domiciliari al padre

Domiciliari al padre se la madre non c’è La Consulta conferma l'ammissione dei domiciliari per il padre condannato se la madre è deceduta o non può occuparsi dei figli

Domiciliari al padre condannato

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 52/2025, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del divieto di concessione dei domiciliari al padre condannato quando la madre è assente o inidonea, anche se i minori potrebbero essere affidati a terzi.

Secondo la Consulta, negare al genitore padre la possibilità di accedere alla detenzione domiciliare in presenza di figli minori – solo perché questi possono essere assistiti da altre persone – lede l’interesse del minore a mantenere una relazione stabile con almeno uno dei genitori. Questo principio è stato affermato nella sentenza n. 52 del 2025, a seguito di ordinanze di rimessione emesse dai Tribunali di sorveglianza di Bologna e Venezia.

I casi esaminati

Nel primo procedimento, un detenuto aveva chiesto il beneficio della detenzione domiciliare per accudire i propri figli minori, temporaneamente assistiti dalla sorella maggiore. Nel secondo, la richiesta proveniva da un padre con un figlio affetto da grave disabilità, la cui assistenza era interamente affidata alla madre.

La norma in questione e la decisione della Corte

La disciplina prevista dall’articolo 47-quinquies della legge sull’ordinamento penitenziario consente alla madre condannata di accedere alla detenzione domiciliare anche se il padre è disponibile ad occuparsi dei figli. Al contrario, al padre condannato tale possibilità è concessa solo se la madre è deceduta, irreperibile o completamente inidonea, e non vi siano altri soggetti disponibili all’affidamento.

Questa asimmetria normativa è stata oggetto di censura da parte dei giudici rimettenti, che ne hanno rilevato il potenziale contrasto con:

  • l’articolo 3 della Costituzione (principio di uguaglianza),

  • l’articolo 30 (diritti e doveri dei genitori),

  • l’interesse superiore del minore sancito anche a livello internazionale.

La Corte costituzionale, pur riconoscendo la valenza storica e sociale della protezione della maternità (ex art. 31 Cost.), ha dichiarato non irragionevole il trattamento differenziato previsto per la madre detenuta, in quanto coerente con le finalità di tutela del rapporto madre-figlio nei primi anni di vita. Tuttavia, ha ritenuto illegittimo limitare l’accesso alla misura per il padre nei casi in cui la madre non sia più in grado di garantire l’accudimento dei figli e vi sia un interesse concreto del minore a convivere con il padre.

Equilibrio tra esecuzione pena e tutela del minore

La Consulta ha sottolineato che la priorità resta sempre l’interesse del minore, anche rispetto alla funzione punitiva dello Stato. Pertanto, l’automatica esclusione del padre detenuto dalla possibilità di accedere alla detenzione domiciliare, solo perché i figli possono essere affidati a terzi, non può prevalere sull’esigenza di assicurare continuità nel legame familiare.

Resta fermo che il Tribunale di sorveglianza dovrà verificare, caso per caso:

  • l’assenza di pericolo di recidiva,

  • la reale idoneità del genitore a prendersi cura dei figli,

  • l’effettivo vantaggio che la convivenza potrebbe garantire al benessere psicofisico del minore.

cambio destinazione d'uso

Cambio destinazione d’uso: serve parere Consiglio comunale Per la Consulta, è incostituzionale la norma del Lazio che consente trasformazioni edilizie con cambio di destinazione d'uso senza il parere del Consiglio comunale

Cambio destinazione d’uso

Cambio destinazione d’uso senza il preventivo parere del Consiglio comunale: con la sentenza n. 51/2025, la Consulta ha annullato per illegittimità costituzionale l’articolo 4, comma 4, della legge della Regione Lazio n. 7/2017.

La disposizione impugnata consentiva, in via transitoria, l’esecuzione di interventi edilizi con cambio della destinazione d’uso anche in deroga agli strumenti urbanistici comunali, senza il coinvolgimento del Consiglio comunale, organo titolare delle scelte di pianificazione territoriale.

Violazione competenze urbanistiche comunali

Secondo la Corte, tale previsione comprime ingiustificatamente la potestà pianificatoria dei Comuni, poiché consente modifiche rilevanti del territorio senza l’approvazione dell’organo rappresentativo locale. Ciò risulta in contrasto con i principi costituzionali che regolano l’autonomia amministrativa e normativa degli enti locali (articoli 5 e 114 della Costituzione).

In particolare, l’esclusione del Consiglio comunale da scelte che incidono su:

  • la destinazione funzionale delle aree urbane,

  • il carico urbanistico complessivo,

  • la distribuzione degli insediamenti abitativi e produttivi,

può determinare effetti negativi sull’equilibrio urbanistico del territorio, soprattutto quando vengono compromesse aree a destinazione pubblica o sociale.

Rigenerazione urbana richiede visione integrata

La Consulta ha evidenziato come l’obiettivo di rigenerazione urbana debba essere interpretato in chiave integrata, tenendo conto non solo degli aspetti edilizi, ma anche dei risvolti sociali, economici e ambientali. Interventi trasformativi che alterano profondamente l’assetto urbano non possono prescindere dalla deliberazione consiliare, che costituisce espressione della sovranità territoriale dell’ente locale.

lealtà e correttezza

Lealtà e correttezza: canoni generali dell’agire dell’avvocato Il Consiglio Nazionale Forense ha rammentato l'importanza di lealtà e correttezza quali canoni generali dell'agire dell'avvocato

Lealtà e correttezza dell’avvocato

Il Consiglio Nazionale Forense, con la sentenza n. 370/2024 pubblicata il 10 aprile 2025 sul sito del Codice deontologico, ha ribadito l’importanza del dovere di lealtà e correttezza che ogni avvocato deve osservare. Non solo nei confronti del proprio assistito, ma anche verso la controparte e i terzi. Questo principio mira a tutelare l’affidamento che la collettività ripone nell’avvocato quale professionista leale e corretto in ogni ambito della propria attività.

Il caso esaminato

La vicenda trae origine da un procedimento disciplinare avviato nei confronti di un avvocato del foro di Catania. Il legale era accusato di aver introdotto un giudizio utilizzando un mandato alle liti con firma apocrifa del cliente, deceduto anni prima, e di non aver adempiuto al dovere di informazione prima dell’iniziativa giudiziale.

Il Consiglio Distrettuale di Disciplina di Catania aveva comminato la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione per un anno.

L’avvocato aveva impugnato la decisione, ma il CNF ha confermato la sanzione, evidenziando la gravità delle violazioni commesse.

Il principio affermato dal CNF

La sentenza sottolinea che l’avvocato deve svolgere la propria attività con lealtà e correttezza non solo nei confronti della parte assistita, ma anche verso i terzi e la controparte. Il dovere di lealtà e correttezza nell’esercizio della professione è un canone generale dell’agire di ogni avvocato, volto a tutelare l’affidamento che la collettività ripone nell’avvocato stesso quale professionista leale e corretto, appunto, in ogni ambito della propria attività. Evitando “comportamenti che compromettano gravemente l’immagine che la classe forense deve mantenere nei confronti della collettività al fine di assicurare responsabilmente la funzione sociale che l’ordinamento le attribuisce”.

adozione del maggiorenne

Adozione del maggiorenne: il cognome non si cambia La Corte costituzionale conferma la legittimità del divieto di sostituire il cognome dell’adottato maggiorenne con quello dell’adottante, tutelando il diritto all’identità personale e garantendo coerenza con il sistema normativo

Adozione del maggiorenne e cambio cognome

Adozione del maggiorenne: il cognome dell’adottato non può essere sostituito con quello dell’adottante. Con la sentenza n. 53 del 2025, la Corte costituzionale ha respinto le questioni di legittimità sollevate in merito all’articolo 299, primo comma, del codice civile, che disciplina gli effetti dell’adozione nei confronti dei soggetti maggiorenni. Secondo la Consulta, non viola gli articoli 2 e 3 della Costituzione la norma che consente l’aggiunta o l’anteposizione, ma non la sostituzione del cognome dell’adottato con quello dell’adottante, anche qualora vi sia il consenso di entrambi.

Cognome e identità personale

La Corte ha richiamato la propria precedente pronuncia, sentenza n. 135/2023, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità della norma nella parte in cui non permetteva di aggiungere (anziché soltanto anteporre) il cognome dell’adottante a quello del maggiorenne adottato, qualora entrambi avessero espresso consenso in tal senso. Tale modifica era finalizzata a tutelare il diritto all’identità personale, che si sviluppa anche attraverso la continuità del cognome originario.

Di contro, una sostituzione integrale del cognome rappresenterebbe un’eliminazione di un elemento identitario consolidato, che ha accompagnato l’individuo per almeno diciotto anni. Una tale possibilità, secondo la Corte, potrebbe inoltre esporre l’adottato a condizionamenti indebiti, soprattutto in considerazione dei vantaggi patrimoniali che derivano dall’adozione in età adulta, in particolare in ambito successorio.

Nessuna disparità irragionevole con l’adozione

La Consulta ha escluso che vi sia una disparità di trattamento tra l’adozione del maggiorenne e l’adozione legittimante del minore. Le due ipotesi, pur potendo presentare analogie in casi specifici (ad esempio quando l’adottante è stato in passato affidatario), rimangono ontologicamente distinte nella ratio e nella struttura normativa.

Cambio del cognome: già previsti strumenti adeguati

La Corte ha infine evidenziato che, in presenza di specifiche ragioni personali, l’adottato maggiorenne può comunque ricorrere alla procedura di cambiamento del cognome prevista dall’art. 89, comma 1, del d.P.R. n. 396/2000. Tale norma consente a chiunque vi abbia interesse di presentare apposita istanza al prefetto, illustrando i motivi alla base della richiesta, anche laddove il cognome sia ritenuto lesivo della propria identità o rivelatore dell’origine naturale.

compensi avvocato

Compensi avvocato: fase istruttoria inclusa nella trattazione Secondo la Cassazione, non è previsto un compenso autonomo per la fase istruttoria, che rientra in quella di trattazione ai sensi del d.m. n. 55/2014

Compensi avvocato

Compensi avvocato: la sezione III della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 7343/2025, ha fornito chiarimenti sulla liquidazione al difensore per la fase istruttoria e di trattazione in appello.

La vicenda

Nella vicenda, con atto di opposizione ex art. 617 c.p.c. una srl, quale terzo pignorato, conveniva in giudizio un’altra srl al fine di sentire accertare la nullità dell’ordinanza di assegnazione delle somme emessa nell’ambito del procedimento esecutivo presso terzi, atteso l’intervenuto fallimento della debitrice.

La srl si costituiva chiedendo il rigetto della domanda avversaria e la conferma della ordinanza impugnata. Il Tribunale, in accoglimento dell’opposizione, revocava l’ordinanza di assegnazione. Veniva quindi proposto appello, dichiarato inammissibile e la questione approdava in Cassazione.

Innanzi al Palazzaccio, si denunciava tra l’altro la violazione e/o falsa applicazione del D.M. n. 55 del 2014, perché il giudice del secondo grado, pur nella totale assenza di una fase istruttoria e/o di trattazione, aveva liquidato le spese di lite, ponendole a carico della parte soccombente, comprendendo nella liquidazione – eseguita secondo i parametri medi del D.M. n. 55 del 2014 – anche il compenso previsto per l’espletamento della “fase istruttoria e/o di trattazione”.

Il principio applicato e i richiami giurisprudenziali

La Suprema Corte ritiene il motivo fondato. Ritenendo di dare continuità al principio di diritto (già affermato da Cass. n. 10206/2021 e di recente ribadito da Cass. n. 19 29077/2024) la S.C. afferma che “In tema di liquidazione delle spese processuali in base al D.M. n. 55 del 2014, l’effettuazione di singoli atti istruttori e, segnatamente, la produzione di documenti, in altre fasi processuali (come quella introduttiva e/o quella decisionale) non equivale allo svolgimento della fase istruttoria e/o di trattazione che, per quanto riguarda il giudizio di appello, può dare luogo al riconoscimento della relativa voce di tariffa unicamente qualora sia effettivamente posta in essere, nel corso della prima udienza di trattazione, una o più delle specifiche attività previste dall’art. 350 c.p.c. ovvero sia fissata un’udienza a tal fine o, comunque, allo scopo di svolgere altre attività istruttorie e/o di trattazione, ma non nel caso in cui alla prima udienza di trattazione sia esclusivamente e direttamente fissata l’udienza di precisazione delle conclusioni, senza il compimento di nessuna ulteriore attività, e questo anche ove siano prodotti nuovi documenti in allegato all’atto di appello ovvero, successivamente, con gli scritti conclusionali”.

In definitiva, la sentenza impugnata è cassata, sia pure esclusivamente con riferimento alla liquidazione delle spese di lite poste a carico della parte soccombente. Per cui, non occorrendo ulteriori accertamenti di fatto, la S.C. decide nel merito, con rideterminazione dell’importo delle spese liquidate in favore dell’appellata per il secondo grado, con esclusione dei compensi per la fase istruttoria e/o di trattazione.

Allegati

reato di incendio

Il reato di incendio Reato di incendio (art. 423 c.p.): disciplina, fattispecie, profili sanzionatori e giurisprudenza

Reato di incendio art. 423 c.p. 

Il reato di incendio è disciplinato dall’articolo 423 del Codice penale, collocato all’interno del Titolo VI, Capo I, dedicato ai delitti contro la pubblica incolumità. La norma punisce con la pena della reclusione da tre a 7 anni chiunque cagioni un incendio e anche quando l’incendio riguardi una cosa propria del soggetto agente, se dal fatto deriva un pericolo per la pubblica incolumità

L’incendio presuppone un fuoco di ampie dimensioni, che tende a diffondersi e che sia difficile da spegnere,

Differenza tra incendio doloso e colposo

L’incendio doloso richiede il dolo, ossia la volontà dell’agente di causare l’incendio e di accettarne le conseguenze.  In tal caso, il soggetto è punibile ai sensi dell’art. 423 c.p. (dolo generico); 423 bis comma 1 (incendio boschivo doloso);.

L’incendio colposo è disciplinato da diverse norme:

art. 423 bis c.p comma 2: incendio boschivo colposo;

dall’art. 449 c.p., che prevede pene meno gravi. La condotta infatti è punita con la reclusione da uno a cinque  anniAnche in questa forma colposa il reato si configura solo se l’incendio è tale da costituire pericolo per l’incolumità pubblica.

Normativa di riferimento

  • Art. 423 c.p.: incendio;
  • Art 424 bis c.p. incendio boschivo;
  • Art. 424 c.p.: danneggiamento seguito da incendio;
  • Art. 449 c.p.: delitti colposi di danni tra cui figura l’incendio.

Elementi costitutivi del reato di incendio

Per la configurazione del reato ex art. 423 c.p. occorrono:

  • Condotta attiva: accensione del fuoco su cose proprie o altrui;
  • Pericolo concreato o astratto;
  • Nesso causale tra condotta e pericolo;
  • Elemento soggettivo: dolo generico;
  • Pericolo per la pubblica incolumità: anche potenziale.

Pena prevista

Il delitto di incendio, ai sensi dell’art. 423 c.p., è punito con:

  • la reclusione da tre a sette anni.

Se dall’incendio deriva un danno grave a  edifici pubblici, navi, edifici abitati, monumenti, cimiteri, navi, cantieri, ecc. trovano applicazione le aggravanti dell’art. 425 c.p., che comportano un aumento di pena.

Aspetti procedurali

  • Procedibilità d’ufficio.
  • Competenza del tribunale in composizione monocratica.

Giurisprudenza sul reato di incendio

La giurisprudenza ha è intervenuta in diverse occasioni per specificar gli aspetti più importanti del reato di incendio.

Cassazione n. 8598/2024: la sentenza distingue tra la definizione comune di incendio e la definizione giuridica del reato di incendio boschivo (art. 423-bis c.p.).

  • L’incendio comune si verifica solo quando il fuoco divampa in modo incontrollabile e su vasta scala, con fiamme distruttive che si propagano e mettono in pericolo un numero indeterminato di persone.
  • L’incendio boschivo (art. 423-bis c.p.): è un reato di pericolo presunto. Non è necessario che l’incendio si sviluppi completamente con le caratteristiche descritte sopra. È sufficiente che il fuoco appiccato abbia la potenzialità di diventare un incendio, manifestando la tendenza a diffondersi, la difficoltà di essere spento e la possibilità di creare pericolo per la pubblica incolumità.

Cassazione n. 5527/2024: ciò che distingue il reato di incendio doloso (art. 423 c.p.) dal reato di danneggiamento seguito da incendio (art. 424 c.p.) è l’elemento psicologico dell’autore.

  • L’incendio doloso (art. 423 c.p.) richiede il dolo generico, ovvero la volontà di causare un evento con fiamme che, per la loro natura e intensità, sono inclini a propagarsi incontrollabilmente, generando un reale pericolo per la sicurezza pubblica. L’obiettivo primario dell’agente è provocare un incendio con queste caratteristiche.
  • Il danneggiamento seguito da incendio (art. 424 c.p.): è caratterizzato dal dolo specifico di danneggiare una cosa altrui. L’intenzione principale dell’agente è quella di deteriorare o distruggere un bene appartenente ad altri, l’incendio è un risultato secondario, seppur prevedibile.

Rilevanza pratica e considerazioni conclusive

Il reato di incendio è di particolare rilevanza nei contesti urbani e rurali, soprattutto nei periodi di emergenza ambientale o in presenza di fenomeni di vandalismo. La sua disciplina mira a tutelare la sicurezza collettiva e a prevenire disastri con effetti potenzialmente estesi e incontrollabili.

In ambito processuale e difensivo, è fondamentale valutare con attenzione:

  • la natura del fuoco (incendio o semplice combustione),
  • l’intenzionalità della condotta,
  • l’esistenza del pericolo concreto per la collettività,
  • eventuali fattori di rischio connessi (uso di sostanze acceleranti, contesto di luogo e tempo).

 

Leggi anche: Reato di incendio e di danneggiamento seguito da incendio

giurista risponde

Il dolo nel reato di incendio Quali sono i criteri per accertare il dolo nel reato di incendio, distinguendo tra dolo generico e dolo specifico, e quale rilevanza assume tale distinzione nella qualificazione giuridica del fatto?

Quesito con risposta a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli

 

Per accertare il dolo nel reato di incendio, si seguono criteri indiziari basati su circostanze esteriori che rivelano l’atteggiamento interiore dell’agente. Il dolo generico implica la volontà di cagionare un incendio con caratteristiche tali da creare un pericolo per la pubblica incolumità, mentre il dolo specifico consiste nell’uso del fuoco esclusivamente per danneggiare un bene altrui.

La distinzione è rilevante per qualificare il fatto come incendio doloso (art. 423 c.p.) o danneggiamento seguito da incendio (art. 424 c.p.), in base alla volontà dell’autore e all’entità dell’evento (Cass., sez. I, 12 settembre 2024, n. 45886).

Nel caso di specie, gli imputati erano accusati di aver causato un incendio doloso utilizzando liquido infiammabile cosparso su automezzi parcheggiati in prossimità di abitazioni.

La Corte d’Appello aveva qualificato il fatto come reato di incendio doloso (art. 423 c.p.), rilevando la presenza del dolo generico. La Cassazione ha confermato tale qualificazione affermando che il dolo, quale elemento soggettivo del reato, deve essere ricostruito attraverso un ragionamento indiziario, valutando indicatori fattuali capaci di sostenere la rappresentazione e la volontà dell’autore di realizzare il fatto illecito. La Suprema Corte ha confermato quanto stabilito da Cass., sez. I, 23 giugno 2021, n. 4985 evidenziando che, nel reato di incendio di cui all’art. 423 c.p., il dolo è generico e si configura quando l’agente ha la volontà di cagionare una combustione tale da provocare un concreto pericolo per la pubblica incolumità. Diversamente, nel caso del danneggiamento seguito da incendio di cui all’art. 424 c.p., è richiesto il dolo specifico, ovvero l’intenzione di danneggiare un bene altrui mediante l’uso del fuoco, senza la previsione o la volontà di generare un incendio (così anche Cass., sez. I, 3 novembre 2020, n.32566).

La Cassazione nel caso in questione ha chiarito ex professo che se l’agente, oltre ad avere l’intenzione di danneggiare, agisce con la consapevolezza e l’accettazione del rischio di provocare un incendio di dimensioni tali da assumere le caratteristiche di un fuoco di non lievi proporzioni, si configura il delitto di incendio, anche se il dolo è eventuale (così anche Cass., sez. I, 11 febbraio 2013, n. 16612).

Nella decisione de qua, la Suprema Corte ha rilevato la correttezza e la logicità della motivazione resa dalla Corte d’Appello, con gli specifici riferimenti alle modalità utilizzate.

Il Tribunale d’Appello aveva qualificato il fatto come reato di incendio ex art. 423 c.p., rilevando la presenza del dolo generico.

La Cassazione ha confermato tale qualificazione, evidenziando che l’impiego del liquido infiammabile su più veicoli, con serbatoi pieni, indicava la volontà degli imputati di accettare il rischio di propagazione incontrollata del fuoco, oltre al fatto che il pericolo concreto per la pubblica incolumità era dimostrato dall’intensa attività dei vigili del fuoco per domare l’incendio.

La Suprema Corte ha, inoltre, chiarito che la qualificazione giuridica dipende dalla volontà dell’agente, che deve essere valutata in base alle circostanze fattuali del caso (così come Cass., sez. I, 3 febbraio 2009, n. 6250).

La Cassazione ha, infine, ribadito quanto affermato da Cass. pen., Sez. Un., 24 aprile 2014, n. 38343 cioè che al fine di accertare il dolo è necessario seguire un ragionamento indiziario “dovendosi inferire fatti interni o spirituali attraverso un procedimento che parte dall’id quod plerumque accidit e considera le circostanze esteriori, caratteristiche del caso concreto, che normalmente costituiscono l’espressione o accompagnano o sono comunque collegate agli stati psichici”.

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha esaminato i ricorsi presentati e, dopo averli ritenuti complessivamente infondati, ha affermato che la corretta instaurazione del rapporto processuale imponeva l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per estinzione del reato per prescrizione, confermando, tuttavia, la validità delle statuizioni civili.

 

(*Contributo in tema di “Il dolo nel reato di incendio”, a cura di Leonarda Di Fonte e Francesco Trimboli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 82 / Febbraio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

Patto di quota lite invalido: compenso in base alle tariffe Patto di quota lite invalido se prevede il 40% del compenso in caso di vittoria e nulla in caso di sconfitta, alll'avvocato compenso in base alle tariffe forensi

Patto di quota lite invalido

La Cassazione nella sentenza n. 9359/2025 si è espressa sul patto di quota lite tra avvocato e cliente. L’accordo prevedeva un compenso del 40% in caso di vittoria e non prevedeva alcun compenso in caso di sconfitta. Per gli Ermellini un patto di questo tipo non è valido. La legge vieta infatti questi accordi ai fini del riconoscimento del compenso del legale.

Compenso avvocato pari al 40%

La causa ha inizio perché una donna incarica un avvocato di difenderla in un giudizio. L’accordo relativo al compenso del legale prevede il riconoscimento del 40% della somma che la cliente potrebbe ottenere in giudizio. Accade però che la cliente perde la causa. L’avvocato chiede quindi il pagamento del compenso previsto in base alle tariffe forensi, sostenendo la nullità del patto convenuto. Il Tribunale di Forlì accoglie la domanda dell’avvocato, ritenendo nullo il patto di quota lite e applicando le regole sul compenso del difensore. La cliente nell’impugnare la decisione, sostiene che l’accordo stipulato con il legale non è vietato. Le clausole, a suo dire, hanno portata autonoma. Una clausola commisurava infatti il compenso al 40% del risultato, l’altra prevedeva l’assenza di compenso in caso di sconfitta. Questa seconda clausola deve essere interpretata come una rinuncia preventiva al compenso.

Nullo il patto di quota lite, valido il contratto

La Cassazione però rigetta il ricorso della cliente, affermando che le due clausole formavano in realtà un unico accordo. Questo accordo regolava il compenso del difensore e le clausole in esso contenute prevedevano due ipotesi alternative. In caso di vittoria, il compenso era il 40%, mentre in caso di sconfitta, non spettava alcun compenso. Un’ipotesi dipendeva dall’altra, le stesse non costituivano patti autonomi.

La Cassazione conferma quindi la nullità del patto di quota lite, precisando però che la nullità è parziale e non inficia comunque l’intero contratto di patrocinio. Questo infatti resta valido e il compenso del difensore deve essere calcolato in base alle tariffe forensi. Il tribunale quindi ha correttamente ritenuto la clausola di rinuncia un patto di quota lite, ma la legge vieta questi accordi a tutela del lavoro del difensore.

 

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voltura catastale

Voltura catastale e consultazione: come funzionano i servizi online Al via i nuovi servizi di voltura catastale e consultazione registro partite catastali online attivati dall'Agenzia delle Entrate

Nuovi servizi catastali online

“Voltura catastale” e “Consultazione registro partite catastali” sono i nuovi servizi attivati dall’Agenzia delle Entrate direttamente online. Entrambi i servizi, come reso noto dal fisco con comunicato del 15 aprile 2025 hanno il fine di rendere più semplice la richiesta di voltura degli immobili nonchè la consultazione dei vecchi registri cartacei ora digitalizzati.

Voltura catastale web più semplice

La voltura catastale, spiegano le Entrate, è il principale strumento con il quale devono essere aggiornati i soggetti iscritti in Catasto. Con la “domanda di volture”, quindi, il contribuente comunica al Fisco che il titolare di un determinato diritto reale su un bene immobile non è più la stessa persona, ma un’altra (come ad esempio nelle successioni ereditarie).

Il nuovo servizio “Voltura catastale web”, accessibile tramite credenziali Spid, Cie, Cns o Entratel/Fisconline, consente di presentare la domanda di volture e versare le somme dovute direttamente online. Il sistema guida l’utente nella compilazione della dichiarazione e, al termine, attesta la ricezione, il controllo e l’accettazione dei documenti inseriti, nonché l’avvenuto pagamento dei tributi.

Consultazione partite catastali

Attivo anche il nuovo servizio gratuito “Consultazione registro partite catastali” disponibile nell’area riservata sul sito delle Entrate.

La nuova funzionalità consente di consultare i “registri di partita”, ovvero gli schedari cartacei con i nomi degli intestatari (ditte catastali) contrassegnati da un numero (numero di partita). Nel corso degli anni tali registri sono stati microfilmati e successivamente trasferiti su immagini digitali, che oggi vengono rese consultabili online grazie al nuovo servizio, senza la necessità di recarsi fisicamente presso gli uffici dell’Agenzia. Benché questi registri cartacei non siano più aggiornati, poiché superati dalle attuali modalità di archiviazione dei dati catastali, conclude la nota stampa, “la consultazione delle informazioni in essi contenute risulta particolarmente utile in caso di ricerche a ritroso nel tempo”.

carta per i nuovi nati

Bonus nuovi nati: cos’è e a chi spetta Il bonus per i nuovi nati è destinato alle famiglie che devono affrontare le prime spese per neonati e figli adottivi

Bonus per i nuovi nati

La legge di bilancio 2025 ha introdotto un bonus per i nuovi nati, una nuova misura di sostegno dedicato alle famiglie, con obiettivo primario di incentivare la natalità e alleggerire il peso economico derivante dall’arrivo di un bambino.

Il bonus per i nuovi nati consiste in un importo di 1.000 euro, erogato una tantum, spettante alle famiglie con un ISEE inferiore a 40.000 euro.

La circolare INPS n. 76 del 14 aprile 2025 definisce i requisiti di accesso, le modalità di presentazione delle domande e il regime fiscale della misura.

Bonus per i nuovi nati: come funziona

Il bonus nuovi nati consiste in un importo, che verrà erogato una tantum e che potrà essere utilizzato per l’acquisto di beni e servizi destinati al neonato.

La misura spetta per ogni figlio nato o adottato dopo il 1° gennaio 2025.

Il Bonus non concorre alla formazione del reddito imponibile.

A chi spetta il Bonus per i nuovi nati

Il bonus viene erogato a chi è in possesso dei seguenti requisiti soggettivi e reddituali:

  1. Cittadini italiani, cittadini UE e familiari dei suddetti cittadini, titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente;
  2. Cittadini di Stati non UE:
  • Titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo; di permesso unico di lavoro autorizzati a svolgere attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi; di permesso di soggiorno per motivi di ricerca autorizzati a soggiornare in Italia per un periodo superiore a sei mesi.
  • In applicazione della normativa UE e della giurisprudenza della Corte di Giustizia, possono accedere al bonus anche cittadini extracomunitari in possesso di permessi di soggiorno di durata non inferiore a un anno, anche se non espressamente indicati nella legge di Bilancio 2025.
  1. Soggetti equiparati ai cittadini italiani: come apolidi, rifugiati politici e titolari di protezione internazionale.
  2. Cittadini del Regno Unito: sono equiparati ai cittadini UE se residenti in Italia entro il 31 dicembre 2020. La verifica della residenza a tale data avviene tramite l’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente (ANPR) o altri archivi anagrafici. In tal caso, non sono richiesti ulteriori titoli di soggiorno. Per i cittadini del Regno Unito residenti in Italia successivamente al 31 dicembre 2020, si applicano le disposizioni previste per i cittadini extracomunitari in materia di documenti di soggiorno.

Requisiti per l’accesso al Bonus:

  • Residenza: il genitore richiedente deve essere residente in Italia al momento della presentazione della domanda e tale requisito deve sussistere dalla data dell’evento (nascita, adozione, affido preadottivo).
  • ISEE: è necessario un Indicatore della Situazione Economica Equivalente (ISEE) del nucleo familiare in cui è presente il figlio per il quale si chiede il contributo, non superiore a 40.000 euro annui. Nel calcolo dell’ISEE minorenni viene neutralizzato l’importo dell’Assegno unico e universale (AUU) erogato ai componenti del nucleo familiare.
  • Data di nascita, adozione o affido preadottivo: il figlio deve essere nato o adottato a partire dal 1° gennaio 2025. Per le adozioni, il contributo può essere richiesto solo per figli minorenni. In caso di affido preadottivo, si considera la data di ingresso del minore nel nucleo familiare su ordinanza del Tribunale per i minorenni. Per le adozioni internazionali, fa fede la data di trascrizione del provvedimento nei registri dello stato civile. In fase di prima attuazione, per i minori adottati a partire dal 1° gennaio 2025 con provvedimento di affido preadottivo antecedente a tale data, è possibile richiedere il bonus con riferimento alla data della sentenza di adozione.

Come richiedere il bonus

Il Bonus nuovi nati 2025 si richiede tramite apposita domanda, presentabile da uno dei genitori (o dal genitore convivente in caso di non convivenza).

Per genitori incapaci o minorenni, la domanda è inoltrata dal genitore esercente la responsabilità genitoriale o dal tutore, verificando i requisiti del genitore del neonato. La domanda va presentata entro 60 giorni dall’evento (nascita, adozione, affido), pena decadenza.

È necessario possedere un ISEE minorenni valido o aver presentato la DSU per il suo calcolo. La domanda si inoltra tramite il portale INPS (SPID, CIE, CNS, eIDAS), l’app INPS mobile, il Contact Center INPS o gli istituti di patronato.

All’atto della domanda va indicata la modalità di pagamento (accredito su conto IBAN o bonifico domiciliato), con possibilità di utilizzare IBAN già registrati presso l’INPS o indicarne uno nuovo.

L’erogazione avviene in ordine cronologico di ricezione delle domande accolte, nei limiti dei fondi disponibili.

Domande dal 17 aprile 2025

Con il messaggio n. 1303/2025 del 16 aprile 2025, l’INPS ha comunicato che dalle 8:30 del 17 aprile 2025 è possibile presentare la domanda per il Bonus Nuovi Nati.

Il servizio è accessibile sul sito dell’INPS, utilizzando la propria identità digitale. In alternativa, è possibile presentare l’istanza tramite il Contact Center Multicanale o gli istituti di patronato.

Con un successivo messaggio, l’istituto comunicherà la data dalla quale sarà possibile effettuare la domanda tramite l’app INPS Mobile.

 

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