Licenziamento per esubero personale

Licenziamento per esubero personale Nel licenziamento per esubero del personale, i dipendenti da licenziare devono essere scelti in base ai criteri di buona fede e correttezza. Cenni sul repechage

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Il licenziamento per esubero di personale è una delle possibili ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966, secondo cui il licenziamento per giustificato motivo può essere determinato anche da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.

Tale forma di recesso unilaterale dal rapporto di lavoro rientra tra le facoltà dell’imprenditore, che però può esercitarla entro determinati limiti.

I presupposti del licenziamento per esubero personale

Innanzitutto, va evidenziato che il giustificato motivo oggettivo ricorrente in questa ipotesi non è da ricondurre necessariamente a uno stato di crisi dell’impresa, che può anche non sussistere.

I motivi della scelta imprenditoriale, infatti, ben possono ricondursi a esigenze del datore di lavoro riferibili alla riorganizzazione aziendale, alla soppressione di sedi o rami d’azienda o al ridursi della produttività dell’attività.

Esubero personale: la scelta dei dipendenti da licenziare

Uno degli aspetti cruciali in tema di licenziamento per esubero del personale è rappresentato dalla scelta, da parte del datore, del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare.

In caso di omogeneità di mansioni ricoperte da parte di più dipendenti, la scelta dei lavoratori da licenziare deve essere compiuta dal datore di lavoro attenendosi ai criteri di buona fede e correttezza.

Sebbene i contorni di tali criteri risultino spesso sfumati, la giurisprudenza ha chiarito che è possibile fare riferimento ai criteri individuati dalla disciplina in tema di licenziamento collettivo. Quest’ultima prevede che, se l’accordo sindacale non individua altri criteri, la scelta dei dipendenti da licenziare deve essere effettuata tenendo conto dell’anzianità di servizio e dei carichi di famiglia.

In base a tali criteri, quindi, a parità di mansioni, verrà licenziato il dipendente con minore anzianità di servizio e con un minor numero di familiari a carico.

Come ricorda la Corte di Cassazione, del resto, “la scelta del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare per il datore di lavoro non è totalmente libera: essa, infatti, risulta limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori, dalle regole di correttezza e buona fede” (Cass. n. 31490/2018 e n. 19732/2018).

Licenziamento per esubero e repechage

Un altro aspetto cruciale della disciplina del licenziamento per esubero del personale è rappresentato dal c.d. repechage, o ripescaggio, e cioè quella particolare soluzione per cui il datore di lavoro è tenuto a mantenere il rapporto di lavoro in essere con il dipendente, se è possibile adibire quest’ultimo ad una diversa posizione lavorativa, pur con differenti mansioni e retribuzione da quelle precedenti.

Al riguardo, la Corte di Cassazione ha evidenziato di recente che il datore, nell’assolvimento dell’obbligo di repechage, deve prendere in esame anche quelle posizioni lavorative che, pur ancora occupate al momento del licenziamento, si renderanno disponibili in un arco temporale del tutto prossimo al recesso. In altre parole, nella ricerca di posizioni nelle quali adibire il lavoratore in esubero, l’azienda deve prendere in considerazione anche quelle attualmente ricoperte da dipendenti che abbiano già dato il preavviso di dimissioni (Cass. sent. n. 12132/2023).

Esubero personale e offerta di part-time

Un’altra interessante pronuncia della Cassazione in tema di licenziamento per esubero del personale ricorda che, in un contesto di riorganizzazione aziendale per esubero del personale, può costituire giustificato motivo oggettivo per il licenziamento il rifiuto da parte del dipendente di accettare la trasformazione del proprio rapporto di lavoro da full-time a part-time.

In generale, infatti, il rifiuto del part-time non costituisce di per sé giustificato motivo per il licenziamento, ma la presenza di ragioni oggettive che giustifichino la richiesta datoriale rende giustificabile anche il licenziamento, in caso di rifiuto della stessa (Cass. ord. n. 12244/2023).

test Invalsi

Invalsi nel cv dello studente: interviene il Garante Il Garante Privacy ha inviato una richiesta di informazioni all'Istituto in merito alla possibile integrazione dei testi nel curriculum digitale degli studenti

Garante Privacy e test Invalsi nel cv dello studente

In base a numerose notizie stampa, i risultati delle prove Invalsi entreranno a far parte del curriculum dello studente allegato al diploma di scuola superiore e contenuto nell’E-Portfolio presente sulla piattaforma ministeriale Unica. Sulla scorta di questi rumors, il Garante Privacy ha deciso di intervenire inviando una richiesta di informazioni all’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione (Invalsi) in merito a tale possibile integrazione nei curricula dei ragazzi.

Vulnerabilità dei dati dei minori

Nella richiesta di informazioni, l’Authority evidenzia innanzitutto come la normativa sulla privacy, in considerazione della loro particolare “vulnerabilità”, assicuri “ai dati personali dei minori una specifica protezione, anche quando i trattamenti riguardano la valutazione del rendimento scolastico”.

Per cui entro 20 giorni, Invalsi dovrà fornire riscontro al Garante, ci sono i presupposti normativi per inserire i risultati dei test delle prove (che peraltro saranno effettuate nei prossimi giorni negli istituti scolastici di tutta Italia) nei curricula degli studenti e quali tipologie di prove, oltre alle finalità e alla logica del trattamento.

Quanto all’eventuale effettuazione di trattamenti automatizzati ai fini di “profilazione e classificazione” degli studenti, l’Autorità ha chiesto, infine, “di conoscere le misure adottate per assicurare la qualità dei dati e l’intervento umano nel processo decisionale”.

dichiarazione sostitutiva atto notorio

Dichiarazione sostitutiva di atto notorio Con la dichiarazione sostitutiva di atto notorio si comunicano alla PA stati, qualità personali o fatti che siano a diretta conoscenza dell'interessato

Cos’è la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà

Sono molte le occasioni in cui in cittadino si interfaccia con la Pubblica Amministrazione: ad esempio, per richiedere un’autorizzazione, partecipare a un concorso o presentare un’istanza per ottenere benefici economici.

Sovente, l’ente pubblico ha necessità di ottenere delle informazioni dal cittadino e queste, in un’ottica di semplificazione dell’attività della pubblica amministrazione, possono essere fornite tramite dichiarazione sostitutiva di atto notorio, con cui si comunicano fatti, stati o qualità personali, senza necessità di ricorrere all’attestazione da parte di pubblico ufficiale e ai costi che il suo intervento comporterebbe.

Il contenuto della dichiarazione sostitutiva di atto notorio

I mezzi più frequenti con cui comunicare delle informazioni alla p.a. sono le dichiarazioni in autocertificazione e la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà.

Quest’ultima, in particolare, è prevista e disciplinata dall’art. 47 del D.P.R. 445 del 2000 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa).

Tale articolo, rubricato “dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà”, dispone che l’atto di notorietà concernente stati, qualità personali o fatti che siano a diretta conoscenza dell’interessato è sostituito da dichiarazione resa e sottoscritta dal medesimo.

La norma in esame, al secondo comma, specifica anche che la dichiarazione resa nell’interesse proprio del dichiarante può riguardare anche stati, qualità personali e fatti relativi ad altri soggetti di cui egli abbia diretta conoscenza.

In altre parole, con la dichiarazione sostitutiva il cittadino può fornire autonomamente determinate informazioni, senza perciò ricorrere all’intervento di un pubblico ufficiale (ad esempio, un notaio) per ottenere il c.d. atto notorio.

Differenza tra autocertificazione e dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà

Con la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà possono, pertanto, attestarsi tutti quei fatti, stati e qualità personali che non possono attestarsi con l’analogo, ma differente, mezzo della dichiarazione in autocertificazione (cfr. art. 47, comma terzo).

Quest’ultima, infatti, a norma dell’art. 46 del medesimo DPR, è una dichiarazione sostitutiva di certificazione con la quale possono essere comprovati stati, qualità personali e fatti che solitamente vengono certificati dalla pubblica amministrazione, come data e luogo di nascita, residenza, cittadinanza, stato di famiglia, iscrizione in albi, titolo di studio, qualifica professionale, situazione reddituale etc.

Pertanto, a differenza della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, che prende il posto dell’atto notorio formato e rilasciato dal pubblico ufficiale, l’autocertificazione consente, invece, di evitare la richiesta di rilascio della certificazione da parte dell’ente pubblico.

La sottoscrizione della dichiarazione ex art. 47 DPR 445/2000

Si è detto che la dichiarazione sostituiva di atto notorio prevista dall’art. 47 del DPR 445/2000 dev’essere sottoscritta dal richiedente.

Al riguardo, va precisato che, a norma dell’art. 38, comma 3, “le istanze e le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà da produrre agli organi della amministrazione pubblica o ai gestori o esercenti di pubblici servizi sono sottoscritte dall’interessato in presenza del dipendente addetto ovvero sottoscritte e presentate unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore”.

Pertanto, se la sottoscrizione della dichiarazione sostitutiva di atto notorio non avviene davanti al pubblico dipendente, deve esservi allegata a una fotocopia del documento d’identità in corso di validità. Di regola, quindi non è necessaria l’autenticazione della firma.

Inoltre, il primo comma dell’art. 38 dispone che “tutte le istanze e le dichiarazioni da presentare alla pubblica amministrazione o ai gestori o esercenti di pubblici servizi possono essere inviate anche per fax e via telematica”, sempre in ossequio ai principi di semplificazione e rapidità dell’attività pubblica e dei rapporti tra cittadino e p.a.

Sanzioni in tema di autocertificazione e dichiarazioni sostitutive

Infine, va ricordato che con la dichiarazione ex art. 47 il cittadino deve rendere dichiarazioni che corrispondano al vero.

Qualora, invece, a seguito di controlli risulti la mendacità di quanto comunicato alla p.a., è possibile che il cittadino incorra in sanzioni penali, a norma dell’art. 76 del citato decreto, che al primo comma dispone che “chiunque rilascia dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso nei casi previsti dal presente testo unico è punito ai sensi del codice penale e delle leggi speciali in materia”, specificando al comma terzo che “le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli articoli 46 e 47 (…) sono considerate come fatte a pubblico ufficiale”.

riscatto laurea

Riscatto laurea Il riscatto della laurea consente di riscattare gli anni degli studi universitari a fini pensionistici, non tutti però ne beneficiano 

Riscatto laurea: cos’è e a cosa serve

Il riscatto della laurea rappresenta un’opportunità significativa per molti lavoratori che desiderano migliorare la propria situazione previdenziale e quindi la propria pensione.

Questa pratica consente di considerare il periodo degli studi universitari conclusi con il conseguimento dei relativi titoli (diploma universitario, diploma di laurea, diploma di specializzazione, dottorato di ricerca, laurea triennale, specialistica, magistrale, diploma Istituti AFAM)  come tempo contributivo, pagando i contributi volontari all’INPS o all’ente previdenziale competente. In questo modo è possibile raggiungere più rapidamente il requisito contributivo richiesto per andare in pensione con la possibilità, quindi, di accorciare i tempi per andare in pensione.

Il riscatto di laurea però non è una possibilità offerta ai neolaureati, ma si estende a tutti coloro che sono in possesso di un titolo di studio universitario, indipendentemente dall’età o dallo stato occupazionale, presentandosi come un’opzione vantaggiosa sia per i lavoratori dipendenti che per i liberi professionisti.

La normativa vigente prevede diverse modalità di riscatto, inclusa quella agevolata, destinata a specifiche categorie. 

Il processo di valutazione per procedere al riscatto richiede un’attenta analisi dei costi e dei potenziali benefici pensionistici, considerando le variabili quali l’età del richiedente, il reddito e gli anni di studi da riscattare.

Riscatto ordinario e riscatto agevolato

Le tipologie di riscatto a cui è possibile accadere sono due, il riscatto ordinario e quello agevolato.

Il riscatto ordinario del corso della laurea per gli iscritti all’INPS è disciplinato dal decreto legislativo n. 187/1997 e l’onere del riscatto varia a seconda che il periodo da riscattare sia anteriore o precedente al 1996, anno in cui al regime retributivo è succeduto quello contributivo per il calcolo della pensione.

Il riscatto agevolato, istituito con la legge n. 26/2019, riguarda i periodi collocati nel periodo contributivo e offre ai dipendenti pubblici e privati, così come agli autonomi e ai liberi professionisti, la possibilità di riscattare gli anni di studio a condizioni particolarmente vantaggiose.

A chi conviene il riscatto della laurea

Il riscatto della laurea è stato vantaggioso fino al 2021, a partire dal 2022 infatti, il valore di 5.240,00 euro per il riscatto agevolato di un anno di laurea, ha iniziato ad aumentare gradualmente. Al momento per riscattare 5 anni di studio occorre sborsare più di 30.000 euro.

Tutta colpa dell’inflazione degli ultimi anni. In una situazione del genere occorre quindi valutare se il riscatto rappresenta effettivamente un aiuto per andare in pensione in anticipo e fare quindi due conti per verificarne la convenienza economica.

Per chi è vantaggioso

I soggetti per i quali il riscatto agevolato rappresenta un vantaggio sono i lavoratori che hanno iniziato a studiare e a versare i contributi previdenziali a partire dal 1996, soprattutto se lavoratori dipendenti con stipendi piuttosto alti.

Possono beneficiare del riscatto pensionistico anche le donne. Grazie alla pensione anticipata il riscatto rappresenta senza dubbio un aiuto per andare prima in pensione perché aiuta a raggiungere prima i requisiti contributivi.

I lavoratori di età compresa tra i 55 e i 60 anni che sono entrati nel mondo del lavoro molto presto grazie al riscatto della laurea possono andare in pensione con un anticipo superiore ai 5 anni.

Per chi non è vantaggioso

Il riscatto agevolato non conviene invece a chi ha iniziato a versare i contributi prima del 1995. L’esercizio della opzione contributiva irrevocabile con il ricalcolo dell’assegno pensionistico determina una diminuzione importante della pensione. Molto meglio pensare al riscatto tradizionale, senza dubbio più oneroso e collegato all’aumento attesa dell’assegno pensionistico.

Il riscatto non è vantaggioso per chi ha iniziato a lavorare tardi, ossia poco prima o intorno ai 30 anni, perché si rischia di andare in pensione più tardi.

I lavoratori di età compresa tra i 30 e i 50 anni, che hanno iniziato a lavorare all’età di 24 anni e hanno un trattamento pensionistico contributivo, se decideranno di andare in pensione con due anni di anticipo si ritroveranno una pensione ridotta nella misura del 10%.

Maltrattamenti in famiglia: rileva anche il disprezzo La Cassazione ha precisato che nel reato di maltrattamenti in famiglia rientrano anche gli atti di disprezzo e di offesa alla dignità della vittima, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali

Atti di vessazione del marito nei confronti della moglie

Nella vicenda in esame, la Corte d’appello di Milano aveva ritenuto il marito responsabile dei reati di cui agli artt. 572 e 609-bis c.p. nei confronti della moglie convivente, condannando l’imputato alla pena di cinque anni e quattro mesi di reclusione.

Avverso la suddetta decisione il marito aveva proposto ricorso dinanzi al giudice di legittimità.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 18031-2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Reato di maltrattamenti in famiglia

Per quanto specificatamente attiene al reato di maltrattamenti in famiglia, addebitato al ricorrente dai Giudici di merito, la Suprema Corte ha evidenziato che la fattispecie in questione “consiste nella condotta di sottoposizione della vittima ad una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con le normali condizioni di vita”.

A tal proposito, la Corte ha altresì precisato che “nello schema del delitto di maltrattamenti in famiglia (..) non rientrano soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce, le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano un vere e proprie sofferenze morali”.

Sulla scorta di quanto sopra riferito, la Corte ha dunque ritenuto che i Giudici di merito avessero correttamente valutato che la convivenza coniugale tra l’imputato e la vittima era stata caratterizzata dalla ripetitività di condotte vessatorie perpetrate dal marito a carico della moglie e che le stesse fossero di natura abusante, umiliante e violenta, con la conseguenza che la condotta posta in essere dall’imputato aveva integrato il reato di maltrattamenti in famiglia.

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assegno divorzio sospensione termini

Assegno di divorzio: scatta la sospensione dei termini Le Sezioni Unite della Cassazione chiariscono che nei procedimenti in cui si discute del contributo di mantenimento o dell’assegno divorzile è applicabile la disciplina sulla sospensione dei termini processuali nel periodo feriale

Esonero dall’assegno di mantenimento

Nel caso di specie, la Corte d’appello di Napoli aveva escluso che permanesse in capo all’ex marito il dovere di versare l’assegno di mantenimento alla madre in favore delle figlie, laureate e maggiorenni, poiché il venir meno della convivenza delle figlie con la madre aveva costituito una condizione determinativa del venir meno della legittimazione di quest’ultima ad ottenere il versamento dell’assegno di mantenimento della prole da parte del padre.

La sospensione dei termini processuali

Avverso la decisione adottata dal giudice di merito, il padre aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

La sezione ordinaria della Corte investita del ricorso, valutata la questione pregiudiziale relativa alla tempestività del mezzo, aveva chiesto l’assegnazione della questione alle Sezioni Unite.

Il tema pregiudiziale prendeva avvio dal fatto che il ricorso era stato proposto diversi mesi dopo rispetto alla data di notifica dello stesso alla controparte, facendo emergere il dubbio interpretativo se “alle liti in materia di mantenimento per i figli maggiorenni ma non economicamente autosufficienti sia applicabile, o meno, la sospensione dei termini processuali prevista dagli artt. 3 della legge n. 742 del 1969 e 92, primo comma, dell’ord. giud.”.

La sezione rimettente ha evidenziato come, la soluzione interpretativa che si intende adottare nel caso di specie è condizionata dal significato da attribuire alla locuzione “cause civili relative ad alimenti” contenuta dalla suddetta norma e relativa agli affari civili da trattare anche durante il periodo feriale, poiché sottratti alla sospensione dei termini.

Il contrasto giurisprudenziale

Invero, sull’argomento è stato registrato un contrasto giurisprudenziale in seno alla Corte stessa, a seguito di un recente intervento del Giudice di legittimità, il quale ha stabilito che, nelle cause in materia di mantenimento del coniuge debole e dei minori, non è applicabile la sospensione feriale dei termini processuali e che le stesse sarebbero pertanto assimilabili ai contenziosi in materia di alimenti non soggette alle pause processuali obbligatorie.

La Suprema Corte, nella sua massima composizione, dopo aver ripercorso gli orientamenti giurisprudenziali e la normativa di riferimento ha affermato che “Poiché l’assegno divorzile non si può equiparare all’assegno alimentare, essendo diverse la natura e le finalità proprie dei due tipi di assegno, in nessuna delle controversie concernenti l’assegno divorzile può trovare applicazione l’esclusione dalla sospensione dei termini durante il periodo feriale prevista dall’articolo 3 della legge n. 742 del 1969, in relazione all’articolo 92, primo comma, dell’ordinamento giudiziario, riguardo alle cause relative agli alimenti”.

Secondo l’opposta interpretazione, invece, la normativa emergenziale, introdotta a seguito della pandemia Covid-19, avrebbe sottratto entrambe le suddette fattispecie alla sospensione dei termini processuali durante il periodo feriale.

Le Sezioni Unite non hanno tuttavia condiviso tale orientamento in quanto “nell’elenco delle cause alle quali la sospensione non è applicabile non compaiono quelle relative ad alimenti”; quest’ultime, spiega la Corte, sono infatti distinte dalle cause di separazione o di divorzio, le quali certamente rispondono alle necessità di sopperire ai bisogni di vita della persona, ma in un’accezione più ampia da quella sottesa alla prestazione alimentare strettamente intesa.

La decisione delle Sezioni Unite della Cassazione

Rispetto alle differenze sopra evidenziate, la Corte ha dunque ritenuto che la normativa emergenziale, pur facendo riferimento alle “cause relative ai diritti delle persone minorenni, al diritto all’assegno di mantenimento, agli alimenti e all’assegno divorzile”, oltre ad avere natura transitoria era anche destinata a stabilire quali fossero le eccezioni alla generale regola della sospensione processuale durante il periodo feriale, configurandosi in questo senso come una normativa specifica e a termine con l’esclusiva finalità di tutelare la salute pubblica in un particolare momento storico.

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza n. 12946-2024, ha dunque dichiarato inammissibile il ricorso e ha rimesso gli atti alla prima sezione civile per l’esame dei singoli motivi.

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affitti brevi

Affitti brevi: la guida La normativa italiana ed europea sugli affitti brevi in Italia. Finalità ed effetti delle regole sulla gestione delle locazioni turistiche brevi

Disciplina affitti brevi in Italia

Nel panorama immobiliare italiano, gli affitti brevi hanno guadagnato un’importanza crescente negli ultimi anni, diventando una modalità di locazione sempre più apprezzata sia dai turisti che dai proprietari di immobili.

La risposta del legislatore italiano a questo fenomeno in rapida espansione si è concretizzata attraverso normative volte a fornire un quadro legale chiaro a chi desidera affittare il proprio immobile per periodi brevi.

Queste le norme di riferimento dell’ordinamento italiano per gli affitti brevi:

  • Il comma 1 dell’articolo 4 del decreto legge n. 50/2017, che definisce le locazioni brevi a uso abitativo come quelle che hanno una durata non superiore ai 30 giorni e che includono il servizio di pulizia dei locali. Il locatore è una persona fisica, che non esercita la locazione in forma di impresa e che si avvale di soggetti che svolgono attività di intermediazione immobiliare o che gestiscono portali telematici per mettere in contatto persone in cerca di un alloggio per le vacanze con chi dispone di immobili da locare per periodi brevi.
  • Il comma 2 dell’articolo 4, modificato di recente dalla legge di bilancio 2024 (legge n. 213/2023), che prevede le percentuali di imposta. Sulla proprietà del primo immobile la percentuale dell’aliquota è del 21%. Dal secondo al quarto immobile invece il locatore è gravato da un’aliquota del 26%
  • Il decreto anticipi n. 145/2023, convertito con modificazioni dalla legge n. 191/2023, nel nuovo articolo 13-ter, prevede nuovi obblighi per i proprietari delle unità abitative destinate alle locazioni brevi e per i proprietari delle strutture turistico ricettive, sia alberghiere che extra-alberghiere. Gli obblighi consistono nel comunicare in modalità telematica al Ministero del Turismo i dati catastali dell’immobile locato, la presenza dei necessari requisiti tecnici di sicurezza degli impianti (per la rilevazione di gas combustibili e del monossido di carbonio) e degli estintori portatili.

Regolamento UE locazioni brevi

A livello europeo il Regolamento Europeo sulla Raccolta e sulla condivisione dei dati, che ha dato vita al Codice Unico Europeo, ha ricevuto il via libera dal Consiglio il 18 marzo 2024.

Il Regolamento, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale UE del 29 aprile 2024, sarà in vigore dal 20 maggio 2026.

Grazie a questa fonte sarà possibile avere una banca dati europea in cui confluiranno i dati dei locatori, degli immobili locati e delle prenotazioni.

Banca Dati unica

In attesa della Banca Dati Europea, il Ministero del Turismo ha predisposto un decreto che porterà alla creazione di una Banca Dati Unica. Il testo ha già ricevuto il parere positivo della Commissione Politiche del turismo della Conferenza delle Regioni e Province Autonome.

La fase pilota vedrà coinvolte le Regioni dotate di una tecnologia più avanzata per poi passare gradualmente alla creazione di un Registro Unico, con l’obiettivo di contrastare l’evasione fiscale e garantire la massima trasparenza.

L’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza potranno effettuare i controlli necessari grazie alla possibilità di incrociare i dati e intercettare le situazioni a rischio.

Il Codice Identificativo Nazionale

Il censimento degli immobili destinati alle locazioni turistiche previsto dal decreto anticipi è finalizzato al rilascio del CIN, il Codice identificativo nazionale, che il locatore dovrà esporre all’esterno dell’immobile locato e che dovrà sempre comparire negli annunci.

Il CIN sarà fondamentale anche per l’identificazione degli immobili destinati alla locazione turistica all’interno della banca dati unica.

La piena operatività del CIN è prevista per il mese di settembre 2024, dopo che sarà operativa la Banca Dati Unica. Il Codice verrà assegnato mediante procedura telematica, come contemplata dall’art. 13 ter del DL n. 145/2023.

Il locatore di immobili destinati agli affitti brevi senza CIN sarà soggetto a una multa massima di 8.000 euro, mentre l’inserimento degli annunci senza CIN sarà punito con una sanzione fino a 5000 euro.

Normativa affitti brevi: finalità ed effetti

Le normative analizzate si pongono l’obiettivo di bilanciare le esigenze di flessibilità nel mercato degli affitti temporanei con la necessità di garantire sicurezza, trasparenza ed equità sia per i locatori che per gli inquilini.

Con la definizione di specifici obblighi fiscali e amministrativi per i proprietari, l’Italia si sta muovendo verso un sistema più organizzato, che promette di apportare benefici significativi all’economia locale, pur affrontando le sfide legate al fenomeno delle locazioni turistiche.

In questo contesto, comprendere in dettaglio le nuove disposizioni legislative è fondamentale per tutti i soggetti coinvolti, per navigare con successo nel mercato degli affitti brevi.

Nel contesto degli affitti brevi in Italia, l’arrivo della proposta europea rappresenta una svolta significativa in grado di garantire equità nel mercato, proteggere i diritti dei consumatori e assicurare condizioni di concorrenza leali tra i fornitori di alloggi.

In Italia, dove il settore degli affitti brevi è fiorente ma anche fonte di controversie, soprattutto nelle città d’arte e nelle località turistiche, la nuova normativa potrebbe avere impatti rilevanti. Gli operatori del settore dovranno adeguarsi a standard più stringenti in termini di sicurezza, trasparenza e rispetto delle normative locali, inclusi eventuali limiti agli affitti brevi imposti per preservare il tessuto residenziale.

esame avvocato

Esame avvocato L’esame avvocato si compone di fase scritta e orale e ha ad oggetto sia materie di diritto sostanziale che di diritto processuale

Esame avvocato cos’è e come funziona

L’esame avvocato è la prova necessaria ai laureati in giurisprudenza per conseguire l’abilitazione all’esercizio della professione forense.

Per parteciparvi, occorre prima aver terminato il periodo di tirocinio prescritto dalla legge presso studi legali e uffici giudiziari.

Come si svolge l’esame avvocato 2024

La disciplina dell’esame di avvocato è stata, negli anni recenti, oggetto di discussioni e modifiche, originate dal periodo emergenziale del 2020.

Quest’anno, la prova scritta dell’esame per l’abilitazione alla professione di avvocato si è svolta a dicembre, con la redazione di pareri in ambito di diritto civile e diritto penale e la redazione di un atto di diritto civile, penale o amministrativo.

Il tasso degli elaborati considerati idonei al superamento della prova scritta è stato del 55%, un dato definito “confortante” dal presidente della commissione centrale dell’esame.

La prova orale si svolge a partire dal mese di maggio 2024 ed è disciplinata sul modello dell’orale “rafforzato” proprio del periodo emergenziale, modalità di cui è caldeggiata, da parte di alcune associazioni di categoria, la riproposizione anche per l’anno a venire.

Le tre fasi della prova orale dell’esame avvocato

La prova orale dell’esame avvocato si compone di tre fasi, da svolgersi senza soluzione di continuità in un’unica seduta. La durata complessiva della prova per il candidato dev’essere al massimo pari a circa un’ora e mezzo.

La prova orale comincia con la somministrazione al candidato di un caso pratico da discutere davanti ai commissari d’esame. Attraverso la soluzione proposta dal candidato, è possibile valutare le sue conoscenze di diritto sostanziale e processuale, nella materia che quest’ultimo ha scelto prima dello svolgimento dell’esame, tra diritto civile, diritto penale e diritto amministrativo.

La seconda fase consiste nel classico esame, attraverso le domande della commissione, delle conoscenze e delle capacità di esposizione da parte del candidato. Oggetto delle domande sono le materie scelte tra diritto civile, penale (anche negli aspetti processuali) e amministrativo.

Infine, al candidato dell’esame avvocato vengono sottoposti dei quesiti riguardanti l’ordinamento forense e la deontologia della professione.

L’esame è superato nel momento in cui il candidato ottenga nella prova orale un voto di almeno 105 punti, con un minimo di 18 punti in ciascuna materia (non viene, cioè, ammessa la compensazione dei punteggi per le materie in cui il candidato non ottenga almeno 18 punti).

Criteri di valutazione candidati all’esame di abilitazione avvocato

Attraverso una circolare ministeriale, sono stati chiariti anche i criteri di valutazione dell’esame avvocato, che devono essere quelli della chiarezza espositiva e della logicità dei ragionamenti, oltre alla dimostrazione da parte del candidato della concreta capacità di soluzione delle questioni giuridiche e del possesso di un’idonea conoscenza della teoria relativa agli istituti giuridici oggetto di esame.

Vengono, inoltre, ritenuti oggetto di valutazione anche la capacità di operare collegamenti interdisciplinari in occasione dell’esposizione dei vari argomenti, oltre alla necessaria capacità di sintesi.

Rapporto avvocatura 2024 Cassa Forense, in collaborazione con il Censis, ha realizzato, come ogni anno, il rapporto sull'avvocatura 2024

Rapporto avvocatura 2024: i numeri

Lieve diminuzione degli avvocati anche nel 2023 ma anche maggiore familiarità con la tecnologia e l’intelligenza artificiale, che è vista come un’opportunità e non come una minaccia. gLavorare insieme ai colleghi in studi aggregati è ritenuto utile per fare di più e meglio, ma evidenziata anche stanchezza nel rincorrere le continue riforme legislative e preoccupazione per le difficoltà causate dalla burocrazia e dal ritardo nei pagamenti dei loro compensi. Questo dicono i numeri del Rapporto sull’Avvocatura 2024, realizzato come di consueto da Cassa Forense in collaborazione con il Censis e presentato l’8 maggio scorso.

Meno avvocati iscritti alla Cassa

Entrando nel dettaglio, gli iscritti alla Cassa Forense alla data del 31 dicembre 2023 sono 236.946, uomini poco più di 125 mila e donne 111.500. Il numero scende rispetto all’anno precedente, confermando il trend (-1,3%). Permane il saldo negativo tra iscrizioni e cancellazioni: nel 2023 si registrano 8.043 avvocati in meno rispetto all’anno precedente. Le cancellazioni riguardano in particolare le donne con meno di 15 anni di anzianità di iscrizione (54,2%).

Età media avvocati in aumento

L’età media degli avvocati aumenta, è passata da 42,3 anni nel 2002 a 48,3 anni nel 2023. Il fenomeno rispecchia quello dell’invecchiamento generale della popolazione. Aumenta il numero delle giovani avvocate: tra le diverse fasce d’età, la maggior parte delle donne si trova infatti nelle fasce più giovani: il 57,5% degli avvocati sotto i 34 anni e il 55,3% tra i 35 e i 44 anni. Al contrario, più della metà degli iscritti tra i 55 e i 64 anni è composta da uomini (59,9%) come per la maggior parte degli over 65 anni (75,3%). Il più giovane iscritto alla Cassa è un praticante di 22 anni, il più anziano ha 101 anni.

Il 5,7% degli avvocati svolge la professione in monocommittenza, ossia in regime di collaborazione esclusiva. Le proposte di legge per fare decadere l’incompatibilità tra professione forense e lavoro parasubordinato, svolto in esclusiva presso uno studio legale trova il favore del 73,6% degli avvocati.

Reddito avvocati

Il reddito complessivo Irpef aumenta del 5,1%, quello medio annuo per avvocato è di 44.654 euro. Tra il reddito medio degli uomini e quello delle donne ci sono più di 30 mila euro di differenza (e sono le donne a guadagnare di meno). E’ tra le avvocate che si registra il maggior tasso di crescita, 7,1% contro il 4,2% degli uomini. Sono le professioniste tra i 35 e 39 anni di età a incrementare di più i guadagni (11,6%), seguite da quelle della fascia 40-44 anni di età (9,1%). Restano sotto la media i redditi delle donne appartenenti alle classi di età maggiore, a partire dalle professioniste con un’età fra i 45 e i 49 anni (6,2%).

Circa il 70% dei professionisti dichiara un reddito professionale complessivo inferiore a 35 mila euro. Ampia è la distanza che separa in media i redditi di chi esercita la professione nel Nord rispetto al Sud del Paese.

Dal punto di vista economico, la graduatoria per livello di reddito medio acquisito nel 2023 pone al primo posto la Lombardia, con 77.598 euro annui, dato questo che si ottiene dalla media di 45.406 euro dichiarati dalle donne avvocato lombarde e dei 112.408 euro dichiarati dai colleghi uomini.

Le controversie giudiziali rappresentano il 59,3% del fatturato complessivo. Il restante 40,8% proviene dall’attività stragiudiziale.

Avvocati e intelligenza artificiale

Gli avvocati non temono l’Intelligenza Artificiale, indicata solo dal 6% come fattore di rischio professionale ma l’eccesso di adempimenti burocratici, amministrativi e fiscali (37% tra gli uomini e 38,5% tra le donne), il ritardo dei pagamenti da parte degli assistiti (31,5% tra gli uomini e 40,4% tra le donne) e l’eccesso di offerta di servizi legali a causa dell’alto numero di avvocati che esercitano la professione (35,3% tra gli uomini e 28,3% tra le donne).

superamento prezzo medicinali

Medicinali e superamento prezzo medio europeo L'intervento della Corte Costituzionale sul regime di sorveglianza sul superamento del prezzo medio europeo

Regime sorveglianza prezzi medicinali

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 77-2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dei commi 1 e 2 dell’art. 36 della legge n. 449 del 1997, asseritamente tesi a fornire l’interpretazione autentica del comma 12 dell’art. 8 della legge n. 537 del 1993 (che ha introdotto un regime di sorveglianza dei prezzi dei medicinali) e volti a incidere su giudizi di cui era parte la pubblica amministrazione anche con riferimento ai collegati profili risarcitori.

Superamento media europea prezzi medicinali

Il predetto comma 12 prevedeva un intervento da parte dell’autorità preposta in caso di superamento della cosiddetta «media europea» dei prezzi dei medicinali, assumendo come parametro di riferimento il concetto del «prezzo medio europeo», la cui determinazione era rimessa al CIPE. Quest’ultimo, con la deliberazione del 25 febbraio 1994 disponeva che il prezzo medio europeo venisse determinato prendendo a riferimento i prezzi praticati da soli 4 paesi europei e che la media fosse calcolata utilizzando i tassi di conversione basati sulla parità del potere di acquisto delle varie monete, come determinati annualmente dallo stesso CIPE.

La suddetta deliberazione veniva successivamente annullata dal Consiglio di Stato con sentenza n. 118 del 1997, ritenendo illegittimo il criterio di determinazione del prezzo sulla base dei prezzi praticati in soli quattro paesi e con riferimento a un tasso di conversione diverso dal tasso di cambio ufficiale. Prima del passaggio in giudicato di tale decisione, con l’art. 36 della legge n. 449 del 1997 veniva introdotta una nuova disciplina del prezzo dei medicinali, che prendeva in considerazione, ai fini del calcolo del prezzo medio degli stessi, i prezzi praticati in tutti i paesi dell’Unione europea, con applicazione dei tassi di cambio ufficiali, rimettendo al CIPE di provvedere alla definizione di nuovi criteri per il calcolo del prezzo medio europeo.

Con i primi due commi dello stesso articolo veniva, inoltre, disciplinato in via transitoria – nelle more dell’adozione della nuova deliberazione da parte del CIPE – il regime dei prezzi dei medicinali, disponendo una sanatoria della precedente disciplina prevista dal citato comma 12.

Efficacia retroattiva

La Consulta ha affermato che i suddetti primi due commi dell’art. 36 della legge n. 449 del 1997, asseritamente tesi a fornire l’interpretazione autentica del comma 12 dell’art. 8 della legge n. 537 del 1993, erano invece volti a incidere su giudizi di cui era parte la pubblica amministrazione, al fine di condizionarne l’esito, anche con riferimento ai collegati profili risarcitori.

Nell’accogliere le questioni sollevate, il giudice delle leggi ha richiamato la propria precedente giurisprudenza sulla centralità del principio di non retroattività della legge, inteso quale fondamentale valore di civiltà giuridica, con la conseguente necessità che una norma avente comunque efficacia retroattiva sia sottoposta ad uno scrutinio particolarmente rigoroso; e ciò tanto più se l’intervento legislativo retroattivo incide su giudizi ancora in corso, in cui per giunta sia coinvolta un’amministrazione pubblica.

Nel caso esaminato dalla Corte, l’uso improprio della funzione legislativa – tale perché esercitata allo scopo di influire sul contenzioso in corso, vanificandone, nelle intenzioni, gli effetti sfavorevoli – “è affermato sulla base di due significative circostanze, l’una attinente alla complessiva vicenda processuale, l’altra concernente la stessa portata normativa dell’intervento. Sul piano della vicenda processuale, è stata ritenuta significativa la tempistica dell’intervento legislativo, collocato a ben quattro anni di distanza dalla disposizione oggetto della presunta interpretazione, quando era già in corso un nutrito contenzioso, alimentato da trentanove aziende farmaceutiche, che aveva dato luogo all’annullamento, con sentenza n. 118 del 1997 del Consiglio di Stato, della deliberazione CIPE del 25 febbraio 1994”.

Il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. proposto dall’Avvocatura generale dello Stato aveva impedito il passaggio in giudicato della predetta sentenza posta dalla parte privata a fondamento della pretesa risarcitoria nel giudizio a quo e dai lavori preparatori non era possibile evincere ragioni giustificatrici dell’intervento legislativo retroattivo diverse dall’esigenza di “sterilizzare” gli effetti della predetta sentenza del Consiglio di Stato allo scopo di evitare future azioni di risarcimento dei danni. Sul piano sostanziale, infine, è stato sottolineato che il legislatore, nel disciplinare pro futuro la determinazione dei prezzi dei farmaci, con il comma 3 del medesimo art. 36 della legge n. 449 del 1997 ha delineato un sistema esattamente conforme a quanto deciso con la sentenza n. 118 del 1997.

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