cui la pubblica amministrazione non eserciti il potere autoritativo nei tempi e modi previsti dalla legge”; k) nella comune fattispecie di occupazione abusiva d’immobile è, al contrario, richiesta l’allegazione della concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento che è andata persa; ciò significa che: k1) il non uso, il quale è pure una caratteristica del contenuto del diritto, non è suscettibile di risarcimento; ciò in quanto, se è pur vero che a fondamento dell’imprescrittibilità del diritto di proprietà vi è la circostanza che fra le facoltà riconosciute al proprietario vi è anche quella del non uso, l’inerzia resta una manifestazione del contenuto del diritto sul piano astratto, mentre il danno conseguenza riguarda il pregiudizio al bene della vita che, mediante la violazione del diritto, si sia verificato; k2) alla reintegrazione formale del diritto violato, anche nella sua esplicazione di non uso, provvede la tutela reale e non quella risarcitoria; l) la perdita subita attiene al godimento, diretto o indiretto mediante il corrispettivo del godimento concesso ad altri, e non alla vendita (per la quale, corrispondendo il relativo danno alla differenza fra il prezzo di mercato e quello maggiore che si sarebbe potuto ricavare dall’atto dispositivo mancato, non può che parlarsi di mancato guadagno); con riguardo alla perdita subita attinente al godimento va precisato che: l) l’allegazione che l’attore faccia della concreta possibilità di godimento perduta può essere specificatamente contestata dal convenuto costituito; 2) al cospetto di tale allegazione il convenuto ha l’onere di opporre che giammai il proprietario avrebbe esercitato il diritto di godimento; 3) la contestazione al riguardo non può essere generica, ma deve essere specifica, nel rigoroso rispetto del requisito di specificità previsto dall’art. 115, comma 1, c.p.c.; 4) in presenza di una specifica contestazione sorge per l’attore l’onere della prova dello specifico godimento perso, onere che può naturalmente essere assolto anche mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza (art. 115, comma 2, c.p.c.) o mediante presunzioni semplici; 5) nel caso della presunzione l’attore ha l’onere di allegare, e provare se specificatamente contestato, il fatto secondario da cui inferire il fatto costitutivo rappresentato dalla possibilità di godimento persa; 6) sia nel caso di godimento diretto che in quello di godimento indiretto, il danno può essere valutato equitativamente ai sensi dell’art. 1226 c.c., attingendo al parametro del canone locativo di mercato quale valore economico del godimento nell’ambito di un contratto tipizzato dalla legge, come la locazione, che fa proprio del canone il valore del godimento della cosa; m) se, invece, la domanda risarcitoria ha ad oggetto il mancato guadagno causato dall’occupazione abusiva, l’onere di allegazione riguarda gli specifici pregiudizi, fra i quali si possono identificare non solo le occasioni perse di vendita a un prezzo più conveniente rispetto a quello di mercato, ma anche le mancate locazioni a un canone superiore a quello di mercato (una volta che si quantifichi equitativamente il godimento perduto con il canone locativo di mercato, il corrispettivo di una locazione ai correnti valori di mercato rientra, come si è visto, nelle perdite subite); nel dettaglio: m1) ove insorga controversia in relazione al fatto costitutivo del lucro cessante allegato, l’onus probandi anche in questo caso può naturalmente essere assolto mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza o le presunzioni semplici; m2) per ogni altro aspetto può rinviarsi alla costante giurisprudenza in materia di maggior danno ai sensi dell’art. 1591 c.c. (fra le tante Cass., sez. III, 3 febbraio 2011, n. 2552; Id., 26 novembre 2007, n. 24614; Id., 13 luglio 2005, n. 14753; Id., 23 maggio 2002, n. 7546); n) sia per la perdita subita che per il mancato guadagno va rammentato che l’onere di contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto per i fatti noti alla parte convenuta, non anche per quelli ad essa ignoti (Cass., sez. VI, ord. 31 agosto 2020, n. 18074; Cass., sez. lav., 4 gennaio 2019, n. 87; Cass., sez. III, 18 luglio 2016, n. 14652; Id., 13 febbraio 2013, n. 3576); in particolare: n1) poiché non si compie l’effetto di cui all’art. 115, comma 1, c.p.c., per i fatti ignoti al danneggiante l’onere probatorio sorge comunque per l’attore, a prescindere dalla mancanza di contestazione, ma il criterio di normalità che generalmente presiede, salvo casi specifici, alle ipotesi di mancato esercizio del diritto di godimento, comporta che l’evenienza dei fatti ignoti alla parte convenuta sia tendenzialmente più ricorrente nelle ipotesi di mancato guadagno; n2) sul piano pratico ne consegue la maggiore ricorrenza per il convenuto dell’onere di contestazione, nel rigoroso rispetto del requisito di specificità previsto dall’art. 115, comma 1, c.p.c., in relazione alle controversie aventi ad oggetto la perdita subita e la maggiore ricorrenza per l’attore dell’onere probatorio, pur in mancanza di contestazione, nelle controversie aventi ad oggetto il mancato guadagno; n3) ciò vale a chiarire la portata eminentemente pratica delle nozioni di “danno normale” e “danno presunto” emerse nella recente giurisprudenza della seconda sezione civile, le quali rinviano, nelle controversie relative alla perdita subita, a una maggiore frequenza dell’onere del convenuto di specifica contestazione della circostanza di pregiudizio allegata e ad una minore frequenza per l’attore dell’onere di provare la circostanza in discorso, data la tendenziale normalità del pregiudizio al godimento del proprietario a seguito dell’occupazione abusiva.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. II, ord. 22 aprile 2022, n. 12865; Id., 20 gennaio 2022, n. 4936;
Cass., sez. VI, ord. 7 gennaio 2021, n. 39
giurista risponde

Legittimità proroghe concessioni sale bingo È legittima secondo l’ordinamento comunitario la disciplina nazionale in materia di proroghe delle concessioni per la gestione delle sale bingo?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Con le ordinanze gemelle nn. 10261, 10263 del 21 novembre 2022, la VII Sezione del Consiglio di Stato ha rimesso alla Corte di Giustizia UE le seguenti questioni pregiudiziali.

  1. Se la direttiva 2014/23/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, nonché i principi generali desumibili dal Trattato, e segnatamente gli artt. 15, 16, 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, l’art. 3 del Trattato dell’Unione Europea e gli artt. 8, 49, 56, 12, 145 e 151 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, debbano essere interpretati nel senso che essi trovano applicazione a fronte di concessioni di gestione del gioco del Bingo le quali siano state affidate con procedura selettiva nell’anno 2000, siano scadute e poi siano state reiteratamente prorogate nell’efficacia con disposizioni legislative entrate in vigore successivamente all’entrata in vigore della direttiva ed alla scadenza del suo termine di recepimento;
  2. nel caso in cui al primo quesito sia fornita risposta affermativa, se la direttiva 2014/23/UE osta ad una interpretazione o applicazione di norme legislative interne, o prassi applicative sulla base delle norme stesse, tali da privare l’Amministrazione del potere discrezionale di avviare, su istanza degli interessati, un procedimento amministrativo volto a modificare le condizioni di esercizio delle concessioni, con o senza indizione di nuova procedura di aggiudicazione a seconda che si qualifichi o meno modifica sostanziale la rinegoziazione dell’equilibrio convenzionale, nei casi in cui si verifichino eventi non imputabili alle parti, imprevisti ed imprevedibili, che incidono in modo significativo sulle condizioni normali di rischio operativo, finché perdurino tali condizioni e per il tempo necessario per eventualmente ripristinare le condizioni originarie di esercizio delle concessioni;
  3. se la direttiva 89/665/CE, quale modificata dalla direttiva 2014/23/UE, osta ad una interpretazione o applicazione di norme nazionali interne, o prassi applicative sulla base delle norme stesse, tali che il legislatore o l’Amministrazione pubblica possano condizionare la partecipazione alla procedura per la riattribuzione delle concessioni di gioco all’adesione del concessionario al regime di proroga tecnica, anche nell’ipotesi in cui sia esclusa la possibilità di rinegoziare le condizioni di esercizio della concessione al fine di ricondurle in equilibrio, in conseguenza di eventi non imputabili alle parti, imprevisti ed imprevedibili, che incidono in modo significativo sulle condizioni normali di rischio operativo, finché perdurino tali condizioni e per il tempo necessario per eventualmente ripristinare le condizioni originarie di esercizio delle concessioni;
  4. se, in ogni caso, gli artt. 49 e 56 del TFUE e i principi di certezza ed effettività della tutela giuridica, nonché il principio del legittimo affidamento ostino ad una interpretazione o applicazione di norme legislative interne, o prassi applicative sulla base delle norme stesse, tali da privare l’Amministrazione del potere discrezionale di avviare, su istanza degli interessati, un procedimento amministrativo volto a modificare le condizioni di esercizio delle concessioni, con o senza indizione di nuova procedura di aggiudicazione a seconda che si qualifichi o meno modifica sostanziale la rinegoziazione dell’equilibrio convenzionale, nei casi in cui si verifichino eventi non imputabili alle parti, imprevisti ed imprevedibili, che incidono in modo significativo sulle condizioni normali di rischio operativo, finché perdurino tali condizioni e per il tempo necessario per eventualmente ripristinare le condizioni originarie di esercizio delle concessioni;
  5. se gli artt. 49 e 56 del TFUE e i principi di certezza ed effettività della tutela giuridica, nonché il principio del legittimo affidamento ostino ad una interpretazione o applicazione di norme nazionali interne, o prassi applicative sulla base delle norme stesse, tali che il legislatore o l’Amministrazione pubblica possano condizionare la partecipazione alla procedura per la riattribuzione delle concessioni di gioco all’adesione del concessionario al regime di proroga tecnica, anche nell’ipotesi in cui sia esclusa la possibilità di rinegoziare le condizioni di esercizio della concessione al fine di ricondurle in equilibrio, in conseguenza di eventi non imputabili alle parti, imprevisti ed imprevedibili, che incidono in modo significativo sulle condizioni normali di rischio operativo, finché perdurino tali condizioni e per il tempo necessario per eventualmente ripristinare le condizioni originarie di esercizio delle concessioni;
  6. se, più in generale, gli artt. 49 e 56 del TFUE e i principi di certezza ed effettività della tutela giuridica, nonché il principio del legittimo affidamento ostino a una normativa nazionale (quale quella che rileva nella controversia principale), la quale prevede a carico dei gestori delle sale Bingo il pagamento di un oneroso canone di proroga tecnica su base mensile non previsto negli originari atti di concessione, di ammontare identico per tutte le tipologie di operatori e modificato di tempo in tempo dal legislatore senza alcuna dimostrata relazione con le caratteristiche e l’andamento del singolo rapporto concessorio.

 

Con successiva ord. n. 10264, depositata sempre in data 21 novembre 2022, la VII Sezione del Consiglio di Stato ha, poi, rimesso alla Corte di Giustizia ulteriore questione “se la direttiva 2014/23/UE, ove ritenuta applicabile e, in ogni caso, i principi generali desumibili dagli artt. 26, 49, 56 e 63 del TFUE come interpretati e applicati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, con particolare riguardo al divieto di discriminazioni, al canone di proporzionalità ed alla tutela della concorrenza e della libera circolazione dei servizi e dei capitali, ostino all’applicazione di norme nazionali per cui il legislatore nazionale o l’amministrazione pubblica possano, durante la cd “proroga tecnica” più volte rinnovata nell’ultimo decennio nel settore delle concessioni di gioco, incidere unilateralmente sui rapporti in corso, introducendo l’obbligo di pagamento di canoni concessori, originariamente non dovuti, ed aumentando, successivamente a più riprese i medesimi canoni, sempre determinati in misura fissa per tutti i concessionari a prescindere dal fatturato, apponendo anche ulteriori vincoli all’attività dei concessionari come il divieto di trasferimento dei locali e subordinando la partecipazione alla futura procedura per la riattribuzione delle concessioni all’adesione degli operatori alla proroga medesima”.

giurista risponde

Sindacato G.A. e potere discrezionale amministrazione Qual è l’ambito del sindacato del g.a. nelle ipotesi di potere discrezionale tecnico dell’Amministrazione?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

Il giudice non è chiamato, sempre e comunque, a definire la fattispecie sostanziale, senza tuttavia che si possa riconoscere un ambito di valutazioni riservate alla pubblica amministrazione non attingibile integralmente dal sindacato giurisdizionale.

Allorquando difettano i parametri normativi a priori che possano fungere da premessa del ragionamento sillogistico, il giudice non deduce ma valuta se la decisione pubblica rientri o meni nella ristretta gamma delle risposte maggiormente plausibili e convincenti alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli altri elementi del caso concreto. È ben possibile per l’interessato contestare ab intrinseco il nucleo dell’apprezzamento complesso, ma in tal caso egli ha l’onere di mettere seriamente in discussione l’attendibilità tecnico-scientifica. Se questo onere non viene assolto e si fronteggiano soltanto opinioni divergenti, tutte parimenti plausibili, il giudice deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente investito (dalle fonti del diritto e, quindi, nelle forme democratiche) della competenza ad adottare decisioni collettive, rispetto alla prospettazione individuale dell’interessato. – Cons. Stato, sez. VI, 5 dicembre 2022, n. 10624.

Con la presente pronuncia il Consiglio di Stato torna ad occuparsi dell’ambito del sindacato del g.a. nelle ipotesi di esercizio del potere discrezionale tecnico da parte dell’Amministrazione.

Primariamente i Giudici affermano che, a differenza delle scelte politico-amministrative (cd. discrezionalità amministrativa) – dove il sindacato giurisdizionale è incentrato sulla ragionevole ponderazione degli interessi, pubblici e privati, non previamente selezionati e graduati dalle norme – le valutazioni dei fatti complessi richiedenti particolari competenze (cd. discrezionalità tecnica) vanno vagliate al lume del diverso e più severo parametro della attendibilità tecnico-scientifica.

In alcune ipotesi normative, il fatto complesso viene preso in considerazione nella sua dimensione oggettiva di fatto “storico”: qui gli elementi descrittivi della fattispecie, anche quelli valutativi e complessi, vanno accertati in via diretta dal giudice amministrativo, in quanto la sussunzione delle circostanze di fatto nel perimetro di estensione logica e semantica dei concetti giuridici indeterminati costituisce un’attività intellettiva ricompresa nell’interpretazione dei presupposti della fattispecie normativa (come avviene, ad esempio, nel caso di sanzioni amministrative punitive dove, in virtù del principio di stretta legalità, spetta al giudice estrapolare la norma “incriminatrice” dalla disposizione). In altre parole, invece, la fattispecie normativa considera gli elementi che rinviano a nozioni scientifiche e tecniche controvertibili o non scientificamente verificabili, non come fatto “storico” (nel senso sopra precisato), bensì come fatto “mediato” dalla valutazione casistica e concreta delegata all’Amministrazione. In quest’ultimo caso, il giudice non è chiamato, sempre e comunque, a definire la fattispecie sostanziale, senza tuttavia che si possa riconoscere un ambito di valutazioni riservate alla pubblica amministrazione non attingibile integralmente dal sindacato giurisdizionale.

Infine, la Corte afferma che allorquando difettano i parametri normativi a priori che possano fungere da premessa del ragionamento sillogistico, il giudice non deduce ma valuta se la decisione pubblica rientri o meni nella ristretta gamma delle risposte maggiormente plausibili e convincenti alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli altri elementi del caso concreto. È ben possibile per l’interessato – oltre a far valere il rispetto delle garanzie formali e procedimentali strumentali alla tutela della propria posizione giuridica e gli indici di eccesso di potere – contestare ab intrinseco il nucleo dell’apprezzamento complesso, ma in tal caso egli ha l’onere di mettere seriamente in discussione l’attendibilità tecnico-scientifica. Se questo onere non viene assolto e si fronteggiano soltanto opinioni divergenti, tutte parimenti plausibili, il giudice deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente investito (dalle fonti del diritto e, quindi, nelle forme democratiche) della competenza ad adottare decisioni collettive, rispetto alla prospettazione individuale dell’interessato.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 9 maggio 2022, n. 3570;
Cons. Stato, sez. VI, 15 luglio 2019, n. 4990
Difformi:      Cons. Stato, sez. IV, 11 aprile 2022, n. 2697; Id., 27 gennaio 2022, n. 563;
Id., 11 gennaio 2022, n. 81
giurista risponde

Legittimità proroga concessioni balneari È legittima la recente e ulteriore proroga delle concessioni balneari disposta con il decreto Milleproroghe?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima e Ilenia Grasso

 

È illegittima qualsiasi proroga automatica sulle concessioni balneari compresa quella fino al 31 dicembre 2024 disposta con la recente L. 14/2023 di conversione del cd. decreto milleproroghe. – Cons Stato, sez. VI, 1° marzo 2023, n. 2192. 

Il Consiglio di Stato si è espresso su un ricorso presentato dall’Autorità garante della concorrenza (AGCM) contro il Comune di Manduria che, a novembre 2020, con una delibera di Giunta, aveva disposto l’estensione delle concessioni balneari fino al 2023 in base a quanto stabilito dalla L. 145/2018. L’Autorità, ritenendo l’estensione al 2023 in contrasto con il diritto europeo, aveva dapprima impugnato la delibera innanzi al TAR Lecce il quale, però, aveva respinto il ricorso; non soddisfatto della decisione del Giudice di primo grado l’AGCM è ricorsa innanzi ai Giudici di Palazzo Spada.

Con sentenza n. 2192, il Consiglio di Stato ha dato ragione all’Autorità Amministrativa, citando ampliamente la sua pronuncia emessa in adunanza plenaria a novembre 2021 con la quale è stata dichiarata illegittima la proroga al 2033 e proibito qualsiasi ulteriore rinnovo automatico sulle concessioni balneari.

Nel dettaglio, la Corte si è così espressa: “‘L’art. 12 della direttiva 2006/123/CE, laddove sancisce il divieto di proroghe automatiche delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative è norma self executing e quindi immediatamente applicabile nell’ordinamento interno, con la conseguenza che le disposizioni legislative nazionali che hanno disposto (e che in futuro dovessero ancora disporre) la proroga automatica delle suddette concessioni sono con essa in contrasto e pertanto, non devono essere applicate. La disposizione citata prescinde del tutto dal requisito dell’interesse transfrontaliero certo, atteso che la Corte di giustizia si è espressamente pronunciata sul punto ritenendo che l’interpretazione in base alla quale le disposizioni del Capo III della direttiva 2006/123 si applicano non solo al prestatore che intende stabilirsi in un altro Stato membro, ma anche a quello che intende stabilirsi nel proprio Stato membro è conforme agli scopi perseguiti dalla suddetta direttiva”.

Nella decisione del Consiglio di Stato, tra l’altro, rientra anche la proroga al 2021 approvata dal Parlamento con il recente decreto milleproroghe, convertito in L. 14/2023, a cui la Corte dedica un passaggio esplicito della pronuncia: “Non solo i commi 682 e 683 dell’art. 1 della L. 145/2018, ma anche la nuova norma contenuta nell’art. 10quater, comma 3, del D.L. 29 dicembre 2022, n. 198, conv. in L. 24 febbraio 2023, n. 14, che prevede la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime in essere, si pone in frontale contrasto con la sopra richiamata disciplina di cui all’art. 12 della direttiva 2006/123/CE, e va, conseguentemente, disapplicata da qualunque organo dello Stato”.

Infine, i Giudici si addentrano anche in una lunga considerazione atta a smentire la tesi dlla scarsità della risorsa spiaggia. Oltre a ribadire, in linea con la sentenza europea Protoimpresa che tale concetto deve essere calcolato “riguardo alla situazione del territorio comunale”, la Sezione sottolinea come: “Nel settore delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative, le risorse naturali a disposizione di nuovi potenziali operatori economici sono scarse, in alcuni casi addirittura inesistenti, perché è stato già raggiunto il – o si è molto vicini al – tetto massimo di aree suscettibile di essere date in concessione”. Nel caso specifico del litorale di Manduria, Palazzo Spada fa presente che dal momento che “l’arenile concedibile per finalità turistico ricreative è di appena 3 km, di cui 500 metri già assegnati in concessione, deve ritenersi che nel detto Comune sia dimostrata la scarsità del bene che trattasi”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. VII, 21 febbraio 2023, n. 1780; Id., 15 settembre 2022, n. 810;
Id., 6 luglio 2022, n. 5625; Cons. Stato, Ad. plen., 9 novembre 2021, nn. 17 e 18; Corte giust. UE, Grande Sezione, 30 gennaio 2018, in cause C- 360-15 e C-31/16