congedo parentale 2024

Congedo parentale 2024: le istruzioni INPS L'INPS ha fornito le istruzioni per la fruizione del congedo parentale a seguito delle novità introdotte dalla legge di bilancio 2024

Congedo parentale 2024

Con la circolare n. 57/2024, l’INPS ha fornito le istruzioni per la fruizione del congedo parentale a seguito delle novità introdotte dalla legge di Bilancio 2024.

La manovra infatti (art. 1 comma 179 l. n. 213/2023) ha modificato il comma 1 dell’articolo 34 del D.lgs 26 marzo 2001, n. 151, recante “Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità”, disponendo l’elevazione, dal 30% al 60% della retribuzione, dell’indennità di congedo parentale per un’ulteriore mensilità da fruire entro il sesto anno di vita del figlio (o entro 6 anni dall’ingresso in famiglia del minore in caso di adozione o di affidamento e, comunque, non oltre il compimento della maggiore età). Per il solo anno 2024 l’elevazione dell’indennità di congedo parentale per l’ulteriore mese è pari all’80% della retribuzione (invece del 60%).

La previsione, in alternativa tra i genitori, si applica ai lavoratori dipendenti che terminano il congedo di maternità o, in alternativa, di paternità successivamente al 31 dicembre 2023.

La circolare fornisce le istruzioni di carattere amministrativo e operativo per i lavoratori dipendenti del settore privato, mentre per quelli pubblici, “il riconoscimento del diritto al congedo in argomento e l’erogazione del relativo trattamento economico sono a cura dell’Amministrazione pubblica con la quale intercorre il rapporto di lavoro, secondo le indicazioni dalla stessa fornite”.

I destinatari

Ai fini dell’individuazione della platea dei destinatari cui si rivolge la novella normativa in oggetto, osserva l’INPS, “avendo il legislatore modificato il solo articolo 34 del D.lgs n. 151/2001, l’elevazione dell’indennità riguarda esclusivamente i lavoratori dipendenti, restando escluse tutte le altre categorie di lavoratori (lavoratori autonomi di cui al Capo XI del T.U., lavoratori iscritti alla Gestione separata di cui all’art. 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, ecc.)”.

Per cui, se un genitore è lavoratore dipendente e l’altro appartiene ad altra categoria lavorativa, l’ulteriore mese di congedo parentale indennizzato al 60% della retribuzione (80% per il solo anno 2024) spetta solo al primo.

Elevazione dell’indennità al 60% della retribuzione

La legge di Bilancio 2024 non aggiunge un ulteriore mese di congedo parentale indennizzato ma dispone l’elevazione dell’indennità al 60% della retribuzione (80% per il solo anno 2024) per un ulteriore mese (rispetto a quello già previsto dalla legge 29 dicembre 2022 n. 197, di seguito legge di Bilancio 2023) dei tre spettanti a ciascun genitore e non trasferibili all’altro.

L’elevazione è riconoscibile a condizione che il mese di congedo parentale sia fruito entro i 6 anni di vita (o entro 6 anni dall’ingresso in famiglia in caso di adozione o di affidamento e, comunque, non oltre il compimento della maggiore età) del minore.

Solo per il 2024, spetta un’indennità all’80% della retribuzione anziché al 60%.

L’elevazione dell’ulteriore mese al 60% della retribuzione (80% per il 2024) si applica anche ai genitori adottivi o affidatari/collocatari e interessa tutte le modalità di fruizione del congedo parentale: intero, frazionato a mesi, a giorni o in modalità oraria.

L’ulteriore mese indennizzato al 60% della retribuzione (80% per il solo anno 2024) è uno solo per entrambi i genitori e può essere fruito in modalità ripartita tra gli stessi o da uno soltanto di essi.

La fruizione “alternata” tra i genitori, prevista dal novellato articolo 34 del D.lgs n. 151/2001, inoltre, “non preclude la possibilità di fruirne nei medesimi giorni e per lo stesso figlio, come consentito per tutti i periodi di congedo parentale”.

Decorrenza della nuova disposizione

La previsione normativa della legge di Bilancio 2024, chiarisce ancora l’istituto, “interessa esclusivamente i genitori che terminano (anche per un solo giorno) il congedo di maternità o, in alternativa, di paternità successivamente al 31 dicembre 2023”.

Sono, quindi, esclusi tutti i genitori che abbiano concluso la fruizione del congedo di maternità o di paternità al 31 dicembre 2023.

La domanda

La domanda di congedo parentale deve essere presentata esclusivamente in modalità telematica attraverso uno dei consueti canali:

  • il portale istituzionale INPS, se si è in possesso di identità digitale (SPID almeno di livello 2, CIE 3.0 o CNS), utilizzando gli appositi servizi raggiungibili dalla homepage attraverso il percorso “Lavoro” > “Congedi, permessi e certificati”;
  • il Contact center integrato, chiamando il numero verde 803.164 (gratuito da rete fissa) o il numero 06 164.164 (da rete mobile a pagamento, in base alla tariffa applicata dai diversi gestori);
  • gli Istituti di Patronato, utilizzando i servizi offerti dagli stessi.

Allegati

onorari avvocati parastato

Onorari avvocati parastato: non vanno nel TFS La Corte Costituzionale ha chiarito che le quote onorario percepite dagli avvocati del parastato non vanno computate nel trattamento di fine servizio (TFS)

Quote onorario avvocati del parastato

La Corte costituzionale (sentenza n. 73-2024) ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge 20 marzo 1975, n. 70 (Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente), che disciplina il trattamento di fine servizio spettante ai dipendenti degli enti pubblici non economici (cosiddetti parastatali) non soggetti al regime privatistico di trattamento di fine rapporto.
La disposizione scrutinata, si legge nel comunicato ufficiale, “in base all’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza di legittimità, costituente «diritto vivente», pone a base del calcolo di tale emolumento il solo stipendio tabellare e gli scatti di anzianità, con esclusione di qualsiasi altro compenso”.

La qlc

La questione era stata sollevata dal Tribunale di Roma, Sez. Lavoro, chiamato a decidere sulla domanda dell’INAIL di restituzione di somme erogate, con riserva, a titolo di indennità di anzianità, ad un proprio dipendente dell’area legale.

La decisione della Consulta

La Consulta ha, anzitutto, ritenuto insussistenti i lamentati vizi di irragionevolezza e irrazionalità, rimarcando come la nozione di stipendio utile alla determinazione dell’indennità di anzianità indicata dal diritto vivente sia, al contrario, coerente con la logica di razionalizzazione che pervade la legge n. 70 del 1975, e, più in generale, con
l’ordinamento del pubblico impiego non contrattualizzato, e rispondente a specifiche esigenze di unificazione del regime giuridico ed economico del personale del parastato, oltre che di controllo e di prevedibilità della spesa pubblica.
È stata esclusa altresì la disparità di trattamento dedotta dal rimettente tra i dipendenti degli enti pubblici appartenenti all’area professionale legale e quelli con qualifica dirigenziale, per il differente status giuridico ed economico delle relative categorie.
Quanto alla censura ex art. 36 Cost., il giudice delle leggi, nel ribadire la propria giurisprudenza secondo la quale l’indennità di anzianità, così come gli altri trattamenti di fine servizio, “integra una forma di retribuzione differita e quindi è presidiata dalle garanzie costituzionali della sufficienza e della proporzionalità alla quantità e alla qualità del lavoro prestato, ha – tuttavia – precisato che, affinché l’indennità di anzianità possa ritenersi conforme ai canoni costituzionali di sufficienza e di proporzionalità, non deve sussistere una rispondenza pedissequa tra la sua composizione e quella del trattamento economico di attività, tale per cui ogni singola voce della retribuzione debba essere considerata nel trattamento di fine servizio”.
Nel rapporto di lavoro non contrattualizzato, “in cui spetta alla discrezionalità del legislatore individuare, nel rispetto delle garanzie sancite dalla Costituzione, la base retributiva delle singole indennità di fine servizio e la relativa misura, la conformità ai principi espressi dall’art. 36 Cost. deve, invece, ritenersi osservata ove tali indennità esprimano, in proporzione, il trattamento economico fondamentale, che include componenti spettanti in modo fisso e continuativo (stipendio tabellare, incrementi dipendenti dall’anzianità di servizio, assegno per il nucleo familiare, oggi assegno unico)”.
Con riguardo alla “quota onorari”, ha concluso dunque la Corte, la stessa “costituisce un’attribuzione di carattere non fisso, ma accessorio e variabile, che non può, perciò, essere ricompresa nel trattamento economico fondamentale, aggiungendosi alla retribuzione riconosciuta ai legali del parastato, in ragione del loro status di pubblici dipendenti”.

Allegati

saluto romano

Saluto romano: quali fattispecie di reato La condotta consistente nella risposta alla ‘chiamata del presente’ eseguendo il “saluto romano” per le Sezioni Unite della Cassazione può integrare diverse fattispecie delittuose

“La chiamata del presente” durante una manifestazione pubblica

Il caso che ci occupa prende avvio dai fatti avvenuti durante una manifestazione pubblica del 29.04.2016 a Milano, alla quale avevano partecipato oltre mille persone, in occasione della quale gli imputati avevano risposto alla chiamata del “presente”, eseguendo il “saluto fascista”, anche noto come “saluto romano”.

Rispetto ai fatti appena narrati, la Corte d’appello di Milano aveva condannato gli imputati, rilevando come la sentenza di assoluzione pronunciata dal Giudice di primo grado, non riguardava l’ipotesi di reato oggetto di contestazione processuale, ma la diversa fattispecie di cui all’art. 5 legge n. 645/1952.

Avverso la suddetta sentenza di condanna gli imputati avevano proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

L’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione

Il Giudice di legittimità, investito della questione sopra descritta, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite visto il rilevante contrasto interpretativo riscontrato sul punto in seno alla Corte stessa.

A tal proposito, la Corte ha affermato che, secondo un primo orientamento giurisprudenziale, che ritiene il “saluto fascista” sussumibile nella fattispecie dell’art. 2 d.l. n. 122 del 1993, tale manifestazione esteriore costituisce una rappresentazione tipica delle organizzazioni o dei gruppi che perseguono obiettivi di discriminazione razziale, etnica o religiosa, essendo costituiti per favorire la diffusione di ideologie discriminatorie. Mentre, secondo un diverso orientamento giurisprudenziale il “saluto fascista” sarebbe riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 5 della legge n. 645 del 1952 e postula che tali condotte siano idonee a determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni che si ispirano, direttamente o indirettamente, all’ideologia del disciolto partito fascista.

Nel rimettere la questione alle Sezioni Unite, la Prima sezione penale della Corte di Cassazione ha posto il seguente quesito “Se la condotta tenuta nel corso di una pubblica manifestazione consistente nella risposta alla ‘chiamata del presente’ e nel ‘saluto romano’, rituali evocativi della gestualità propria del disciolto partito fascista, sia sussumibile nella fattispecie di reato di cui all’art. 2 d.l. 26 aprile 1993, n. 122 (…), ovvero in quella prevista dall’art. 5 legge 30 giugno 1952, n. 645; “Se, inoltre, le due disposizioni configurino un reato di pericolo concreto o di pericolo astratto e se i due reati possano concorrere oppure le relative norme incriminatrici siano tra loro in rapporto di concorso apparente”.

Il concreto pericolo di riorganizzazione del partito fascista

Le Sezioni Unite, con sentenza n. 16153/2024, ha risposto al suddetto quesito interpretativo e, posto il generale principio di diritto sul punto, ha qualificato il fatto ai sensi dell’art. 5 della legge n. 654 del 1952.

La Corte, dopo aver ripercorso i fatti di causa nonché il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, ha anzitutto evidenziato che “Non può esservi dubbio (…) che entrambe le norme coincidano quanto alla condotta materiale che, in entrambi i casi, consiste nel compimento di manifestazioni tenute partecipando a pubbliche riunioni, solo distinguendosi in virtù del diverso contenuto delle stesse”, nonché, ha aggiunto la Corte, anche in relazione al diverso bene giuridico tutelato dalle due norme.

In tal senso, ha rilevato il Giudice di legittimità, l’art. 5 della legge n. 645 del 1952 tutela non tanto il “mero “ordine pubblico materiale” (…), ma, in una visione di ben più ampio respiro, la stessa tavola dei valori costituzionali e democratici fondativi della Repubblica, efficacemente riassumibili nel bene dell’”ordine pubblico democratico o costituzionale”, posto in pericolo, a fronte dell’elemento modale- spaziale indicato dalla norma, da possibili consenso o reazioni a tali manifestazioni atti a turbare, anche ma non solo, la civile convivenza”.

Per quanto invece attiene al bene giuridico tutelato dall’art. 2 del d.l. 26 aprile 1993, n. 122, la Corte ha rilevato come esso consista nel contrasto alla “diffusione delle idee discriminatorie o di atti di violenza per ragioni (…) razziali, etniche, nazionali o religiose”.

Posta così la distinzione tra le due norme, la Corte ha esaminato il tema del rapporto di specialità tra fattispecie delittuose, affermando che nel caso di specie “è lo stesso raffronto tra le due disposizioni (…), a rilevare l’impossibilità di affermare che una delle due norme sia unilateralmente speciale rispetto all’altra. Al nucleo comune di “manifestazioni tenute in pubbliche riunioni”, si aggiunge, in ognuna di esse, l’elemento differenziale del loro contenuto”.

Esclusa dunque la sussistenza di un rapporto di specialità tra le norme sopra richiamate, la Corte ha rilevato che “il rituale del saluto romano possa integrare non solo il reato di cui all’art. 5 legge cit., bensì anche quello dell’art. 2 legge cit., ove di entrambe le fattispecie, naturalmente, ricorrano i rispettivi e differenti requisiti di pericolo”.

Il principio di diritto

Premesso quanto sopra, la Corte a Sezioni Unite ha dunque risposto al quesito affermando il seguente principio di diritto: “La condotta tenuta nel corso di una pubblica manifestazione consistente nella risposta alla ‘chiamata del presente’ e nel c.d. ‘saluto romano’ integra il delitto previsto dall’art. 5 della legge 20 giugno 1952, n. 645, ove, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso, sia idonea ad integrare il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, vietata dalla XII disp. trans. e fin. della Cost; tale condotta può integrare anche il delitto, di pericolo presunto, previsto dall’art. 2, comma 1, d.l. n. 122 del 26 aprile 1993, convertito dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, ove, tenuto conto del significativo contesto fattuale complessivo, la stessa sia espressiva di manifestazione propria o usuale delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui all’art. 604-bis, secondo comma, cod. pen. (già art. 3 legge 13 ottobre 1975, n. 654)”.

edilizia pubblica residenza

Edilizia pubblica: vietato subordinarne l’accesso alla residenza prolungata Per la Corte Costituzionale il requisito della prolungata residenza impedisce di soddisfare il diritto inviolabile all'abitazione

Edilizia residenziale pubblica e residenza

È incostituzionale negare l’accesso all’edilizia residenziale pubblica a chi, italiano o straniero, al momento della richiesta non sia residente nel territorio della Regione da almeno cinque anni, pur se calcolati nell’arco degli ultimi dieci e maturati eventualmente anche in forma non continuativa.  Il requisito della prolungata residenza, infatti, impedisce di soddisfare il diritto inviolabile all’abitazione, funzionale a che «la vita di ogni persona rifletta
ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana». Questo quanto stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 67/2024 che ha ritenuto contrastante con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza, previsti dall’art. 3 della Costituzione, l’art. 25, comma 2, lettera a), della legge della Regione Veneto 3 novembre 2017, n. 39.

Requisito della residenza prolungata

La Consulta ha precisato che il requisito della residenza prolungata nella Regione non presenta alcuna ragionevole correlazione con il soddisfacimento dell’esigenza abitativa di chi si trova in una situazione di
bisogno. Anzi, tale criterio contrasta con la circostanza per cui «proprio chi versa in stato di bisogno si vede più di frequente costretto a trasferirsi da un luogo all’altro spinto dalla ricerca di opportunità di lavoro».
Del resto, secondo il giudice delle leggi, “la permanenza per almeno cinque anni nella regione, accertata nell’arco di un decennio, non induce a ritenere che vi sarà un futuro radicamento nel territorio, né serve a valorizzare il tempo dell’attesa nell’accesso al beneficio, esigenza che si può semmai riflettere nell’anzianità di presenza nella graduatoria di assegnazione”.
Ravvisata, pertanto, l’adozione di un “criterio irragionevole che si traduce nella violazione del principio di eguaglianza formale fra chi può e chi non può vantare una condizione – quella della prolungata residenza nel
territorio regionale – del tutto dissociata dal suo stato di bisogno”.
Secondo la Corte, il requisito contrasta anche con il “principio di eguaglianza sostanziale, perché tradisce la naturale «destinazione sociale al soddisfacimento paritario del diritto all’abitazione della proprietà pubblica
degli immobili» dell’edilizia residenziale pubblica”.

Allegati

trattamento dati personali

Trattamento dei dati personali: non spetta alle Regioni La Corte Costituzionale ha chiarito che disciplinare il trattamento dei dati personali è compito dello Stato e dell'Unione Europea

Trattamento dei dati personali

È incostituzionale una disciplina regionale che regola il trattamento dei dati personali nella installazione degli impianti di videosorveglianza, in quanto vìola gli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea e invade le competenze legislative esclusive dello Stato nella materia «ordinamento civile». Lo ha chiarito la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 69-2024, dichiarando costituzionalmente illegittimo l’articolo 3 della legge della Regione Puglia n. 13 del 2023 per contrasto con l’art. 117, commi primo e secondo, della Costituzione.
La Corte ha rilevato che l’Unione europea, nell’esercizio della competenza fissata nell’art. 16 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, “detta una complessa disciplina in materia di trattamento dei dati personali, che «trova completamento e integrazione nelle fonti nazionali»”.

Legislatore europeo e nazionale

Per il giudice delle leggi, la Regione non può dunque regolare autonomamente la materia, né operare una selezione di fonti e di previsioni, «che, all’interno dell’articolato plesso normativo contemplato sia dall’Unione europea sia dal legislatore statale, sono chiamate a disciplinare questa complessa e delicata materia», poiché in questo modo «non solo si sovrappone alle normative eurounitaria e statale, travalicando le proprie competenze, ma oltretutto effettua una arbitraria scelta, il cui contenuto precettivo equivale a ritenere vincolanti le sole regole individuate dal legislatore regionale e non anche le altre», dettate dall’UE e dal legislatore statale.

Allegati

gratuito patrocinio spese lite

Gratuito patrocinio: nessuna riduzione per le spese di lite del soccombente La Corte Costituzionale ha chiarito che alla controparte soccombente vengono applicati gli ordinari criteri di liquidazione delle spese anche quando la parte vittoriosa è ammessa al gratuito patrocinio

Gratuito patrocinio e spese di lite

Alla controparte soccombente si applicano gli ordinari criteri di liquidazione delle spese di lite, anche laddove la parte vittoriosa è ammessa al gratuito patrocinio. La quantificazione delle spese di lite, infatti, non subisce deroghe nel «caso particolare in cui la parte vittoriosa è stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato»; anche in tal caso il giudice civile «applica gli ordinari criteri di liquidazione», pure se lo Stato corrisponde al difensore del non abbiente un compenso dimezzato. Lo ha chiarito la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 64/2024, dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate sull’art. 133, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002.

Patrocinio a spese dello Stato: le parti sono estranee

La sentenza ha precisato che l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato fa sorgere un rapporto che si instaura direttamente tra lo Stato stesso e il difensore del beneficiario del patrocinio. A tale rapporto «le parti del giudizio rimangono totalmente estranee»: l’applicazione dei normali criteri di liquidazione pertanto non si traduce, per il soccombente, in una «ulteriore effettiva decurtazione» patrimoniale rispetto a quella avrebbe subito ove la controparte non fosse stata indigente.
Ragionando diversamente, del resto, si perverrebbe al risultato di «garantire un ingiustificato vantaggio patrimoniale alla parte soccombente solo perché la controparte rientra fra gli indigenti e lo Stato si fa carico, anche attraverso la fiscalità generale, dell’onere del loro patrocinio».
Sono state così disattese le censure con le quali il Tribunale di Cagliari sosteneva che, per effetto della disposizione censurata, il soccombente subirebbe un «prelievo coattivo» di natura tributaria.

Nessun eccesso di delega

La sentenza ha anche escluso la violazione dell’art. 76 Cost. per eccesso di delega.
La disposizione censurata non ha, infatti, secondo la Consulta, «carattere realmente innovativo rispetto al quadro normativo previgente»; nella redazione del testo unico, pertanto, il Governo ha rispettato il criterio direttivo del coordinamento formale delle norme oggetto del riordino delegatogli.

Allegati

concorso magistrati

Concorso magistrati: domande entro il 12 maggio Pubblicato sulla GU del 12 aprile, il nuovo concorso, per esami, è destinato a 400 posti di magistrato ordinario

Magistrati: concorso per 400 posti

Pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 30 del 12 aprile 2024 – 4a serie speciale ‘Concorsi ed esami’ – il decreto ministeriale dell’8 aprile 2024 con cui è stato bandito un nuovo concorso, per esami, a 400 posti di magistrato ordinario.

La domanda di partecipazione, da presentarsi entro il 12 maggio 2024, va inviata esclusivamente per via telematica. In particolare, occorre collegarsi al sito www.giustizia.it e autenticarsi – nella sezione dedicata – tramite SPID di secondo livello, Carta di Identità Elettronica oppure Carta Nazionale dei Servizi.

L’indirizzo e-mail indicato dal candidato sarà utilizzato per le notifiche e le successive comunicazioni; la domanda di partecipazione inviata ed il codice identificativo saranno sempre disponibili nell’area riservata del candidato.

Le prove d’esame

Le prove di esame si svolgeranno nelle date, nella sede o nelle sedi di cui al diario contenente la disciplina delle prove scritte che sarà pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 4 giugno 2024.

L’esame consisterà in una prova scritta ed in una orale.

La prova scritta consiste nello svolgimento di tre elaborati teorici vertenti su:

  1. diritto civile;
  2. diritto penale;
  3. diritto amministrativo.

La prova orale invece verterà sulle seguenti materie:

a) diritto civile ed elementi fondamentali di diritto romano;

b) procedura civile;

c) diritto penale;

d) procedura penale;

e) diritto amministrativo, costituzionale e tributario;

f) diritto commerciale e fallimentare;

g) diritto del lavoro e della previdenza sociale;

h) diritto comunitario;

i) diritto internazionale pubblico e privato;

l) elementi di informatica giuridica e di ordinamento giudiziario;

m) colloquio su una lingua straniera scelta fra le seguenti: inglese, francese, spagnolo e tedesco.

Le prove si svolgeranno secondo le procedure previste dall’art. 8 del regio decreto 15 ottobre 1925, n. 1860, e successive modifiche, e dall’art. 3 del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, ovvero con modalità telematiche, ai sensi dell’art. 1 comma 2 del decreto legislativo 5 aprile 2006 n. 160.

Allegati

Cambio di sesso, tutele unione civile estese fino al matrimonio La Corte Costituzionale ha stabilito che i diritti della coppia dell'unione civile non si estinguono nell'attesa di contrarre matrimonio

Unione civile e cambio di sesso

Nell’ipotesi in cui uno dei componenti di una unione civile proponga domanda di rettificazione anagrafica di attribuzione di sesso, e entrambi intendano proseguire la loro relazione trasformandola in matrimonio, i diritti della coppia non si estinguono nel periodo compreso tra la cessazione del vincolo pregresso e la celebrazione del matrimonio stesso.
E’ quanto ha stabilito la Consulta, con la sentenza 66-2024, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 26, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (c.d. legge sulle unioni civili) nella parte in cui stabilisce che la sentenza di rettificazione anagrafica di attribuzione di sesso determina lo scioglimento automatico dell’unione civile senza prevedere, laddove il richiedente la rettificazione e l’altra parte dell’unione rappresentino personalmente e congiuntamente al giudice, fino all’udienza di precisazione delle conclusioni, l’intenzione di contrarre matrimonio, che il giudice disponga la sospensione degli effetti derivanti dallo scioglimento del vincolo fino alla celebrazione del matrimonio e comunque non oltre il termine di centottanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione.

La qlc

La questione era stata sollevata dal Tribunale di Torino, nel corso di un giudizio introdotto, per la rettifica di sesso da uno dei componenti di una unione civile. Il giudice a quo aveva ravvisato il contrasto della normativa
censurata, oltre che con l’art. 2, anche con l’art. 3 Cost., lamentando la disparità di trattamento rispetto alla ipotesi, speculare, in cui il percorso di transizione di genere sia attraversato da una coppia in origine eterosessuale, e unita in matrimonio: “in tale ipotesi – si legge nel comunicato stampa ufficiale – l’art. 1, comma 27, della stessa legge n. 76 del 2016 dispone che, ove i coniugi abbiano manifestato personalmente e congiuntamente al giudice, nel corso del giudizio per rettificazione di sesso, la volontà di proseguire la loro relazione dando vita ad una unione civile, alla rettificazione di sesso consegue l’automatica instaurazione dell’unione civile”.

La decisione

La Corte – si legge nella nota stampa – “ha escluso la violazione dell’art. 3 Cost., sottolineando che, se pure il vincolo derivante dalla unione civile produce effetti molto simili a quelli del matrimonio, si tratta pur sempre di effetti non del tutto coincidenti, e, in parte, di estensione ridotta rispetto al vincolo coniugale, e ricompresa nel più ampio spettro dei diritti ed obblighi da questo originati. La obiettiva eterogeneità delle situazioni a confronto esclude pertanto, la fondatezza del dubbio di contrasto con l’art. 3 Cost.”.
Quanto al sospetto di contrasto della disciplina censurata con l’art. 2 Cost., la Consulta ha anzitutto rilevato che “l’unione civile costituisce una formazione sociale in cui i singoli individui svolgono la propria personalità, ed è
connotata da una natura solidaristica non dissimile da quella propria del matrimonio, in quanto comunione spirituale e materiale di vita, ed esplicazione del diritto fondamentale della persona di vivere liberamente una
condizione di coppia, con i connessi diritti e doveri”.

Ciò posto, la Corte Costituzionale ha rilevato che i componenti dell’unione civile, “ove manifestino la volontà di conservare il rapporto nella diversa forma del matrimonio a seguito dello scioglimento automatico del vincolo pregresso quale effetto della sentenza di rettificazione anagrafica del sesso di uno di essi, vanno comunque incontro, nel tempo necessario alla celebrazione del matrimonio stesso, ad un vuoto di tutela, a causa del venir meno del complessivo regime di diritti e doveri di cui erano titolari in costanza dell’unione civile. Tale mancanza di tutela entra in frizione con il diritto inviolabile della persona alla propria identità, di cui pure il percorso di
sessualità costituisce espressione”.

Non senza considerare, ha aggiunto il giudice delle leggi che, “nel tempo necessario alla ricostituzione della coppia secondo la nuova forma legale, i componenti potrebbero essere colpiti da eventi destinati a precludere in modo irrimediabile la costituzione del nuovo vincolo. Tuttavia, avuto riguardo alle differenze già evidenziate tra unione civile e matrimonio – osserva ancora la Corte – il rimedio a tale situazione non può essere quello di omologare le due situazioni, estendendo al caso di scioglimento della prima l’effetto di automatica trasformazione in matrimonio che l’art. 1, comma 27, della legge n. 76 del 2016 prevede nel caso di passaggio dal secondo alla prima. Il rimedio deve, invece, consistere nella sospensione degli effetti derivanti dallo scioglimento del vincolo per il tempo necessario affinché le parti celebrino il matrimonio, sempre che esse abbiano manifestato tale volontà davanti al giudice durante il giudizio di rettificazione del sesso, fino alla udienza di precisazione delle conclusioni, analogamente a quanto prevede per i coniugi nell’ipotesi inversa, l’art. 31, comma 4-bis, del
d.lgs. n. 150 del 2011”.
La durata di tale sospensione è stata individuata dalla Consulta “nel termine di 180 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione, termine mutuato dall’art. 99 c.c., che prevede lo stesso termine per la celebrazione del matrimonio, con decorrenza dalle pubblicazioni. Da tale pronuncia consegue che l’ufficiale dello stato civile, ricevuta la comunicazione del passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione del sesso con la dichiarazione del giudice relativa alla sospensione degli effetti dello scioglimento del vincolo, deve procedere alla relativa annotazione”.
Pertanto la Corte ha altresì dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 70-octies, comma 5, del D.P.R. n. 396 del 2000 sull’ordinamento dello stato civile, per la mancata previsione di tale incombenza.

call center agenzia entrate

Agenzia Entrate: nuovi numeri call center Sono attivi dal 22 aprile 2024 i nuovi numeri per contattare il call center dell'Agenzia delle Entrate da mobile e dall'estero

Call center Agenzia Entrate

Dal 22 aprile 2024, sono cambiati i contatti dell’Agenzia delle Entrate per chi chiama da mobile o da fuori Italia. I numeri da segnare in agenda sono: 06.97.61.76.89 per le chiamate da cellulare (che sostituisce lo 06.96.66.89.07) e 06.45.47.04.68 per le chiamate da estero (che prende il posto dello 06.96.66.89.33).

Resta invariato, invece, il numero verde da rete fissa: 800.90.96.96.

Con un messaggio audio, il fisco sta comunicando la novità agli utenti del call center in attesa di parlare con un consulente. Inoltre, chi nei prossimi mesi continuerà a utilizzare i vecchi recapiti sarà informato sempre tramite messaggio audio sui numeri corretti.

Assistenza a 360°

I servizi disponibili tramite l’assistenza telefonica dell’Agenzia sono molteplici e spaziano dal chiedere informazioni su novità e scadenze fiscali, fino all’assistenza su comunicazioni di irregolarità, allo stato di un rimborso.

Il costo delle chiamate da cellulare e dall’estero dipende dal piano tariffario del chiamante, mentre da rete fissa il servizio è gratuito.

Per maggiori informazioni è possibile consultare l’apposita sezione del sito internet dell’Agenzia Contatti e assistenza – Assistenza fiscale (agenziaentrate.gov.it).

Niente Imu se si è denunciata l’occupazione abusiva La Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 9, comma 1, del DLGS 23/2011 che contempla l'IMU per gli immobili occupati abusivamente anche se è stata presentata tempestiva denuncia penale

IMU e occupazione abusiva immobile

L’Imu non va pagata se si è denunciata penalmente l’occupazione abusiva dell’immobile. Questo quanto si ricava dalla sentenza n. 60-2024, con cui la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale) nella parte in cui non prevede che non sia dovuta l’IMU per gli immobili occupati abusivamente relativamente ai quali sia stata presentata una tempestiva denuncia in sede penale.

La qlc

La questione è stata sollevata dalla sezione tributaria della Cassazione per violazione degli artt. 3, primo comma, 53, primo comma, 42, secondo comma, Cost. e 1 Prot. addiz. CEDU, per contrasto con i principi di capacità contributiva, uguaglianza tributaria, ragionevolezza e di tutela della proprietà privata in quanto per gli immobili abusivamente occupati e di cui sia precluso lo sgombero per cause indipendenti dalla volontà del contribuente verrebbe a mancare il presupposto dell’imposta, ossia l’effettivo e concreto esercizio dei poteri di disposizione e godimento del bene.

Denuncia occupazione immobile

Secondo la Corte costituzionale, “è innegabile che nelle ipotesi in cui un immobile sia stato occupato in esplicito contrasto con la volontà del proprietario il quale si sia anche occupato di denunciare tempestivamente l’accaduto in sede penale, difetti, in relazione all’immobile occupato abusivamente, la capacità contributiva in capo a chi abbia subito impotente la suddetta occupazione, cosicché «si finirebbe per tassare una ricchezza inesistente laddove, invece, ogni prelievo tributario deve avere una causa giustificatrice in indici concretamente rivelatori di ricchezza» (sentenze n. 10 del 2023 e 120 del 2020).
Del resto il legislatore è già intervenuto in questo senso con l’art. 1, comma 81, della legge 29 dicembre 2022, n. 197, a decorrere dal 1° gennaio 2023, stabilendo che «Sono esenti dall’imposta, per il periodo dell’anno durante
il quale sussistono le condizioni prescritte, gli immobili non utilizzabili né disponibili, per i quali sia stata presentata denuncia all’Autorità giudiziaria in relazione ai reati di cui agli articoli 614, secondo comma, o 633 del
codice penale o per la cui occupazione abusiva sia stata presentata denuncia o iniziata azione giudiziaria penale»: la Corte costituzionale, con la sentenza in parola, è come se avesse esteso retroattivamente la portata di tale norma.

Allegati