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Caso fortuito e condotta del terzo o del danneggiato Nella nozione di caso fortuito di cui all’art. 2051 c.c. rientra anche la condotta del terzo o dello stesso danneggiato?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bolognese e Caterina D’Alessandro

 

Il caso fortuito è un fatto giuridico e si colloca in relazione causale diretta, immediata ed esclusiva con la res, senza l’interposizione di alcun elemento soggettivo, laddove la condotta del terzo e la condotta del danneggiato rilevano come atti giuridici caratterizzati dalla colpa (art. 1227, primo comma, c.c.), con rilevanza causale esclusiva o concorrente, intesa, nella specie, come caratterizzazione di una condotta oggettivamente imprevedibile da parte del custode. – Cass. III, 8 settembre 2023, n. 26209.

Nel caso di Specie la Suprema Corte ha confermato la decisione della Corte d’appello di non accogliere la domanda risarcitoria ex art. 2051 c.c. proposta dal motociclista nei confronti del Comune in relazione alla caduta dal motociclo, avvenuta a causa della presenza di una buca sul manto stradale.

La condotta del danneggiato è risultata imprudente e disattenta al punto tale da integrare il caso fortuito e, di conseguenza, giustificare l’esclusione di responsabilità del Comune in ordine alla caduta.

La prova del caso fortuito è l’unica prova liberatoria che il legislatore ammette in capo al custode, a nulla rilevando la prova della sua diligente custodia.

Pertanto la mancanza di prova relativa alla prevedibilità o meno del fatto dannoso (sub specie caduta dal motociclo) da parte del custode (il Comune) non rileva; ciò che conta è solo la prova dell’esistenza di un caso fortuito, nella specie, integrato dal contegno colposamente disattento del danneggiato, non mero concorrente nell’evento di danno ma autonomo responsabile del danno stesso.

Nel giungere a tale esito la Corte di Cassazione ha strutturato il proprio impianto argomentativo sulla scorta dell’intervento nomofilattico inaugurato dalle storiche sentenze gemelle del 2006 (Cass. III, 6 luglio 2006, n. 15383 e Cass. III, 6 luglio 2006, n. 15384) e del 2018 (Cass. III, 1 febbraio 2018, n. 2483 e Cass. III, 1 febbraio 2018, n. 2477) e terminato con un’ulteriore pronuncia a Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 30 giugno 2022, n. 20943).

Appare opportuno ripercorrere, per punti salienti, l’analisi strutturale condotta dalla giurisprudenza intorno agli artt. 2051 e 1227 c.c. sulla quale si fonda la presente pronuncia e da cui emerge un vero e proprio statuto della responsabilità del custode:

a) preliminarmente, è necessario precisare che il legislatore del 1942 non ha mai fornito una definizione normativa della custodia. Invero l’art. 2051 c.c. si è limitato a tradurre l’espressione francese sous sa garde presente nell’art. 1384, comma 1, Code Napoleon. La giurisprudenza di legittimità ha tuttavia rilevato le diverse accezioni della portata della custodia come criterio di determinazione della responsabilità, rinvenibili dalle fonti romane (vedasi la accezione di diligentia e custodiendae rei).

In ordine alla definizione del concetto di custodia ai sensi dell’art. 2051 c.c. sono maturati in giurisprudenza due opposti orientamenti: secondo il primo, minoritario, si può definire “custode” colui che usa e sfrutta economicamente la res. Il profitto tratto dal soggetto a seguito dell’utilizzo della cosa, in ragione del principio cuius commoda eius et incommoda, giustifica l’addossamento in capo allo stesso della qualifica di custode e, quindi, della relativa responsabilità.

Invece, in base al secondo orientamento considerato prevalente, è “custode” il soggetto che, a qualsiasi titolo (esclusi i casi di mera detenzione temporanea o di cortesia), conserva un potere di fatto sulla cosa.

Per pervenire ad una pronuncia di responsabilità ai sensi dell’art. 2051 c.c., dunque, non è sufficiente né necessario accertare l’esistenza di una relazione giuridica (proprietà, possesso, detenzione qualificata) tra soggetto e cosa ma di un potere di fatto sul bene, in virtù del quale il custode può vigilare, controllare i rischi inerenti alla cosa e intervenire tempestivamente in caso di pericolo per i terzi (ex multis Cass. III, 9 febbraio 2004, n. 2422).

Dal momento che la relazione giuridica con la cosa non è una relazione qualificata (come potrebbe essere la relazione esistente in forza di un contratto o di natura proprietaria) ma è una relazione di mero fatto, la stessa non è elemento costitutivo della responsabilità – a differenza di quanto previsto dagli artt. 2052, 2053, 2054 c.c. – motivo per cui il responsabile ex art. 2051 c.c. può ben essere un soggetto diverso da quello che abbia un titolo giuridico sulla res.

L’applicazione dell’art. 2051 c.c. si arresta soltanto dinanzi alle cose insuscettibili di custodia in termini oggettivi (acqua, aria).

b) È quindi “ormai indiscutibile” che la responsabilità ex 2051 c.c. sia di natura oggettiva e non presunta (o semioggettiva). È una responsabilità da relazione in quanto, ciò che rileva quale presupposto ai fini della configurazione della stessa, è l’esistenza di una mera relazione di custodia tra il soggetto e il bene.

Invero il criterio di imputazione della responsabilità individuato dall’art. 2051 c.c., prescinde da qualunque connotato di colpa, sicché non rilevano la pericolosità o le caratteristiche intrinseche della cosa custodita così come non rileva la deduzione di omissioni, violazioni di obblighi di legge di regole tecniche o di criteri di comune prudenza eventualmente commesse dal custode (rilevante solo ai fini della fattispecie di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c. c.), salvo che la deduzione delle stesse non sia diretta soltanto a sostenere la prova del rapporto causale tra la cosa e l’evento dannoso.

c) Sul custode, invece, grava l’onere della prova liberatoria sub specie di prova dell’esistenza del caso fortuito, a nulla rilevando la prova della diligenza o, a contrario, dell’assenza di colpa del custode stesso.

Se la colpa rilevasse, il custode si libererebbe ogni qualvolta riuscisse a provare che, in ragione dei poteri che la particolare relazione con la cosa gli attribuisce, il danno si è verificato in modo non prevedibile né superabile con lo sforzo diligente adeguato alle concrete circostanze del caso.

d) Il caso fortuito, così come definito dalla succitata sentenza delle Sezioni Unite, è rappresentato da un fatto causale naturale o un fatto del terzo, estraneo alla sfera soggettiva del custode e connotato dai caratteri di imprevedibilità ed inevitabilità da intendersi dal punto di vista oggettivo e della regolarità causale (adeguata), senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode.

Questo è confermato dalla circostanza per cui, le modifiche improvvise della struttura della cosa, col trascorrere del tempo dall’accadimento che le ha causate, si trasformano in nuove intrinseche condizioni della cosa stessa, di cui il custode deve rispondere.

Occorre, in altre parole, effettuare un giudizio di probabilità per dimostrare che quell’evento è frutto di un fatto del tutto imprevedibile in base all’id quod plerumque accidit (la comune esperienza).

Sul punto la presente pronuncia interviene al fine di precisare che, sul piano della struttura della fattispecie, il caso fortuito è un fatto giuridico e si colloca in relazione causale diretta, immediata ed esclusiva con la res, senza l’interposizione di alcun elemento soggettivo.

Ciò significa che il caso fortuito è la causa diretta e esclusiva dell’evento, senza alcun coinvolgimento di fattori soggettivi o colpevoli.

e) Invece la condotta del terzo e la condotta del danneggiato rilevano come atti giuridici caratterizzati dalla colpa (art. 1227, comma 1, c.c.), i quali possono rappresentare la causa principale del danno (rilevanza causale esclusiva) o possono contribuire insieme al caso fortuito all’evento dannoso (rilevanza causale concorrente), dando vita ad un concorso tra causa umana e causa naturale.

Anche le condotte umane suddette devono possedere i caratteri di imprevedibilità e inevitabilità, intesi da un punto di vista oggettivo e della regolarità causale (o adeguata) ovvero presentarsi come oggettivamente imprevedibili da parte del custode.

A tal fine, il comportamento del danneggiato che entri in interazione con la cosa e risulti colposo, può atteggiarsi in ordine di crescente di gravità integrando, alternativamente, o un mero concorso causale colposo (in applicazione anche ufficiosa dell’art. 1227 c.c., comma 1) o un fatto idoneo a recidere il nesso causale tra cosa e danno e, di conseguenza, escludere la responsabilità del custode (integrando un caso fortuito ex art. 2051 c.c.).

La Cassazione ha infatti osservato che quanto più è possibile evitare la situazione di pericolo attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato tanto più l’incidente deve considerarsi l’effetto del comportamento del danneggiato, fino ad escludere ogni responsabilità del custode.

Se, da un lato, il rapporto tra cosa e custode è improntato al principio di precauzione – per cui egli deve sempre predisporre tutte le misure affinché il bene sia reso inoffensivo – dall’altro lato, i soggetti che vengono in contatto con la cosa devono, del pari, adottare tutta le misure di normale diligenza richieste dalla situazione specifica.

Il dovere generale di ragionevole cautela in capo al danneggiato costituisce espressione del generale dovere di solidarietà, ex art. 2 Cost.

Quanto più il danneggiato può prevedere e superare la situazione di possibile danno attraverso l’adozione delle normali cautele richieste dalle circostanze, tanto più il comportamento imprudente dello stesso deve considerarsi dotato di incidenza causale nella causazione del danno.

Il comportamento imprudente del danneggiato può addirittura giungere ad interrompere il nesso eziologico tra cosa custodita ed evento dannoso tutte le volte in cui sia prevedibile in astratto ma imprevedibile in concreto da parte del custode (ovvero sia da escludere come evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale).

Quindi la solidarietà, letta come dovere di cautela rispetto alla situazione concreta ed entro la normale diligenza valutabile in base al canone della proporzionalità, condiziona il grado di incidenza causale che ha il comportamento del danneggiato sull’evento dannoso e, quindi, sulla responsabilità del custode.

f) La sentenza ha il pregio di chiarire che il fondamento della responsabilità per danno da cose in custodia, intesa come responsabilità oggettiva, riposa su elementi di fatto individuati tanto in positivo (l’accertamento di un danno giuridicamente rilevante, la prova di una relazione causale tra l’evento dannoso e la cosa custodita e l’imputazione in capo al custode dell’obbligazione risarcitoria, dalla quale il custode si libera provando il caso fortuito) quanto in negativo (l’inaccettabilità di una mera presunzione di colpa in capo al custode e l’irrilevanza della prova di una sua condotta diligente).

Pertanto, nonostante la presenza della buca sul manto stradale, la condotta imprudente del motociclista è risultata idonea a interrompere il nesso di causalità tra la cosa (il manto stradale maltenuto) e il danno (caduta del motociclista) così escludendo qualsivoglia responsabilità in capo al Comune (custode del bene), a nulla rilevando la negligenza tenuta dal Comune nella manutenzione della strada.

Per tale ragione la Cassazione ha rigettato il ricorso con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione a controparte delle spese processuali.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., Sez. Un., 30 giugno 2022, n. 20943; Cass. III, 1 febbraio 2018, n. 2483;
Cass. III, 1 febbraio 2018, n. 2477; Cass. III, 6 luglio 2006, 15383;
Cass. III, 6 luglio 2006, e 15384; Cass., Sez. Un., 11 novembre 1991, n. 12019;
Cass. III, 9 febbraio 2004, n. 2422
Difformi:      Cass. III, 2 febbraio 2007, n. 2308; Cass. III, 14 marzo 2006, n. 5445;
Cass. III, 20 febbraio 2006, n. 3651
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Assicurazione sulla vita ed eredi legittimi Il contratto di assicurazione sulla vita recante la designazione generica degli “eredi legittimi” comporta l’inclusione – quali beneficiari delle polizze assicurative – solo degli eredi per chiamata diretta o anche degli eredi per rappresentazione?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bolognese e Caterina D’Alessandro

 

Nel contratto di assicurazione sulla vita la designazione generica degli “eredi legittimi” come beneficiari comporta l’inclusione, tra i medesimi, pure degli eredi per rappresentazione ed ha, inoltre, come effetto che, a ciascuno di essi, spettino gli interessi corrispettivi sin dalla morte del de cuius (fino alla data dell’avvenuta corresponsione). – Cass. III, 21 agosto 2023, n. 24951.

La Suprema Corte, nel rigettare i primi due motivi scrutinati in conformità con quanto affermato dalle Sezioni Unite con sent. 30 aprile 2021, n. 11421, chiarisce preliminarmente che, quale che sia la forma scelta tra quelle ex art. 1920, comma 2, c.c., per la designazione del beneficiario dei vantaggi di un’assicurazione sulla vita (contratto, dichiarazione scritta, testamento) e quale che sia il “titolo” della chiamata all’eredità (“diretta” ovvero “per rappresentazione”), ciò che consente di fruire del beneficio previsto è la qualità di erede “legittimo”, senza ulteriori specificazioni.

Nello specifico è da considerarsi “legittima” l’ottava erede, subentrata per rappresentazione in forza dell’art. 1412, comma 2, c.c., al proprio dante causa, a sua volta erede della contraente ma a questa premorta.

Il subentro per rappresentazione, in luogo di un effetto di accrescimento in favore dei restanti beneficiari, è reso possibile in virtù della assenza di una precisa disposizione sul punto ed in forza dell’assimilabilità dell’assicurazione a favore di terzo per il caso di morte, alla categoria del contratto a favore di terzi.

Demistificando la tesi delle ricorrenti, tesa a qualificare il diritto del beneficiario alla corresponsione del dovuto quale un diritto “personale’’ acquisito ex contractu e non di natura ereditaria, la Corte ha invece ribadito il principio, già enunciato a Sezioni Unite, secondo cui la designazione del beneficiario dei vantaggi di un’assicurazione sulla vita è qualificabile come un atto inter vivos con effetti post mortem.

Sicché, anche laddove il contratto di assicurazione non menzioni esplicitamente gli eredi beneficiari (legittimi e/o testamentari), qualora le leggi o le disposizioni testamentarie applicabili rendano chiari i soggetti che avranno diritto all’eredità, l’assicuratore dovrà effettuare il pagamento in conformità con queste disposizioni.

Infatti, il termine «eredi», enunciato nella designazione, ha lo scopo di fornire all’assicuratore un criterio univoco di individuazione del creditore della prestazione, prescindendo dall’effettiva vocazione; pertanto, la generica individuazione degli “eredi” quali beneficiari, ne comporta l’identificazione soggettiva con coloro che, al momento della morte dello stipulante, rivestano tale qualità in forza del titolo della astratta delazione ereditaria prescelto dal medesimo contraente.

In questi casi, inoltre, la prestazione assicurativa è qualificabile come obbligazione soggettivamente complessa che vede quali destinatari una pluralità di soggetti in forza di una eadem causa obligandi, rappresentata dal contratto; sicché, salvo che non sia diversamente previsto dal contratto stesso, a ciascuno dei beneficiari spetta una quota uguale, il cui pagamento potrà essere esatto da ciascuno pro quota nei confronti dell’assicuratore.

Per tale ragione la Cassazione ha rigettato i primi motivi di ricorso, negando l’esclusione dalla categoria di eredi-beneficiari l’ottava erede per rappresentazione e, quindi, ripristinando la divisione del quantum assicurato in otto quote in luogo di sette.

Al contrario, la Corte ha ritenuto di accogliere la terza censura – con conseguente assorbimento della quarta – tesa a denunciare il vizio ricostruttivo, reiterato dalle corti territoriali, della disciplina giuridica degli interessi corrispettivi (art. 1282 c.c.) indebitamente contaminata da elementi strutturali (l’imputabilità colpevole nel ritardo) propri della diversa disciplina degli interessi moratori (art. 1224 c.c.).

A causa del predetto vizio di interpretazione della disciplina, la società assicurativa ha illegittimamente trattenuto le somme delle polizze assicurative sul rilievo che la (assente) individuazione dei beneficiari delle somme fosse impedita dalla mancata trasmissione di un atto notorio identificativo degli eredi.

Al contrario, ex art. 1282 c.c. i crediti di somme di denaro producono interessi ipso iure solo se liquidi ed esigibili ovvero se il credito è determinato o determinabile in base a parametri predefiniti ed oggettivi (così anche Cass. III, 12 settembre 2014, n. 19266).

I crediti spettanti agli “eredi legittimi” del de cuius – beneficiari della polizza dalla stessa stipulata – sono divenuti esigibili da parte di costoro, dal momento della verificazione dell’evento della morte, sicché gli interessi corrispettivi competevano loro senza che fosse rilevante stabilire come dovesse compiersi la ripartizione fra di essi.

Dare rilievo al momento in cui si è avuta puntuale cognizione degli eredi significherebbe valorizzare, quale presupposto giuridico di liquidità ed esigibilità del credito indennitario, una circostanza esterna al contratto, successiva al suo perfezionamento e riconducibile a un comportamento arbitrario del debitore (denegato rilievo alla prodotta dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà) in aperta violazione degli artt. 1252 e 1383, cc.; circostanza che, afferendo all’esecuzione di un pagamento esigibile, avrebbe rilevanza con riferimento ad eventuale debenza di interessi moratori.

Tuttavia, il rilievo attribuito alla suddetta circostanza ingenera un’indebita commistione di discipline, produttiva di conseguenze giuridiche fuorvianti: gli interessi moratori, seppure trovino il proprio fondamento nel contratto o nella legge in base all’art. 1282 cc. e nella esigibilità del credito così come gli interessi corrispettivi, si differenziano da questi presupponendo in aggiunta la mora ovvero un ritardo qualificato dalla costituzione in mora e assolvendo ad una funzione eminentemente risarcitoria, non di mera controprestazione.

Per le ragioni sopra esposte, la Corte ha ritenuto di accogliere il ricorso in relazione al terzo motivo e cassato la sentenza rinviando la causa alla Corte d’Appello, la quale dovrà attenersi al principio evidenziato in massima.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., Sez. Un., 30 aprile 2021, n. 11421; Cass. III, 12 settembre 2014, n. 19266
giurista risponde

Interesse ad agire dei comitati di scopo È inammissibile per carenza di interesse il ricorso di opere in corso di progettazione?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato risponde positivamente. – Cons. Stato, sez. IV, 23 maggio 2023, n. 5104.

La quarta Sezione del Consiglio di Stato evidenzia che, nel caso in cui non vengano dedotti vizi propri degli atti oggetto di impugnativa, ma censure relative all’assetto urbanistico di un’area e al pregiudizio ambientale che si produrrebbe qualora il progetto acquisito tramite gara dovesse essere approvato, deducendo una lesione riguardante “l’interesse ad una buona qualità dell’aria, alla fruibilità del verde pubblico ed alla tranquillità di quartiere”, riconducibile ad una variante al Piano regolatore generale comunale, presupposto necessario ai fini dell’insediamento delle opere, ancora in corso di progettazione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per carenza di interesse poiché la lesione dedotta dai ricorrenti non è ancora concretamente ipotizzabile.

Con riguardo alla vicenda in esame, il ricorso è stato promosso da un Comitato di Scopo denominato e da altri soggetti, contrari alla realizzazione di un Parco in una località, sostenendo l’impossibilità di destinare lo standard minimo di verde previsto in quell’area su altre aree del quartiere ovvero in aree adiacenti.

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Annullamento provvedimenti cautelari o disciplinari Sono restituibili le retribuzioni in conseguenza dell’annullamento giurisdizionale dei provvedimenti cautelari o disciplinari?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, in caso di annullamento giurisdizionale di provvedimenti cautelari o disciplinari l’amministrazione datrice di lavoro è tenuta alla restituzione in integrum. – Cons. Giust. Amm. Reg. Sicilia, 25 maggio 2023, n. 367.

I Giudici del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia evidenziano che, colgono nel segno le censure articolate dall’appellante avverso la decisione di prime cure, secondo cui l’Amministrazione, in attuazione del giudicato di annullamento della sanzione della sospensione irrogata, non avrebbe potuto rinnovare il procedimento disciplinare per le medesime condotte, sebbene per giungere alla irrogazione di una sanzione meno afflittiva, avendo il giudice amministrativo escluso in radice la loro rilevanza disciplinare e la conseguenziale responsabilità dell’incolpato.

Per indirizzo giurisprudenziale consolidato (Cons. Stato, sez. II, 21 gennaio 2022, n. 394; Id., 16 marzo 2022, n. 1854) in caso di annullamento giurisdizionale di provvedimenti cautelari o disciplinari che hanno comportato effetti negativi sul rapporto di servizio del pubblico dipendente, sia in termini giuridici che economici, l’Amministrazione datrice di lavoro è tenuta alla restitutio in integrum, di talché il dipendente ha diritto a vedersi attribuire la retribuzione per i periodi di lavoro non prestato a causa dell’illegittima sospensione o interruzione del rapporto di servizio.

Nel caso di specie, è pacifico che l’appellante sia stato riammesso in servizio dopo l’annullamento del provvedimento di destituzione, ma – in ossequio all’indirizzo giurisprudenziale sopra richiamato – avrebbe dovuto percepire tutte le retribuzioni per i periodi in cui il suo rapporto di lavoro è stato illegittimamente sospeso in virtù dei provvedimenti di sospensione cautelare e disciplinare e, successivamente, interrotto con il provvedimento di destituzione (da esse potendo detrarsi, ossia compensarsi, unicamente gli importi corrispondenti alle sanzioni pecuniarie successivamente inflitte al ricorrente e non annullate in questa sede; nonché, ovviamente, gli importi degli assegni alimentari che furono pagati al dipendente durante i periodi di sospensione).

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. II, 21 gennaio 2022, n. 394; Id., 16 marzo 2022, n. 1854;
Cons. Giust. Amm. Reg. Sicilia, 16 luglio 2015, n. 539
giurista risponde

Regime escussione cauzione provvisoria È possibile l’incameramento della cauzione provvisoria quale conseguenza automatica dell’esclusione automatica di un operatore economico?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

La V Sezione del Consiglio di Stato ha rimesso alla Corte di giustizia UE la questione. – Cons. Stato, sez. V, ord. 7 giugno 2023, n. 5618.

La quinta Sezione del Consiglio di Stato ha rimesso alla Corte di Giustizia la questione sulla compatibilità col diritto dell’Unione Europeo di una norma interna che prevede l’applicazione dell’incameramento della cauzione provvisoria, quale conseguenza automatica dell’esclusione di un operatore economico.

In particolare, se gli artt. 16, 49, 50 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, l’art. 4, Protocollo 7, della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo – CEDU., l’art. 6 del TUE, i principi di proporzionalità, concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi di cui agli articoli gli artt. 49, 50, 54 e 56 del TFUE, ostino a una norma interna che preveda l’applicazione dell’incameramento della cauzione provvisoria, quale conseguenza automatica dell’esclusione di un operatore economico da una procedura di affidamento di un contratto pubblico, altresì a prescindere dalla circostanza che lo stesso sia o meno risultato aggiudicatario della gara.

giurista risponde

Estensione validità temporale offerta RTI È possibile l’estensione della validità temporale dell’offerta presentata dall’R.T.I. modificando in riduzione la compagine del raggruppamento?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato con ordinanza ha rimesso alla Corte di giustizia UE la questione. – Cons. Stato, Sez. V, ord., 16 giugno 2023, n. 5950.

La quinta Sezione del Consiglio di Stato interroga la Corte di giustizia sulla compatibilità con l’ordinamento dell’Unione Europea della disciplina interna (delle disposizioni del D.Lgs. 163/2006) sulle modificazioni soggettive dei raggruppamenti temporanei di imprese, nella parte in cui detta disciplina è nel senso della esclusione, in caso di scadenza del termine di validità dell’offerta originariamente presentata da un raggruppamento temporaneo di imprese costituendo, della possibilità di ridurre, all’atto dell’estensione della validità temporale della medesima offerta, la originaria compagine del raggruppamento.

Più nel dettaglio, i Giudici di Palazzo Spada hanno rimesso alla Corte di giustizia dell’Unione Europea le seguenti questioni pregiudiziali ai sensi dell’art. 267 TFUE:

a) “se la direttiva 2004/18/CE, gli artt. 16 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, i principi di proporzionalità, concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi di cui agli artt. 49, 50, 54 e 56 del TFUE, ostino a norme interne (artt. 11 comma 6, 37 commi 8, 9, 10, 18 e 19, 38, comma 1, lett. f) del D.Lgs. 163/2006) che escludono, in caso di scadenza del termine di validità dell’offerta originariamente presentata da un raggruppamento temporaneo di imprese costituendo, la possibilità di ridurre, all’atto dell’estensione della validità temporale della medesima offerta, la originaria compagine del raggruppamento; in particolare, se tali disposizioni nazionali siano compatibili con i principi generali del diritto dell’Unione europea di libera iniziativa economica ed effetto utile, nonché con l’articolo 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”;

b) “se la direttiva 2004/18/CE, gli artt. 16, 49, 50 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, l’art. 4, Protocollo 7, della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo – CEDU, l’art. 6 del TUE, i principi di proporzionalità, concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi di cui agli artt. 49, 50, 54 e 56 del TFUE, ostino a norme interne (artt. 38, comma 1, lett. f), 48 e 75 del D.Lgs. 163/2006) che prevedano l’applicazione della sanzione d’incameramento della cauzione provvisoria, quale conseguenza automatica dell’esclusione di un operatore economico da una procedura di affidamento di un contratto pubblico di servizi, altresì a prescindere dalla circostanza che lo stesso sia o meno risultato aggiudicatario dell’affidamento medesimo”.

Per quanto attiene alla prima questione pregiudiziale, il Consiglio di Stato ha chiarito che l’esclusione del raggruppamento si profila quale atto dovuto, sia in quanto violativo del principio di immodificabilità del RTI – qualora non sia dimostrata la sussistenza di esigenze organizzative dell’intero raggruppamento a base del recesso esercitato dal singolo operatore aderente al raggruppamento – sia laddove il recesso si profili come operato con finalità elusiva, in quanto volto a evitare una sanzione di esclusione della gara per difetto dei requisiti in capo al componente del RTI che viene meno per effetto dell’operazione riduttiva. Inoltre, il combinato disposto degli artt. 11, comma 6, 37, commi 8, 9, 10, 18 e 19 e 38, comma 1, lett. f), D.Lgs. 163/2006, come interpretati dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, costringendo i componenti del RTI a rimanere vincolati all’offerta presentata per un periodo indefinito di tempo, anche in caso di plurime scadenze della sua vincolatività, in presenza di gare complesse di lunga durata – con la sola possibilità di non conferma dell’offerta da parte di tutti gli originari componenti del RTI – è apparso al Collegio di dubbia compatibilità con il principio di libertà di impresa di cui all’art. 16 della Carta dei diritti Fondamentali dell’Unione Europea secondo cui “è riconosciuta la libertà di impresa, conformemente al diritto dell’unione e alle legislazioni e prassi nazionali” nonché con i principi di proporzionalità di cui all’art. 52 della medesima Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché di proporzionalità, concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi di cui agli artt. 49, 50, 54 e 56 del TFUE.

Con riferimento alla seconda questione pregiudiziale, il Collegio evidenzia che in ragione dell’entità e assoluta rilevanza del sacrificio patrimoniale imposto a parte appellante, per la stessa l’escussione delle cauzioni provvisorie verrebbe ad acquisire i connotati di una sanzione cui non può che necessariamente riconoscersi carattere penale, secondo l’accezione cristallizzata nell’interpretazione della Corte EDU: l’automatico incameramento delle garanzie provvisorie integrerebbe gli estremi di una evidente violazione del principio di proporzionalità delle sanzioni.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. VI, ord., 20 ottobre 2014, n. 5167; Id., 9 ottobre 2014, n. 5030;
Id., 9 luglio 2014, n. 3496, 3498 e 3499
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Risarcimento danno per mancata aggiudicazione gara La revoca degli atti di gara, quale atto di autotutela, comporta l’interruzione del nesso causale tra l’annullamento dell’atto di aggiudicazione e i danni subiti?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, interrompe il nesso causale tra l’annullamento dell’atto di aggiudicazione e i danni subiti dall’impresa aggiudicataria. – Cons. Stato, sez. III, 23 giugno 2023, n. 6208.

Preliminarmente è opportuno precisare che l’irragionevolezza di un provvedimento di revoca non può essere desunta dalla difesa, effettuata dalla p.a. in giudizio, degli atti revocati, attesa la diversità tra il soggetto che è tenuto a difendere, in giudizio, le scelte già adottate dalla p.a., esercitando il ministero del difensore, e gli organi di amministrazione attiva, tenuti invece ad adeguare l’assetto provvedimentale alle mutevoli valutazioni circa la sua aderenza al quadro dei fatti e degli interessi rilevanti venuto a determinarsi nella realtà socio-economica.

Per quanto attiene alla revoca degli atti di gara da parte della stazione appaltante, quale atto di autotutela, essa comporta l’interruzione del nesso causale tra l’annullamento dell’atto di aggiudicazione e i danni subiti dall’impresa aggiudicataria in quanto la situazione giuridica che può essere tutelata sotto il profilo del risarcimento risulta unitaria, di conseguenza qualora l’interesse a conseguire l’aggiudicazione dell’appalto sia paralizzato a seguito dell’atto di autotutela che abbia posto nel nulla il procedimento di evidenza pubblica, e quest’ultimo sia risultato legittimo sotto il profilo giuridico così come da valutazione del giudice amministrativo, il predetto provvedimento di revoca non potrà essere posto a fondamento di una pretesa risarcitoria per perdita di opportunità.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. III, 11 ottobre 2021, n. 6820
giurista risponde

Nullità sentenza primo grado per motivazione apparente Può dichiararsi nulla la sentenza di primo grado per motivazione apparente?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato si esprime sulla nullità di una sentenza di primo grado per motivazione apparente. – Cons. Stato, sez. III, 28 giugno 2023, n. 6309.

Il Consiglio di Stato ha affermato che: «È nulla, per motivazione apparente, la sentenza in cui si faccia riferimento, in modo assolutamente vago e generico, alle “circostanze” relative all’affidabilità professionale dell’operatore economico, le cui dichiarazioni sarebbero state omesse o non sarebbero state correttamente vagliate dalla stazione appaltante, senza mai indicarle specificamente e analiticamente, o quanto meno senza connotarne il contenuto distintivo, nemmeno in modo riassuntivo, sintetico o allusivo».

I Giudici di Palazzo Spada hanno accolto l’appello, ricordando il principio espresso dall’Adunanza Plenaria (Cons. Stato, Ad. Plen. 10 e 11/2018), secondo cui costituisce un’ipotesi di nullità della sentenza che giustifica l’annullamento con rinvio al giudice di primo grado il difetto assoluto di motivazione. Dunque, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione, tale anomalia si identifica, oltre che nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, nella motivazione meramente assertiva oppure obiettivamente incomprensibile: quando, cioè, le anomalie argomentative sono di gravità tale da collocare la motivazione al di sotto delle previsioni costituzionali di cui all’art. 111, comma 5, Cost.

Nel caso in esame, il riferimento del tutto vago alle “circostanze” relative all’affidabilità professionale ha portato in secondo grado le parti a riproporre integralmente le deduzioni nel merito formulate in primo grado, elencando tutte le vicende rilevanti. Pertanto, si è determinata di fatto la trasformazione del giudizio di appello in un iudicium novum. Di qui, il carattere apparente della motivazione e dunque l’annullamento della sentenza con rinvio al giudice di primo grado.

giurista risponde

Eccesso colposo di legittima difesa Quali sono i profili di intersecazione tra la fattispecie dell’eccesso colposo di legittima difesa, la provocazione e le concrete modalità operative del fatto illecito?

Quesito con risposta a cura di Matteo Castiglione e Federica Lavanga

 

La fattispecie dell’eccesso colposo ricorre qualora l’agente, minacciato da un pericolo attuale di un’offesa che, se non neutralizzata tempestivamente, sfocia nella lesione del diritto, abbia posto in essere la necessaria difesa del bene giuridico minacciato, ma, per errore determinato da colpa, abbia ecceduto rispetto alla necessaria proporzione tra difesa ed offesa. – Cass. I, 13 giugno 2023, n. 41552.

La fattispecie concreta posta al vaglio della Suprema Corte ha riguardato la configurabilità di un eccesso colposo di legittima difesa in luogo della fattispecie di tentato omicidio, reato per il quale il soggetto ricorrente è stato condannato sia in primo che in secondo grado, con rilevanti effetti sia sul piano qualificatorio che sanzionatorio.

Nello specifico, il caso storico ha riguardato un alterco intercorrente tra due condomini, sfociato poi per futili motivi nell’aggressione con arma da taglio dell’uno nei confronti dell’altro.

La difesa ha quindi eccepito i vizi di violazione di legge e difetto di motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui la stessa non teneva in considerazione la sussistenza o meno della causa di giustificazione della legittima difesa, ancorché nella forma dell’eccesso colposo, sulla scorte della relazione del consulente medico e della ricostruzione delle modalità esecutive degli atti lesivi.

Elemento collegato e prodromico all’azione reazionaria difensiva sarebbe inoltre stata la provocazione della persona offesa nei confronti dell’attuale condannato; secondo la difesa, i giudici di prime cure non avrebbero valorizzato i pregressi contrasti tra l’imputato e la persona offesa, contrassegnati anche da una violenta aggressione subita dall’imputato, elementi significativi del fatto che l’imputato, nell’occorso, avesse agito in uno stato d’ira, covato nel corso degli anni ed esploso in occasione di un ultimo, ed ennesimo, diverbio.

Il collegio adito della questione ha dichiarato inammissibile il ricorso, sulla scorta delle seguenti ragioni:

Relativamente alla sussistenza dell’attenuante della provocazione, la Corte ha richiamato le motivazioni della sentenza d’appello secondo cui la condotta dell’agente sarebbe stata preceduta da un acceso diverbio nel corso del quale ambedue i concorrenti si sarebbero rivolti reciproche accuse circa passati episodi, di tal che, l’esplosione della summenzionata ira, maturata nel corso del tempo, non sarebbe stata determinata da un fatto ingiusto altrui – come esplicitamente richiamato dalla norma codicistica relativa alle circostanze attenuanti – quanto piuttosto da un futile motivo.

Secondo giurisprudenza costante, infatti, il “fatto ingiusto altrui” ex art. 62, n. 2, c.p. deve essere connotato dal carattere della ingiustizia obiettiva, intesa come effettiva contrarietà a regole giuridiche, morali e sociali, reputate tali nell’ambito di una determinata collettività in un dato momento storico e non con riferimento alle convinzioni dell’imputato e alla sua sensibilità personale (così Cass. 2 dicembre 2013, n.47840).

Per ciò che concerne la configurabilità dell’eccesso colposo di legittima difesa, la Corte ha ricostruito l’istituto che ricorre quando l’agente, minacciato da un pericolo attuale di un’offesa che, se non neutralizzata tempestivamente, sfocia nella lesione del diritto, abbia posto in essere la necessaria difesa del bene giuridico minacciato, ma, per errore determinato da colpa, abbia ecceduto rispetto alla necessaria proporzione tra difesa ed offesa.

Da ciò ne consegue che i presupposti della fattispecie di cui all’art. 55 c.p. in relazione alla legittima difesa sono, da una parte, la sussistenza dei requisiti della causa di giustificazione e, dall’altra, il superamento solo colposo, e non volontario, del limite costituito dalla proporzione tra il bene giuridico minacciato dall’offesa altrui e quello leso dalla reazione difensiva.

L’accertamento compiuto in primo e secondo grado ha rilevato come la direzione dei colpi, frontali e non dal basso verso l’alto, fossero incompatibili con la ricostruzione offerta dall’imputato e con le modalità esecutive di un’azione difensiva; pertanto, ritenendo tali provvedimenti adeguatamente motivati, attendibili e scevri da qualsivoglia fallacia logico-giuridica, la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. I, 24 settembre 1997, n. 8999;
Cass. pen., sez. I, 13 febbraio 2019, n. 9463
giurista risponde

Estorsione e danno patrimoniale La nozione di danno patrimoniale richiesta dal delitto di estorsione ricomprende anche la perdita dell’aspettativa di conseguire un vantaggio economico (cd. chance) determinata dal reato di turbata libertà degli incanti?

Quesito con risposta a cura di Matteo Castiglione e Federica Lavanga

 

Il patrimonio non è un insieme di beni materiali, ma un insieme di rapporti giuridici attivi e passivi aventi contenuto economico, unificati dalla legge in considerazione dell’appartenenza al medesimo soggetto, per cui qualsiasi situazione possa incidere negativamente sull’assetto economico di un individuo, comprese la delusione di aspettative e chance future di arricchimento o di consolidamento dei propri interessi, è destinata a rientrare nel concetto di danno di cui all’art. 629 cod. pen. – Cass. VI, 11 luglio 2023, n. 41379.

A seguito di condanna in appello per i reati di turbata libertà degli incanti e di estorsione, la difesa ha proposto ricorso per Cassazione deducendo il difetto di motivazione nella parte in cui non veniva approfondito il requisito del danno, richiesto per il reato di cui all’art. 629, avendolo concretizzato in una perdita di chance e trascurando nel caso in esame che gli aggiudicatari provvisori non sarebbero stati titolari di un diritto patrimoniale sub condicione, come sostenuto dall’accusa e dal giudice.

Secondo la Corte adita, le doglianze avanzate devono essere sottoposte al vaglio delle Sezioni Unite del Supremo Consesso in ragione degli orientamenti contrastanti in tal senso, al fine di definire la nozione di perdita di chance e la possibilità che essa integri, oltre al reato di turbativa d’asta anche quello di estorsione.

La risoluzione del contrasto eliminerebbe fattori di imprevedibilità circa l’ambito applicativo delle due richiamate fattispecie di reato e ingiustificate, casuali, disparità di trattamento, contrastanti con il principio della certezza del diritto (o “legal certainty” o “sécurité juridique”), riaffermato reiteratamente dalla Corte europea dei diritti dell’uomo quale valore fondamentale, benché non espressamente codificato, inteso innanzitutto come esigenza di stabilità delle situazioni giuridiche e di affidamento del pubblico nella giustizia (Corte eur. dir. uomo, sez. II, 9 febbraio 2016).

Un orientamento ritiene infatti che il fine del conseguimento di un ingiusto profitto con altrui danno patrimoniale, elemento costitutivo del reato di estorsione, è del tutto estraneo al reato di cui all’art. 353 c.p., connotato, invece, dal dolo generico; ulteriormente, il reato di turbata libertà degli incanti si consuma nel momento e nel luogo in cui, con l’uso di uno dei mezzi previsti dalla legge, si è impedita o turbata la gara, senza che occorra né la produzione di un danno, né il conseguimento di un profitto.

Tuttavia, alcune pronunce hanno ricondotto il danno dell’estorsione nella lesione dell’autonomia negoziale, ossia nella libertà di regolamentare i propri interessi, idonee in astratto a dar luogo a problemi incidenti alla configurabilità del concorso dei reati in questione.

Una isolata pronuncia (Cass., sez. VI, 3 marzo 2004, n. 19607) ha escluso il concorso di reati facendo leva sulla natura pluri-offensiva del reato di cui all’art. 353 cod. pen., idonea a comprendere anche gli interessi sottesi all’art. 629 cod. pen., piuttosto che sul confronto degli elementi costitutivi dei due reati.

Secondo altre, invece, il danno del reato potrebbe consistere nella perdita di chance. Alcune, nell’affermare che il danno del delitto di estorsione possa individuarsi nella perdita dell’aspettativa del soggetto di conseguire vantaggi economici favorevoli, non aggiungono altro, al fine di descrivere meglio e il significato della categoria indicata, facendo quindi riferimento a qualsiasi chance.

Altre sentenze, invece, nel dare rilievo alla chance, precisano che deve trattarsi di una situazione connotata da una consistente probabilità di successo: definizione, questa, che evoca l’approdo cui sono pervenute la dottrina e la giurisprudenza civile riguardo a tale categoria.

Più nello specifico, si è affermato che la lesione di una legittima aspettativa e il danno patrimoniale conseguente sarebbe dovuto essere inteso come danno futuro, consistente non già nella perdita di un vantaggio economico, ma della mera possibilità di conseguirlo, secondo una valutazione da formularsi ex ante e da ricondursi, diacronicamente, al momento in cui il comportamento illecito ha inciso su tale possibilità in termini di conseguenza dannosa potenziale.

La Corte adita coglie inoltre l’occasione per approfondire il significato del termine chance, citando altresì la sentenza civile 24050/2023: l’etimologia della parola chance deriva infatti dall’espressione latina cadentia, che indica il cadere dei dadi e sta a significare la “buona probabilità di riuscita”, delineando due categorie per le quali occorre distinguere fra probabilità di riuscita (chance risarcibile) e mera possibilità di conseguire l’utilità sperata (chance irrisarcibile), dando quindi rilevanza alla chance intesa come una situazione teleologicamente orientata verso il conseguimento di un’utilità o di un vantaggio, caratterizzata da una possibilità di successo presumibilmente non priva di consistenza.

Alla luce del contrasto posto all’attenzione della Corte, questa ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite, al fine di definire se nella nozione di danno patrimoniale di cui all’art. 629 c.p. possa rientrare anche la perdita dell’aspettativa di conseguire un vantaggio economico, con conseguenti ripercussioni sulla sussistenza o meno di un danno rilevante ai sensi dell’art. 629 c.p. e, quindi, sulla configurabilità del concorso del delitto di estorsione con quello di turbata libertà degli incanti, nell’ipotesi di allontanamento, con violenza o minaccia, di offerenti da una gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. II, 27 aprile, 2016 n. 41433; Cass., sez. V, 16 febbraio, 2017 n. 18508
Difformi:      Cass., sez. VI, 3 marzo 2004, n. 19607