trust familiare

Il trust familiare Il trust familiare: cos’è, come funziona, qual è la sua disciplina, il funzionamento, i costi, vantaggi e svantaggi

Cos’è il trust familiare

Il trust familiare è un istituto giuridico che consente di destinare beni a uno scopo determinato, con l’affidamento della loro gestione a un trustee, nell’interesse di beneficiari designati. Viene spesso utilizzato per proteggere il patrimonio familiare, pianificare la successione e garantire il benessere dei propri cari.

Disciplina del trust familiare

In Italia, il trust non è regolato da una legge specifica, ma è riconosciuto grazie alla Convenzione dell’Aja del 1985 (ratificata con legge 364/1989). La normativa applicabile viene scelta nell’atto istitutivo del trust, solitamente secondo ordinamenti di common law. La giurisprudenza italiana, con alcune sentenze della Corte di Cassazione, ha chiarito importanti aspetto del trust (Cass. n. 8082/2020; Cass. n. 2043/2017, n. 19376/2017).

Come funziona il trust familiare

Il trust si costituisce mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata. I soggetti coinvolti sono:

  • il disponente: colui che trasferisce i beni al trust;
  • il trustee: l’amministratore dei beni secondo le regole dell’atto istitutivo;
  • i beneficiari: coloro che ricevono i benefici del trust;
  • il guardiano (facoltativo): sorveglia l’operato del trustee.

Quando conviene istituirlo

Il trust familiare è utile per:

  • la pianificazione successoria: evitare divisioni ereditarie conflittuali;
  • la protezione del patrimonio: mettere al riparo i beni da azioni esecutive;
  • la tutela di soggetti deboli: garantire assistenza a familiari disabili o minori.

Quanto costa istituire un trust familiare

I costi variano in base alla complessità dell’atto e al valore dei beni coinvolti. Solitamente comprendono:

  • il compenso del notaio (per l’atto pubblico);
  • gli onorari dell’avvocato;
  • le eventuali imposte di registro e ipocatastali;
  • il compenso annuale del trustee

Vantaggi e svantaggi del trust familiare

Come tutti gli istituti giuridici il trust familiare presenta aspetti positivi e negativi.

Vantaggi

  • Tutela patrimoniale: separazione dei beni dal patrimonio personale.
  • Riservatezza: il trust non è pubblicamente consultabile.
  • Flessibilità: personalizzazione delle clausole per esigenze familiari.

Svantaggi

  • Costi elevati: sia iniziali sia di gestione.
  • Complessità giuridica: richiede consulenza legale specializzata.
  • Contenziosi fiscali: possibile conflitto con l’Agenzia delle Entrate.

Giurisprudenza rilevante

Ecco alcune importanti sentenze sul trust familiare:

Cassazione n. 3886/2015: “L’atto denominato trust, funzionale, quoad effectum, all’applicazione di un regolamento equiparabile a un fondo patrimoniale, va qualificato ai fini tributari come atto costitutivo di vincolo di destinazione, con le conseguenti assoggettabilità alla relativa imposta dei beneficiari della destinazione e responsabilità d’imposta del notaio rogante”.

Cassazione n. 25423/2019: la costituzione del fondo patrimoniale, pur se finalizzata ai bisogni familiari, non è un obbligo di legge, bensì un atto a titolo gratuito, privo di una controprestazione a favore dei costituenti. Di conseguenza, tale atto è soggetto ad azione revocatoria ordinaria qualora sussista la mera conoscenza del pregiudizio arrecato ai creditori. La Corte ha inoltre precisato che la costituzione o un trust familiare non integra di per sé l’adempimento di un dovere giuridico, non essendo prevista come obbligatoria dalla legge. Pertanto, essa rimane suscettibile di revocatoria, salvo che si dimostri l’esistenza di un dovere morale specifico e l’intenzione di adempierlo attraverso tale atto.

Corte d’Appello di Firenze  n. 2061/2024: L’atto istitutivo di un trust familiare, anche se finalizzato al sostegno economico di un figlio, è considerato un atto a titolo gratuito. Questo perché non è previsto come obbligatorio dalla legge e non prevede una controprestazione economica a favore di chi lo istituisce (disponente).

 

Leggi anche: Proprietà fiduciaria

oltraggio a pubblico ufficiale

Oltraggio a pubblico ufficiale Oltraggio a pubblico ufficiale: cos’è, cosa prevede l’art. 341-bis c.p., quando si configura, aspetti procedurali e giurisprudenza

Cos’è l’oltraggio a pubblico ufficiale

L’oltraggio a pubblico ufficiale è un reato previsto e punito dall’articolo 341-bis del Codice penale, introdotto per rafforzare la tutela della dignità e dell’autorevolezza degli appartenenti alla pubblica amministrazione nell’esercizio delle proprie funzioni. La norma punisce chiunque, con offese o insulti, manifesti pubblicamente disprezzo nei confronti di un pubblico ufficiale, ledendo il prestigio delle istituzioni.

Normativa di riferimento: art. 341-bis c.p.

L’art. 341-bis c.p. dispone: “Chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende l’onore e il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio e a causa delle sue funzioni, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. La pena è aumentata se l’offesa è commessa con violenza o minaccia.”

Il reato è stato reintrodotto nel 2009 con la legge n. 94/2009 “pacchetto sicurezza”, dopo essere stato abrogato nel 1999. La sua finalità consiste nel tutelare il rispetto delle istituzioni attraverso la protezione dell’onore e del prestigio dei pubblici ufficiali.

Quando si configura il reato

Il reato di oltraggio a pubblico ufficiale si configura quando sussistono contemporaneamente i determinati elementi, analizziamoli uno per uno.

Offesa allonore o al prestigio: l’offesa può avvenire con parole, gesti, espressioni o atteggiamenti che umiliano il pubblico ufficiale.

Il reato deve essere commesso in un luogo pubblico o aperto al pubblico: l’atto deve avvenire in uno spazio accessibile a più persone (strade, piazze, uffici pubblici).

La condotta criminosa deve realizzarsi alla presenza di più persone: l’offesa cioè deve essere pubblica, ossia compresa da almeno due persone oltre il pubblico ufficiale.

L’illecito penale deve verificarsi durante o a causa delle funzioni pubbliche: il pubblico ufficiale deve essere nellesercizio delle sue funzioni o l’offesa deve derivare proprio dal suo ruolo.

Qualche esempio concreto di condotte che integrano il reato:

  • insultare un agente di polizia durante un controllo stradale;
  • offendere un medico del pronto soccorso mentre presta assistenza pubblica;
  • minacciare un vigile urbano nel momento in cui sta elevando una multa.

Elemento oggettivo e soggettivo del reato

Lelemento oggettivo, ossia la condotta materiale del reato deve consistere in espressioni offensive, ingiuriose o minacciose rivolte direttamente al pubblico ufficiale, in un luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone oltre all’offeso.

Lelemento soggettivo, ossia lintenzione del colpevole deve tradursi in un dolo generico, il soggetto deve avere cioè la consapevolezza e la volontà di offendere il prestigio del pubblico ufficiale. Non è necessario che vi sia un intento specifico di umiliare la persona, basta che l’atto sia volontario e cosciente.

Chi è il pubblico ufficiale secondo il Codice Penale

Per comprendere la qualifica della persona offesa di questo reato occorre comprendere chi è il pubblico ufficiale. A questo proposito è di aiuto la definizione fornita dall’articolo art. 357 c.p.. Questa norma definisce il pubblico ufficiale come il soggetto che esercita una funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa o di certificazione o attestazione pubblica.

Sono pubblici ufficiali gli agenti di polizia, i carabinieri, i vigili urbani, gli insegnanti pubblici, i medici ospedalieri, i magistrati e i vigili del fuoco.

Procedibilità reato di oltraggio a pubblico ufficiale

Il reato di oltraggio a pubblico ufficiale è procedibile dufficio, esso non necessita di querela per essere perseguito ed è di competenza del Tribunale in composizione monocratica.

Pene previste per l’oltraggio a pubblico ufficiale

L’art. 341-bis c.p. prevede:

La pena della reclusione da 6 mesi a 3 anni. L’aumento di pena è previsto nei seguenti casi:

  • se il fatto è commesso dal genitore esercente la responsabilità genitoriale o dal tutore dell’alunno nei confronti di un dirigente scolastico o di un membro del personale docente, educativo o amministrativo della scuola;
  • se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato.

Il reato è estinto se prima della giudizio l’imputato ripara il danno per intero risarcendo il soggetto o l’ente a cui lo stesso appartiene.

Giurisprudenza su oltraggio a pubblico ufficiale

Riportiamo alcuni stralci di sentenze che si sono occupate del reato di oltraggio a pubblico ufficiale, di cui hanno precisato alcuni e importanti aspetti:

Cassazione n. 3079/2025: La legge 15 luglio 2009, n. 94, ha reintrodotto il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, modificandone la condotta tipica. Pur mantenendo il legame tra l’offesa e le funzioni del pubblico ufficiale, ha richiesto che l’ingiuria offenda sia l’onore che il prestigio del soggetto e che avvenga in luogo pubblico o aperto al pubblico, alla presenza di più persone. Questo requisito, prima considerato un’aggravante, è ora un elemento essenziale del reato (art. 341-bis c.p.). L’offesa deve ledere sia la dignità personale del pubblico ufficiale che la sua considerazione sociale, giustificando così una tutela rafforzata rispetto ai cittadini comuni, poiché danneggia anche la reputazione della Pubblica Amministrazione. Inoltre, affinché il reato sussista, è sufficiente che l’ingiuria possa essere udita dai presenti, in quanto ciò genera un disagio psicologico che può compromettere l’operato del funzionario.

Cassazione n. 33020/2024: Nel reato di oltraggio, l’offesa all’onore e al prestigio del pubblico ufficiale deve avvenire davanti ad almeno due persone, escluse quelle che assistono nell’ambito delle loro funzioni. Il requisito della pluralità di persone è soddisfatto solo dalla presenza di civili o di pubblici ufficiali che si trovino nel contesto per ragioni diverse da quelle legate all’atto d’ufficio in cui si verifica l’offesa.

Cassazione n. 211/2023: La legge tutela l’onore e il prestigio della Pubblica Amministrazione non solo quando l’offesa è diretta al singolo pubblico ufficiale, ma anche quando l’offesa può essere percepita da altri pubblici ufficiali presenti che in quel momento svolgono funzioni diverse da quelle della persona offesa. La condotta dell’agente, in questi casi, compromette la prestazione del PU perché disturbato da una situazione sfavorevole.

Differenza tra oltraggio, ingiuria e diffamazione

Reato Articolo c.p. Dove avviene Chi è l’offeso Procedibilità
Oltraggio a pubblico ufficiale 341-bis c.p. Luogo pubblico, davanti a più persone Pubblico ufficiale D’ufficio
Ingiuria (depenalizzata) Art. 594 c.p. (depenalizzato) In presenza della persona offesa Privato Sanzione civile
Diffamazione 595 c.p. Assente la persona offesa Chiunque Su querela

 

 

Leggi anche: Avvocati: oltraggio alla corte e libertà di espressione

preliminare di compravendita

Preliminare di compravendita Il preliminare di compravendita (compromesso): disciplina, differenze con il definitivo, adempimenti, giurisprudenza e fac-simile

Cos’è il preliminare di compravendita

Il preliminare di compravendita, detto anche compromesso, è un contratto con cui le parti si obbligano a stipulare il futuro contratto definitivo di compravendita. Ha natura obbligatoria e vincola le parti a concludere il trasferimento del bene alle condizioni pattuite.

Disciplina giuridica e differenza con il contratto definitivo

Il compromesso è disciplinato dagli articoli 1351 e 2932 c.c. Esso si distingue dal contratto definitivo poiché non trasferisce la proprietà, ma obbliga le parti a concludere l’atto definitivo. La  Cassazione ha chiarito che, in caso di inadempimento, è possibile ottenere l’esecuzione in forma specifica (art. 2932 c.c.).

Registrazione e trascrizione

Il contratto preliminare, una volta stipulato, è soggetto a:

  • Registrazione: è obbligatoria presso l’Agenzia delle Entrate entro 30 giorni dalla sottoscrizione.
  • Trascrizione: viene eseguita nei registri immobiliari per tutelare il promissario acquirente da trascrizioni pregiudizievoli (art. 2645-bis c.c.). La trascrizione infatti, come chiarito anche in diverse occasioni dalla Corte di Cassazione, protegge anche dall’acquisto dell’immobile da parte di terzi.

Il preliminare ad effetti anticipati

È un compromesso che prevede l’immissione anticipata nel possesso del bene o il pagamento anticipato del prezzo.  La Cassazione a SU n. 7930/2008 ha sancito al riguardo che anche se il promissario acquirente ottiene la disponibilità del bene prima della stipula del contratto definitivo di vendita, ciò non significa che ne acquisisca automaticamente la proprietà. La consegna anticipata del bene si basa su un contratto di comodato, che produce effetti obbligatori e non reali. Di conseguenza, il promissario acquirente, pur avendo la disponibilità materiale del bene, non ne è possessore a tutti gli effetti, ma semplice detentore qualificato. Perché la detenzione si trasformi in possesso utile all’usucapione, è necessario che il promissario acquirente compia un atto di “interversio possessionis”, ovvero un mutamento del titolo del suo rapporto con il bene, manifestando chiaramente l’intenzione di possederlo a nome proprio e non più come semplice detentore.

Giurisprudenza sul compromesso

La Corte di Cassazione è intervenuta in diverse occasione per enunciare alcuni principi fondamentali sulle caratteristiche distintive del contratto preliminare.

Cassazione n. 21650/2019: La differenza fondamentale tra il contratto preliminare e il contratto definitivo di compravendita risiede nella diversa volontà che anima le parti. Con il contratto preliminare le parti si impegnano reciprocamente a prestare il consenso necessario per il trasferimento della proprietà in un momento futuro. La loro volontà, in questa fase, è orientata verso la conclusione del contratto definitivo. Con il contratto definitivo invece le parti attuano il trasferimento della proprietà. La loro volontà è immediatamente diretta a produrre l’effetto traslativo, che può avvenire contestualmente alla firma del contratto o in un momento successivo, senza che sia necessaria una nuova manifestazione di consenso.

Cassazione Sezioni Unite n. 4628/2015: Un accordo, anche se denominato “preliminare”, che preveda la successiva stipula di un altro contratto preliminare, è valido e produttivo di effetti se sussiste un interesse concreto delle parti a una formazione progressiva del contratto, articolata in fasi distinte con contenuti negoziali specifici per ciascuna fase, se è chiaramente identificabile l’area di interessi coperta dal vincolo negoziale originato dal primo accordo preliminare. In altre parole, il “preliminare di preliminare” è ammissibile se rappresenta una fase ben definita del percorso che porterà alla conclusione del contratto definitivo, con un contenuto negoziale proprio e distinto rispetto al successivo contratto preliminare. Non è ammissibile, invece, se si configura come una mera ripetizione del primo accordo, senza alcuna utilità pratica.

Cassazione n. 10009/2015: il contratto preliminare obbliga le parti sia a stipulare il contratto definitivo (pactum de contrahendo) sia a compiere le prestazioni necessarie per l’attuazione del programma negoziale (pactum de dando). A tutela di tali diritti, l’ordinamento prevede l’azione di esecuzione forzata in forma specifica, che consente di ottenere lo stesso risultato programmato con il preliminare, qualora una delle parti non adempia l’obbligo di prestare il consenso. Tale azione è sempre esercitabile, salvo il diritto al consenso non sia prescritto.

Fac-simile di preliminare di compravendita:

Oggetto: Contratto Preliminare di Compravendita
Parti: [Nome completo del Venditore] – [Nome completo dell’Acquirente] con relativi dati anagrafici e fiscali
Immobile: Descrizione completa dell’immobile (indirizzo, dati catastali)
Prezzo: Importo concordato e modalità di pagamento (acconto, saldo, caparra)
Caparra confirmatoria: Importo e modalità di versamento (art. 1385 c.c.)
Termine per la stipula del definitivo: Data precisa o termine essenziale
Condizioni e obblighi accessori: Eventuali oneri, spese e dichiarazioni (assenza ipoteche, conformità urbanistica)
Foro competente: Clausola sul tribunale in caso di controversie
Data e firma di entrambe le Parti, con autentica notarile se richiesta

 

Nota: Questo modello è un esempio indicativo. Per la stesura definitiva è indispensabile la consulenza di un avvocato o notaio.

 

 

Leggi anche gli altri articoli sul contratto preliminare 

danno da demansionamento

Danno da demansionamento: l’aggiornamento tecnologico incide Danno da demansionamento: è compito del lavoratore dimostrare il danno subito, su cui incide il mancato aggiornamento tecnologico

Danno da demansionamento

La Corte Suprema di Cassazione, con l’ordinanza n. 3400/2025, afferma che la mancanza di aggiornamenti tecnologici influisce sul danno da demansionamento. Tale incidenza è maggiore nei settori caratterizzati da rapidi progressi tecnologici. Il giudice, nel calcolare il risarcimento per il danno subito, deve considerare questo aspetto insieme ad altri parametri. Il lavoratore però ha l’onere di provare il danno da demansionamento, anche con elementi indiziari che siano gravi, precisi e coerenti.

Reintegrazione nel livello e risarcimento del danno

Il Tribunale, in qualità di giudice di primo grado, accoglie le richieste di un lavoratore contro la società datrice che lo ha declassato. L’autorità giudiziaria ordina alla società di reintegrare il dipendente nelle mansioni precedenti e risarcirlo per il danno subito alla sua professionalità.

La Corte d’appello conferma la decisione iniziale. In primo grado è stato accertato l’inquadramento al V livello del dipendente, così come le sue elevate competenze, l’autonomia decisionale e la gestione delle risorse assegnate, assenti nelle caratteristiche tipiche dell’operatore specialista in customer care. Il giudice di primo grado quindi ha giustamente valutato e corretto l’inquadramento del dipendente al III livello. Il lavoratore da parte sua ha invece adempiuto all’onere della prova a suo carico. Il demansionamento è durato tre anni, per cui risulta appropriata anche la valutazione equitativa del danno di 1000 euro mensili. La società datrice decide tuttavia di contestare la decisione ricorrendo alla Corte di Cassazione.

Impatto del mancato aggiornamento tecnologico

La Cassazione però respinge il ricorso, ritenendo inammissibili e infondate le obiezioni sollevate. La Corte territoriale ha valutato correttamente le mansioni effettivamente svolte dal lavoratore senza riscontrare in esse le caratteristiche tipiche del V livello rispetto al III livello. In materia di dequalificazione professionale, la Cassazione respinge anche il secondo motivo d’appello ricordando che “è risarcibile il danno non patrimoniale ogni qual volta si verifichi una grave violazione dei diritti dei lavoratori tutelati costituzionalmente”, valutando anche la persistenza della condotta lesiva, la sua durata e ripetizione delle condizioni di disagio professionale e personale e l’inerzia del datore di lavoro verso le richieste del dipendente, anche senza intenzione deliberata di declassare o svalutare i compiti del dipendente. La prova del danno deve essere fornita dal dipendente anche attraverso indizi gravi, precisi e coerenti capaci di dimostrare aspetti come qualità e quantità del lavoro svolto, tipo di professionalità richiesta, durata del demansionamento o nuova collocazione assunta successivamente.

L’importanza degli aggiornamenti tecnologici

Nel caso specifico, la Cassazione ritiene che la Corte d’appello abbia qualificato correttamente i comportamenti della società datrice e il conseguente danno da demansionamento subito dal lavoratore a causa della condotta reiterata dell’azienda e della privazione degli aggiornamenti tecnologici necessari. Corretta anche la quantificazione equitativa del danno poiché ben motivata, in linea con i criteri applicati e non sproporzionata per eccesso e per difetto. L’importo mensile risarcitorio è stato determinato valutando l’oggettiva differenza tra le mansioni eseguite dal dipendente prima e dopo aprile 2018. Da quel momento infatti il lavoratore è stato effettivamente assegnato a mansioni inferiori dopo aver ottemperato a un ordine giudiziale per riassegnazione delle mansioni.

 

Leggi anche: Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Allegati

opzione donna

Opzione donna: la guida Opzione Donna 2025: guida completa alla pensione anticipata per le lavoratrici aggiornata alle novità del 2025

Cos’è Opzione donna

L’Opzione Donna è un regime sperimentale di pensione anticipata introdotto per la prima volta dalla legge Maroni (L. n. 243/2004) e successivamente modificato nel corso degli anni, con interventi significativi apportati dalla legge di bilancio 2023 (L. 197/2022). Questo strumento consente alle donne di accedere alla pensione prima rispetto ai requisiti ordinari, a condizione che vengano soddisfatti determinati criteri anagrafici e contributivi.

La misura, inizialmente introdotta come sperimentale, è stata prorogata e modificata più volte, con l’ultima estensione confermata per tutto il 2025. Sebbene consenta un’uscita anticipata dal mondo del lavoro, comporta generalmente una riduzione dell’importo della pensione rispetto a quella calcolata con il sistema misto o retributivo.

Come funziona

Il funzionamento dell’Opzione Donna si basa su due elementi fondamentali:

  1. Requisiti anagrafici e contributivi: per poter accedere alla pensione anticipata, le lavoratrici devono raggiungere una determinata età e un numero minimo di anni di contributi.
  2. Calcolo contributivo della pensione: scegliendo l’Opzione Donna, la pensione viene calcolata interamente con il metodo contributivo, indipendentemente dall’anzianità maturata con il sistema retributivo. Questo comporta una decurtazione dell’importo pensionistico rispetto a quello previsto con il sistema misto.

A chi spetta Opzione Donna?

L’Opzione Donna è destinata alle lavoratrici dipendenti, autonome e iscritte alla gestione separata dell’INPS che soddisfano specifici requisiti anagrafici e contributivi. Tuttavia, con le modifiche introdotte dalla legge di bilancio 2023 e confermate per il 2025, l’accesso è stato ristretto ad alcune categorie di lavoratrici che si trovano in condizioni particolari.

Categorie beneficiarie nel 2025

  1. Lavoratrici caregiver: donne che assistono da almeno 6 mesi un familiare convivente con handicap grave (art. 3, comma 3, L. 104/1992).
  2. Lavoratrici con invalidità: donne con una invalidità civile pari o superiore al 74%.
  3. Lavoratrici licenziate o dipendenti di aziende in crisi: donne licenziate o lavoratrici dipendenti di imprese per le quali è attivo un tavolo di crisi presso il Ministero del Lavoro. Per questa categoria l’accesso è consentito a 59 anni anche in assenza di figli, sempre con 35 anni di contributi.

Requisiti per accedere a Opzione Donna 2025

I requisiti per beneficiare dell’Opzione Donna sono stati modificati nel corso degli anni. Per il 2025, le condizioni da rispettare sono le seguenti:

Età anagrafica:

  • 61 anni di età anagrafica per le lavoratrici senza figli;
  • 60 anni per le lavoratrici con un figlio;
  • 59 anni per le lavoratrici con due o più figli.

La riduzione di un anno per ciascun figlio è prevista fino a un massimo di due anni (quindi possibilità di accesso ha inizio a 59 anni).

Contributi versati:

  • 35 anni di contributi minimi entro il 31 dicembre 2024.

Finestra mobile:

  • 12 mesi dalla maturazione dei requisiti per le lavoratrici dipendenti.
  • 18 mesi per le lavoratrici autonome.

Come fare domanda

La domanda per accedere all’Opzione Donna deve essere presentata all’INPS attraverso i canali ufficiali:

  1. Online: tramite il portale INPS accedendo con credenziali SPID, CIE o CNS.
  2. Patronato: rivolgendosi a un CAF o a un patronato per assistenza nella compilazione e invio della domanda.
  3. Contact Center INPS: telefonando al numero 803 164 (gratuito da rete fissa) o 06 164164 (da rete mobile).

È fondamentale assicurarsi che i contributi risultino correttamente accreditati nel proprio estratto conto contributivo prima di inoltrare la richiesta.

Novità 2025 per Opzione Donna

La legge di bilancio 2025 ha confermato l’Opzione Donna con le stesse regole già in vigore, ma sono stati introdotti alcuni chiarimenti e perfezionamenti:

  1. Estensione della platea: pur mantenendo le restrizioni, il governo ha previsto una semplificazione delle procedure per le lavoratrici che rientrano nelle categorie dei caregiver e delle dipendenti di aziende in crisi.
  2. Verifica semplificata dellinvalidità: le procedure per il riconoscimento dell’invalidità pari o superiore al 74% sono state snellite, riducendo i tempi di attesa per le lavoratrici che intendono accedere al beneficio.
  3. Aumento del monitoraggio delle domande: l’INPS ha introdotto un sistema di monitoraggio più rigoroso per evitare abusi e garantire che i beneficiari rispettino i requisiti previsti.

Opzione Donna conviene?

L’Opzione Donna rappresenta una possibilità concreta di pensionamento anticipato per molte lavoratrici che si trovano in condizioni di difficoltà o con carriere lunghe. Tuttavia, è importante considerare attentamente le conseguenze economiche della scelta, poiché il calcolo contributivo comporta una riduzione dell’importo della pensione.

Prima di decidere di aderire all’Opzione Donna, è consigliabile simulare limporto dellassegno pensionistico utilizzando i servizi messi a disposizione dall’INPS o rivolgendosi a un consulente previdenziale per valutare l’impatto economico a lungo termine.

Con la conferma della misura fino al 31 dicembre 2025, le lavoratrici interessate hanno tempo per valutare e presentare domanda, tenendo conto delle proprie esigenze personali e professionali.

 

Leggi anche: Pensioni anticipate Inps: al via le domande telematiche

gioco delle tre carte

Gioco delle tre carte: è azzardo e non truffa Il gioco delle tre carte integra il reato di gioco d'azzardo (art. 718 c.p.) ma non quello di truffa (art. 640 c.p.)

Gioco delle tre carte: quale reato

Il gioco delle tre carte integra il reato di gioco d’azzardo (art. 718 c.p.) ma non quello di truffa (art. 640 c.p.). Lo ha precisato la terza sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 43873/2024.

La vicenda

A ricorrere per cassazione avverso la sentenza con la quale la Corte di appello di L’Aquila ha confermato la decisione di primo grado, è un uomo condannato per il reato di cui all’art. 718 cod. pen., per aver, in luogo pubblico e avendo allestito un banchetto, tenuto un gioco d’azzardo, consistito nel maneggiare delle campanelle allo scopo di far puntare denaro ai viaggiatori in transito e agli avventori del bar.

Il ricorso

Il ricorrente affida il ricorso ad un unico motivo, con il quale deduce violazione di legge e vizio della motivazione, posto che la Corte territoriale ha disatteso le doglianze formulate con i motivi di appello, con le quali aveva rappresentato che il gioco delle tre carte o delle tre campanelle non possa essere qualificato come gioco d’azzardo connotato da aleatorietà, ma come gioco d’abilità del gestore o dello scommettitore, nè sono necessari, per la sua realizzazione, artifizi e raggiri.  Rappresenta, inoltre, di aver tenuto il banchetto ove si effettuava il gioco in modo occasionale, senza alcuna organizzazione.

Reato ex art. 718 c.p.

Per gli Ermellini, il ricorso, tuttavia, è manifestamente infondato.
In giurisprudenza, premettono, si è affermato che il gioco dei “tre campanelli” e quelli similari delle “tre tavolette” o delle “tre carte” “non configura il reato di truffa ma quello di
cui all’art. 718 cod. pen., in ragione del fatto che la condotta del soggetto che dirige li gioco non realizza alcun artificio o raggiro ma costituisce una caratteristica del gioco che rientra nell’ambito dei fatti notori, purché all’abilità ed alla destrezza di chi esegue il gioco non si aggiunga anche una fraudolenta attività del medesimo (Sez. 2, n. 48159 del 17/07/2019, Rv. 277805; Sez. 3, n. 19985 del 2020)”.
Si è quindi affermato, proseguono dalla S.C., “che, in tema esercizio abusivo dell’attività di pubblica scommessa su giochi di abilità, è necessaria la presenza di una struttura organizzativa costituita da mezzi e persone, anche se di natura non stabile e complessa (Sez. F, n. 26321 del 02/09/2020)”.

La decisione

Nel caso in disamina, il giudice a quo ha evidenziato che il ricorrente si era posizionato
presso un’area di servizio, aveva allestito un banchetto amovibile su cui conduceva il gioco delle
tre campanelle, era circondato da un capannello di persone, e ha affermato che il condurre in luogo pubblico il suddetto gioco, non richiedendo la predisposizione di attività specifiche di inganno, non integri il reato di truffa ma deve considerarsi come un gioco d’azzardo in quanto il partecipe al gioco può ottenere la vincita della somma in modo del tutto aleatorio, a prescindere da ogni abilità.

Il ricorso, dunque, è inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè della somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende.

Allegati

giurista risponde

Atti persecutori in presenza di minori e circostanza aggravante L’applicazione della circostanza aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 11 quinquies, c.p., è compatibile con il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p. quando tale condotta viene perpetrata in presenza di un minore?

Quesito con risposta a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo

 

La Corte di cassazione, nella sentenza in esame, ha affrontato il tema dell’applicabilità della circostanza aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 11 quinquies, c.p., al delitto di atti persecutori. La Corte di Appello di Roma aveva confermato la condanna per atti persecutori aggravati, ritenendo correttamente contestata l’aggravante in considerazione della presenza del figlio minore durante la commissione del reato. Tuttavia, la Suprema Corte ha accolto il ricorso per cassazione limitatamente alla questione dell’aggravante, annullando la sentenza impugnata senza rinvio in quanto tale aggravante non è applicabile al reato di atti persecutori (Cass., sez. V, 31 ottobre 2024, n. 40301).

In particolare, la Corte ha richiamato la giurisprudenza consolidata, evidenziando che l’art. 61, comma 1, n. 11 quinquies, c.p., fa riferimento a delitti contro la vita e l’incolumità personale, escludendo esplicitamente il reato di atti persecutori, che è considerato un reato contro la libertà morale. La Corte ha sottolineato che la precisa formulazione della norma non lascia margini di interpretazione, confermando che la protezione offerta ai minori che assistono a condotte delittuose non si estende ai reati di atti persecutori.

Nel caso specifico, i giudici di merito non avevano affrontato adeguatamente il profilo giuridico sollevato dalla difesa riguardo all’applicabilità dell’aggravante, limitandosi a elencare gli episodi di atti persecutori assistiti dal minore, senza entrare nel merito dell’interpretazione della norma. Pertanto, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la sentenza impugnata dovesse essere annullata in relazione all’aggravante contestata, con conseguente necessità di una nuova valutazione del trattamento sanzionatorio, alla luce della caducazione dell’aggravante stessa.

In conclusione, la Corte ha ribadito che la circostanza aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 11 quinquies, c.p. non può essere applicata al delitto di atti persecutori, confermando una visione restrittiva della norma e garantendo così una corretta interpretazione della tutela giuridica in materia di reati contro la libertà morale.

 

(*Contributo a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

agevolazione prima casa

Agevolazione prima casa anche per l’immobile inagibile La Cassazione ha chiarito che l'agevolazione prima casa può applicarsi anche all'acquisto di un immobile inagibile purchè destinato all'uso abitativo

Agevolazione prima casa

Con l’ordinanza n. 3913/2025, la sezione tributaria della Cassazione ha chiarito che l’agevolazione fiscale per l’acquisto della “prima casa” può applicarsi anche agli immobili inagibili (fabbricati collabenti), purché destinati all’uso abitativo dopo idonei interventi edilizi.

La vicenda

Nella vicenda, un’acquirente chiedeva di usufruire dell’agevolazione prima casa versando l’imposta di registro nella misura ridotta del 2%. L’Agenzia delle Entrate emanava avviso di accertamento sostenendo che l’agevolazione si applicasse solo agli immobili abitativi, anche in costruzione, escludendo quelli inagibili.

La questione approdava in Cassazione, la quale ha respinto la tesi del fisco, affermando che la possibilità di destinare l’immobile all’uso abitativo prevale sull’attuale stato di inagibilità.

Fabbricati collabenti

Secondo la S.C., infatti, lo stato di collabenza (dei fabbricati F/2) produce improduttività di reddito ma non fa venir meno in capo all’immobile la tipologia normativa di “fabbricato”. Per quanto oggettivamente inidonei a soddisfare attuali esigenze abitative, ritiene la Corte che “né l’assenza di attualità di destinazione ad abitazione né l’attribuzione della categoria catastale F/2 rappresentano ostacoli alla possibilità di accesso alle agevolazioni prima casa; e, tanto risulta confermato dal tenore del precetto normativo che esclude l’usufruibilità dei benefici fiscali unicamente per i fabbricati classificati in categoria A/1, A/8 e A/9, senza ulteriori limitazioni per altre categorie catastali suscettibili di concreta finalizzazione abitativa e, dunque, né per i fabbricati in corso di costruzione ovvero da ultimare né per i fabbricati collabenti”.

Nessuna idoneità abitativa immediata

La circostanza che il cespite presenti caratteristiche di degrado tali da esigere importanti opere edili di intervento ovvero la previa demolizione e successiva ricostruzione, “se destinato a finalità abitativa, non può limitare l’accesso al beneficio fiscale, tanto più se tali benefici risultino accessibili per gli immobili ancoa da ultimare, risultando rilevante solo che l’immobile sia strutturalmente destinato ad uso abitativo, non essendo richiesto che esso sia già idoneo al momento dell’acquisto (Cass. n. 3804/2003, Cass. n. 18300/2004)”.

Peraltro, ciò soddisfa, proseguono da piazza Cavour, “l’esigenza perseguita dal legislatore di incoraggiare sia lo sviluppo dell’edilizia abitativa mediante l’incremento quantitativo delle costruzioni sia interventi di restauro e risanamento conservativo volti a preservare l’organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità, nonché la commercializzazione degli immobili da
recuperare”.

Il principio di diritto

Per cui rigettando il ricorso dell’amministrazione finanziaria, la S.C. ha affermato ilo seguente principio di diritto: “In materia di agevolazione ‘prima casa’ (art. 1 Nota Il bis della Tariffa, parte
prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986), posto che la norma agevolativa non esige l’idoneità abitativa dell’immobile già al momento dell’acquisto, il beneficio può essere riconosciuto anche all’acquirente di immobile collabente, non ostandovi la classificazione del fabbricato in categoria catastale F/2, ed invece rilevando al suscettibilità dell’immobile acquistato ad essere destinato, con i dovuti interventi edilizi, all’uso abitativo”.

 

Leggi anche gli altri articoli in materia di fisco

Allegati

decreto ingiuntivo

Decreto ingiuntivo: guida e modello Cos'è il decreto ingiuntivo, quali sono i presupposti per richiederlo, normativa di riferimento e giurisprudenza

Cos’è il decreto ingiuntivo

Il decreto ingiuntivo è uno strumento previsto dagli articoli 633 e seguenti del Codice di Procedura Civile (c.p.c), che consente di ottenere rapidamente un titolo esecutivo per il recupero di un credito certo, liquido ed esigibile. Si tratta di una procedura semplificata che non richiede una fase iniziale di contraddittorio tra le parti.

Esso consiste in un provvedimento emesso dal giudice su richiesta del creditore, finalizzato al pagamento di una somma di denaro, alla consegna di cose fungibili o alla restituzione di beni mobili determinati. Questa procedura è particolarmente utile per garantire al creditore una rapida tutela dei suoi diritti, riducendo i tempi rispetto a una causa ordinaria.

Presupposti della domanda

Ai sensi dell’articolo 633 c.p.c, i principali presupposti per ottenere un decreto ingiuntivo sono:

  • l’esistenza di un credito certo, liquido ed esigibile, determinato nel suo ammontare e non sottoposto a condizioni;
  • la prova scritta del credito che viene soddisfatta dalla produzione di documenti che dimostrino l’esistenza del credito, come contratti, fatture o assegni;
  • l’assenza di contestazioni preventive, il debitore non deve cioè aver sollevato valide obiezioni prima della richiesta.

La disciplina del codice di procedura civile

Gli articoli 633-656 c.p.c regolano dettagliatamente il procedimento per la sua emanazione. Gli articoli di maggior rilievo disciplinare sono i seguenti:

Art. 633 c.p.c: individua le condizioni per proporre la domanda, precisando che il credito deve essere documentato in forma scritta;

Art. 634 c.p.c: elenca i documenti idonei a comprovare il credito, come scritture private riconosciute o non contestate e altri documenti dotati di forza probatoria;

Art. 642 c.p.c: permette di richiedere l’esecuzione provvisoria del decreto, garantendo al creditore un’azione immediata;

Art. 645 c.p.c: regola l’opposizione al decreto ingiuntivo, offrendo al debitore la possibilità di contestare il provvedimento entro 40 giorni dalla notifica.

Quando si può richiedere?

Il decreto ingiuntivo può essere richiesto in diversi ambiti:

  • rapporti contrattuali per il pagamento di fatture commerciali o altre obbligazioni derivanti da un contratto;
  • contratti di locazione per il recupero di canoni di affitto non pagati;
  • titoli di credito come assegni e cambiali protestate;
  • rapporti professionali per il recupero di parcelle non saldate. 

Chi emette il decreto ingiuntivo

Il decreto ingiuntivo è emesso dal giudice competente per materia e valore. Solitamente si tratta del giudice di pace per importi fino a 10.000 euro, o del tribunale ordinario per importi superiori. La competenza territoriale è determinata dal luogo in cui il debitore ha domicilio o residenza.

Giurisprudenza in materia di decreto ingiuntivo

Numerose pronunce giurisprudenziali hanno chiarito importanti aspetti della procedura:

Cassazione n. 26727/2024: le Sezioni Unite hanno stabilito che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, l’opposto può proporre domande alternative a quella monitoria, purché basate sul medesimo interesse. Tali domande vanno proposte nella comparsa di risposta, non oltre.

Cassazione n. 7536/2024: la fattura emessa dall’appaltatore, se è utilizzabile come prova scritta ai fini della concessione del decreto ingiuntivo, non costituisce idonea prova dell’ammontare del credito nell’ordinario giudizio di cognizione che si apre con l’opposizione, trattandosi di documento di natura fiscale proveniente dalla stessa parte.”

Cassazione n. 30733/2024: Se il giudice, in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, si dichiara incompetente, la sua ordinanza comporta automaticamente la revoca del decreto stesso, anche se in modo implicito. Di conseguenza, non si tratta di una semplice declinatoria della competenza sulla causa di opposizione, ma di una decisione che chiude definitivamente tale fase del giudizio. Pertanto, l’eventuale riassunzione della causa dinanzi al giudice competente riguarda solo l’accertamento del credito oggetto del ricorso monitorio e non più l’opposizione al decreto ingiuntivo. Per questo motivo, il nuovo giudice non può richiedere d’ufficio il regolamento di competenza.

Modello di decreto ingiuntivo

Ecco un esempio pratico di decreto ingiuntivo:

Tribunale di [Luogo]
Decreto Ingiuntivo
N. [numero] del [anno]

Il Giudice,

  • Visti gli articoli 633 e seguenti del Codice di Procedura Civile;
  • Esaminata la documentazione prodotta dal ricorrente;

Dispone:

  1. Che il sig. [Nome e Cognome del debitore], residente in [Indirizzo], paghi al sig. [Nome e Cognome del creditore] la somma di [importo in euro], oltre interessi legali e spese di procedura.
  2. La notifica del presente decreto al debitore entro [termine per la notifica].
  3. La possibilità di proporre opposizione entro 40 giorni dalla notifica, ai sensi dell’articolo 645 CPC.

Firmato:
Il Giudice [Nome e Cognome]

 

Leggi anche gli altri articoli dedicati allo stesso argomento

ascensore in condominio

Ascensore in condominio: necessario un bilanciamento dei diritti Ascensore in condominio: necessario bilanciare i diritti dei disabili con quelli dei condomini al godimento delle parti comuni

Ascensore in condominio

L’installazione di un ascensore in condominio comporta numerosi vantaggi, soprattutto per le persone con difficoltà motorie. Quest’opera migliora infatti senza dubbio l’accessibilità all’edificio condominiale. Occorre tuttavia considerare anche la presenza di criticità.  L’installazione di un ascensore può incidere infatti sul decoro architettonico dell’edificio, ridurre lo spazio disponibile nelle scale o nei pianerottoli e generare costi di manutenzione elevati. Occorre quindi bilanciare il diritto all’accessibilità con il rispetto delle parti comuni e dei diritti degli altri condomini. La normativa tutela le persone con disabilità, ma impone limiti per garantire che nessun condomino subisca danni o pregiudizi eccessivi. La solidarietà condominiale è fondamentale, ma non deve trasformarsi in un’imposizione unilaterale. Nel caso deciso dal Tribunale di Nocera Inferiore con la sentenza n. 396/2025 la realizzazione dell’ascensore è possibile perché la riduzione del vano scale di 30 centimetri non è tale da rendere inservibili le scale interessate dall’opera.

Ascensore in condominio: un equilibrio tra diritti

L’installazione di un ascensore in un condominio è un’opera essenziale per garantire l’accessibilità alle persone con disabilità e agli anziani. Per la Cassazione l’ascensore è equiparabile agli impianti di luce, acqua e riscaldamento, poiché migliora la vivibilità degli appartamenti. La realizzazione di tale opera però deve rispettare il principio di solidarietà condominiale a tutela dei singoli condomini, ma anche dei disabili che hanno diritto alla eliminazione delle barriere architettoniche.

La legge n. 13 del 1989 stabilisce regole specifiche per l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati. Secondo l’articolo 2 di questa legge, le innovazioni volte a eliminare tali barriere possono essere approvate con una maggioranza non qualificata dell’assemblea condominiale. Questo semplifica l’iter decisionale, facilitando l’adozione di soluzioni a beneficio delle persone con disabilità e degli anziani. Tuttavia, la normativa impone anche alcuni limiti. L’articolo 1120 del Codice Civile vieta innovazioni che rendano inutilizzabili alcune aree comuni dell’edificio. Ad esempio, se l’installazione dell’ascensore riduce drasticamente la larghezza delle scale o compromette l’accesso ad altri spazi comuni, l’opera può essere contestata e considerata illegittima.

Limiti all’installazione dell’ascensore

L’ascensore deve garantire un equilibrio tra l’interesse all’accessibilità e il diritto di tutti i condomini a utilizzare gli spazi comuni. La Cassazione ha chiarito che l’installazione non può privare neanche un solo condomino del diritto al godimento delle parti comuni dell’edificio. Questo significa che, se un condomino dimostra che l’ascensore limita in modo significativo il suo accesso o il suo utilizzo delle scale, la richiesta può essere bloccata o deve essere trovata una soluzione alternativa.

La giurisprudenza ha confermato questa posizione in diverse sentenze. Nel caso di specie il Tribunale ha rilevato che una riduzione delle scale da 1,10 metri a 0,80 metri come conseguenza della installazione dell’ascensore, non rende le scale del tutto inservibili, purché rimanga garantito un accesso sicuro. Tuttavia, ogni caso va valutato singolarmente, considerando le specificità dell’edificio e delle esigenze dei condomini.

Esonero dalle spese per i dissenzienti

Un aspetto cruciale della sentenza riguarda anche la ripartizione delle spese. L’articolo 1121 del Codice Civile prevede infatti che se l’innovazione comporta una spesa molto elevata o ha carattere voluttuario (non essenziale), i condomini che non intendono trarne vantaggio dall’opera, ovvero l’ascensore, possono rifiutarsi di partecipare alle spese.

I condomini dissenzienti devono quindi essere esonerati dai costi se dichiarano espressamente il loro dissenso prima dell’inizio dei lavori. Ovviamente chi decide di non partecipare alla spesa non potrà usufruire dell’ascensore, salvo successiva richiesta di adesione con il pagamento della propria quota.

 

Leggi anche: Il vano ascensore è di proprietà del condominio