sanzionato il praticante avvocato

Sanzionato il praticante avvocato che “abbrevia” Configura illecito deontologico il praticante avvocato che omette di indicare per esteso il titolo nella propria carta intestata

Attività professionale senza titolo

Sanzionato il praticante avvocato che omette il titolo. Lo stesso infatti va inserito per esteso onde evitare nei terzi il convincimento che si tratti di professionista abilitato. E’ quanto emerge dalla decisione n. 1/2024 del Consiglio Distrettuale di Disciplina di Napoli, pubblicata il 4 febbraio 2025 sul sito del Codice deontologico Forense, che ha sanzionato un praticante avvocato per non aver utilizzato nella propria carta intestata il titolo per esteso inserendo soltanto la dicitura “Studio legale”.

Illecito di cui all’art. 36 comma 1 Cdf

Per il Cdd, dunque, “configura l’illecito di cui all’art. 36 comma I CdF (uso di titolo professionale non conseguito ovvero svolgimento di attività in mancanza di titolo) la condotta del praticante avvocato che utilizza nella propria carta intestata la dicitura ‘Studio Legale’ omettendo di indicare per esteso il titolo di ‘praticante avvocato’ dal momento che tale indicazione è idonea ad ingenerare nei terzi il convincimento di potersi riferire ad un soggetto abilitato ad esercitare la professione forense, così inducendo in errore il cliente sui titoli del professionista”.

Obbligo di diligenza

“Né le indicazioni errate od omissive riportate dalla carta intestata utilizzata dal professionista possono ricondursi a incolpevoli distrazioni, in quanto – ha concluso il CDD confermando la sanzione – l’obbligo di diligenza cui è sottoposto il praticante avvocato impone a quest’ultimo di controllare diligentemente la propria carta intestata prima di farne un uso rivolto al pubblico”.

 

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naspi

Naspi: l’Inps si attiene ai principi della Corte Costituzionale L'istituto verificherà l'eventuale sussistenza di cause sopravvenute prima di procedere al recupero integrale della Naspi

Naspi, la sentenza della Corte Costituzionale

Naspi: la Consulta, con la sentenza n. 90/2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, c. 4, del decreto legislativo 22/2015, nella parte in cui non limita l’obbligo restitutorio dell’anticipazione della Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego (NASpI) nella misura corrispondente alla durata del periodo di lavoro subordinato, quando il lavoratore non possa proseguireper causa sopravvenuta a lui non imputabile, l’attività di impresa per la quale l’anticipazione era stata erogata.

Restituzione integrale della Naspi

Nello specifico, la pronuncia della Suprema Corte si riferisce all’obbligo di restituzione integrale della NASpI in forma anticipata, da parte del lavoratore, nel caso in cui il medesimo, dopo avere intrapreso e svolto l’attività imprenditoriale:

  • non possa proseguirla per cause sopravvenute e imprevedibili a lui non imputabili;
  • costituisca un rapporto di lavoro subordinato, prima della scadenza del periodo teorico per cui è riconosciuta la NASpI.

Motivi di forza maggiore

A tale riguardo la Corte ha rilevato, ai fini della dichiarata illegittimità, la circostanza che l’attività di impresa si sia interrotta per motivi di forza maggiore, che hanno determinato un’impossibilità oggettiva che rende insuperabile la difficoltà della prosecuzione dell’attività.

Tali motivi non sono imputabili alla volontà del beneficiario e alle sue scelte organizzativo-gestionali.

La circolare Inps

L’Istituto, con la circolare 4 febbraio 2024, n. 36, alla luce della sentenza, chiarisce che provvederà a verificare l’eventuale sussistenza di cause sopravvenute e imprevedibili non imputabili all’interessato, che hanno comportato l’impossibilità a proseguire nell’esercizio dell’attività di lavoro autonomo o di impresa, prima di procedere alla notifica del provvedimento di indebito dell’importo integrale corrisposto.

Violenza di genere e violazione del divieto di avvicinamento Violenza di genere: la Cassazione ritiene violato il divieto di avvicinamento anche se è la vittima a recarsi a casa dell'imputato

Violazione del divieto di avvicinamento

La sesta sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4936/2025, ha fornito un’importante interpretazione in materia di violenza di genere e rispetto delle misure cautelari. In particolare, la pronuncia chiarisce che l’indagato, sottoposto al divieto di avvicinamento alla vittima, viola tale disposizione anche se è la stessa vittima a recarsi presso la sua abitazione. Secondo la Suprema Corte, l’uomo avrebbe dovuto lasciare la propria casa o allertare le forze dell’ordine per evitare la violazione della misura cautelare.

La vicenda

Il caso riguarda un uomo sottoposto al divieto di avvicinamento alla sua ex compagna che vedeva annullata dal tribunale di Firenze l’ordinanza di applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari per il reato di cui all’art. 387-bis c.p. Nonostante la misura cautelare, infatti, la donna si era recata presso l’abitazione dell’indagato. Ma secondo i giudici non si poteva esigere dall’indagato la condotta di allontanamento dalla propria abitazione nè tantomeno era ravvisabile l’obbligo di allertare le forze dell’ordine.

il PM ricorreva innanzi al Palazzaccio sostenendo che sebbene l’uomo non avesse cercato l’incontro con la donna, aveva comunque violato la prescrizione impostagli nel permetterle di intrattenersi nella sua abitazione, omettendo di adottare comportamenti, scarsamente onerosi e quindi esigibili, come quello di richiedere l’intervento delle Forze del’Ordine.

La posizione della Cassazione

La Cassazione, dopo aver compiuto un lungo excursus sul quadro normativo in materia, ha dato ragione al pubblico ministero.

Nel caso specifico, se non era esigibile la condotta di lasciare la propria abitazione, era, nondimeno, esigibile lo ius excludendi, affermano i giudici: l’uomo ha consentito alla ex di entrare nella sua abitazione ospitandola per l’intera giornata o addirittura verosimilmente per alcuni giorni. Per cui, il ricorrente, “ha – scientemente e volutamente – stabilito un contatto diretto e ravvicinato con al giovane donna, cooperando nella violazione ab initio effettivamente riferibile alla persona offesa e approfittando della situazione venutasi a creare”.
In un contesto caratterizzato da una relazione personale nettamente
“squilibrata”, anche per lo stato di conclamata vulnerabilità della donna, scrivono da piazza Cavour, “la preoccupazione principale deve essere quella di garantire la incolumità anche contro la volontà della stessa persona offesa: la volontà della vittima non può, dunque, avere efficacia scriminante e/o esimente nè portata liberatoria dagli obblighi, «…occorrendo sempre effettuare una corretta valutazione e gestione dei rischi di letalità, di gravità della situazione, di reiterazione dei comportamenti violenti in un’ottica di prioritaria sicurezza della vittima » (cfr. Sez. 6, n.46797 del 18/10/2023)”. Per cui, essendo grave il quadro indiziario sotto il profilo della dolosa violazione del contenuto precettivo della misura cautelare, la S.C. annulla l’ordinanza passando la parola al giudice del rinvio.

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mandato d'arresto europeo

Mandato d’arresto europeo (MAE) Cos’è il mandato d’arresto europeo, quando si usa, qual è la procedura e quali sono i possibili motivi di rifiuto del MAE 

Cos’è il mandato d’arresto europeo

Il mandato darresto europeo (MAE) è uno strumento giuridico creato per facilitare la cooperazione tra gli Stati membri dell’Unione Europea in materia penale. Introdotto con la decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio UE, esso mira a garantire un meccanismo rapido e semplificato per la consegna di persone accusate o condannate di reati. Vediamo nel dettaglio di cosa si tratta, come funziona e in quali casi è possibile rifiutare l’esecuzione del MAE.

Quando può essere utilizzato il MAE

Il mandato d’arresto europeo è un provvedimento giudiziario emesso da uno Stato membro dell’Unione Europea per richiedere l’arresto e la consegna di una persona che si trovi in un altro Stato membro. Può essere utilizzato sia per procedere nei confronti di un indagato in fase di accertamento del reato sia per eseguire una sentenza di condanna definitiva.

Il MAE ha sostituito i tradizionali strumenti di estradizione all’interno dell’Unione, eliminando ostacoli burocratici e abbreviando i tempi necessari per la consegna del soggetto ricercato. Il principio fondamentale su cui si basa è quello del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie tra gli Stati membri, che garantisce una maggiore efficienza nella lotta contro il crimine transfrontaliero.

Qual è la procedura per il mandato d’arresto europeo?

La procedura del mandato d’arresto europeo è articolata in diverse fasi, tutte disciplinate da norme comuni che si applicano in ogni Stato membro. Ecco i principali passaggi:

  1. Emissione del MAE: il mandato è emesso dall’autorità giudiziaria competente dello Stato richiedente, che lo trasmette tramite il Sistema Informativo Schengen (SIS) o altri canali come l’Interpol o la Rete Giudiziaria Europea.
  2. Arresto e notifica: una volta individuata la persona ricercata, le autorità dello Stato di esecuzione procedono all’arresto e notificano il MAE all’
  3. Convalida dellarresto e audizione: la persona arrestata viene presentata a un giudice nello Stato di esecuzione, il quale verifica i requisiti formali del MAE e garantisce che i diritti fondamentali della persona siano rispettati.
  4. Decisione sullesecuzione: il giudice dello Stato di esecuzione decide se accogliere o rifiutare il mandato d’arresto, considerando le condizioni previste dalla normativa UE e dal diritto nazionale.
  5. Consegna: se il MAE viene accettato, la persona è consegnata alle autorità dello Stato richiedente entro un termine massimo di 60 giorni dall’ In caso di ricorso, il termine può estendersi a 90 giorni.

Quando si può rifiutare il mandato d’arresto europeo

Nonostante la natura vincolante del MAE, ci sono situazioni in cui lo Stato di esecuzione può o deve rifiutare l’esecuzione del mandato. I principali motivi di rifiuto possono essere quindi obbligatori e facoltativi.

Motivi obbligatori

  • La persona è già stata giudicata in via definitiva per lo stesso reato in uno Stato membro (principio del ne bis in idem).
  • Il reato oggetto del MAE non è punibile nello Stato di esecuzione per amnistia.
  • Il soggetto è minorenne e, secondo la legislazione dello Stato di esecuzione, non può essere considerato penalmente responsabile.

Motivi facoltativi

  • Nel paese di esecuzione il fatto che è alla base del mandato di arresto non è reato
  • Azione penale in corso nel paese di esecuzione
  • Azione penale o pena prescritte.
  • Sentenza definitiva di uno Stato terzo.

Il MAE può essere rifiutato anche se esistono fondati motivi per ritenere che la persona rischi trattamenti inumani o degradanti nello Stato richiedente, come previsto dall’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE.

MAE: il manuale dell’Unione Europea

La Commissione europea ha reso disponibile un Manuale sull’emissione e l’esecuzione del mandato d’arresto europeo, concepito per agevolare e rendere più efficienti le attività quotidiane delle autorità giudiziarie coinvolte. Questo strumento fornisce indicazioni pratiche e dettagliate sulle varie fasi procedurali legate all’emissione e all’esecuzione del MAE. Inoltre, il manuale include un’ampia analisi della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, offrendo chiarimenti su specifiche disposizioni contenute nella decisione quadro relativa al MAE.

 

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interruzione trattative stragiudiziali

Interruzione trattative stragiudiziali: l’avvocato deve comunicarla Interruzione trattative stragiudiziali: viola l’articolo 46 comma 7 l’avvocato che non la comunica al collega di controparte

Avvocato non comunica l’interruzione delle trattative

E’ responsabile sotto il profilo disciplinare l’avvocato che non comunica al collega della controparte l’interruzione delle trattative stragiudiziali. Dalla sentenza del CNF n. 291/2024 risulta infatti che l’avvocato non ha informato il collega avverso del deposito di un ricorso per la regolamentazione del diritto di visita e la determinazione dell’assegno di mantenimento per un minore.

Interruzione trattative stragiudiziali non comunicata

Il procedimento disciplinare trae origine dall’esposto di un Avvocato. L’esponente ha lamentato di non essere stato informato dal collega difensore della parte avversa del deposito di un ricorso giudiziale, in pendenza di trattative stragiudiziali. Nel novembre 2017 si è tenuto un incontro tra le parti e i loro legali presso lo studio del collega incolpato, nel corso del quale quest’ultimo ha omesso di comunicare il deposito del ricorso. A distanza di due settimane circa l’avvocato ha inviato una comunicazione alla controparte senza menzionare ancora una volta il deposito del ricorso. Solamente a inizio dicembre 2017 ha informato il collega della volontà del proprio assistito di procedere con la notifica del ricorso.

L’Avvocato denunciato ha ammesso di aver depositato il ricorso il 3 novembre 2017. Lo stesso sostiene però di averlo comunicato alla controparte durante il primo incontro di novembre. Nelle sue difese ha evidenziato anche che con una comunicazione di fine ottobre 2017 aveva avvisato che, in assenza di un incontro entro la settimana successiva, avrebbe proceduto con il deposito del ricorso.

Avvocato responsabile della violazione dell’art. 46 CDF

Il CDD competente per territorio ha ritenuto l’Avvocato denunciato responsabile della violazione dell’art. 46, comma 7, del Codice Deontologico Forense. Lo stesso però ha considerato la condotta di ridotta gravità e ha applicato la sanzione dell’avvertimento. Il CDD ha motivato la propria decisione evidenziando che lo scambio di email tra i legali dimostrava l’esistenza di trattative stragiudiziali. Pertanto, il deposito del ricorso senza preventiva comunicazione rappresentava una violazione disciplinare.

L’Avvocato incolpato ha quindi impugnato la decisione dinanzi al Consiglio Nazionale Forense (CNF), sostenendo che il CDD avrebbe erroneamente interpretato gli elementi probatori, non considerando la documentazione prodotta. La decisione sarebbe stata presa in modo acritico, senza valutare adeguatamente le circostanze del caso. La condotta contestata infine sarebbe stata meritevole solo di un richiamo verbale in presenza di una violazione.

Obbligo di comunicazione al collega

Per il CNF però i motivi di impugnazione sono infondati per cui ha confermato la decisione del CDD. Il Consiglio Nazionale Forense ha sottolineato che l’obbligo deontologico di comunicare l’interruzione delle trattative è finalizzato a garantire trasparenza e correttezza nei rapporti tra colleghi. L’Avvocato, partecipando all’incontro dei primi di novembre, ha implicitamente riconosciuto l’esistenza di trattative in corso, pertanto avrebbe dovuto informare la collega del deposito del ricorso. Il CNF ha evidenziato inoltre che la normativa deontologica in materia di diritto di famiglia impone un’attenzione particolare agli interessi del minore. L’Avvocato ha infatti il dovere di ridurre il conflitto tra le parti e favorire una soluzione condivisa. Importantissima la trasparenza nei rapporti tra colleghi nelle cause di diritto di famiglia.

 

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spoils system

Spoils System: la guida Spoils System: che cos’è, normativa di riferimento dell'istituto, cosa dice la giurisprudenza e aspetti critici

Cos’è lo Spoils System?

Lo Spoils System, letteralmente “sistema delle spoglie”, è un meccanismo amministrativo-politico che prevede la sostituzione di funzionari pubblici o dirigenti con soggetti scelti direttamente dal governo in carica. Originariamente nato negli Stati Uniti, lo Spoils System si basa sul principio secondo cui, con il cambio di governo, anche gli incarichi apicali nell’amministrazione pubblica possono essere riassegnati per allineare la gestione alle politiche del nuovo esecutivo. Questo sistema è spesso al centro di dibattiti sul bilanciamento tra autonomia della pubblica amministrazione e influenza politica.

Normativa sullo Spoils System in Italia

In Italia, lo Spoils System ha trovato applicazione con specifiche disposizioni legislative, pur rimanendo limitato rispetto al modello statunitense.

  • Legge n. 145/2002: ha introdotto nel nostro ordinamento il principio secondo cui alcuni incarichi dirigenziali nella Pubblica Amministrazione possono cessare anticipatamente in caso di cambio di governo. L’obiettivo dichiarato della legge è quello di garantire maggiore coerenza tra le scelte politiche del nuovo esecutivo e la direzione amministrativa.
  • lgs. n. 165/2001: disciplina il rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici, prevedendo che gli incarichi apicali abbiano una durata definita e possano essere revocati in determinate circostanze, tra cui il cambio di governo.
  • lgs. n. 150/2009 (Riforma Brunetta): ha ulteriormente regolamentato la dirigenza pubblica, limitando l’applicazione dello Spoils System a incarichi dirigenziali di carattere fiduciario.

Giurisprudenza delle corti superiori

La giurisprudenza italiana si è più volte pronunciata sullo Spoils System, definendo i limiti e le condizioni di applicazione di questo sistema.

  • La Corte costituzionale ha stabilito che lo Spoils System non può essere applicato indiscriminatamente, ma solo in relazione a incarichi dirigenziali strettamente collegati alla funzione politica. Sentenze come la 103/2007 hanno ribadito che la revoca degli incarichi deve rispettare i principi di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione sanciti dall’art. 97 della Costituzione.
  • Il Consiglio di Stato nel parere n. 1979/2022 ha chiarito che la cessazione degli incarichi dirigenziali dopo 90 giorni dal voto di fiducia non impedisce al nuovo Governo di revocare l’incarico prima di tale termine, che rappresenta solo un limite massimo. Lo spoils system, applicabile a poche figure apicali per garantire coesione tra politica e amministrazione, non vincola il nuovo esecutivo alle scelte del precedente. L’efficienza dell’azione di governo non impone un’attesa obbligata fino ai 90 giorni, né l’ 19, comma 8, del d.lgs. 165/2001 conferisce un diritto alla permanenza per tale periodo.
  • La Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 15971/2024 ha invece sancito che“Ai fini dellapplicazione della normativa sul c.d. spoils system, la natura apicale dellincarico conferito con contratto a un dirigente va valutata tenendo conto, in linea di principio, della qualificazione formale di tale incarico contenuta nel contratto medesimo, senza che rilevi di per sé il semplice richiamo dell 16, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001, il quale individua le funzioni dei dirigenti di uffici dirigenziali generali statali, pur se in astratto incompatibile con la menzionata qualificazione. Per superare il dato formale, dal quale, comunque, occorre partire, è necessario verificare non tanto i poteri attribuiti al detto dirigente in concreto, ma se egli sia stato posto a capo di una struttura che, da un punto di vista organizzativo, abbia le stesse caratteristiche di un ufficio apicale, in modo da distinguersi e aggiungersi, per la sua totale autonomia, a quelli già esistenti”. 

Critiche e implicazioni dello Spoils System

Lo Spoils System è oggetto di critiche per il rischio di politicizzazione della Pubblica Amministrazione e di perdita di competenze tecniche nei ruoli apicali. Tuttavia, i sostenitori sottolineano che esso consente un migliore allineamento tra amministrazione e obiettivi politici del governo in carica.

 

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giurista risponde

Contratto pubblico e affidamento: la motivazione della decisione di non aggiudicare La decisione di non aggiudicare un appalto deve essere motivata anche nella fase antecedente all’aggiudicazione?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, la decisione di non aggiudicare un appalto deve essere motivata anche prima dell’aggiudicazione, sussistendo un affidamento dell’operatore economico (T.A.R. Sicilia, Catania, sez. I, 7 novembre 2024, n. 3683).

Preliminarmente, in base all’art. 90 del D.Lgs. 36/2023, la decisione di non aggiudicare un appalto deve essere necessariamente comunicata e la medesima decisione deve essere, senza alcuna attenuazione, espressamente motivata anche nella fase antecedente alla aggiudicazione.

Inoltre, alla luce dell’art. 5 del codice dei contratti pubblici, per il principio di buona fede, anche prima dell’aggiudicazione sussiste un affidamento dell’operatore economico sul legittimo esercizio del potere e sulla conformità del comportamento amministrativo al detto principio.

Pertanto, la caducazione della procedura, per altro a fronte di una posizione comunque differenziata relativa al partecipante alla selezione, la cui offerta, seppur in via provvisoria, è stata ritenuta migliore, deve trovare una solida motivazione.

Il principio della reciproca fiducia non può non confluire nel principio di trasparenza ed efficienza. Il comportamento delle stazioni appaltanti va relazionato all’assoluta rappresentazione, in qualunque fase, delle motivazioni che ne determinano l’operato e ciò ancor più laddove viene messa nel nulla una procedura avviata dalla medesima amministrazione, senza che la stessa, per altro, venga definitivamente caducata, ma eventualmente riproposta emendata da asseriti errori procedurali, che devono essere tali da dover necessariamente determinare l’impossibilità di concludere l’originario procedimento.

 

(*Contributo in tema di “Contratto pubblico e affidamento: la motivazione della decisione di non aggiudicare”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 80 / Dicembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

autovelox mobile

Autovelox mobile segnalato da cartello “fisso”: multa valida Autovelox mobile: legittima la multa anche se l'apparecchio di rilevazione della velocità è segnalato la un cartello fisso

Autovelox mobile segnalato da cartello fisso

È legittima la multa elevata tramite una postazione autovelox mobile segnalata unicamente con un cartello “fisso”. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2857/2025.

La legge non richiede l’uso di cartelli mobili per segnalare le postazioni mobili di controllo della velocità. È sufficiente che la postazione sia segnalata in modo chiaro e visibile. Non importa che il cartello sia fisso o mobile.

Superamento limiti velocità: multa contestata

Un conducente riceve un verbale di contestazione per il superamento dei limiti di velocità. Per questa violazione gli viene   irrogata una multa di 1.658,00 euro, decurtati 10 punti dalla patente con sospensione della stessa per sei mesi.

Tra le ragioni del ricorso per la contestazione del verbale figura la segnalazione non adeguata dell’apparecchio con cartelli mobili, nel rispetto del Dm 13 giugno 2017. Dal verbale inoltre non risultano la tipologia del dispositivo utilizzato (fisso o mobile), i dati dell’omologazione ministeriale, i riferimenti alla taratura e alle prescritte verifiche periodiche per accertare la funzionalità dell’apparecchio. La Prefettura nel resistere al ricorso afferma il corretto allestimento della postazione di controllo e la regolarità dei risultati degli apparecchi di rilevazione della velocità.

Legittima la segnalazione permanente

Il Giudice di pace rigetta il ricorso del conducente precisando che “la presegnalazione del dispositivo di rilevazione della velocità poteva legittimamente essere effettuata alternativamente con segnaletica temporanea o permanente.”

Il conducente impugna la decisione davanti al Tribunale competente. Questa autorità giudiziaria, nella sua qualità di giudice dell’appello conferma la sentenza impugnata e la conseguente legittimità della rilevazione e della multa irrogata. Il conducente però non si arrende e ricorre in Cassazione.

Autovelox mobile: con cartello fisso la multa è legittima

La Suprema Corte però boccia tutti i motivi del ricorse. Per quanto riguarda poi nello specifico la  contestazione sulla validità della postazione mobile di controllo della velocità con cartello fisso gli Ermellini precisano che la legge italiana non impone che la postazione mobile per il rilevamento della velocità debba essere obbligatoriamente segnalata tramite cartelli mobili. L’importante è che gli automobilisti siano avvisati della possibilità di controlli della velocità in un determinato tratto di strada.

Questa funzione di avviso può essere svolta da qualsiasi tipo di cartello, sia fisso che mobile, senza alcuna distinzione. Questo significa che per legge, non è obbligatorio l’utilizzo di un cartello mobile per segnalare la presenza di una postazione di controllo della velocità.La funzione di avviso può essere assolta da qualsiasi cartello, sia fisso che mobile. L’importante è che il cartello sia ben visibile e che avvisi gli automobilisti della possibilità di controlli della velocità indipendentemente dal tipo di postazione (fissa o mobile), è fondamentale che sia adeguatamente segnalata e ben visibile.

 

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comodato familiare

Il comodato familiare Contratto di comodato familiare: a cosa serve e qual è la disciplina. Quando è possibile chiedere la restituzione del bene secondo la Cassazione

Comodato familiare: cos’è e come funziona

Per comodato familiare si intende il contratto con cui il proprietario (comodante) concede gratuitamente la disponibilità di un immobile ad un soggetto (comodatario, in questo caso solitamente il figlio/a del comodante) con lo specifico scopo di soddisfare le esigenze della famiglia di quest’ultimo.

Dal punto di vista pratico, dunque, il quadro è chiaro: il comodato familiare è la soluzione con cui, in genere, i genitori provvedono a procurare un’abitazione al proprio figlio/a per consentirgli di risiedervi con la propria famiglia.

Sotto l’aspetto giuridico, come vedremo, l’istituto del comodato familiare pone degli interrogativi in ordine alla possibilità di richiedere la restituzione del bene da parte del comodante e alla destinazione del bene in caso di separazione dei coniugi beneficiari del comodato (o di conclusione della loro convivenza).

Il contratto di comodato: disciplina generale

In linea generale, il comodato è il contratto con cui si concede l’uso gratuito di un bene mobile o immobile, con l’obbligo per il comodatario di conservarlo con la diligenza del buon padre di famiglia e di restituirlo al termine dell’utilizzo o allo scadere della durata concordata nel contratto.

Il contratto di comodato, che può essere concluso per iscritto o verbalmente, si perfeziona con la consegna del bene (in questo, oltre che per la gratuità, si differenzia dalla locazione, che invece si perfeziona con la stipula del contratto). La consegna del bene, peraltro, genera la mera detenzione da parte del comodatario e non il possesso, e di conseguenza non si configurano i presupposti di una possibile successiva usucapione.

In particolare: il comodato precario

Un aspetto rilevante ai fini dell’analisi del comodato familiare è la distinzione tra comodato a tempo determinato e il c.d. comodato precario.

Va ricordato, infatti, che in un contratto di comodato non è obbligatorio stabilire la durata: ciò ha importanti conseguenze in tema di restituzione del bene.

In particolare, se il comodato è previsto per una durata predeterminata o per un utilizzo specifico, il comodatario sarà tenuto a restituire il bene alla scadenza o al termine dell’utilizzo, e il comodante potrà richiederne la restituzione anticipata solamente in caso di insorgenza di un bisogno urgente e imprevedibile.

Diversamente, se il contratto non prevede alcuna scadenza, né questa sia desumibile dall’uso cui la cosa è destinata, il comodante può richiedere la restituzione del bene ad nutum, cioè in qualsiasi momento, ed il comodatario è tenuto ad adempiere. In questo caso, come detto, si parla di comodato precario, un istituto che trova la sua disciplina nell’art. 1810 del codice civile.

Il termine di durata nel comodato familiare

Tale distinzione ha importanti riflessi sulla disciplina del comodato familiare.

Sono molto frequenti, infatti, nell’esperienza dei nostri tribunali, le controversie relative all’interpretazione del contratto di comodato familiare e in particolare all’individuazione dell’esistenza o meno di un termine di durata.

Ebbene, il costante orientamento della giurisprudenza, anche di legittimità, è quello di inquadrare il comodato familiare nella disciplina generale del comodato (artt. 1803-1809 c.c.) e non in quella particolare del comodato precario di cui all’art. 1810.

Infatti, il contratto stipulato allo scopo di soddisfare le esigenze della famiglia del comodatario contiene di per sé un termine implicito, che afferisce all’esistenza di tali necessità. Solo nel momento in cui non sussistono più i bisogni familiari insorge il diritto alla restituzione da parte del comodante.

Ciò significa che nel comodato familiare il comodante non ha diritto di richiedere in qualsiasi momento la restituzione del bene (come invece accade nel comodato precario), ma può farlo solo quando vengano meno le necessità della famiglia o quando insorga una necessità del comodante imprevista ed urgente, come da disciplina generale.

Comodato familiare e separazione, la giurisprudenza

Va ulteriormente precisato che il termine implicito di durata così individuato fa riferimento non già all’esistenza della famiglia del comodatario, ma alla sussistenza delle necessità della stessa: ciò significa che il diritto alla detenzione del bene continua a sussistere anche in caso di separazione dei coniugi (o di conclusione della convivenza di fatto), e anche se l’immobile oggetto di comodato sia assegnato al coniuge collocatario che non sia il figlio/a del comodante.

Così, ad esempio, se i genitori del marito concedono in comodato familiare un immobile di loro proprietà al proprio figlio e questi, successivamente, si separi dalla moglie e il giudice assegni a quest’ultima l’immobile in quanto collocataria della prole, il comodato familiare continuerà a sussistere (esistendo ancora le esigenze della famiglia), nonostante il figlio/comodatario non vi abiti più.

Tutto questo è confermato da costante giurisprudenza di Cassazione, tra le cui pronunce segnaliamo la recente ordinanza Cassazione n. 573 del 9 gennaio 2025 e la sentenza delle Sezioni Unite n. 20448 del 2014. Riguardo alla necessità urgente e imprevista che dà diritto al comodante di chiedere la restituzione prima del termine, si veda Cass. n. 18619/2010, secondo cui tale bisogno deve essere “serio e non voluttuario”. Per l’applicabilità di quanto sopra esposto anche ad una situazione di convivenza di fatto, si rimanda a Cass. n. 13592/2011.

 

Per ulteriori approfondimenti, vedi anche la nostra guida generale al contratto di comodato

sequestro del coniuge

Sequestro del coniuge: ok alla procedibilità d’ufficio Per la Consulta non è in contrasto con la Costituzione la procedibilità d'ufficio del sequestro di persona in danno del coniuge

Sequestro del coniuge e procedibilità del reato

Sequestro del coniuge: non è manifestamente irragionevole, né viola le indicazioni della legge delega, la scelta della “riforma Cartabia” di mantenere la procedibilità d’ufficio del sequestro di persona, quando sia commesso in danno del proprio coniuge. E’ quanto ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 9/2025, ritenendo non fondata la questione sollevata dal Gup del Tribunale di Grosseto.

La qlc

Il giudice doveva decidere della responsabilità di un uomo che aveva aggredito la propria moglie, dalla quale si era separato di fatto da qualche mese, e il nuovo compagno di lei. Per la ricostruzione del pm, l’imputato avrebbe puntato una pistola contro di loro, costringendoli a entrare nella casa del nuovo compagno. Qui avrebbe chiuso la porta alle proprie spalle, minacciando entrambi di morte e colpendoli alla testa con il proprio casco. La donna e il compagno avevano rimesso la querela presentata contro l’imputato, che nel frattempo aveva risarcito loro i danni.

Tuttavia, la remissione della querela non aveva prodotto effetto, tra l’altro, rispetto al reato di sequestro di persona commesso in danno della moglie dell’imputato. Mentre, infatti, il decreto legislativo n. 150 del 2022 (riforma Cartabia) ha reso in via generale il sequestro di persona procedibile a querela di parte, la procedibilità d’ufficio è stata mantenuta in una serie di ipotesi aggravate, tra cui quella di specie.

Il GUP di Grosseto aveva, quindi, chiesto che tale disciplina fosse dichiarata incostituzionale. Secondo il giudice, le ragioni che hanno indotto il legislatore del 2022 a subordinare la punibilità del sequestro di persona alla querela della persona offesa varrebbero a maggior ragione nell’ipotesi in cui autore e vittima siano uniti in matrimonio. E ciò anche a garanzia del valore dell’unità familiare, riconosciuto come tale dall’articolo 29 Cost.

La decisione della Consulta

La Corte non ha condiviso questa prospettazione. La Consulta ha sottolineato che il legislatore ha mantenuto il regime di procedibilità d’ufficio di alcune ipotesi aggravate di sequestro di persona in cui vi siano particolari esigenze di tutela della vittima nelle relazioni familiari. Nell’ambito di queste relazioni esiste un concreto rischio che i soggetti più vulnerabili siano esposti a pressioni indebite, affinché non presentino querela o la rimettano.

Proprio per tale ragione, ha affermato la Corte, “la Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, ratificata dall’Italia nel 2013, vieta agli Stati che ne sono parte di subordinare alla querela della parte i procedimenti penali per i reati di violenza fisica contro questa tipologia di persone offese”. E stabilisce “che il processo penale debba continuare anche quando la vittima ritiri la propria denuncia”.

“L’interesse alla conservazione dell’unità del nucleo familiare – ha concluso il giudice delle leggi – non può prevalere rispetto alla necessità di tutelare i diritti fondamentali delle singole persone che ne fanno parte”.