giurista risponde

Reati permanenti e particolare tenuità del fatto È applicabile la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai reati permanenti?

Quesito con risposta a cura di Matteo Castiglione e Federica Lavanga

 

In tema di reati permanenti, è preclusa l’applicazione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto finché la permanenza non sia cessata, in ragione della perdurante compressione del bene giuridico per effetto della condotta delittuosa. – Cass., sez. F, 31 agosto 2023, n. 37048.

Il caso sottoposto al vaglio di legittimità della Suprema Corte riguarda l’invasione di un terreno appartenente al demanio stradale di un Comune, reato previsto dal combinato disposto degli artt. 633 e 639bis del codice penale, commesso mediante la realizzazione di un muro di recinzione a chiusura dello stesso.

La difesa, impugnando la sentenza di grado precedente, ne lamenta la violazione di legge in relazione alla mancata applicazione dell’art. 131bis per avere la Corte d’Appello erroneamente negato l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto in ragione della natura permanente del reato e nonostante la particolare tenuità dell’offesa, atteso che l’invasione aveva avuto a oggetto una striscia di terreno di modesta estensione e inutilizzabile per altri fini.

L’art. 131bis prevede infatti l’esclusione della punibilità in occasione di offese di particolari tenuità, dettando ulteriori specificazioni per i casi in cui la stessa non sia considerabile tale; tra gli altri, qualora si proceda per reati che abbiano avuto ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.

La sezione feriale della Corte di Cassazione ha aderito alle motivazioni della sentenza d’appello secondo cui il fatto di cui all’esame non potesse considerarsi di particolare tenuità avuto riguardo al considerevole arco di tempo durante il quale si sarebbe protratta l’occupazione ed il reiterato inadempimento dell’imputato nei confronti dell’intimazione di rilascio più volte intimato dal Comune.

Secondo infatti l’orientamento nettamente maggioritario della Corte di cassazione, il reato di invasione di terreni o edifici, di cui all’art. 633 cod. pen., ha natura permanente quando l’occupazione si protrae nel tempo, determinando un’immanente limitazione della facoltà di godimento che spetta al titolare del bene; permanenza che cessa soltanto con l’allontanamento dell’occupante o con la sentenza di condanna di primo grado.

Ulteriormente viene ribadito che, secondo consolidata giurisprudenza, in tema di reati permanenti, è preclusa l’applicazione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto finché la permanenza non sia cessata, in ragione della perdurante compressione del bene giuridico per effetto

della condotta delittuosa.

Pertanto, nel caso di specie, la mancata cessazione della permanenza dell’occupazione arbitraria avrebbe costituito una situazione tale da escludere un’offesa di particolare tenuità a causa del lungo arco di tempo di protrazione dell’occupazione del terreno, destinato a fini pubblici di circolazione, e dell’altresì reiterato inadempimento alle intimazioni.

Sulla scorta di tali motivazioni, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass pen., sez. II, 13 febbraio 2019, n. 16363
Difformi:      Cass. pen., sez. III, 12 marzo 2021, n. 15029
giurista risponde

Gravità fattispecie penale e art. 34 D.Lgs. 274/2000 La gravità della fattispecie penale violata può orientare il giudice di pace nell’applicazione dell’art. 34, D.Lgs. 274/2000?

Quesito con risposta a cura di Matteo Castiglione e Federica Lavanga

 

La particolare tenuità del fatto prevista dall’art. 34, D.Lgs. 274/2000 consegue all’accertamento in concreto dell’esiguità del danno o del pericolo derivanti dalla commissione del reato, dall’occasionalità della violazione e dal ridotto grado di colpevolezza dell’imputato rispetto all’interesse tutelato dalla norma violata.

La Cassazione precisa che i presupposti applicativi della predetta causa di non procedibilità vanno riscontrati in relazione al concreto dipanarsi dei fatti, prescindendo dalla natura e dalla gravità intrinseca della fattispecie in astratto considerata. – Cass. pen., sez. I, 12 ottobre 2023, n. 41544.

Il D.Lgs. 274/2000 disegna un sottosistema per gli illeciti penali di competenza del giudice di pace che si connota per la precipua finalità conciliativa, giustificativa degli istituti di semplificazione applicabili nel corso del procedimento.

La Consulta, nel riconoscere la legittimità costituzionale di una disciplina penale settoriale, ha più volte riconosciuto che al giudice di pace è istituzionalmente assegnato il compito di favorire, per quanto possibile, la conciliazione tra le parti (Corte cost. ord. 349/2009; ord. 27/2007).

La ratio conciliativa, in uno con l’esigenza deflattiva del contenzioso penale relativo ad una serie di violazioni ad alto tasso di diffusività, hanno spinto il legislatore a positivizzare una particolare causa di esclusione della procedibilità correlata alla particolare tenuità del fatto.

Ai sensi dell’art. 34, D.Lgs. 274/2000, infatti, il giudice può, durante le indagini preliminari, dichiarare con decreto d’archiviazione di non doversi procedere per la particolare tenuità del fatto, quando ovviamente non risulti un interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento. Se è stata esercitata l’azione penale, la particolare tenuità del fatto può essere dichiarata con sentenza solo se l’imputato e la persona offesa non si oppongono

Il legislatore fissa i parametri per considerare il fatto di particolare tenuità, rimettendo al giudice una valutazione, rispetto all’interesse tutelato, sull’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, sulla sua occasionalità e sul grado della colpevolezza, che devono essere tali da non giustificare l’esercizio dell’azione penale, tenuto conto anche del pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta a indagini o dell’imputato.

La causa di esclusione in parola è applicabile alle sole fattispecie di reato espressamente individuate dal D.Lgs. 274/2000, ritenute ex lege di limitata offensività.

Si tratta, dunque, di un istituto processuale inerente a fatti di reato tipici, antigiuridici, offensivi e colpevoli, che, in presenza dei presupposti, vengono espunti dal circuito penale per ragioni di opportunità procedimentale e di politica criminale. L’art. 34, difatti, attiene, per espressa previsione legislativa, alla procedibilità e all’esecuzione dell’azione penale.

La predetta causa di esclusione della procedibilità, prima facie, sembra ricalcare la causa di esclusione della punibilità prevista dall’art. 131bis c.p., ma tra le due disposizioni non sussiste un rapporto di specialità tale da condurre all’applicazione di una sola delle due prescrizioni favorevoli al reo in presenza dei presupposti di entrambe le norme.

La giurisprudenza, infatti, nel dirimere il contrasto ingeneratosi sul rapporto tra le due fattispecie, ha ritenuto che anche nel procedimento penale davanti al giudice di pace possa applicarsi l’art. 131bis c.p. stante l’assenza di una indicazione normativa che conforti la tesi negativa ed in ragione della diversa funzione delle due prescrizioni, l’una a valenza processuale e l’altra di matrice sostanziale (Sez. Un. 53683/2017).

Un punto di incontro tra i due istituti, passibili di applicazione congiunta, risiede nel potere di valutazione rimesso al giudice. Affinché il giudice di pace proceda all’archiviazione della notizia di reato occorre che il fatto, comprensivo dell’offesa al bene giuridico protetto, sia valutato in concreto come fatto di particolare tenuità, occasionale e scarsamente lesivo dell’interesse della persona offesa, la quale gode di un diritto potestativo di opposizione preclude l’immediata definizione del procedimento.

La tenuità emerge dal grado di offensività della condotta in relazione alle conseguenze cagionate e dal grado di colpevolezza dell’agente del caso concreto, prescindendo da considerazioni relative al bene giuridico protetto. Ciò consente di dare una più ampia applicazione alla causa di esclusione della procedibilità in parola, contribuendo attivamente alla deflazione del contenzioso e alla conciliazione delle liti.

Nel caso di specie il giudice di pace territoriale, travalicando i margini di valutazione di cui all’art. 34, D.Lgs. 274/2000, ha ritenuto che l’alto valore del bene giuridico presidiato dalle norme incriminatrici in materia di immigrazione illegale ostasse all’applicazione della causa di improcedibilità.

La Cassazione, confermando che le valutazioni del giudice debbano effettuarsi in concreto, rifuggendo da sterili formalismi, ha chiarito che il bene tutelato dalla norma violata non rientra tra i presupposti ostativi alla tenuità del fatto di cui all’art. 34, D.Lgs. 274/2000.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. V, 7 maggio 2009, n. 34227
giurista risponde

Lesioni personali e competenza dopo la riforma Cartabia Come va individuata la competenza in materia di lesioni personali a seguito della Riforma Cartabia, che ha operato un ampliamento della cognizione del giudice di pace, in assenza di una disciplina transitoria?

Quesito con risposta a cura di Matteo Castiglione e Federica Lavanga

 

Per le lesioni personali guaribili in un intervallo di tempo compreso tra i venti ed i quaranta giorni sussiste la competenza per materia del giudice di pace, dovendo, il mancato coordinamento dell’art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. 150/2022 con l’art. 4, comma 1, lett. a), D. Lgs. 274/2000, essere risolto attraverso l’interpretazione estensiva di tale ultima disposizione, conformemente alla volontà del legislatore di ampliare la cognizione del giudice onorario con conseguente applicazione di una pena più favorevole al reo o deve permanere la competenza in capo al tribunale? Della questione sono state investite le Sezioni Unite. – Cass. pen., sez. V, ord. 19 ottobre 2023, n. 42858.

 

L’avvento della riforma Cartabia ha inciso sulla competenza per materia, ampliando gli ambiti della cognizione del giudice di pace per la necessità di snellire il carico dei tribunali e favorire soluzioni conciliative e più rapide per gli illeciti penali di minore allarme sociale aventi minore portata offensiva.

L’art. 582 c.p., nella versione vigente prima delle modifiche apportate col D.Lgs. 150/2022, non presentava problemi di coordinamento con l’art. 4, D.Lgs. 274/2000. Infatti l’art. 582, comma  2, c.p. rientrava nella competenza del giudice di pace, ad esclusione dei fatti commessi contro uno dei soggetti elencati dall’art. 577, comma 2, c.p. ovvero contro il convivente in ragione dell’esigenza di repressione della violenza di genere.

La gravità di alcuni episodi di violenza commessi i soggetti elencati al n. 1, comma 1 dell’art. 577 c.p. ha indotto la Corte costituzionale a dichiarare l’illegittimità costituzionale della competenza per materia riservata al giudice di pace per tali fatti (Corte cost. 236/2018).

La riforma Cartabia ha inciso sul delitto di lesioni volontarie quanto al regime di procedibilità stabilendone la punibilità a querela come regola e facendo divenire la perseguibilità d’ufficio eccezionale, salvo che per i casi di cui all’art. 577, comma 1, n. 1 e comma 2, c.p. In particolare, la procedibilità a querela viene estesa alle c.d. lesioni lievi – malattia compresa tra 21 e 40 giorni, mentre restano procedibili d’ufficio le lesioni gravi – malattia superiore a 40 giorni) e le lesioni gravissime, di cui all’art. 583 c.p. È fatta, altresì, salva la procedibilità d’ufficio in tutte le ipotesi in cui è già prevista in presenza di concorrenti circostanze aggravanti. Si è reso necessario, però, comprendere come andasse coordinato il nuovo regime dell’art. 582 c.p. con l’art. 4, D.Lgs. 274/2000 per la ripartizione di competenza tra tribunale e giudice di pace.

In assenza di una disciplina transitoria si è reso necessario trovare una soluzione interpretativa che evitasse di disinnescare l’intento deflattivo della Riforma. Si è, pertanto, ritenuto che il delitto di lesioni personali, che hanno comportato una malattia della durata di giorni 21 e fino a 40, divenuto procedibile a querela debba considerarsi di competenza del giudice di pace e, dunque, punibile con le sole sanzioni previste dall’art. 52, D. Lgs. 274/2000.

Dalla competenza del giudice onorario discendono ulteriori conseguenze dal punto di vista sanzionatorio, che rivela un assetto più favorevole al reo dal momento che nel procedimento dinanzi al giudice di pace risultano insussistenti i presupposti per applicare misure precautelari e cautelari.

Tale orientamento è stato affermato sull’assunto che il rinvio al comma 2 dell’art. 582 c.p. da parte dell’art. 4, D. Lgs. 274/2000 fosse un “rinvio mobile”, che “collega la disposizione rinviante a quella richiamata non solo nella formulazione attuale al momento del rinvio, ma anche in quelle eventualmente succedutesi a seguito della sua modifica” (Sez. Un. 17615/2023).

Non è, tuttavia, mancato un opposto filone interpretativo secondo cui si esclude, sulla base dell’interpretazione letterale del combinato disposto del nuovo art. 582, comma 2, c.p. e dell’art. 4, D.Lgs. 274/2000, che al giudice di pace sia rimasta la competenza per alcuna delle ipotesi di lesioni personali perseguibili a querela, poiché queste si trovano ora nel comma 1, dell’art. 582 c.p. che è estraneo al rinvio.

L’accoglimento della tesi restrittiva della competenza del giudice di pace non trova ostacoli nella eventuale modifica in peius del trattamento sanzionatorio, dovendosi comunque applicare il precedente trattamento, più favorevole alle condotte consumate prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 150/2022, che ha inciso sulla competenza in maniera irretroattiva.

Della questione sono state investite le Sezioni Unite.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. V, 13 aprile 2023, n. 15517;
Cass. pen., sez. V, 11 ottobre 2023, n. 41372
Difformi:      Cass. pen., sez. V, 6 ottobre 2023, n. 40719
giurista risponde

Risarcimento danno esistenziale per ritardo treno È risarcibile il danno esistenziale in caso di ritardo ferroviario di quasi 24 ore?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Chiara Tapino

 

In tema di tutela cui è tenuto il prestatore del servizio di trasporto ferroviario la normativa, nazionale e comunitaria, è volta ad assicurare forme di “indennizzo” per le ipotesi di cancellazione o interruzione o ritardo nel servizio, ma non anche a impedire che, qualora ne sussistano i presupposti, sia accolta la domanda giudiziale di risarcimento di ulteriori pregiudizi tutelati e lesi. – Cass., sez. III, 9 ottobre 2023, n. 28244.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la legittimità della richiesta di risarcimento danno non patrimoniale in caso di ritardo della prestazione di trasporto ferroviario.

Il Giudice di pace e il Tribunale, con pronunce conformi, avevano accolto la richiesta di indennizzo da ritardo e di risarcimento del danno esistenziale patito per il ritardo nell’esecuzione della prestazione di trasporto.

Viene proposto ricorso per Cassazione, contestando, oltre l’incompetenza del Giudice di pace, l’insussistenza del danno esistenziale liquidato.

In particolare, la società ricorrente contesta l’esistenza di un diritto al risarcimento del danno esistenziale in caso di ritardo ferroviario.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso argomentando sulla tesi della risarcibilità del danno esistenziale da ritardo nella prestazione in questi termini.

Il primo dato evidenziato è quello dell’oggettività del ritardo di quasi ventiquattro ore: sul punto appare evidente la constatazione della lungaggine dei tempi di attesa, nonché la mancata predisposizione fornitura di qualsiasi forma di assistenza. Infatti, ciò che viene contestato è l’organizzazione a monte, sulla base degli standard minimi di diligenza e precauzione richiesti, di misure di assistenza, indipendentemente poi dalla possibilità di porle in essere una volta manifestata la situazione di emergenza. La pronuncia si conforma all’orientamento maggioritario che fa discendere dal principio di buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. una funzione di integrazione degli obblighi nascenti dal contratto, richiedendo la predisposizione di tutte quelle misure volte a soddisfare l’interesse creditorio, e ad evitare che si rechino pregiudizi alla sfera giuridica del destinatario della prestazione.

Il secondo elemento di analisi è la qualificazione giuridica del danno in questione come non patrimoniale: il fatto oggetto di domanda risarcitoria, pur non qualificandosi come condotta criminosa, lede una situazione giuridica di rango costituzionale, nello specifico nella libertà di autodeterminazione e di movimento. In particolare, il travagliato viaggio di quasi ventiquattro ore continuative, svoltosi in deprecabili condizioni di carenza di cibo, riscaldamento e senza alcuna possibilità di riposare, rappresenta un’offesa effettivamente seria e grave all’individuabile e sopra rimarcato interesse protetto, che non può essere ricondotta a meri disagi, fastidi, disappunti, ansie o altro tipo di generica insoddisfazione.

Infine, l’ultimo elemento esaminato è il presunto concorso colposo del passeggero nella causazione dell’evento lesivo. In particolare, la doglianza prospettata dal ricorrente sarebbe quella dell’incauta scelta del passeggero di essersi messo in viaggio nonostante le avverse condizioni metereologiche.

Sul punto la Suprema Corte evidenzia come non fosse esigibile una diversa condotta da parte del passeggero, dal momento che, sulla base delle informazioni fornitegli, non era possibile prevedere che il tragitto non si sarebbe concluso in tempi ragionevoli.

La questione era già stata affrontata in diverso precedente da parte della Corte di cassazione e il ricorrente non ha fornito elementi tali da far superare l’orientamento consolidatosi.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. II, 8 aprile 2020, n. 7754
giurista risponde

Interessi usurari in corso di rapporto contrattuale Il creditore può conseguire gli interessi usurari che non siano stati originariamente pattuiti e siano divenuti tali in corso di svolgimento del rapporto contrattuale?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Chiara Tapino

 

I saggi di interesse usurari – che non siano stati pattuiti originariamente, ma siano sopraggiunti in corso di causa – costituiscono in ogni caso importi indebiti. Il creditore che voglia interessi divenuti nel corso del rapporto in misura ultra-legale pretenderebbe per ciò stesso l’esecuzione di una prestazione oggettivamente sproporzionata: il suo comportamento sarebbe contrario al generale principio di buona fede contrattuale, che impone alle parti comportamenti collaborativi, anche in sede di esecuzione del contratto. – Cass., sez. III, 28 settembre 2023, n. 27545.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la legittimità di interessi divenuti usurari nel corso del rapporto di credito.

In primo e secondo grado era stata respinta la questione inerente all’usura sopravvenuta degli interessi relativi ad un rapporto di conto corrente, in quanto le parti non avevano allegato specificatamente né che tali interessi fossero frutto di eventuale diversa pattuizione, né che la pretesa del tasso di interesse concordato fosse contraria a buona fede. I Giudici di merito, infatti, si erano conformati a quanto stabilito da Cass., Sez. Un., 19 ottobre 2017, n. 24675, secondo cui «è priva di fondamento la tesi della illiceità della pretesa di interessi a un tasso che, pur non essendo superiore, alla data della pattuizione, alla soglia dell’usura, superi tuttavia tale soglia al momento della sua maturazione o del pagamento degli interessi stessi».

Viene proposto ricorso per Cassazione, contestando la mancata dichiarazione di nullità dei saggi di interesse usurari successivi alla conclusione del contratto.

In particolare, si rilevava che, pur trattandosi di interessi usurari non previsti al momento dell’instaurazione del rapporto contrattuale, l’ordinamento giuridico deve considerarli come indebiti.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, ha innanzitutto ricordato quanto previsto da Cass., Sez. Un., 18 settembre 2020, n. 19597, secondo cui, in relazione agli interessi moratori, «in tema di contratti di finanziamento, l’interesse ad agire per la declaratoria di usurarietà degli interessi moratori sussiste anche nel corso dello svolgimento del rapporto, e non solo ove i presupposti della mora si siano già verificati; tuttavia, mentre nel primo caso si deve avere riguardo al tasso soglia applicabile al momento dell’accordo, nel secondo la valutazione di usurarietà riguarderà l’interesse concretamente praticato dopo l’inadempimento».

La Suprema Corte, facendo proprio tale principio, rileva che, laddove nel corso del rapporto maturino interessi in misura ultra-legale, non potranno essere pretesi dal creditore poiché sarebbero l’oggetto di una prestazione oggettivamente sproporzionata.

In questo modo viene introdotto uno strumento di giustizia contrattuale volto a riequilibrare quei rapporti in cui il carattere usurario degli interessi sia sopravvenuto al sorgere del rapporto. Il fondamento di tale strumento viene rinvenuto nella buona fede che deve sussistere durante l’esecuzione del contratto ai sensi dell’art. 1375 c.c.

Questo nuovo orientamento, dopo gli arresti degli anni passati, sembra voler offrire maggiore tutela al contraente di fronte ad un’ipotesi di sopravvenienza atipica che incide sull’equilibrio contrattuale.

Nel caso di specie, i Giudici di merito hanno escluso che gli interessi in questione fossero contrari a buona fede e che potessero essere decurtati dal credito oggetto di decreto ingiuntivo. Tuttavia, alla luce di quanto statuito, la Cassazione ha accolto il ricorso e cassato la sentenza, rinviando la causa alla Corte d’Appello, la quale dovrà procedere ad un nuovo esame alla luce del principio enunciato nella massima.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., Sez. Un., 18 settembre 2020, n. 19597
Difformi:      Cass., Sez. Un., 19 ottobre 2017, n. 24675
giurista risponde

Estinzione servitù prediale La servitù prediale si estingue in caso di frazionamento del fondo dominante?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Chiara Tapino

 

In tema di servitù prediali, il principio della cosiddetta indivisibilità di cui all’art. 1071 c.c. comporta, nel caso di frazionamento del fondo dominante, la permanenza del diritto su ogni porzione del medesimo, salve le ipotesi di aggravamento della condizione del fondo servente, e poiché tale effetto si determina ex lege, al riguardo non occorre alcuna espressa menzione negli atti traslativi attraverso i quali si determina la divisione del fondo dominante, sicché nel silenzio delle parti – in mancanza di specifiche clausole dirette ad escludere o limitare il diritto – la servitù continua a gravare sul fondo servente, nella medesima precedente consistenza, a favore di ciascuna di quelle già componenti l’originario unico fondo dominante, ancora considerato alla stregua di un unicum ai fini dell’esercizio della servitù, ancorché le singole parti appartengano a diversi proprietari, a nulla rilevando se alcune di queste, per effetto del frazionamento, vengano a trovarsi in posizione di non immediata contiguità con il fondo servente. – Cass., sez. II, 8 settembre 2023, n. 26186.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare l’esistenza di una servitù di passaggio per usucapione ventennale, sulla scorta della qualificazione operata dal Giudice secondo grado.

In particolare, in primo grado veniva adito il Tribunale per accertare la comproprietà, a seguito di divisione ereditaria tra fratelli, di un locale-caldaia situato all’interno di un condominio e della relativa servitù di passaggio per accedere al suddetto locale instauratasi per usucapione ventennale. Il Giudice rigettava la domanda sul primo punto, poiché dichiarava la proprietà esclusiva di uno solo dei fratelli a seguito della divisione, e sul secondo punto dal momento che a seguito dell’accertamento della proprietà in capo ad uno solo dei fratelli veniva meno il requisito di alienità che deve sussistere in caso di servitù tra fondo servente e fondo dominante.

In sede di gravame, la Corte territoriale accertava la sussistenza della comproprietà del bene e dichiarava l’esistenza della servitù di passaggio in forza di usucapione ventennale.

Viene proposto ricorso per Cassazione, contestando l’esistenza della servitù di passaggio e dell’avvenuta acquisizione per usucapione.

In particolare, il ricorrente nega il perfezionamento dell’acquisto della servitù mediante usucapione ventennale, a fronte di un riconoscimento mai avvenuto della stessa.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso argomentando sul principio della indivisibilità della servitù prediale.

La servitù prediale è un diritto reale di godimento su cosa altrui che determina la costituzione di un peso imposto sopra un fondo per l’utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario.

Nell’ambito della disciplina relativa all’esercizio della servitù, l’art. 1071 c.c. stabilisce che in caso di divisione del fondo dominante, la servitù non si estingue ma è dovuta per ciascuna porzione, con l’unico limite del divieto di aggravamento della condizione del fondo servente.

La pronuncia si conforma al principio in questione evidenziando che, la permanenza della servitù di passaggio discende come effetto ex lege, non richiedendo un’espressa menzione all’interno degli atti traslativi del fondo dominante. Le parti avrebbero dovuto limitare o escludere espressamente l’esistenza della servitù di passaggio; in caso contrario, essa continuerà a sussistere anche laddove, a seguito di frazionamento del fondo dominante, alcune parti dello stesso si trovino in una posizione non immediata contiguità del fondo servente.

Pertanto, alla luce del principio di diritto espresso, la Corte territoriale, pur non avendo individuato correttamente la norma da applicare al caso di specie, avendo fatto riferimento all’istituto dell’usucapione, ha fornito una soluzione in conformità all’orientamento maggioritario della Suprema Corte.

Il ricorso viene pertanto rigettato poiché il principio di indivisibilità delle servitù prediali non estingue il diritto reale in questione in ipotesi di frazionamento del fondo dominante.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. II, 3 luglio 2019, n. 17884
giurista risponde

Usufrutto coniuge legittimario L’azione esperita dal coniuge legittimario, destinatario dell’usufrutto generale, deve essere qualificata quale esercizio del rimedio di cui all’art. 550 c.c. o ricorre l’ipotesi prevista dall’art. 551 c.c.?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Chiara Tapino

 

Qualora il testatore abbia disposto a titolo particolare di tutti i suoi beni o di una parte eccedente la disponibile, legando al legittimario l’usufrutto universale e la nuda proprietà a un estraneo, il legittimario, privato in tutto o in parte della nuda proprietà della quota riservata, è chiamato ab intestato all’eredità; conseguentemente non si ha una figura di legato tacitativo ai sensi dell’art. 551 c.c., che suppone l’istituzione ex asse di altra o di altre persone, ma ricorre di regola l’ipotesi prevista dall’art. 550, comma 2, c.c., prospettandosi pertanto al legittimario la scelta o di eseguire la disposizione o di abbandonare la disponibile per conseguire la legittima. – Cass., sez. II, 18 ottobre 2023, n. 28962.

La vicenda in esame trae origine da un ricorso con cui è stata, tra gli altri motivi, eccepita violazione dell’art. 550 c.c. e falsa applicazione dell’art. 551 c.c. per avere la Corte d’appello erroneamente qualificato la domanda avanzata dal coniuge, beneficiario dell’usufrutto universale, quale esercizio dell’azione di riduzione, dichiarandola inammissibile in assenza di apposita rinuncia scritta al legato.

Investita del ricorso, la Corte di Cassazione ha preliminarmente ribadito che l’attribuzione per testamento dell’usufrutto universale non individua un’istituzione di erede, ma un legato che non sempre riveste la forma del legato in sostituzione di legittima.

Invero, la qualificazione di un lascito come legato in sostituzione di legittima, pur non richiedendo formule tipiche, né che sia prevista espressamente l’alternativa, per l’onorato, tra conseguimento del legato stesso e richiesta della legittima, postula che, dal contenuto delle disposizioni testamentarie, risulti in modo chiaro e non equivoco la volontà del testatore di soddisfare integralmente i diritti del legittimario mediante l’attribuzione di un bene o di un diritto sull’eredità, con conseguente istituzione ex asse di altra o di altre persone.

Il legittimario a favore del quale sia stato disposto il legato sostitutivo ha facoltà di scegliere se conseguire il legato o rinunciarvi e chiedere la legittima. Occorrerà a tal proposito promuovere l’azione di riduzione, all’esito vittorioso della quale il predetto legittimario assumerà il titolo di erede.

In mancanza di una chiara e univoca volontà del de cuius di tacitare l’onorato, il legato dovrà invece ritenersi in conto di legittima.

La Corte si discosta da tale assunto rilevando che “quando il legato abbia ad oggetto l’usufrutto generale, la fattispecie di riferimento, più che quella del legato in conto, è quella prevista dall’art. 550 c.c.”.

Parte della dottrina ha osservato che la scelta di cui al secondo comma dell’art. 550 c.c., se dare esecuzione alla disposizione testamentaria o abbandonarla, possa essere esercitata soltanto dal legittimario chiamato all’eredità, se e in quanto l’abbia accettata.

In particolare, si ritiene che nelle ipotesi in cui il testatore abbia disposto a titolo particolare di tutti i suoi beni o di una parte eccedente la disponibile, legando l’usufrutto al legittimario e la nuda proprietà a un estraneo, il legittimario, in quanto erede ab intestato, potrà esperire il rimedio previsto dalla disposizione in esame in luogo della riduzione. Mentre, se il testatore assegna al legittimario l’usufrutto universale, istituendo erede l’estraneo nella nuda proprietà, l’alternativa che si pone al primo non è se eseguire o meno il legato, perché quest’ultimo è eseguito dall’erede, ma se accettarlo, domandandone l’esecuzione, o rifiutarlo e chiedere la legittima proponendo l’azione di riduzione.

Secondo altro orientamento, nei casi in cui il testatore disponga della nuda proprietà di tutto l’asse, lasciando ai legittimari l’usufrutto, potrebbe configurarsi una figura di legato tacitativo. In tale ipotesi, il legittimario potrà, in alternativa alla rinunzia al legato e alla richiesta della legittima, valersi del rimedio previsto dall’art. 550.

Sul punto, la Corte di Cassazione ha rilevato l’incompatibilità tra i due rimedi in esame per diversità di presupposti, struttura e finalità delle norme di cui agli artt. 550 e 554 c.c.

In particolare, si ritiene che non possa configurarsi un rapporto di alternatività tra gli strumenti prospettati dalle citate disposizioni. Qualora il testatore abbia disposto nei modi stabiliti dall’art. 550 c.c., la scelta offerta al legittimario non è fra l’abbandono della disponibile e l’esperimento dell’azione di riduzione, ma fra l’esecuzione della disposizione testamentaria e il suo abbandono, con conseguente possibilità di ottenere la parte corrispondente alla legittima in piena proprietà.

Tanto premesso, la Corte di Cassazione ha osservato come, ai fini della risoluzione della questione in esame, si dimostri necessaria una chiara e preventiva qualificazione della natura del lascito disposto in favore del legittimario, rilevabile anche grazie alla valutazione del contenuto delle singole disposizioni testamentarie.

Alla luce delle esposte considerazioni, la Corte di Cassazione, avendo i giudici di merito erroneamente qualificato la disposizione come legato in sostituzione di legittima senza effettuare tale preliminare valutazione, cassa con rinvio, enunciando il seguente principio di diritto: “Qualora il testatore abbia disposto a titolo particolare di tutti i suoi beni o di una parte eccedente la disponibile, legando al legittimario l’usufrutto universale e la nuda proprietà a un estraneo, il legittimario, privato in tutto o in parte della nuda proprietà della quota riservata, è chiamato ab intestato all’eredità; conseguentemente non si ha una figura di legato tacitativo ai sensi dell’art. 551 c.c., che suppone l’istituzione ex asse di altra o di altre persone, ma ricorre di regola l’ipotesi prevista dall’art. 550, comma 2, c.c., prospettandosi pertanto al legittimario la scelta o di eseguire la disposizione o di abbandonare la disponibile per conseguire la legittima”.

giurista risponde

Domanda congiunta separazione e divorzio È ammissibile, in rito, il cumulo oggettivo della domanda congiunta di separazione personale con quella, parimenti congiunta, di divorzio?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Chiara Tapino

 

In tema di crisi familiare, nell’ambito del procedimento di cui all’art. 473bis.51 c.p.c., è ammissibile il ricorso dei coniugi proposto con domanda congiunta e cumulata di separazione e di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio. – Cass., Sez. I, 16 ottobre 2023, n. 28727. 

Nel caso di specie, le parti, con lo stesso ricorso, chiedevano di pronunciare la loro separazione personale, regolamentando i rapporti reciproci e quelli con i figli e, decorso il periodo di tempo previsto dall’art. 3, L. 898/1970 e previo passaggio in giudicato della sentenza di separazione personale, lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio.

All’udienza fissata per la comparizione delle parti, il giudice prospettava ai coniugi l’esistenza di una questione pregiudiziale di puro diritto, relativa all’ammissibilità, in rito, del cumulo oggettivo della domanda congiunta di separazione personale con quella, parimenti congiunta, di divorzio.

Investita della questione, la Corte di Cassazione si è preliminarmente soffermata sulle due importanti novità introdotte dal D.Lgs. 149/2022.

La prima è rappresentata dall’istituto del c.d. rinvio pregiudiziale da parte del giudice di merito di cui all’art. 363bis c.p.c., con cui è stata introdotta la possibilità per il giudice di merito di sottoporre alla Suprema Corte una questione di diritto, in presenza di determinate condizioni.

Altra novità è rappresentata dal disposto dell’art. 374bis.49 c.p.c. che, con esclusivo riferimento al giudizio contenzioso, ha introdotto la possibilità di presentare contestualmente domanda di separazione e di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, subordinando la procedibilità della seconda al decorso del termine a tal fine previsto dalla legge.

Occorre in proposito rilevare che analoga disposizione non è stata riprodotta nell’art. 473bis.51 c.p.c., che disciplina i procedimenti di cui all’art. 473bis.47 c.p.c. proposti su domanda congiunta.

Il legislatore ha pertanto espressamente previsto l’ammissibilità del cumulo delle domande contenziose di separazione e di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, senza nulla disporre in merito all’eventualità in cui i coniugi presentino, cumulativamente, le stesse domande ma in forma congiunta.

Tanto premesso, la Corte ha rilevato l’esistenza di posizioni contrastanti nella giurisprudenza di merito e in dottrina in relazione all’ammissibilità del cumulo delle domande presentate in via consensuale.

Un primo indirizzo interpretativo sostiene l’ammissibilità del ricorso con domanda congiunta di separazione e divorzio, adducendo a sostegno della propria tesi argomentazioni sia di carattere letterale che di carattere sistematico.

Da un punto di vista letterale, si è osservato che, diversamente da quanto previsto nel sistema vigente ante riforma, ove il procedimento congiunto di separazione e quello di divorzio erano disciplinati da due diverse disposizioni, oggi la relativa disciplina è confluita in un’unica norma.

È stato altresì evidenziato l’uso del plurale nel comma 1 dell’art. 473bis.51 c.p.c. con riferimento alla “domanda congiunta relativa ai procedimenti di cui all’art. 473bis.47”.

Sulla scorta di tali considerazioni, si è rilevato che se il legislatore avesse inteso precludere ai coniugi la facoltà di presentare contestualmente le domande di separazione e divorzio con riferimento ai procedimenti su domanda congiunta non avrebbe né previsto un procedimento uniforme, né utilizzato il lessico “relativo ai procedimenti”, in luogo di “relativo al procedimento”.

Quanto al criterio sistematico, i sostenitori dell’ammissibilità del cumulo hanno indicato quale ulteriore elemento a favore della propria tesi la ratio sottesa all’introduzione del cumulo per i procedimenti contenziosi. Si ritiene infatti che la proposizione cumulativa delle domande congiunte di separazione e divorzio realizzi quel risparmio di energie processuali posto alla base della previsione dell’art. 473bis.49 c.p.c.

Altro orientamento propende invece per l’inammissibilità del cumulo delle domande congiunte di separazione e divorzio, sul presupposto che l’art. 473bis.51 c.p.c. non prevede espressamente la facoltà per le parti di presentare in via consensuale e con un unico ricorso domanda di separazione e di divorzio, diversamente da quanto disposto per le domande contenziose.

Un ulteriore argomento evocato dai sostenitori della tesi contraria all’ammissibilità del cumulo è rappresentato dal tema dell’indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale.

In particolare, si ritiene che qualora si ammettesse la possibilità del cumulo di domande di separazione e divorzio nei procedimenti congiunti verrebbe concessa alle parti la possibilità di costituire dei patti prematrimoniali volti a incidere sugli effetti del futuro divorzio, nulli ai sensi dell’art. 160 c.c.

Si è, di contro, evidenziato che, nei procedimenti presentati in forma congiunta, i coniugi non concludono, in sede di separazione, un accordo sugli effetti del futuro divorzio, tale da condizionare la volontà di un coniuge o da comprimere i suoi diritti indisponibili.

Si richiama in proposito l’orientamento giurisprudenziale formatosi in materia di divorzio a domanda congiunta, secondo cui l’accordo “riveste natura meramente ricognitiva e non negoziale, con riferimento ai presupposti necessari per lo scioglimento del vincolo coniugale, essendo soggetto alla verifica del tribunale che, in materia, ha pieni poteri decisionali”.

È stata altresì valorizzata l’assenza di disposizioni destinate a gestire le sopravvenienze con riferimento al cumulo di domande congiunte.

Invero, l’adattamento del processo contenzioso alle sopravvenienze risulta essere garantito dal disposto del comma 2 dell’art. 473bis.19 c.p.c., che prevede la possibilità per le parti di introdurre nuove domande e i relativi mezzi di prova nel caso in cui si verifichino mutamenti nelle circostanze. Non si riscontra, invece, analoga disposizione in materia di cumulo di domande congiunte.

È stata inoltre evidenziata l’incompatibilità del cumulo con la natura di procedimento di volontaria giurisdizione scaturente dalla domanda congiunta dei coniugi. In particolare, si ritiene che il processo volontario non potrebbe contenere una sentenza non definitiva, seguita da un rinvio per verificare la sussistenza, decorsi sei mesi, delle condizioni di procedibilità e da una conseguente sentenza definitiva sullo scioglimento del vincolo matrimoniale.

Si è altresì rilevato che il risparmio di energie processuali che si ottiene nel giudizio contenzioso non è comparabile con quello che si potrebbe ottenere nel procedimento di cui all’art. 473bis.51 c.p.c., essendo diversa la natura dei due giudizi oltre che l’attività processuale compiuta.

In particolare, si rileva che l’ammissione del cumulo delle domande congiunte di separazione e divorzio comporterebbe un aumento della durata del procedimento, in quanto lo stesso resterebbe pendente per tutto il tempo necessario al maturare dei presupposti per il divorzio.

Si è, di contro, osservato che la compatibilità strutturale del cumulo con un determinato procedimento debba essere valutata in concreto e non sulla base della qualificazione astratta della natura del procedimento. Sul punto, si è evidenziato che il procedimento a domanda congiunta è ormai interamente definito con sentenza, con conseguente possibilità di applicare l’art. 279 c.p.c.

La Corte di Cassazione condivide il primo degli orientamenti esaminati, partendo dal presupposto che anche la proposizione cumulativa delle domande congiunte di separazione e divorzio rispecchia la stessa ratio posta alla base dell’art. 473bis.49 c.p.p., ossia quella di realizzare un “risparmio di energie processuali”.

Invero, i coniugi, a fronte della irreversibilità della crisi matrimoniale, potrebbero con un unico ricorso concludere la negoziazione delle modalità di gestione complessiva di tale crisi e regolamentare in un’unica sede i rapporti reciproci e quelli con i figli, senza dover attendere la riapertura di altro procedimento.

A fondamento dell’ammissibilità del cumulo, la Corte ha inoltre rilevato che il codice di rito prevede tra le disposizioni in generale il cumulo oggettivo di domande anche tra loro non connesse per titolo o petitum, sicché non sembrano esservi ostacoli anche alla proponibilità in cumulo delle domande di separazione consensuale e divorzio congiunto.

Trattasi, in particolare, di un cumulo oggettivo di domande connesse in relazione alla causa petendi, in quanto volte a regolare, in successione, una crisi matrimoniale irreversibile.

Alla luce delle esposte considerazioni, la Corte di Cassazione ha enunciato il seguente principio di diritto: “In tema di crisi familiare, nell’ambito del procedimento di cui all’art. 473bis.51 c.p.c., è ammissibile il ricorso dei coniugi proposto con domanda congiunta e cumulata di separazione e di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio”.

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Padre putativo e padre naturale: mantenimento dei figli In presenza di un padre putativo e di un presunto padre naturale, l’obbligo di mantenimento dei figli a carico di quest’ultimo decorre sin dalla nascita o dal passaggio in giudicato della sentenza di disconoscimento della precedente relazione genitoriale?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Chiara Tapino

 

L’obbligo dei genitori di mantenere i figli (artt. 147 e 148 c.c.) sussiste per il solo fatto di averli generati e prescinde da qualsivoglia domanda, sicché tale obbligo ricorre anche per il periodo anteriore alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori.

Il contributo dato dal padre putativo poi disconosciuto non costituisce un’esenzione per chi è stato dichiarato padre dal dovere di mantenimento, fin dalla nascita del figlio, che discende dalla procreazione, ma viene in rilievo come una situazione di fatto che ha determinato una riduzione delle esigenze di mantenimento di cui il figlio aveva necessità ed alle quali gli effettivi genitori dovevano provvedere. – Cass., sez. I, ord. 13 ottobre 2023, n. 28442.

La vicenda in esame trae origine da un ricorso proposto avverso la sentenza d’appello che, stante la presenza di un padre putativo, condannava il padre naturale al pagamento di una somma in favore della madre a titolo di rimborso pro quota delle spese dalla stessa sopportate sin dalla nascita del figlio.

In particolare, il ricorrente lamentava, tra gli altri motivi, violazione e falsa applicazione dell’art. 253 c.c., per avere la Corte d’Appello valutato la presenza del padre putativo solo ai fini della quantificazione delle spese sostenute dalla madre per il mantenimento del figlio e non in termini di esenzione dal dovere di mantenimento per il presunto padre naturale fino al passaggio in giudicato della sentenza di disconoscimento della precedente relazione genitoriale.

Veniva infatti ravvisata un’impossibilità giuridica per il riconosciuto padre di assolvere agli obblighi di assistenza materiale e morale che, nel periodo antecedente al disconoscimento, erano rimasti a carico del soggetto che aveva per primo provveduto al riconoscimento del figlio.

Investita del ricorso, la Corte di Cassazione, pur non negando l’esistenza di un nesso di pregiudizialità tra il giudizio di disconoscimento di paternità e quello in cui viene richiesto l’accertamento di altra paternità, ha ricordato che, secondo un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato, “l’obbligo dei genitori di mantenere i figli (artt. 147 e 148 c.c.) sussiste per il solo fatto di averli generati e prescinde da qualsivoglia domanda, sicché tale obbligo ricorre anche per il periodo anteriore alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori”.

Tanto premesso, occorre soffermarsi sulla portata dell’art. 277 c.c., ai sensi del quale “la sentenza che dichiara la filiazione produce gli effetti del riconoscimento”. Dal testo della norma si evince che il genitore riconosciuto si fa carico tutti i doveri propri della procreazione, incluso quello del mantenimento ex artt. 148 e 316bis c.c., che lo stesso assume sin dalla nascita del figlio.

Alla luce delle esposte considerazioni, la Corte di Cassazione ha precisato che non è stata dalla Corte d’appello ravvisata l’esistenza nel caso di specie di un doppio e contestuale titolo di mantenimento a carico di due soggetti distinti, quali il padre putativo e il presunto padre naturale, essendosi la stessa limitata ad applicare correttamente il combinato disposto degli artt. 277, 258, 148 e 316bis c.c.

Invero, la sentenza che accoglie l’azione di disconoscimento accerta ab origine l’inesistenza del rapporto di filiazione e determina, automaticamente dal suo passaggio in giudicato, il venire meno dell’obbligo di mantenimento e l’accertamento che gli stessi erano privi di giustificazione”. Trattasi di un dovere che, sin dalla nascita, rimane a carico di chi sia considerato padre ai sensi dell’art. 231 c.c. oppure di chi sia dichiarato tale ai sensi dell’art. 269 c.c.

Quanto al contributo fornito dal padre putativo al mantenimento, la Corte ha precisato che le spese sostenute da quest’ultimo nel periodo antecedente al giudizio di disconoscimento della paternità non costituiscono un’esenzione per chi è stato successivamente dichiarato padre, ma rilevano solo in termini di riduzione dell’entità del mantenimento complessivo di cui il figlio aveva necessità.

Con altro motivo di ricorso, il ricorrente lamentava l’avvenuto riconoscimento del diritto del figlio di risarcimento del danno endo-familiare.

In particolare, si eccepiva l’insussistenza nel caso concreto di un fatto illecito nonché di una condotta colposa ravvisabile a carico del padre naturale, il quale non poteva ritenersi obbligato ad instaurare un rapporto con il figlio fino al passaggio in giudicato della sentenza di disconoscimento dell’altra paternità.

La Corte di Cassazione, in linea con l’orientamento giurisprudenziale formatosi in materia, ha ribadito che l’obbligo dei genitori di educare e mantenere i figli essendo legato alla procreazione, prescinde dalla dichiarazione giudiziale di paternità e maternità, sicché il fondamento della responsabilità da illecito nel caso in cui alla procreazione non segua l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore è da rilevarsi nell’automatismo tra la responsabilità genitoriale e la procreazione. Il figlio avrà diritto ad essere istruito, educato ed assistito moralmente dal reale genitore dal momento in cui quest’ultimo abbia assunto coscienza del proprio status, a prescindere dall’esistenza di un padre putativo poi disconosciuto e della dichiarazione giudiziale di maternità o paternità.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328; Cass., sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652;
Cass., sez. I, 28 marzo 2017, n. 7960
giurista risponde

Stazione appaltante e variazione contratti La stazione appaltante può provvedere alla variazione dei contratti durante il periodo della loro efficacia?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, allorché sopravvengano esigenze tali da incidere sulle modalità esecutive delle prestazioni oggetto del contratto. – Cons. Stato, sez. III, 11 luglio 2023, n. 6797.

I Giudici di Palazzo Spada enunciano che. la stazione appaltante è legittimata a modificare il contratto durante il periodo della sua efficacia in presenza di sopravvenute esigenze tali da incidere sulle modalità esecutive delle prestazioni contrattuali. Ad ogni modo la variante è ammessa in presenza di determinate condizionali, quali: a) sopravvenienza di circostanze impreviste e imprevedibili per la stazione appaltante; b) mancata alterazione sostanziale della natura del contratto; c) eventuale aumento del prezzo nei limiti del 50% del valore del contratto iniziale.

Nel caso in cui la stazione appaltante operi nella fase che precede la stipulazione del contratto l’eventuale controversia rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in quanto afferente alla fase esecutiva del contratto a nulla rilevando l’adozione della delibera impugnata o la asserita natura paritetica e non autoritativa dell’atto.