trust

Il trust Il trust: cos'è, quale legge lo regola, chi sono i soggetti protagonisti dell'istituto e per quali finalità viene disposto

Cos’è il Trust

Il trust può essere definito come un rapporto giuridico in base al quale un soggetto, il disponente (o settlor), trasferisce beni (denaro, immobili, partecipazioni societarie, ecc.) a un altro soggetto, il trustee, che li gestisce in nome proprio, ma nell’interesse di uno o più beneficiari o per il raggiungimento di uno scopo specifico, secondo le istruzioni impartite dal disponente in un atto scritto. L’elemento distintivo del trust è la segregazione patrimoniale. I beni che vengono conferiti nel trust formano infatti un patrimonio distinto dal patrimonio personale del trustee e del disponente. In questo modo i beni risultano insensibili alle vicende personali (creditori, fallimenti, successioni) di questi due soggetti. Lo scopo per cui viene istituito  il trust deve essere meritevole di tutela dall’ordinamento giuridico di riferimento affinché l’istituto sia valido.

Riferimenti normativi

In Italia, il trust non è stato istituito e regolato da una legge nazionale. La sua presenza e la sua disciplina nel nostro ordinamento derivano dalla ratifica della Convenzione dell’Aja del 1985 sulla legge applicabile ai trust e sul loro riconoscimento. La ratifica è avvenuta tramite la Legge 16 ottobre 1989, n. 364, in vigore dal 1° gennaio 1992. Questo significa che, stante l’assenza di una legge italiana che lo disciplini, l’istituto è pienamente riconosciuto e le sue regole di funzionamento sono dettate dalla legge straniera scelta dal disponente, a patto che sia conforme ai principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico.

I soggetti del Trust

Per capire il trust, è necessario conoscere i soggetti coinvolti e i rispettivi ruoli.

  • Il disponente (o settlor) è la persona che decide di istituire il trust. È colui che segrega il proprio patrimonio (o parte di esso) e lo destina a uno scopo specifico, trasferendone la titolarità al trustee. Il disponente definisce le regole del trust, gli scopi e i beneficiari, esercitando un ruolo centrale nella sua creazione.
  • Il trustee: è il soggetto che riceve i beni dal disponente. È il gestore fiduciario del patrimonio, vincolato da un obbligo di fedeltà e buona fede nell’amministrazione dei beni. Il trustee non è il proprietario dei beni, ma ne detiene la titolarità “qualificata” o “fiduciaria” per il raggiungimento delle finalità indicate dal disponente e nell’interesse dei beneficiari. I suoi compiti sono indicati nell’atto istitutivo del trust e nella legge ad esso applicabile. Il trustee può essere una persona fisica o giuridica, e può essere anche uno dei beneficiari, purché non sia l’unico.
  • I beneficiari: sono le persone (fisiche o giuridiche) che traggono vantaggio dalla gestione del trust. Il disponente li può individuare singolarmente, ma possono essere anche categorie di soggetti. Beneficiari del trust possono essere anche soggetti non ancora nati nel momento in cui  viene costituito. Il trust infine può nascere anche per perseguire uno scopo specifico (trust di scopo).
  • Il guardiano (o protector) è una figura eventuale, ma sempre più diffusa nei trust moderni. Il suo compito è di vigilare sul trustee e sulla sua attività, per verificare che lo stesso  agisca in linea sia con le volontà del disponente che nell’interesse dei beneficiari. Il guardiano può avere poteri specifici, come la nomina o revoca del trustee, l’approvazione di determinate operazioni o la modifica dell’atto di trust. Questa figura offre un ulteriore livello di protezione e controllo, soprattutto in presenza di situazioni complesse o di lunga durata.

I diversi usi del trust

Analizziamo ora le finalità per le quali si ricorre al trust.

Protezione dei beni: il disponente trasferisce i beni al trustee per segregare il patrimonio. I beneficiari possono essere lo stesso disponente, i suoi familiari o altri soggetti. Con il trust  i beni sono protetti da rischi professionali o personali. Il guardiano può assicurare che il trustee agisca sempre a tutela di questo patrimonio.

Tutela di minori e dei soggetti diversamente abili: il disponente costituisce il trust per garantire il sostegno a beneficiari vulnerabili. Il trustee deve gestire i beni nel rispetto delle istruzioni ricevute, e deve assicurare che i fondi vengano gestiti per le esigenze dei beneficiari. In questo caso è utile la presenza di un guardiano per monitorare le attività del trustee.

Tutela del patrimonio per finalità successorie: il disponente pianifica la successione, affidando al trustee il compito di gestire e distribuire i beni ai beneficiari (eredi) nel tempo, prevenendo sperperi o cattive gestioni.

Beneficenza: i beneficiari in questo caso sono la comunità o una causa determinata. Il trustee gestisce i fondi per finalità caritatevoli.

Forme di investimento e pensionistiche: il disponente affida i fondi a un trustee  che li investe a beneficio di beneficiari. In questo caso l’istituto presenta delle similitudini con i fondi comuni o i fondi pensione.

Vantaggi fiscali: anche se non deve essere l’unico scopo, questo istituto può offrire vantaggi fiscali. I soggetti (disponente, trustee, beneficiari) devono operare però sempre nel rispetto delle normative per evitare il rischio di elusione o evasione.

 

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rifiuto della quarta pec

Rifiuto della quarta pec: focus sui motivi del rigetto La Cassazione chiarisce che in caso di rifiuto della quarta pec, la parte deve contestare solo le ragioni indicate dalla cancelleria

Deposito PCT rigettato

Rifiuto della quarta pec: con l’ordinanza n. 15801/2025, la prima sezione civile della Corte di Cassazione ha stabilito un importante principio in materia di processo civile telematico (PCT). Quando un atto viene rifiutato dalla cancelleria a seguito del controllo manuale (la cosiddetta “quarta PEC”), l’onere della parte si limita a contestare i motivi indicati nel rigetto, senza dover dimostrare la regolarità dell’intero processo di invio.

Il caso concreto riguardava una S.c.a.r.l. che aveva proposto opposizione allo stato passivo di un fallimento, ma il Tribunale di Teramo aveva dichiarato il ricorso tardivo, ritenendo insufficiente la documentazione relativa al primo deposito, avvenuto via PEC.

Perfezionamento deposito telematico

Nel processo civile telematico, ogni deposito genera quattro distinte comunicazioni PEC:

  1. Ricevuta di accettazione: il sistema accoglie il messaggio inviato;

  2. Ricevuta di consegna: l’atto arriva alla casella PEC dell’ufficio giudiziario;

  3. Controlli automatici: verifica formale dell’indirizzo del mittente, del formato e della dimensione;

  4. Controllo del cancelliere: verifica manuale e definitiva accettazione (o rigetto).

Il deposito si considera perfezionato già al momento della seconda PEC, con effetto provvisorio, salvo successivo buon esito della verifica finale da parte della cancelleria.

Basta la contestazione mirata

Nel caso analizzato, il deposito iniziale del 14 marzo 2016 era stato rifiutato il 18 marzo con la quarta PEC. L’opponente aveva poi effettuato un nuovo deposito cartaceo il 30 marzo, allegando le quattro ricevute PEC.

Il Tribunale aveva ritenuto la prova insufficiente, poiché mancavano i file originali e il contenuto informatico del primo atto. Ma per la Cassazione questa impostazione è errata: la parte non deve dimostrare l’intero iter tecnico, ma può concentrarsi esclusivamente sui motivi esplicitati nel rigetto della cancelleria.

Il principio di diritto della Cassazione

Secondo la Suprema Corte: “Nell’ipotesi in cui la quarta p.e.c. dia esito non favorevole, la parte ha l’onere di attivarsi con immediatezza per rimediare al mancato perfezionamento del deposito telematico; la reazione immediata si sostanzia, alternativamente e secondo i casi:

(a) in un nuovo tempestivo deposito, da considerare in continuazione con la precedente attività, previa contestazione delle ragioni del rifiuto;
(b) in una tempestiva formulazione dell’istanza di rimessione in termini ove la decadenza si assuma in effetti avvenuta ma per fatto non imputabile alla parte.”

In altre parole, basta contestare i motivi specifici contenuti nella quarta PEC. La prova dell’intera regolarità tecnica o del contenuto del ricorso non può essere richiesta dal giudice, salvo specifica eccezione della controparte.

Giudizio da rifare

Rilevata l’erroneità del ragionamento del giudice di merito, la Cassazione ha rinviato il procedimento al Tribunale di Teramo, in diversa composizione, affinché valuti:

  • la tempestività della reazione della parte al rifiuto;

  • la legittimità delle ragioni del rigetto indicate dalla cancelleria.

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delibera condominiale

Delibera condominiale non impugnabile per danni irrisori Secondo il Tribunale di Firenze, non è ammissibile l’impugnazione di una delibera condominiale per un danno economico minimo. Serve un interesse concreto e patrimoniale rilevante

Impugnazione delibera condominiale

Il Tribunale di Firenze, con sentenza n. 1619/2025, ha stabilito che non può essere impugnata una delibera condominiale quando il danno economico lamentato è di entità trascurabile e privo di rilevanza patrimoniale apprezzabile.

La causa nasceva dalla contestazione di un rendiconto condominiale che addebitava ad un condomino una quota di spese legali superiore di circa trenta euro rispetto alla sua reale competenza. L’interessato aveva chiesto l’annullamento della delibera assembleare che approvava quel rendiconto, ritenendo la differenza indebita. Tuttavia, il Tribunale ha ritenuto la domanda inammissibile per difetto di interesse ad agire.

Richiamando l’art. 100 c.p.c. e la giurisprudenza di legittimità (tra cui Cass. n. 6128/2017), il giudice ha sottolineato che non è sufficiente una divergenza di principio o un pregiudizio di entità minima per fondare un’azione giudiziaria. È necessario, invece, che l’interesse ad agire sia personale, concreto, attuale e patrimonialmente rilevante. Il giudizio civile, infatti, non può essere strumentalizzato per mere rivendicazioni simboliche o per contenziosi di scarsa consistenza economica.

La pronuncia si inserisce nel solco della giurisprudenza che tutela l’effettività della funzione giurisdizionale e disincentiva l’uso improprio del processo per finalità non sostanziali.

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nuda proprietà

Nuda proprietà Nuda proprietà: cos’è, il legame con l’usufrutto, riferimenti normativi, vantaggi, svantaggi, aspetti fiscali e consolidazione

Cos’è la nuda proprietà

La nuda proprietà si distingue dalla piena proprietà, perché si realizza quando su un bene immobile gravano diritti di godimento a favore di altri soggetti. Chi possiede la nuda proprietà detiene la “scatola” dell’immobile, ma non può utilizzarlo o percepirne i frutti finché un altro soggetto, l’usufruttuario, ne ha il diritto.

Nuda proprietà e usufrutto

Per cogliere appieno la nuda proprietà, è quindi essenziale capire l’usufrutto. L’usufrutto è un diritto reale di godimento su cosa altrui. L’usufruttuario può godere del bene, usarlo e trarne i frutti (naturali e civili), con il vincolo di rispettarne la destinazione economica, senza possibilità di cambiarla.

L’usufrutto può essere costituito per legge (usufrutto legale), per volontà delle parti (contratto o testamento) o per usucapione. La sua durata è limitata: esso si estingue con la morte dell’usufruttuario (se persona fisica) o decorso il periodo massimo di trent’anni (se a favore di persona giuridica). Questo significa che l’usufrutto non può essere trasmesso agli eredi dell’usufruttuario e, se ceduto a terzi, si estingue comunque con la morte del cedente originario.

L’usufruttuario, pur non essendo proprietario, può agire come tale agli occhi di terzi, possedendo il bene e potendolo affittare. Tuttavia, non può vendere l’immobile, ma solo il suo diritto di usufrutto.

Riferimenti normativi

La disciplina della nuda proprietà, poiché legata al diritto di usufrutto, è contenuta nell’articolo 978 e seguenti del Codice Civile, che regolamentano questo diritto reale.

Le norme di natura fiscale invece sono contenute nelle leggi fiscali e nei regolamenti degli enti locali competenti.

Acquisto della nuda proprietà

La nuda proprietà di un immobile si acquista comprando, ereditando o ricevendo in donazione un bene la cui piena titolarità è priva del diritto di utilizzo e di godimento fino alla morte dell’usufruttuario. Questa forma di acquisizione può essere vantaggiosa per diverse ragioni. Il suo valore economico, ad esempio, è inferiore a quello della piena proprietà, ma si ricompone una volta cessato l’usufrutto. In particolare, il valore della nuda proprietà vitalizia dipende dall’età dell’usufruttuario: più è anziano, maggiore è il valore della nuda proprietà al momento dell’acquisto, poiché la durata prevista dell’usufrutto è minore. Questo rende la nuda proprietà un investimento interessante, perché il suo valore può aumentare nel tempo, mano a mano che l’usufruttuario invecchia.

Vantaggi  

Acquistare la nuda proprietà offre quindi diversi vantaggi:

  • l’immobile viene acquisito a un prezzo inferiore rispetto alla piena proprietà;
  • il valore dell’immobile tende a crescere nel tempo con l’invecchiamento dell’usufruttuario e l’aumento del valore di mercato:
  • il nudo proprietario non deve sostenere le spese di manutenzione ordinaria, quelle di amministrazione e custodia, né il carico fiscale ordinario, che sono a carico dell’usufruttuario;
  • per chi vende, è un modo per ottenere liquidità mantenendo il diritto di abitare l’immobile;
  • per chi compra, può essere un investimento a lungo termine per i figli.

Svantaggi  

Nonostante i vantaggi, l’istituto presenta anche degli svantaggi:

  • il nudo proprietario deve attendere la cessazione dell’usufrutto per poter godere pienamente dell’immobile;
  • le spese di manutenzione straordinaria sono a carico del nudo proprietario;
  • chi vende la nuda proprietà conservando l’usufrutto non può vendere il bene e deve conservarlo in buono stato.

Nuda proprietà e imposte

Il nudo proprietario non è gravato dai carichi fiscali sull’immobile, poiché questi sono a carico dell’usufruttuario. L’usufruttuario è tenuto infatti a pagare imposte come IMU, TASI e IRPEF. Al nudo proprietario spettano solo le imposte indirette, su una base imponibile ridotta del valore dell’usufrutto. All’inizio e alla fine dell’usufrutto, i carichi fiscali si ripartiscono proporzionalmente.

Estinzione usufrutto e acquisizione proprietà

Il nudo proprietario ottiene la piena titolarità dell’immobile alla cessazione dell’usufrutto grazie all’istituto della “consolidazione”, che si realizza quando i poteri di godimento e utilizzo si riuniscono.

L’usufrutto può estinguersi per diverse ragioni:

  • morte dell’usufruttuario (sia per usufrutto vitalizio che temporaneo);
  • scadenza del termine (per usufrutto temporaneo);
  • cessione del diritto dall’usufruttuario al nudo proprietario:
  • prescrizione, che si verifica e l’usufruttuario non esercita i suoi poteri per almeno vent’anni.
  • distruzione totale del bene causata dall’usufruttuario;
  • rinuncia dell’usufruttuario;
  • abusi o inadempimenti gravi dell’usufruttuario che causano un danno rilevante all’immobile, portando all’estinzione giudiziale dell’usufrutto e a un possibile risarcimento.

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vittimizzazione secondaria

Vittimizzazione secondaria Vittimizzazione secondaria: quando la vittima diventa nuovamente vittima, cosa dice la legge e la giurisprudenza

Cos’è la vittimizzazione secondaria

La vittimizzazione secondaria è un fenomeno complesso che si verifica quando la vittima di un reato subisce ulteriori danni a causa del modo in cui viene trattata dalle istituzioni, dai media o dalla società. Si tratta di una forma di violenza che si aggiunge al trauma originale, aggravando le conseguenze psicologiche e sociali per la vittima.

Fasi del processo di vittimizzazione secondaria

Il processo di vittimizzazione secondaria può essere suddiviso in diverse fasi.

  1. Negazione o minimizzazione del trauma: la vittima può sentirsi non creduta o sminuita nelle sue sofferenze.
  2. Colpevolizzazione della vittima (victim blaming): la vittima viene ritenuta responsabile dell’accaduto, insinuando che avrebbe potuto evitarlo.
  3. Giudizio morale: la vittima viene giudicata per le sue scelte o comportamenti, spesso basati su stereotipi e pregiudizi.
  4. Mancanza di supporto: la vittima si sente isolata e abbandonata, senza ricevere il sostegno necessario per superare il trauma.
  5. Rivittimizzazione istituzionale: la vittima subisce ulteriori traumi a causa di procedure legali, mediche o sociali inadeguate.

Cosa dice la legge

La legge italiana, in particolare il “Codice Rosso” (Legge n. 69/2019), mira a contrastare la vittimizzazione secondaria, prevedendo misure per tutelare le vittime di violenza domestica e di genere. La piena attuazione di queste misure richiede tuttavia un cambiamento culturale e una maggiore consapevolezza da parte di tutti gli operatori coinvolti.

Victim blaming: colpevolizzazione della vittima

Il victim blaming è una forma di vittimizzazione secondaria che consiste nell’attribuire la responsabilità del reato alla vittima stessa. Questo fenomeno è particolarmente diffuso nei casi di violenza sessuale, dove la vittima viene spesso giudicata per il suo abbigliamento, il suo comportamento o il suo stile di vita.

Conseguenze della vittimizzazione secondaria

La vittimizzazione secondaria può avere gravi conseguenze sulla salute mentale e sul benessere della vittima, tra cui:

  • disturbo da stress post-traumatico (PTSD);
  • depressione;
  • ansia;
  • isolamento sociale;
  • difficoltà a fidarsi degli altri;
  • riluttanza a denunciare altri reati.

Come contrastare la vittimizzazione secondaria

Per contrastare la vittimizzazione secondaria, è necessario:

  • promuovere una cultura del rispetto e della non colpevolizzazione delle vittime di determinati reati;
  • formare gli operatori delle istituzioni per garantire un trattamento adeguato alle vittime;
  • sensibilizzare l’opinione pubblica sui rischi del victim blaming;
  • offrire sostegno psicologico e legale alle vittime.

Giurisprudenza  di rilievo

Cassazione n. 11631/2024: nei procedimenti sulla responsabilità genitoriale, se si sospettano violenze domestiche, il giudice deve valutare attentamente. Anche per fatti precedenti alla nuova legge, se non esclude la violenza e decide di adottare provvedimenti, deve considerare un aspetto cruciale. Deve verificare che le misure prese non creino ulteriori sofferenze o danni alla vittima. Questo significa evitare la “vittimizzazione secondaria”.

Cassazione n. 12066/2023: la Cassazione ha esaminato il caso di una donna condannata per calunnia. La Corte d’Appello di Bari riteneva che avesse falsamente accusato l’ex marito di violenza sessuale sul figlio. La Corte motivava la condanna ipotizzando un movente legato al rifiuto dell’uomo di sposarla. La Cassazione ha annullato la sentenza. Ha riconosciuto che la decisione della Corte d’Appello ignorava il concetto di vittimizzazione secondaria. Questo fenomeno si verifica quando la vittima subisce ulteriori danni dal sistema giudiziario durante il processo. La Cassazione ha sottolineato l’importanza di considerare questo aspetto nei casi di presunta violenza.

Cedu caso J.L. c. Italia 27.05.2021: gli Stati devono “organizzare la procedura penale in modo da non mettere indebitamente in pericolo la vita, la libertà o la sicurezza dei testimoni, e in particolare quella delle vittime chiamate a deporre. Gli interessi della difesa devono dunque essere bilanciati con quelli dei testimoni o delle vittime chiamate a testimoniare (…)” Ciò significa che deve essere assicurata “una presa in carico adeguata della vittima durante la procedura penale, e questo al fine di proteggerla dalla vittimizzazione secondaria (…).”

 

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spese processuali

Spese processuali anche se il reato è prescritto La sentenza della Cassazione chiarisce che la prescrizione non evita la condanna dell’imputato alle spese della parte civile

Spese processuali e prescrizione

Con la sentenza n. 18619/2025, la seconda sezione penale della Corte di Cassazione ha ribadito un importante principio in materia di spese processuali in caso di estinzione del reato per prescrizione, affermando che l’imputato può essere comunque condannato al rimborso delle spese sostenute dalla parte civile, anche se non vi è stata pronuncia di colpevolezza.

Il fatto

Nel caso esaminato, il tribunale di merito aveva dichiarato l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione. Nonostante ciò, il giudice aveva condannato l’imputato al pagamento delle spese legali sostenute dalla parte civile costituitasi nel processo. L’imputato aveva proposto ricorso per cassazione, sostenendo che, venendo meno l’accertamento della responsabilità penale, non vi fosse legittimazione a imporre il pagamento delle spese a suo carico.

La motivazione della Corte

La Cassazione ha rigettato il ricorso e ha riaffermato che:

“Nell’ipotesi di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, l’imputato può comunque essere condannato al pagamento delle spese in favore della parte civile, non essendo la prescrizione indice di soccombenza”.

Secondo la Corte, la prescrizione non implica una pronuncia di assoluzione né tantomeno una valutazione favorevole in ordine alla fondatezza delle difese dell’imputato. Anzi, nel processo penale, la decisione di non proseguire per intervenuta estinzione del reato non impedisce al giudice di decidere sulle spese processuali, tenendo conto del comportamento complessivo delle parti.

Il principio di diritto affermato

Il principio sancito dalla sentenza è il seguente:

Anche in caso di estinzione del reato per prescrizione, l’imputato può essere condannato al pagamento delle spese sostenute dalla parte civile, soprattutto quando quest’ultima si sia costituita tempestivamente e la sua pretesa risarcitoria non sia risultata temeraria o strumentale.

Ciò si fonda sull’interpretazione sistematica dell’art. 541 c.p.p., secondo cui il giudice, nel disporre la condanna alle spese, può tener conto dell’andamento processuale e delle risultanze probatorie, pur senza emettere un giudizio di responsabilità.

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giurista risponde

Infedele patrocinio: il nocumento come elemento costitutivo della fattispecie Può ritenersi integrato il delitto di patrocinio infedele di cui all’art. 380 c.p. al cospetto della violazione di doveri professionali dai quali non consegua alcun nocumento?

Quesito con risposta a cura di Giulia Boursier Niutta e Tiziana Cassano

 

In tema di reati contro l’attività giudiziaria, il reato di patrocinio infedele non è integrato dalla sola violazione dei doveri professionali, occorrendo anche la verificazione di un nocumento agli interessi della parte, che può essere costituito dal mancato conseguimento di risultati favorevoli, ovvero da situazioni processuali pregiudizievoli, ancorché verificatesi in una fase intermedia del procedimento, che ne ritardino o impediscano la prosecuzione. – Cass., sez. VI, 28 gennaio 2025, n. 3431.

Con sent. 3431/2025, la Suprema Corte – chiamata a pronunciarsi in tema di patrocinio infedele previsto e punito dall’art. 380 c.p. – conformandosi all’orientamento giurisprudenziale in seno alla stessa consolidatosi, è tornata a sancire la necessità, ai fini dell’integrazione del delitto di cui trattasi, della sussistenza di un concreto nocumento cagionato all’assistito al cospetto della condotta che si assume infedele del patrocinatore.

La pronuncia originava dal ricorso promosso dall’imputato avverso la sentenza emessa in grado d’appello confermativa della condanna di primo grado, con la quale veniva riconosciuta la responsabilità penale del prefato accusato di aver abbandonato la difesa del proprio assistito (omettendo di comparire e costituirsi in giudizio). Ebbene, la difesa ricorreva per Cassazione eccependo violazione di legge ed erronea affermazione della responsabilità penale in ordine al delitto di cui all’art. 380 c.p. per insussistenza degli elementi strutturali del reato (sub species dell’elemento soggettivo e oggettivo), atteso che:

  • nell’ambito dei tre procedimenti penali oggetto d’imputazione, l’assistito veniva prosciolto e che all’odierno ricorrente alcun emolumento veniva corrisposto;
  • con riferimento al procedimento di natura civile, al ricorrente non veniva conferito mandato alle liti, difettando così il presupposto di legittimazione del difensore a costituirsi in giudizio.

Alcun pregiudizio subiva la persona offesa, ravvisandosi l’assenza nocumento da intendersi non necessariamente in senso civilistico quale danno patrimoniale, ma anche nel senso di mancato conseguimento di beni giuridici o di benefici, anche solo di ordine morale, che avrebbero potuto conseguire al corretto e leale esercizio del patrocinio legale (Cass., sez. V, 3 febbraio 2017, n. 22978; Cass., sez. II, 14 febbraio 2019, n. 12361). Pertanto, nell’accogliere il ricorso, la Corte di legittimità ha sancito l’impossibilità di sussumere il concreto nell’alveo della fattispecie incriminatrice in esame partendo proprio dalla definizione del nocumento quale elemento costitutivo indefettibile della sussistenza dell’illecito penale. In plurimi arresti, infatti, il Supremo Consesso ha sancito il principio secondo il quale la sola violazione dei doveri professionali gravanti in capo al patrocinatore non sarebbe sufficiente ad integrare gli estremi del delitto de quo, essendo necessario che dalla stessa derivi la verificazione dell’evento ovverossia di un nocumento agli interessi della parte ravvisabile anche al cospetto del mancato conseguimento di risultati favorevoli, ovvero di situazioni processuali pregiudizievoli, ancorché verificatesi in una fase intermedia del procedimento, che ne ritardino o impediscano la prosecuzione (Cass., sez. VI, 30 gennaio 2020, n. 8617; Cass. pen. 7 novembre 2019, n. 5764; Cass., sez. VI, 16 giugno 2015, n. 26542).

 

(*Contributo in tema di “Il delitto di infedele patrocinio: il nocumento come elemento costitutivo della fattispecie ”, a cura di Giulia Boursier Niutta e Tiziana Cassano, estratto da Obiettivo Magistrato n. 84 / Aprile 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

detrazione per figli a carico

Figlio maggiorenne: il genitore affidatario mantiene la detrazione La Cassazione conferma: la detrazione per figli a carico resta invariata al raggiungimento della maggiore età, senza bisogno di un nuovo accordo tra genitori separati

Detrazione per figli a carico maggiorenni

Detrazione per figli a carico: con l’ordinanza n. 15224/2025, la sezione tributaria della Cassazione ha stabilito un principio rilevante per le famiglie separate: il genitore affidatario può continuare a beneficiare della detrazione fiscale per i figli a carico anche dopo il compimento del diciottesimo anno di età del figlio, nella stessa misura prevista durante la minore età, senza necessità di stipulare un nuovo accordo con l’altro genitore.

Cartella esattoriale per detrazione “non condivisa”

Una madre, affidataria esclusiva dei figli, aveva fruito per intero della detrazione fiscale nella dichiarazione dei redditi, anche dopo che i figli avevano raggiunto la maggiore età. L’Agenzia delle Entrate le aveva contestato la mancata ripartizione del beneficio con l’ex coniuge, notificandole una cartella esattoriale da oltre mille euro.

La Commissione Tributaria Provinciale le aveva dato ragione, ma in appello la Commissione Tributaria Regionale del Lazio aveva ribaltato il verdetto, affermando che – con la maggiore età dei figli – era necessario un nuovo accordo tra gli ex coniugi per regolare le detrazioni. La madre ha quindi presentato ricorso in Cassazione.

Nessuna norma impone un nuovo accordo

La Corte ha accolto il ricorso, censurando la tesi dell’Agenzia delle Entrate e della CTR. I giudici hanno chiarito che non esiste alcuna disposizione di legge che richieda un accordo tra genitori separati per continuare a fruire della detrazione al compimento della maggiore età del figlio.

Anzi, la Cassazione ha richiamato la prassi amministrativa della stessa Agenzia delle Entrate, la quale – con la circolare n. 15/E del 2007 e la successiva n. 34/E del 2008 – aveva già affermato che, in assenza di un diverso accordo, le detrazioni restano ripartite come in precedenza.

Detrazione per figli a carico: il principio della Cassazione

La Suprema Corte ha enunciato con chiarezza il seguente principio di diritto: “La detrazione fiscale per i figli a carico, prevista dall’art. 12, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, è riconosciuta ai genitori, legalmente separati o divorziati, nella medesima misura in cui era ripartita nel periodo della minore età del figlio, quando quest’ultimo raggiunge la maggiore età, senza che sia necessario un accordo in tal senso tra i genitori”.

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Rimborso spese legali

Rimborso spese legali negato al dipendente che si sceglie l’avvocato La Cassazione chiarisce: nessun rimborso delle spese legali per il dipendente comunale che sceglie da solo l'avvocato

Rimborso spese legali dipendenti pubblici

Con l’ordinanza n. 15279 depositata il 9 giugno 2025, la Corte di Cassazione si è pronunciata in materia di pubblico impiego contrattualizzato, affrontando il tema del rimborso delle spese legali sostenute da un dirigente di un ente locale assolto in sede penale per fatti connessi all’attività istituzionale.

La decisione

Secondo la Suprema Corte, l’amministrazione non è obbligata a sostenere o rimborsare i costi della difesa tecnica se il dipendente ha provveduto autonomamente a nominare un legale di fiducia, senza averne prima informato l’ente di appartenenza o limitandosi a comunicare successivamente la nomina.

La decisione afferma il principio per cui, nei rapporti di pubblico impiego, la copertura delle spese legali da parte dell’amministrazione richiede una preventiva condivisione della scelta del difensore, oppure la possibilità, per l’ente, di valutarne la congruità. In mancanza di tale condizione, ogni spesa resta a carico personale del dipendente, anche se poi assolto nel merito.

Questo orientamento risponde all’esigenza di garantire un corretto bilanciamento tra la tutela del dipendente pubblico e l’interesse dell’amministrazione a un controllo preventivo sulla spesa.

Il principio

La Suprema Corte in definitiva ha affermato che: «In tema di pubblico impiego contrattualizzato e di oneri di assistenza legale in conseguenza di fatti commessi dal dipendente di un ente locale nell’espletamento del servizio e in adempimento di obblighi di ufficio, l’amministrazione pubblica non è tenuta a rimborsarlo delle spese necessarie per assicurare la difesa legale, ove egli abbia unilateralmente provveduto alla scelta e alla nomina del legale di fiducia, senza la previa comunicazione all’amministrazione stessa, o qualora, dopo avere effettuato la nomina, si limiti a comunicarla al detto ente».

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esenzione ticket sanitario

Esenzione ticket sanitario Esenzione ticket sanitario 2025: cos’è, tipologie, procedure per la domanda, perdita dell'esenzione, sanzioni e verifica

Cos’è il ticket sanitario

Prima di addentrarci nell’argomento dell’esenzione da ticket sanitario, occorre chiarire che il  ticket è una compartecipazione alla spesa sanitaria richiesta al cittadino per alcune prestazioni del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), come visite specialistiche, diagnostica strumentale, esami di laboratorio e farmaci. In determinati casi, lo Stato riconosce l’esenzione totale o parziale da tale obbligo.

Cos’è l’esenzione dal ticket sanitario

L’esenzione dal ticket sanitario rappresenta un’importante misura di tutela per i cittadini che si trovano in condizioni economiche o sanitarie particolari. Consente di usufruire gratuitamente di visite specialistiche, esami diagnostici, prestazioni ambulatoriali e farmaci, nei limiti previsti dalla normativa vigente.

Nel 2025, le regole per ottenere l’esenzione sono state confermate con aggiornamenti agli importi dei limiti reddituali. Di seguito una guida completa per capire chi ha diritto all’esenzione, quali documenti servono e come fare domanda.

Tipologie di esenzione ticket sanitario

Le esenzioni si distinguono in due macro-categorie:

1. Esenzione per condizione economica (reddito e status sociale)

Queste esenzioni si basano sul reddito annuo del nucleo familiare fiscale e/o su particolari condizioni personali.

Nel 2025, le principali categorie sono:

Codice

Tipologia

Requisiti reddituali 2025

E01

Minori di 6 anni e over 65

Reddito familiare annuo ≤ € 36.151,98

E02

Disoccupati e familiari a carico

Reddito familiare annuo ≤ € 8.263,31 (aumentato a € 11.362,05 con coniuge, + € 516,46 per ogni figlio a carico)

E03

Titolari di assegno sociale

Nessun limite aggiuntivo oltre al trattamento

E04

Titolari di pensione minima over 60 e familiari a carico

Reddito complessivo ≤ soglia E02

NB: I limiti reddituali sono aggiornati ogni anno sulla base degli indici ISTAT.

2. Esenzione per motivi sanitari

Sono previste anche esenzioni legate allo stato di salute:

  • Per patologie croniche (es. diabete, ipertensione) – codice esenzione da 001 a 056.
  • Per malattie rare – codici specifici stabiliti dal Ministero della Salute;
  • Per invalidità civile, di guerra o per servizio – in base alla percentuale riconosciuta esenzione farmaci + prestazioni).
  • Gravidanza – prestazioni gratuite secondo i protocolli previsti.
  • Prevenzione (es. screening oncologici) – esami gratuiti secondo i piani regionali.

Come richiedere l’esenzione ticket nel 2025

La procedura da seguire per la richiesta di esenzione è diversa a seconda che l’agevolazione venga richiesta per reddito o per patologia.

Esenzione per reddito (E01, E02, E03, E04)

La procedura è automatizzata tramite l’Agenzia delle Entrate e il Sistema Tessera Sanitaria (STS). I soggetti aventi diritto risultano già inseriti negli elenchi regionali.

Come verificare o autocertificare:

  1. Accedere al sito del Sistema Tessera Sanitaria: sistemats1.sanita.finanze.it
  2. Inserire il codice fiscale e i dati richiesti.
  3. In caso di assenza nei dati pre-caricati, è possibile presentare un’autocertificazione presso:
    • l’ASL di competenza;
    • gli sportelli CUP (Centro Unico di Prenotazione);
    • i medici di medicina generale, abilitati ad aggiornare l’anagrafica esenzioni.

La dichiarazione ha validità annuale e deve essere rinnovata ogni anno entro il 31 marzo.

Esenzione per patologia o invalidità

In questo caso è necessaria la certificazione medica attestante la condizione:

  1. richiesta del certificato di esenzione presso la propria ASL;
  2. presentazione di documentazione sanitaria e verbale di invalidità (se applicabile);
  3. rilascio del codice di esenzione con registrazione sulla Tessera Sanitaria.

Chi può perdere l’esenzione

Secondo le disposizioni vigenti, l’esenzione decade automaticamente qualora vengano meno i requisiti reddituali, sanitari o anagrafici. Il cittadino ha l’obbligo di comunicare tempestivamente all’ASL eventuali variazioni. In caso contrario, può incorrere in sanzioni amministrative e nel recupero delle somme indebitamente non versate.

Cosa succede se si presenta una falsa autocertificazione?

La presentazione di una dichiarazione mendace costituisce reato ai sensi dell’art. 76 del d.P.R. 445/2000. Oltre alla revoca dell’esenzione e alla richiesta di rimborso delle prestazioni, è possibile l’apertura di un procedimento penale.

Come verificare l’esenzione sul proprio profilo sanitario

Ogni cittadino può controllare lo stato dell’esenzione registrato sulla Tessera Sanitaria:

  • tramite il proprio Fascicolo Sanitario Elettronico regionale;
  • chiedendo al proprio medico di famiglia o specialista;
  • presso gli sportelli ASL o CUP.

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