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Recidiva qualificata e circostanza ad effetto speciale Il limite dell’aumento della pena correlato al riconoscimento della recidiva qualificata previsto dall’art. 99, comma 6, c.p., incide sulla qualificazione della recidiva prevista dall’art. 99, commi 2 e 4, c.p., come circostanza ad effetto speciale?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bruna Aloi, Beatrice Doretto, Antonino Ripepi, Serena Suma e Chiara Tapino

 

Il limite all’aumento di cui alla previsione dell’art. 99, comma 6, c.p., non rileva in ordine alla qualificazione della recidiva, come prevista dal secondo e dal quarto comma del già menzionato articolo, quale circostanza ad effetto speciale, e non influisce sui termini di prescrizione determinati ai sensi degli artt. 157 e 161 c.p., come modificati dalla L. 251/2005. – Cass. Sez. Un., 29 luglio 2022, n. 30046

Nel caso di specie la Suprema Corte, riunita in Sezioni Unite, è stata chiamata a valutare la incidenza del limite all’aumento di pena di cui all’art. 99, comma 6, c.p., rispetto alla qualificazione di circostanza ad effetto speciale della recidiva prevista dall’art. 99, commi 2 e 4, c.p., nonché la eventuale influenza dello stesso ai fini del computo del termine di prescrizione di cui all’art. 157 c.p.

La questione rimessa all’attenzione delle Sezioni Unite si fonda invero su due distinti profili.

Il primo profilo attiene alla natura qualificata della recidiva, che comporta un aumento della pena fino alla metà, della metà o di due terzi ai sensi dell’art. 99, commi 2, 3 e 4, c.p., eventualmente contestata con l’applicazione della disposizione di cui all’art. 99, comma 6, c.p. quando determina un aumento della pena in misura pari o inferiore ad un terzo.

Il secondo profilo attiene agli effetti dell’applicazione del limite dell’aumento di pena di cui all’art. 99, comma 6, c.p. sul calcolo del termine di prescrizione, tanto minimo, ai sensi dell’art. 157 c.p., quanto massimo, dovuto all’ulteriore aumento stabilito dall’art. 161, comma 2, c.p., attesa la presenza di atti interruttivi nel corso del processo.

Le Sezioni Unite a tal proposito hanno evidenziato i due contrapposti orientamenti riconoscibili nella giurisprudenza di legittimità sul tema oggetto della questione rimessa.

Secondo l’orientamento maggioritario, la contestazione di una circostanza qualificata ai sensi dell’art. 99, commi 2, 3 e 4, c.p., comporta che di essa, parificata alla circostanza ad effetto speciale, debba tenersi conto ai fini del calcolo dei termini di prescrizione di cui all’art. 157 c.p. Tuttavia, il suddetto calcolo prescrizionale dovrebbe tener conto altresì del limite quantitativo all’aumento di pena, di cui la previsione dell’art. 99, comma 6, c.p. svolge effetto mitigatore (Cass., sez. V, 24 settembre 2019, n. 44099).

Contrariamente, il limite fissato dall’art. 99, comma 6, c.p. ai fini della determinazione della pena, non incide sulle modalità di calcolo del termine massimo di prescrizione, di cui all’art. 161, comma 2, c.p., in quanto tale computo avviene secondo aumenti secchi fissati nella misura della metà o di due terzi.

Secondo il contrario orientamento giurisprudenziale, l’applicazione del limite di aumento di cui all’art. 99, comma 6, c.p., ai fini del computo della pena, comportando un aumento della stessa pena base in misura pari o inferiore ad un terzo, inciderebbe sulla natura della recidiva, escludendone la qualificazione di circostanza ad effetto speciale ai fini del computo del termine di prescrizione di cui all’art. 157 c.p.

In relazione al primo punto della questione, la Suprema Corte ha ricordato quanto stabilito da plurime pronunce giurisprudenziali delle Sezioni Unite, che hanno riconosciuto la natura di circostanza ad effetto speciale alle suddette recidive qualificate, in quanto le stesse soggiacciono ad una valutazione comparativa con eventuali circostanze attenuanti e rientrano nel novero delle circostanze ad effetto speciale di cui all’art. 649bis c.p. (Cass. Sez. Un. 25 ottobre 2018, n. 20808; Cass. Sez. Un. 24 settembre 2020, n. 3585).

Inoltre, secondo una ulteriore pronuncia giurisprudenziale cui le Sezioni Unite aderiscono, la natura di una circostanza, tanto comune quanto ad effetto speciale, non può derivare dal meccanismo relativo all’aumento di pena previsto dall’art. 63 c.p. per le circostanze ulteriori rispetto a quella più grave, in quanto ispirato al criterio del cumulo giuridico (Cass. Sez. Un. 8 aprile 1998, n. 16). Se così non fosse, la medesima circostanza cambierebbe natura, da circostanza comune a circostanza ad effetto speciale, a seconda se contestata da sola o dalla posizione assunta nell’ordine di gravità delle circostanze concorrenti.

Pertanto, l’aumento di pena in conseguenza dell’applicazione del limite di cui all’art. 99, comma 6, c.p., in misura pari o inferiore ad un terzo, non incide sulla natura della recidiva qualificata di cui all’art. 99, commi 2, 3 e 4, c.p., la cui natura di circostanza aggravante ad effetto speciale rimane immutata.

In relazione al secondo punto, le Sezioni Unite hanno analizzato la riscrittura della disciplina codicistica effettuata dalla L. 251/2005 in tema di calcolo del temine minimo e massimo di prescrizione di cui agli artt. 157, comma 2, c.p. e 161, comma 2, c.p., evidenziando come il momento del computo della pena ai fini del calcolo del termine di prescrizione, che si effettua secondo criteri oggettivi, generali e astratti, vada tenuto distinto dal momento di determinazione della pena da irrogare al condannato, che si fonda su criteri concreti e soggettivi. Inoltre, pur essendo circostanza soggettiva del reato, in quanto inerente alla persona del colpevole, la recidiva qualificata è espressione del maggior disvalore del fatto di reato in senso oggettivo, tale da giustificare un regime più severo nel computo del decorso dei termini di prescrizione.

Le Sezioni Unite hanno infine richiamato quanto stabilito dalla Corte Costituzionale, la quale ha individuato un parallelismo tra le disposizioni dettate dall’art. 157, comma 2, c.p. e dall’art. 161, comma 2, c.p., in quanto la recidiva qualificata, prima ancora di determinare un allungamento del termine massimo, incide sul termine ordinario di prescrizione del reato (Corte Cost. ord. 34/2009).

Pertanto, la Suprema Corte ha stabilito che il limite all’aumento di pena di cui all’art. 99, comma 6, c.p., non rileva in ordine alla natura della recidiva qualificata quale circostanza ad effetto speciale e non influisce sul calcolo del termine di prescrizione, tanto minimo ai sensi di cui all’art. 157, comma 2, c.p., quanto massimo ai sensi dell’art. 161, comma 2, c.p., discostandosi dall’orientamento maggioritario.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. Sez. Un. 25 ottobre 2018, n. 20808; Cass. Sez. Un. 24 settembre 2020, n. 3585
Difformi:      Cass., sez. III, 3 novembre 2020, n. 34949
condizionatori condominio

Condizionatori in condominio: vanno rimossi se non autorizzati I motori dei condizionatori presenti nella facciata condominiale sono innovazioni che ledono il decoro del condominio e vanno rimossi se non autorizzati

Motori dei condizionatori in facciata: innovazione lesiva

I motori esterni dei condizionatori posizionati nella facciata del Condominio rappresentano un’innovazione che richiede la preventiva autorizzazione dell’assemblea condominiale. Vanno quindi rimossi i motori dei condizionatori dismessi e inutilizzati sorretti dai loro supporti e posizionati in facciata perché ledono l’estetica del Condominio e sono comunque suscettibili di recare molestia e danni diretti o indiretti. Questa in sintesi la decisione del Tribunale di Milano contenuta nella sentenza n. 4074-2024.

Rimozione motori dei condizionatori in condominio

Un condominio agisce in giudizio per ottenere la rimozione dei motori esterni dei condizionatori posizionati da un condomino sul muro condominiale, ma oramai dismessi sui supporti che li sorreggono. Per il condominio i motori dei condizionatori sono stati apposti illegittimamente, in violazione dell’art. 29 del regolamento condominiale. Chiede quindi il ripristino dello stato dei luoghi.

Innovazione o opera per miglior godimento delle parti comuni?

Il Tribunale rileva che la presenza dei motori è stata in effetti confermata da un teste e da alla dettagliata documentazione fotografica prodotta. Per il Tribunale, ai fini del decidere, è necessario stabilire se l’installazione dei motori dei condizionatori configurino una violazione del regolamento condominiale perché innovazione non autorizzata o se debbano essere qualificate piuttosto come opere finalizzate semplicemente al migliore godimento delle parti comuni del condominio.

Per arrivare alla decisione il Tribunale ricorda, prima di tutto che, la decisione n. 2846/1982 della Corte di Cassazione ha chiarito che: devono intendersi per innovazioni della cosa comune… le modificazioni materiali di essa che ne importino l’alterazione dell’entità sostanziale o il mutamento della sua originaria destinazione. Pertanto, non costituiscono innovazioni… le modificazioni della cosa comune dirette a potenziare o a rendere più comodo il godimento della medesima, che ne lascino tuttavia immutata la consistenza e la destinazione, in modo da non turbare l’equilibrio tra i concorrenti interessi tra condomini.” 

Il termine “innovazione” va quindi interpretato nel senso che deve trattarsi di un’opera nuova, anche se non tutte le opere nuove sono innovazioni. Non sono innovazioni infatti le opere finalizzate a migliorare e potenziare un bene o un servizio preesistenti.

Analizzando il caso di specie il Tribunale giunge alla conclusione che l’installazione dei condizionatori e dei relativi motori ha comportato sicuramente un’innovazione e che pertanto avrebbe necessitato della preventiva autorizzazione dell’assemblea. L’articolo 29 del regolamento condominiale sancisce infatti il divieto di eseguire opere o varianti all’immobile se danneggiano la stabilità e l’estetica e se recano molestia, danni diretti o indiretti e per la loro realizzazione richiede la preventiva autorizzazione dell’amministratore in forma scritta. Poiché nel caso di specie non è stata fornita alcuna prova dell’autorizzazione dell’amministratore o dell’assemblea condominiale, il Tribunale dispone che i condizionatori, dimessi e inutilizzati, vengano rimossi a spese e cura del convenuto perché installati in violazione dell’articolo 29 del regolamento condominiale.

vendita aliud pro alio

Vendita aliud pro alio: i chiarimenti della Cassazione Si ha vendita aliud pro alio se il bene consegnato, appartenendo ad un genere diverso da quello pattuito, si riveli funzionalmente inidoneo ad assolvere allo scopo economico-sociale della res promessa

Inadempimento per vendita aliud pro alio

La vicenda in esame prende avvio dall’inadempimento di un fornitore di calcestruzzo, rispetto al quale la società cliente aveva agito in giudizio per far valere la responsabilità contrattuale dello stesso. Il Tribunale adito concludeva il proprio esame affermando, per quanto qui rileva, la sussistenza di un’ipotesi di vendita aliud pro alio.

Avvero tale decisione il fornitore aveva proposto ricorso presso la Corte d’Appello di Perugia per accertare l’erronea qualificazione dell’inadempimento quale consegna di aliud pro alio.

Il Giudice di secondo grado aveva ridotto l’entità del risarcimento del danno e aveva confermato gli esiti del Tribunale in ordine alla qualificazione dell’inadempimento del fornitore in termini di vendita di aliud pro alio.

Tale decisione veniva impugnata dal fornitore che aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione con un unico motivo svolto denunciando, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la violazione dell’articolo 111, sesto comma, cost, per avere la Corte di merito adottato una motivazione apparente nel confermare la sentenza di primo grado quanto alla integrazione di una ipotesi di vendita di aliud pro alio per la fornitura di calcestruzzo di minor resistenza, inidoneo all’uso previsto, sulla scorta del rinvio agli accertamenti peritali eseguiti.

Vendita aliud pro alio e mancanza di qualità promesse

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 13214-2024, ha accolto il motivo di ricorso e ha cassato la sentenza impugnata, rinviando la causa alla Corte d’appello di Perugia, in diversa composizione, anche per la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.

In particolare, la Corte ha riferito che, nel caso in esame, dalle risultanze della sentenza impugnata “il bene alienato (…) non era comunque sfruttabile (recte “idoneo”) per la sua destinazione (…), senza che sia stato precisato il quomodo della genericamente richiamata inidoneità e senza che sia emerso che, in conseguenza della sua natura, sia stata comunque compromessa la ratio giustificativa per la quale il negozio era stato stipulato”.

La Corte ha chiarito che, in tema di compravendita “il vizio redibitorio (art. 1490 c.c.) e la mancanza di qualità promesse o essenziali (1497 c.c.), presupponendo l’appartenenza della cosa al genere pattuito, differiscono dalla consegna di aliud pro alio, che si determina quando la cosa venduta appartenga ad un genere del tutto diverso o presenti difetti che le impediscano di assolvere alla sua funzione naturale o a quella ritenuta essenziale dalle parti”.

Al contrario, viene in rilievo l’ipotesi di vendita aliud pro alio, che dà luogo all’azione contrattuale di risoluzione ai sensi dell’art. 1453 c.c., se “il bene consegnato sia completamente eterogeneo rispetto a quello pattuito, per natura, individualità, consistenza e destinazione, cosicché, appartenendo ad un genere diverso, si riveli funzionalmente del tutto inidoneo ad assolvere allo scopo economico-sociale della res promessa e, quindi, a fornire l’utilità presagita”.

Il principio di diritto

Sulla scorta di quanto sopra riferito, la Cassazione ha cassato la sentenza impugnata, con rinvio della causa alla Corte d’appello, la quale dovrà decidere uniformandosi al seguente principio di diritto “Sussiste consegna di aliud pro alio, che dà luogo all’azione contrattuale di risoluzione ai sensi dell’articolo 1453 del codice civile, qualora il bene consegnato sia completamente eterogeneo rispetto a quello pattuito, per natura, individualità, consistenza e destinazione, cosicché, appartenendo ad un genere diverso, si riveli funzionalmente del tutto inidoneo ad assolvere allo scopo economico-sociale della res promessa e, quindi, a fornire l’utilità presagita. Questo è il principio affermato dalla Corte di cassazione con ordinanza del 14 maggio 2024, n. 13214”.

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Niente tenuità per il “nonno” spacciatore La Cassazione ha confermato la decisione del giudice di merito con cui veniva stabilito che, ai fini del riconoscimento della particolare tenuità del fatto, l’età dell’imputato non rileva

Illecita detenzione di sostanze stupefacenti

Nel caso in esame, la Corte d’appello di Roma aveva confermato la decisione del Giudice di primo grado con cui gli imputati venivano condannati per i reati di cui all’art. 73, comma 5, DPR n. 309/1990, per avere, in concorso tra loro, illecitamente detenuto per la cessione a terzi di sostanza stupefacente di tipo cocaina.

Avverso tale decisione gli imputati avevano proposto ricorso dinanzi la Corte di Cassazione, evidenziando, in particolare, gli indici per l’accertamento della tenuità del fatto quali, per quanto qui rileva, l’età avanzata degli imputati. Secondo i ricorrenti tali elementi non erano stati oggetto di valutazione da parte della Corte d’appello.

Nessuna tenuità del fatto per lo spacciatore ultraottantenne

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 22017-2024, ha rigettato i ricorsi proposti e ha condannato i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Nella specie, i ricorrenti hanno evidenziato molteplici elementi che costituiscono indici positivi per l’accertamento della tenuità del fatto e che, secondo gli stessi, non erano stati oggetto di valutazione da parte della Corte d’appello, quali “l’età, l’assenza di precedenti penali recenti, l’assenza di carichi pendenti, le precarie condizioni di salute, lo svolgimento, in modo regolare e continuativo (…) dell’attività lavorativa, il mancato reperimento, durante la perquisizione, di materiale da taglio o da confezionamento della sostanza stupefacente”.

Rispetto al ricorso proposto, la Corte ha anzitutto ripercorso i fatti di causa, dai quali era emerso che “la condotta contestata ai ricorrenti concerneva la detenzione ai fini di cessione di 15,6 grammi di cocaina, suddivisi in 13 involucri di un grammo ciascuno circa, da cui era possibile trarre un numero considerevole di dosi, pari a 66, non potendosi ritenere l’offesa come di particolare tenuità sotto il profilo della esiguità del danno o del pericolo”.

Rispetto a tali circostanze, ha riferito la Corte, il Giudice di merito aveva tenuto in considerazione ai fini della decisione il significativo quantitativo di sostanza detenuta, nonché la personalità negativa degli imputati, entrambi gravati da precedenti penali.

In relazione alla doglianza formulata dai ricorrenti circa il mancato riconoscimento, da parte del Giudice di merito, delle attenuanti generiche, la Corte ha riferito altresì che gli elementi difensivi proposti dai ricorrenti non assumono rilievo determinante ai fini del riconoscimento delle invocate attenuanti e ciò considerato il fatto che il giudice di merito “non è tenuto ad esaminare e valutare tutte le circostanze prospettate o prospettabili dalla difesa, ma è sufficiente che indichi i motivi per i quali non ritiene di esercitare il potere discrezionale attribuitogli dall’art. 62 bis cod. pen.”.

Niente tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p.

La Cassazione ha pertanto evidenziato come, la Corte territoriale, avendo negato l’attribuzione delle attenuanti generiche, ha evidenziato la gravità del fatto in relazione alla quantità di sostanza detenuta e alla personalità degli imputati.

Sulla scorta di quanto sopra, la Corte ha pertanto confermato gli esiti del giudizio di merito e ha ritenuto che, nel caso di specie, non venga in rilievo la tenuità del fatto a norma dell’art. 131-bis c.p., secondo quanto richiesto dai ricorrenti.

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body shaming

Body shaming Cos'è il body shaming e cosa prevede la proposta di legge che vuole istituire la giornata nazionale contro la denigrazione dell'aspetto fisico

Cos’è il body shaming

Il body shaming è l’atto di deridere o discriminare una persona per il suo aspetto fisico. Questo comportamento prende di mira qualsiasi caratteristica fisica, colpendo chiunque non aderisca ai canoni estetici della società. Questi standard estetici, spesso irrealistici e non rappresentativi della maggioranza, possono indurre vergogna e colpevolizzazione nelle vittime, causando problemi di autostima, ansia, depressione, disturbi alimentari e, in casi estremi, suicidio. Il fenomeno colpisce soprattutto gli adolescenti, le ragazze in particolare, ma non sono immuni da derisioni e offese neppure gli adulti. I canali più utilizzati sono i social network, che hanno un impatto considerevole a causa della potenziale capacità diffusiva dei messaggi denigratori.

Body shaming: giornata nazionale per la sensibilizzazione

La proposta di legge A.C. 1049, presentata dalla parlamentare Martina Semenzato, mira a istituire una Giornata Nazionale contro la denigrazione dell’aspetto fisico 16 maggio di ogni anno. Questa iniziativa si propone di sensibilizzare il pubblico sui danni del body shaming, un fenomeno odioso di derisione e discriminazione basato sull’aspetto fisico delle persone.

Il testo della proposta, presentata il 28 marzo 2023, è in corso di esame alla Commissione Affari sociali in sede referente.

Proposta di legge: cosa prevede

La proposta di legge si articola in sei punti principali:

  • Istituire una Giornata Nazionale contro il body shaming il 16 maggio con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sui comportamenti offensivi e promuovere le iniziative necessarie per prevenirli.
  • Invitare le istituzioni pubbliche, le organizzazioni della società civile e le associazioni a promuovere eventi e campagne informative per contrastare il body shaming nella giornata dedicata, favorendo l’accettazione del proprio corpo e il rispetto per gli altri.
  • Dare le disposizioni necessarie alle scuole di ogni ordine e grado affinché organizzino iniziative didattiche e momenti di riflessione sul fenomeno del body shaming e le sue conseguenze in occasione della celebrazione della Giornata Nazionale.
  • Rimettere alle istituzioni pubbliche e alle associazioni la promozione di campagne di sensibilizzazione sui media, informando il pubblico sulle gravi conseguenze del body shaming e incoraggiando un uso consapevole del linguaggio e delle tecnologie digitali.
  • Assicurare che il servizio pubblico radiotelevisivo dedichi spazio adeguato ai temi legati alla Giornata Nazionale, sensibilizzando il pubblico attraverso la programmazione nazionale e regionale.

L’importanza della sensibilizzazione

La proposta di legge sottolinea l’importanza di una disciplina unitaria a livello nazionale per affrontare il body shaming. La sensibilizzazione attraverso campagne informative, eventi nelle scuole e l’uso responsabile dei media e delle tecnologie digitali rappresenta un passo cruciale per combattere questo fenomeno e promuovere una cultura del rispetto e dell’inclusione.

Parlamentari: opinioni insindacabili anche sui social La Corte Costituzionale ha chiarito che anche se rese sui social le opinioni dei parlamentari nell'esercizio delle funzioni, se rispettose della dignità dei terzi, rimangono insindacabili

Opinioni parlamentari art. 68 Cost.

Le opinioni dei parlamentari rese fuori dalle sedi delle Camere, finanche sui social media, sono insindacabili ai sensi dell’art. 68, primo comma, Cost. al fine di proteggere da condizionamenti lo svolgimento del mandato. Devono però pur sempre essere qualificabili come opinioni ed essere connesse all’esercizio della funzione parlamentare, oltre che essere espresse in forme improntate al rispetto della dignità dei terzi. Lo ha chiarito e ribadito la Corte Costituzionale con la sentenza n. 104-2024, respingendo il conflitto di attribuzione promosso dal Tribunale di Milano contro la Camera dei deputati, che aveva affermato l’insindacabilità delle dichiarazioni rese dall’allora deputato Carlo Fidanza in un video su Facebook pubblicato nel dicembre 2018.

Il video incriminato

Nel video, il deputato Fidanza aveva espresso affermazioni critiche in ordine a una mostra – intitolata “Porno per bambini” – che si sarebbe dovuta tenere in un locale a Milano. Due giorni dopo, a tal proposito aveva presentato un’interrogazione parlamentare.

A seguito di querela per diffamazione presentata nel febbraio 2019, la Camera dei deputati – su richiesta del Tribunale di Milano – nel gennaio 2023 aveva deliberato che quelle affermazioni erano opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari, in quanto tali insindacabili ai sensi dell’art. 68, primo comma, Cost.

Il Tribunale di Milano, ritenendo invece che esse fossero espressione del diritto di critica di cui all’art. 21 Cost., aveva promosso il conflitto, ritenendo impedito l’accertamento, che spetta all’autorità giudiziaria, circa il superamento o meno dei limiti alla libertà di manifestazione del pensiero.

La decisione della Consulta

La Corte ha respinto il ricorso ribadendo che l’insindacabilità delle opinioni prevista dall’art. 68, primo comma, Cost. vuole garantire alle Camere che i parlamentari possano svolgere nel modo più libero la rappresentanza della Nazione delineata dall’art. 67 Cost.

Escludendo ogni forma di responsabilità giuridica, ha affermato la Consulta, “la Costituzione pone dunque una deroga al principio di parità di trattamento davanti alla giurisdizione, tanto più delicata in quanto l’opinione espressa dal parlamentare può collidere con beni della persona – onore, reputazione, dignità – qualificati come inviolabili. Proprio in ragione del necessario contemperamento degli interessi in gioco, la Costituzione non protegge qualsivoglia opinione, ma soltanto quella resa nell’esercizio della funzione parlamentare, indipendentemente dal luogo in cui essa venga espressa”.

Il giudice delle leggi “ha sottolineato che il punto d’equilibrio tra gli antagonisti valori va ricercato necessariamente in concreto, dapprima per opera delle Camere e del potere giudiziario, poi ed eventualmente in sede di conflitto di attribuzione. A tal fine, quando si tratti di opinioni rese fuori dalle sedi parlamentari – e sempre che di opinioni si tratti e non, ad esempio, di insulti o minacce – la giurisprudenza costituzionale ha considerato indici rivelatori dell’esistenza della connessione con l’esercizio delle funzioni parlamentari la sostanziale corrispondenza con opinioni espresse nell’esercizio di attività parlamentare tipica e la sostanziale contestualità temporale fra tale ultima attività e l’attività esterna. In tali circostanze, infatti, pur nell’ineliminabile diversità degli strumenti e del linguaggio adoperato, le opinioni rese fuori dalle sedi vogliano dar conto del significato dell’attività compiuta nell’esercizio del mandato. Ciò non toglie che anche ad opinioni non connesse ad atti parlamentari possa essere applicato l’art. 68, primo comma, Cost., quando sia evidente e qualificato il nesso con l’esercizio della funzione parlamentare. In eventualità del genere, lo scrutinio della Corte deve essere particolarmente rigoroso, in ragione dei contrapposti interessi costituzionali e per evitare che l’immunità si trasformi in privilegio”.

Deve trattarsi, dunque, “non di opinioni politiche che può esprimere ogni cittadino nei limiti di cui all’art. 21 Cost., ma di opinioni funzionali all’esercizio del mandato parlamentare e della rappresentanza della Nazione: opinioni dunque che, proprio perché espressive di una funzione così alta, siano «improntate al rispetto della dignità dei destinatari della critica e della denuncia politica, in specie quando questi non siano a loro volta parlamentari: e ciò tanto più quando l’opinione è espressa per mezzo dei moderni mezzi di comunicazione – quali testate giornalistiche online o social media – che la rendono agevolmente reperibile e oggetto di ulteriore diffusione»”.

Applicando tali principi, la Consulta ha ritenuto che la Camera dei deputati abbia correttamente valutato che le dichiarazioni dell’allora deputato fossero opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari. Esse, infatti, “erano funzionali a rappresentare, nella prospettiva del deputato, interessi generali, come d’altronde testimoniato dalla contestuale presentazione dell’interrogazione parlamentare, del tutto corrispondente nel suo significato, al di là della fisiologica diversità delle modalità espressive, alle affermazioni rese nel video pubblicato su Facebook”.

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testimonianza prossimo congiunto

La testimonianza del prossimo congiunto Sollevata l'incostituzionalità dell’art. 199 c.p.p co. 1 nella parte in cui non prevede l’astensione per la persona offesa dal testimoniare contro il prossimo congiunto

Testimonianza penale: facoltà di astensione dei prossimi congiunti

L’ordinanza del tribunale di Firenze, I sezione penale, del 12 febbraio 2024 solleva una questione di legittimità costituzionale dell’art. 199, comma 1, c.p.p.. La disposizione prevede, nello specifico, che i prossimi congiunti dell’imputato non siano obbligati a testimoniare, il tutto al fine di bilanciare l’interesse pubblico all’accertamento della verità e quello privato alla tutela del rapporto familiare.

Il Tribunale di Firenze, nello specifico, solleva la questione di legittimità costituzionale in relazione all’articolo 199 comma 1 c.p.p per violazione degli artt. 3, 27 comma 2, 29 e 117 della Costituzione, in relazione all’art. 8 della CEDU, contestando l’eccezione che obbliga i prossimi congiunti a testimoniare quando essi o un loro prossimo congiunto sono persone offese dal reato o quando hanno presentato denuncia, querela o istanza.

Per identificare i soggetti che beneficiano del diritto al silenzio è necessario il richiamo al contenuto  dell’art. 307 c.p, che identifica, agli effetti della legge penale, i prossimi congiunti, includendo parenti stretti e affini, ampliati successivamente anche alle unioni civili tra persone dello stesso sesso.

Il Giudice remittente precisa comunque che lo status di prossimo congiunto che giustifica l’astensione dal diritto di testimoniale va riferito al processo, non al momento in cui il reato viene commesso. Solo durante il processo infatti sorge il contrasto tra l’obbligo di dire la verità e la volontà di non danneggiare il congiunto imputato.

La facoltà di astenersi comunque non esclude a priori la testimonianza del familiare, ma affida al giudice la valutazione della sua utilità e veridicità, con la possibilità di responsabilità penale per falsa testimonianza. Se un congiunto sceglie di testimoniare, deve farlo infatti secondo verità, pena la punibilità per falsa testimonianza.

Irragionevole non tutelare il rapporto familiare quando il teste è la persona offesa

L’art. 199 c.p.p obbliga i congiunti a testimoniare se hanno presentato denuncia o querela, o se loro stessi o un loro congiunto sono offesi dal reato.

Dubbia per il remittente la ragionevolezza dell’eccezione contemplata dall’art. 199 c.p.p. Il vincolo affettivo che caratterizza i contesti familiari, è privato della sua tutela nel momento in cui la persona offesa dal reato è esposta al rischio concreto di commettere falsa testimonianza al fine di tutelare il proprio familiare.

Non tutelare il rapporto familiare quando il teste è persona offesa dal reato è infatti irragionevole se il giudizio di non meritevolezza è limitata al processo in cui viene contestato il reato ai danni del prossimo congiunto. In un processo eventuale ed ulteriore a carico dello stesso soggetto, ma per altri fatti, il medesimo prossimo congiunto potrebbe infatti regolarmente avvalersi della facoltà di non testimoniare.

Illegittimità costituzionale art. 199 comma 1 c.p.p.

Il Tribunale richiede quindi alla Corte Costituzionale di dichiarare illegittima la norma di quell’articolo 199 co. 1 c.p.p, nella parte in cui, con riguardo alla facoltà dei prossimi congiunti dell’imputato di astenersi dal deporre, prevede un’eccezione per la persona offesa dal reato anche nell’ipotesi in cui la deposizione del prossimo congiunto non sia assolutamente necessaria per l’accertamento dei fatti.

giurista risponde

Reato di corruzione: come provarlo L’accertamento dell’avvenuta dazione di denaro o di altra utilità in favore del pubblico ufficiale è sufficiente a provare il reato di corruzione o ne costituisce un mero indizio?

Quesito con risposta a cura di Annachiara Forte e Caterina Rafanelli

 

Ai fini dell’accertamento del reato di corruzione, nell’ipotesi in cui risulti provata la dazione di denaro o di altra utilità in favore del pubblico ufficiale, è necessario dimostrare che il compimento dell’atto sia stato la causa della prestazione dell’utilità e della sua accettazione da parte del pubblico ufficiale, non essendo sufficiente a tal fine la mera circostanza dell’avvenuta dazione.

La prova della dazione indebita di un’utilità in favore del pubblico ufficiale, quindi, ben può costituire un indizio, sul piano logico, ma non anche, da solo, la prova della finalizzazione della stessa al comportamento anti-doveroso del pubblico ufficiale: è pertanto necessario valutare tale elemento unitamente alle circostanze di fatto acquisite al processo, in applicazione della previsione di cui all’art. 192, comma 2, c.p.p. – Cass., sez. VI, 22 gennaio 2024, n. 2749.

Nel caso di specie la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi in materia di corruzione in atti giudiziari ai sensi degli artt. 318, 319ter, 321 c.p. L’indagato, titolare di un’impresa e accusato di un reato fiscale in separato procedimento, aveva ricevuto, da un tenente colonnello della guardia di finanza di sua conoscenza, consigli, consulenze tecniche, nonché una sollecitazione telefonica alla Procura della Repubblica in suo favore. Il contatto tra l’imprenditore e il pubblico ufficiale verteva sulla possibilità, per il primo, di ottenere il dissequestro di alcune somme di denaro: tale provvedimento veniva poi legittimamente emesso dal Pubblico Ministero, alla luce della sussistenza del diritto alla restituzione del suddetto importo.

Successivamente veniva disposta la misura degli arresti domiciliari nei confronti dell’indagato, al quale si addebitava un’ipotesi di corruzione in atti giudiziari, sotto forma di corruzione impropria. Si riteneva, infatti, che l’aiuto fornito dal colonnello avesse avuto come corrispettivo la disponibilità di un immobile di proprietà dell’imprenditore. Tale utilità era stata ottenuta sia prima, sia dopo la descritta condotta del pubblico ufficiale.

L’ordinanza veniva confermata dal Tribunale e, avverso la stessa, veniva proposto ricorso per Cassazione. In primo luogo, si riteneva insussistente l’asservimento della funzione, dal momento che il contegno del pubblico ufficiale sarebbe stato rispettoso del dovere della pubblica amministrazione di segnalare al contribuente anche gli elementi a suo favore – nel caso di specie, la possibilità di presentare istanza di restituzione dei soldi. In secondo luogo, si riteneva che l’ordinanza fosse viziata quanto alla motivazione circa il nesso di sinallagmaticità tra il comportamento del pubblico ufficiale e la disponibilità dell’immobile dallo stesso ottenuta. Dell’appartamento, infatti, egli aveva goduto in momenti del tutto lontani rispetto ai fatti oggetto del procedimento e, inoltre, si sarebbe trattato di un vantaggio sproporzionato per difetto rispetto alla ritenuta controprestazione.

La Corte di Cassazione ha giudicato il ricorso fondato, alla luce delle motivazioni che seguono. In via preliminare è stato ribadito che il reato di corruzione in atti giudiziari è in rapporto di specialità rispetto alle fattispecie di corruzione propria e impropria, dal momento che essa si caratterizza per il compimento del fatto corruttivo con la finalità di favorire o danneggiare una parte in un processo (Cass. pen., Sez. Un., 25 febbraio 2010, n. 15208).

I Supremi Giudici hanno poi ricostruito le modifiche introdotte dalla L. 6 novembre 2012, n. 190, in particolare quelle dell’art. 318 c.p. Il riferimento al compimento di uno o più atti amministrativi aveva, infatti, creato difficoltà in passato per tutti i casi diversi dal mercimonio di specifici atti e caratterizzati, piuttosto, dall’asservimento sistemico della parte pubblica a favore del soggetto privato. Di conseguenza, con l’intervento legislativo è stato eleminato il requisito dell’adozione di un atto amministrativo legittimo — che, in concreto, può anche del tutto mancare — a favore della specificazione per cui, nel caso di corruzione cosiddetta impropria, il patto criminoso ha ad oggetto la funzione pubblica nel suo complesso. Ad essere punito, cioè, è l’accordo con cui il pubblico ufficiale vende il ruolo da lui rivestito, attraverso la presa in carico degli interessi della parte privata che, a sua volta, crea un inquinamento diffusivo, con conseguenze non preventivabili.

Per quanto concerne i confini rispetto alla corruzione propria, invece, la Cassazione sottolinea come, prima della citata riforma, fosse possibile constatare una riduzione del campo di applicazione dell’art. 318 c.p., a favore dell’art. 319 c.p., per i casi di attività discrezionale. La giurisprudenza maggioritaria, infatti, riteneva che il fatto oggettivo di aver ricevuto denaro o altra utilità valesse a contaminare il processo decisionale del pubblico ufficiale: ne derivavano un’implicita violazione del principio di imparzialità, l’illegittimità dell’atto adottato e, conseguentemente, l’integrazione dell’art. 319 c.p. e non dell’art. 318 c.p. La sentenza in esame non si sofferma espressamente sugli effetti prodotti dalla riforma del 2012 su questo punto, ma è possibile constatare la presenza di due diverse interpretazioni: ad un orientamento in linea con la lettura prevalente in passato se ne contrappone un altro, secondo il quale occorre verificare se la presa in carico dell’interesse del privato da parte del pubblico ufficiale abbia davvero contaminato la cura dell’interesse pubblico. In caso di risposta negativa, il fatto deve essere ricondotto all’art. 318 c.p., con ciò evitando ragionamenti presuntivi (così Cass., sez. VI, 30 aprile 2021, n. 35927).

I Supremi Giudici hanno poi proseguito sottolineando che la corruzione, reato a concorso necessario, si caratterizza per la presenza di due condotte in reciproca saldatura e condizionamento. Da ciò viene fatta derivare la necessità che la realizzazione del contegno del pubblico ufficiale sia la giustificazione causale della dazione di denaro o di altra utilità, sebbene non ci sia, tra l’una e l’altra, un ordine cronologico inderogabile. La prova della dazione indebita, quindi, può costituire soltanto un indizio della realizzazione di un fatto di corruzione ed esso va valutato, come impone l’art. 192 c.p.p., unitamente ad altre circostanze di fatto che vadano nella stessa direzione ricostruttiva.

Nel caso di specie, i Giudici hanno ritenuto che il Tribunale non avesse sufficientemente motivato in ordine alla sussistenza di tale nesso causale: non era emerso in modo chiaro, infatti, il collegamento tra la condotta del pubblico ufficiale e il fatto che lo stesso avesse avuto, in alcune occasioni, la disponibilità dell’appartamento dell’indagato. A rendere poco evidente tale legame erano, in particolar modo, la non chiara corrispondenza temporale tra i due dati e, altresì, l’assenza di proporzionalità tra gli stessi.

Per questi motivi, la Cassazione ha accolto il ricorso, con annullamento dell’ordinanza impugnata e rinvio per un nuovo giudizio al Tribunale.

*Contributo in tema di “ Reato di corruzione ”, a cura di Annachiara Forte e Caterina Rafanelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 72 / Marzo 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

usi civici

Usi civici: cambio di destinazione per impianti rinnovabili La Consulta ha dichiarato non incostituzionale la legge regionale che prevede il mutamento di destinazione delle zone gravate da usi civici in caso di installazione di impianti di energie rinnovabili

Mutamento destinazione zone usi civici

Non è incostituzionale la legge regionale che prevede il mutamento di destinazione delle zone gravate da usi civici in caso di installazione di impianti di energie rinnovabili. Lo ha affermato la Corte Costituzionale con la sentenza n. 103-2024, decidendo alcune questioni di legittimità costituzionale promosse dal Governo nei confronti di varie disposizioni della legge della Regione Sardegna n. 9 del 2023.

In primo luogo, è stata esaminata la disciplina secondo la quale il mutamento di destinazione delle zone gravate da usi civici, in caso di installazione di impianti di produzione di energie rinnovabili, richiede il parere obbligatorio del comune in cui insistono le aree individuate.

Per il Governo ricorrente, tale disciplina violerebbe i limiti posti alle competenze legislative regionali dallo statuto speciale: in particolare, consentirebbe l’installazione degli impianti nonostante l’inidoneità delle predette zone a tali fini, desumibile dal d.lgs. n. 199 del 2021.

Non fondata la qlc

La Corte ha ritenuto tale questione non fondata, poiché lo stesso d.lgs. n. 199 del 2021 non comporta di per sé l’assoluta inidoneità delle zone gravate da usi civici all’installazione degli impianti, né comporta il divieto di mutarne la destinazione in conformità al regime degli usi civici.

Tavolo tecnico riforma usi civici

Con la stessa sentenza, la Corte ha dichiarato non fondate anche le questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni regionali che prevedono l’istituzione e la composizione di un «tavolo tecnico interassessoriale» per la riforma dell’intera materia degli usi civici in Sardegna, poiché tale riforma dovrebbe limitarsi alla disciplina delle funzioni regionali in materia. Infine, sono state dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni regionali in tema di autorizzazione alla prosecuzione dell’esercizio degli sbarramenti idrici rientranti nella competenza della Regione Sardegna, poiché tali disposizioni non consentono di regolarizzare abusi paesaggistici.

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avvocato offende collega

L’avvocato non può dare dell’incapace al collega Il CNF ha affermato che qualora la discussione tra avvocati sconfini sul piano personale e soggettivo l’esigenza di tutela del decoro e della dignità professionale forense impone di sanzionare i relativi comportamenti

Apprezzamenti denigratori sull’attività del collega

Nel caso in esame un avvocato era stato sottoposto a procedimento disciplinare dal Consiglio Distrettuale di Disciplina di Ancona per rispondere della violazione dell’art. 42 comma 1 del cdf, per avere espresso apprezzamenti denigratori sull’attività professionale di un collega tramite l’invio di un’e-mail, e per aver reiterato tali valutazioni anche nei propri scritti difensivi.

L’avvocato aveva, in particolare, utilizzato frasi del seguente tenore “P.S. Un consiglio: domani dia un’occhiata alle mie memorie 183 e se le riesce si vergogni”, ovvero aveva espresso la seguente affermazione, contenuta nella memoria difensiva dell’avvocato, secondo cui il collega “nei suoi scritti aveva riportato “tesi assurde” che dimostravano “palmari carenze sul piano tecnico giuridico”. Ascrivendo alla stessa “una condotta pregiudizievole ai propri clienti”.

All’esito del dibattimento, il Consiglio Distrettuale Disciplinare (CDD) di Ancona, aveva ritenuto integrata la responsabilità disciplinare dell’avvocato nei confronti del quale era stato avviato il procedimento, per gli addebiti allo stesso contestato, con irrogazione della sanzione dell’avvertimento nei suoi confronti.

Avverso tale decisione l’avvocato incolpato aveva proposto ricorso dinanzi al Consiglio Nazionale Forense (CNF), chiedendo di dichiarare il suo proscioglimento e, per l’effetto, disporsi il non luogo a provvedimento disciplinare.

Il CNF conferma la decisione del CDD di Ancona

Il Consiglio Nazionale Forense, con sentenza n. 73-2024, ha rigettato il ricorso proposto.

In particolare, per quanto rileva nella presente sede, il CNF ha affermato che “gli apprezzamenti formulati dall’Avv. [RICORRENTE] sulla attività professionale della collega assumono, senz’altro, rilievo di natura denigratoria eccedendo il limite di compatibilità con le esigenze della dialettica processuale e dell’adempimento del mandato professionale né può essere invocato dal ricorrente il principio della riservatezza della corrispondenza atteso che il thema decidendum non riguarda in alcun modo ipotesi di trattative in corso fra le parti”.

Il CNF ha proseguito il proprio esame rilevando che “nel momento in cui la disputa abbia un contenuto oggettivo e riguardi le questioni processuali dedotte può, al limite, ammettersi l’asperità dei toni ma allorché la discussione sconfini sul piano personale e soggettivo l’esigenza di tutela del decoro e della dignità professionale forense impone di sanzionare i relativi comportamenti”.

Violazione art. 42, comma 1, Codice deontologico forense

Sulla scorta di quanto sopra riferito, Consiglio ha ritenuto pertanto integrata, nel caso di specie, la violazione dell’art. 42, comma 1, cdf, che vieta all’avvocato di esprimere apprezzamenti denigratori sull’attività professionale di un collega e, per l’effetto, ha confermato la sanzione dell’avvertimento a carico del ricorrente, condividendo le motivazioni espresse dal CDD di Ancona.

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